Il testo che pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, è l’intervento del professor Guido Formigoni, Ordinario di Storia Contemporanea allo IULM di Milano, al Convegno “L’Azione cattolica italiana nella storia del Paese e della Chiesa (1868-2018)”. L’incontro si è tenuto a Roma la scorsa settimana, nei giorni 6-7 dicembre , all’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica. Il Convegno segna la chiusura degli eventi promossi per i 150 anni di vita dell’Azione cattolica italiana. Il Convegno è stato una occasione di riflessione e confronto sul contributo offerto dalla Associazione alla vita del Paese e della Chiesa nei suoi centocinquant’anni di storia.
(I titoli dei paragrafi sono della redazione).
Credo necessario partire da una constatazione di cornice: potrebbe apparire eccessivo e forse addirittura fuorviante aoccd alcune sensibilità, dentro e fuori l’associazione, dedicare un’attenzione così rilevante e specifica al rapporto tra Azione cattolica, politica e Stato, a fronte di un’autocoscienza delle organizzazioni di azione cattolica che hanno sempre rivendicato un assoluto primato del religioso, pur con formule e linguaggi diversi nel corso del tempo. Molti libri hanno costruito la propria interpretazione su questo presupposto, giungendo a negare l’opportunità di fare una storia politica dell’Azione cattolica (per citare il titolo dell’antico libro di Gabriele De Rosa). Mi pare indubbio che tali intuizioni e tali percorsi siano stati concepiti nel quadro di un travagliato ripensamento sul senso della fede cristiana e dell’esperienza della Chiesa di fronte alla modernità, non certo primariamente con una intenzione e secondo un progetto di natura politica. Peraltro, fin dalle origini, se non vogliamo costruire una storia soltanto interna e un po’ anche riduttiva di queste esperienze, occorre considerare come dalla loro cultura e dalla loro sensibilità religiosa scaturissero sempre giudizi, scelte e riflessi che avevano un impatto più o meno diretto e profondo anche nella vicenda politica italiana. Tanto che il nesso tra l’ispirazione di fede e il contesto civile divenne più e più volte, in modi diversi a seconda dei periodi storici, un argomento discusso e controverso nelle fila associative. E ancor di più, potremmo dire, tanto che le conseguenze volute e spesso anche molti altri effetti paradossalmente non voluti di quella fondamentale ispirazione religiosa hanno pesato non poco nella storia civile del nostro paese. Una storia articolata dell’Azione cattolica, a sfondo nazionale (e forse anche più ampio), non può quindi sottovalutare questa dimensione. Mi limito qui a tentare di inquadrare alcuni aspetti di questa storia, soprattutto cercando di sintetizzare quelli che a me paiono rilevanti risultati delle ricerche più recenti, ma anche alcune esigenze di ripresa o di ulteriori approfondimenti, che lo stato degli studi suggerisce.
La fase intransigente
Il primo punto ha a che fare con l’assestamento dell’eredità di quella opposizione intransigente allo Stato risorgimentale e alla modernità liberale al cui interno si collocò senza equivoci la nascita dell’Azione cattolica moderna. Partendo dalle prime intuizioni e iniziative di Fani e Acquaderni, per approdare dopo qualche anno a quella forma particolare di modello semi-federale piuttosto sfrangiato e articolato nel paese, con la rete di esperienze collegata debolmente ma in modo simbolicamente forte nel circuito dell’Opera dei Congressi. Non è un tema oggi particolarmente rivisitato, dopo una stagione di discussioni aperte e di ricostruzioni anche vivaci, ma merita ancora a mio parere qualche attenzione. Il «cattolicesimo senza aggettivi» proclamato con grande forza dal barone d’Ondes Reggio nel 1874 si presentava come polemico contro le istituzioni nazionali, abbracciando il non expedit come bandiera identitaria. Ma voleva anche distinguersi da ogni progetto politico legittimistico superato dai fatti, mettendosi nell’ottica di una prospettiva nazionale ormai decisamente acquisita. Sono del tutto note le vicende articolate, gli alti e bassi di questa opposizione. È indubbio che non possiamo attribuire ad essa un peso esclusivo nel rappresentare un cattolicesimo italiano molto più articolato, in parte anche già profondamente inserito nelle classi dirigenti sociali e anche politiche dell’epoca (anche nella Sgci si espresse ad esempio notoriamente un filone apertamente conciliatorista). Abbiamo scontato, poi, quanto fosse poco centrato leggervi – come pure qualche studioso ha fatto – un compiuto disegno di sostituzione futura della classe dirigente liberale, oppure un dissidio esclusivamente di facciata che coprisse una solidarietà di classe fondamentalmente conservatrice, funzionale al consolidamento dell’egemonia capitalistica nel paese.
Ci resta però, io credo, da fare i conti con il tema degli effetti di lungo periodo di quella stagione. Prendendo in considerazione seriamente il peso di una «mentalità intransigente» ideologicamente assolutistica, abbarbicata a una identità mitica e costruita su un disegno alternativo all’esistente piuttosto astratto (anche se connesso a questioni tutt’altro che banali, quali quelle della rappresentanza degli interessi, delle istanze di giustizia delle popolazioni rurali e operaia, oppure delle forme della competizione sociale). Si pensi alla concezione alternativa della nazione, a quel mito dell’Italia cattolica che conduceva ad acquisire un linguaggio chiave della modernità ma in senso estraneo allo Stato nazionale. Si pensi alla persistente tendenza a leggere il primato della società in chiave illusoriamente autosufficiente, estraniandosi da una presa d’atto forte delle dimensioni storiche pesanti della modernità statuale. Si pensi ancora a una certa sottovalutazione permanente del conflitto sociale e culturale e delle sue esigenze, all’interno di una dimensione di costruzione del consenso che troppo ancora veniva affidata all’idea per cui esistesse la forza di verità consegnata da una tradizione indiscussa, fuori dagli istituti del costituzionalismo moderno e della divisione dei poteri.
La prima “democrazia cristiana”
Non a caso, l’uscita dall’opposizione attraversò un percorso notoriamente farraginoso e complesso, che si spalmò su parecchi decenni. Dobbiamo ricordare e valorizzare come prendesse piede un processo di politicizzazione progressiva di questo bagaglio, strettamente collegato allo sviluppo della particolare forma di nazionalizzazione. Connesso inoltre a una sorta di spinta dal basso, a un fenomeno democratico diffuso, proveniente dal pluralismo di questo mondo composito e nutrito dalla sua ampia condivisione dei problemi reali delle masse popolari che stavano costruendo pian piano una propria soggettività. La giovane «democrazia cristiana» di fine Ottocento germogliò tra i giovani della Sgci e delle sezioni giovanili dell’Opera, nelle unioni professionali e nelle cooperative e quindi nacque assolutamente in questo contesto, al di là dei suoi sviluppi interni, a loro volta plurali. Ponendo il problema dell’«azione sociale sul terreno costituzionale», oltre l’ombra della questione romana, tali gruppi giovanili esprimevano una progettualità piuttosto articolata di politicizzazione riformista e progressista del bagaglio intransigente. La crisi di inizio secolo dell’Opera dei Congressi mostrò peraltro che molteplici ostacoli si frapponevano a questo disegno: da una parte la resistenza gerarchica a uscire dall’idea che il «movimento cattolico» fosse fondamentalmente strumento di affermazione sociale degli interessi specifici e ristretti della Chiesa-istituzione. Dall’altro, le paure di ordine propriamente politico e sociale, dei vecchi intransigenti che vedevano gli spettri di sviluppi socialisteggianti. Di qui la linea di arresto imposta da Pio X a tale processo, che comportò lo scioglimento dell’«equivoco politico-religioso» dell’Opera (secondo la formula di De Rosa), in nome di un raccoglimento strettamente religioso e dell’unità del movimento, in una Chiesa gerarchicamente ordinata. Naturalmente, questa impostazione rifletteva un sospetto radicato nei confronti della politica, più ancora che una presa di posizione pro o contro un certo tipo di politica. Lo si vide anche dalla scarsa coerenza degli esiti delle alleanze clerico-moderate. Ma la forza delle cose non permise alla nuova uniformità ecclesiasticamente sancita di bloccare del tutto il movimento in corso, portando invece abbastanza rapidamente molti militanti dell’associazionismo cattolico ad assumere ruoli politici (oltre che sindacali) fuori dall’organizzazione. Proprio in parallelo a una strutturazione faticosa dell’Unione popolare come organo di raccolta del laicato attivo e militante sul terreno morale e religioso: un percorso che apparve molto difficile proprio per la vivacità diffusa di scelte diverse.
Il primo dopoguerra
La guerra mondiale così costituì contemporaneamente un vertice del processo di nazionalizzazione (fino alla messa sostanziale tra parentesi degli appelli pacifisti di Benedetto XV), ma al tempo stesso una complicazione nel processo di politicizzazione. Ben rappresentato dalle ambasce di Meda ministro, che si sentiva orgoglioso di aver sanato nella sua persona la spaccatura tra cattolici e istituzioni nazionali, ma appariva al contempo molto imbarazzato sulla propria possibilità di guidare un autonomo e specifico progetto politico nel cuore di quelle istituzioni. Fu piuttosto, di lì a pochi anni il prete don Sturzo, cresciuto a ruoli nazionali proprio nella Giunta direttiva dell’Azione cattolica voluta da papa Della Chiesa, a coagulare infine il progetto di un partito aconfessionale, ma rappresentativo al massimo di questo lungo processo di apprendistato sociale, culturale e anche politico.
Le difficoltà e il rapporto ambiguo con il Ppi dell’Azione cattolica furono ancora una volta frutto delle eredità di lungo periodo sopra delineate. La linea del presidente dell’Unione popolare Dalla Torre nel 1919 era teoricamente chiara: «preparazione delle coscienze per la restaurazione cristiana della società al di fuori e al di sopra dell’azione politica» (Malgeri 2008). Ma lo spazio per esercitare questo ruolo in modo distinto dalla stagione della fervida e disordinata mobilitazione sociale e politica postbellica non doveva apparire molto chiaro e solido.
Fu in fondo il catalizzatore fascista che dopo il 1920 provocò un ripensamento complessivo. Non attirò grandi simpatie cattoliche, nella propria proclamazione antirivoluzionaria, ma si pose come alternativa minacciosa, riuscendo a smontare con violenze e blandizie alternate la sovrapposizione di fatto – se non di diritto – della Chiesa e dell’Ac con il partito di Sturzo. Solo nell’ottica di questa sfida, dopo il 1922 con l’avvio del governo Mussolini, si comprende l’iniziale rigorosa spoliticizzazione favorita dall’orientamento di papa Ratti: la nuova Azione cattolica della riforma del 1923 doveva attenersi allo slogan: «prima di tutto formazione cristiana della vita individuale». In un’esperienza segnata dalla prevalenza del modello «milanese» già sperimentato sotto l’ispirazione del card. Ferrari: nomina ecclesiastica della dirigenza invece che forma elettiva, animazione dal basso della nuova società di massa su basi di intransigenza ideale, modernità degli schemi educativi e aggregativi. Un apostolato innervato quindi ancora da una cultura di stampo intransigente e antimoderno, che teneva ben fisso l’obiettivo della ricristianizzazione integrale della società, ma che aveva gradualmente fatto propria una serie di «mezzi», di schemi educativi, di modalità di mobilitazione e di propaganda, mutuati dalla stessa modernità contemporanea della società di massa. Una spregiudicata e «modernissima» apertura sui mezzi si collegava cioè a una marcata continuità delle finalità perseguite.
La convinzione per cui il cattolicesimo per sua natura e vocazione stemperasse i conflitti, fosse un attore di mediazione civile per eccellenza, portò inizialmente all’appello alla pacificazione nazionale lanciato nei primi anni Venti, come esito di una debole protesta per le violenze anticattoliche delle squadre fasciste, nel clima dello spettro di una guerra civile. In questa direzione, fu sviluppo quasi naturale l’approccio entusiasta alla Conciliazione. La scelta compiuta anche dal governo e dalla Santa Sede di «ridare l’Italia a Dio e Dio all’Italia», secondo la formula di papa Ratti, sembrava fissare definitivamente la legittimazione nazionale della Chiesa e il suo spazio sociale. Del resto, fu lo stesso Pio XI che, ricevendo in udienza il presidente nazionale Luigi Colombo dopo il Concordato, lo esortò a un approccio positivo e attivo alla nuova situazione istituzionale e politica. Sostegno alle liste governative nel plebiscito, inserimento nelle strutture del regime, discussione spregiudicata anche sull’aspetto «dottrinario». Un «entrismo» che negli anni successivi sarà ad esempio fortemente sostenuto dall’assistente centrale mons. Pizzardo.
Il Fascismo
Da questa nuova condizione prese le mosse un confronto con il regime che tendeva sempre più chiaramente, lungo gli anni Trenta, ad assumere un carattere totalitario. L’ambizione espansiva di utilizzare il regime autoritario e antiliberale, fin dove possibile, per rafforzare i caratteri dell’«Italia cattolica» strideva quindi con la crescente ideologizzazione del mito nazionale che prese piede nell’ambito fascista, con i processi di statalizzazione dell’idea di nazione operata da Gentile, con il velleitario ma enfatico allargamento imperiale ed europeo dell’orizzonte fascista. Ecco allora la progressiva presa di sviluppo della parallela concezione «totalitaria» del cristianesimo ad opera del papa, che aveva nell’Ac pupilla dei suoi occhi l’immediato risvolto, quello operativamente più incisivo. L’annosa questione interpretativa sui rapporti tra Azione cattolica e fascismo ha ricevuto recentemente nuova luce nel porre la questione in questo orizzonte. Non si trattò solo di una storia di compromessi ed incontri, oppure di scontri e tensioni. Anche di questo, naturalmente, ma solo in quanto quel piano era espressione di una più radicale vicenda di contrapposizione e anche di imitazione reciproca, nella logica travolgente della costruzione di moderne religioni politiche e della inevitabile politicizzazione del religioso nell’autosufficienza totale ricercata dal modello cattolico militante. La costruzione della «regalità sociale di Cristo» si spingeva a dimensioni non solo strettamente interiori e privatistiche.
Ecco allora che si possono rileggere in quest’ottica gli scontri in difesa dell’autonomia dell’associazione nel 1931 o nel 1938. Si può anche però soppesare la compresenza nell’Azione cattolica di diversi disegni su come rapportare la propria forma cristiana totalitaria al regime: era possibile una sottile operazione di sostituzione del cattolicesimo al fascismo nell’ispirazione del regime totalitario nazionale? Oppure occorreva rafforzare l’intransigenza ideale per tenersi al riparo da contaminazioni sempre pericolose? Tutto il sottile e continuo tentativo di distinguere tra Stato e partito fascista, tra Italia del re e regime, tra regime nazionale e regime di partito si spiega alla luce di queste esigenze non sempre convergenti (Moro). Ci fu quindi anche, come è ormai chiaro, una gradazione nell’acquiescenza o anche nella franca accettazione dello stato di cose politico. Ci fu probabilmente una certa misura di successo pedagogico nel rivendicare l’interiorità come barriera e come distinzione dalla massificazione totalitaria fascista. Ci fu poi un progressivo distacco finale, indagato in tante storie individuali e nella vicenda spesso non lineare che la biografia degli esseri umani costruisce.
La sfida della rinascita democratica
Alla luce di questa consapevolezza, il mito della preparazione al futuro democratico consapevolmente costruita nei retroscena della dittatura, appare largamente improprio, come molti studi hanno dimostrato. Lo sguardo al futuro fu largamente imprevedibile e la determinazione verso il nuovo incerta. I rapporti di questa Ac con la vicenda civile italiana furono avviati nella complessa fase di transizione al dopoguerra e al postfascismo con l’intenzione di rispondere ad una nuova «sfida della democrazia», vista nel mondo cattolico con molte preoccupazioni come fonte di opportunità ma anche di pericoli (il pluralismo, la legittimazione dell’errore, il peso delle correnti anticlericali). Proprio il relativo successo di una compattezza costruita sul piano dell’identità religiosa spiega come la posta in gioco fosse, fin da subito, quella della capacità di influire nel nuovo contesto storico. E proprio l’eredità di letture diverse del fascismo ci porta a considerare ancora una volta come ci fosse una gamma non scontata di sbocchi culturali e politici possibili di questo passaggio critico. La comune formazione totalitaria poteva condurre a percorsi diversi: già il dibattito Gedda-Lazzati nella Giac del 1940-’41 alludeva a questa possibilità, evidenziando la trama di diverse interpretazioni del senso associativo, ma anche del significato della costruzione del regno di Cristo.
Gli studi hanno inquadrato la stagione del grande successo dell’operazione diplomatica montiniana, rispetto ad altri equilibri possibili. La vittoria del disegno di stabilizzazione democratica del ruolo sociale del cristianesimo guidato da De Gasperi, con la confluenza non semplice e non lineare attorno al nuovo partito della Democrazia cristiana di una componente soprattutto giovanile che si era formata nelle organizzazioni di Ac, fu favorita dal complesso dell’associazione sotto la presidenza Veronese, come risvolto dell’abile opera gestita dalla segreteria di Stato.
Tale passaggio comportò la valorizzazione politica estesa di un personale maturato nei ranghi associativi, non solo quella notissima dei movimenti intellettuali. Per allargare l’orizzonte, basta citare figure come Lazzati e Scalfaro o Gorrieri ed Emilio Colombo; oppure per il decisivo mondo femminile che si affacciava alle responsabilità politiche, protagoniste come Maria Federici, Maria De Unterrichter, Elsa Conci, Maria Eletta Martini. Abbiamo molta contezza ormai dei diversi passaggi cruciali rappresentati per alcuni nella capillarità delle scelte di resistenza, o almeno di distacco dal regime, o comunque di ripresa di un patriottismo non fascista, nella crisi della dittatura. Non abbiamo ancora prosopografie complessive solide e non immaginifiche sulla Dc del dopoguerra ma è facile descrivere la «seconda generazione» come fortemente imperniata su questo ceppo formativo: i dirigenti dell’Ac passarono in quota rilevante a ruoli politici (qualcuno tentò anche di assommare i due ruoli…). La forza delle cose portò comunque una generazione di dirigenti e aderenti all’Azione cattolica sulla scena della storia e anche della politica, divenuti nei fatti una generazione di padri e madri della patria. Né vale dire che fosse ovvio, dato che l’Ac era diventata l’unica forma di struttura relativamente autonoma dalla gerarchia: proprio qui sta il punto.
Quel percorso non era stato scuola di politica, ma aveva strutturato una mentalità che può essere ritenuta interessante poi a capire anche alcune dinamiche interne a quello che si avviava a diventare il partito-perno del sistema. Pretesa di autosufficienza teorica, intransigenza sui valori, forte comunanza di abiti mentali e di comportamenti. Una cultura religiosa che era anche una sorta di antropologia civile implicitamente portata a comportamenti solidaristici. I riferimenti diffusi alla letteratura della crisi avevano predisposto ad accettare novità in materia di ruolo dello Stato e di controllo dell’economia. Tutto ciò era però collegato a una certa incertezza o a qualche ingenuità sulle culture operative e sui modelli, sul dialogo con le altre forze, sulle priorità strategiche e sulle opzioni programmatiche realistiche. In qualche modo questa complessità fu probabilmente una delle matrici di una certa flessibilità, che contribuì nel tempo a spiegare la tenuta della Dc come partito plurale che ammorbidì le divergenze tra diverse sensibilità e culture, nell’alveo del modello cangiante ma resistente dell’ «ispirazione cristiana» della politica.
Se di fatto nei primi anni del dopoguerra questa spinta si convogliò prevalentemente in canali democratici, confluendo a sostenere la battaglia democristiana contro gli oppositori politici, restava peraltro sospettosa e rigida nei confronti degli interlocutori e avversari esterni. Sullo sfondo stava ancora una rilettura possibile dell’identità cattolica come rivincita sui nemici storici e riaffermazione di un ruolo politico «naturale» di guida della società. Tali caratteri vennero accentuati dal clima di «scontro di civiltà» proprio degli anni più tesi della guerra fredda, con il pericolo comunista avvertito come sfida radicale. Si pensi ai modelli della mobilitazione elettorale dell’Ac (e del neonato comitato civico) soprattutto attorno al 1948. Luigi Gedda sulla stampa associativa rapportò la vittoria elettorale democristiana del 1948 ai sogni di Fani e Acquaderni nel 1868: finalmente si realizzava l’auspicata «Italia ufficialmente cristiana». La realizzazione politica nuova implicava l’unità sul terreno religioso come base del senso comune della nazione, e in questa direzione approdava spesso a quello che è stato definito un «esclusivismo cattolico» (la formula è di Miccoli) spinto addirittura alla negazione della legittimazione nazionale a chi fosse fuori dall’orbita ecclesiale. Luigi Gedda rappresentava in questo percorso non tanto un’alternativa, ma una lettura diversa dell’insieme dei frutti di quel percorso organizzativo e formativo. L’accentuazione dell’obiettivo della cattolicizzazione giuridica del paese da ottenere con una forte pressione di massa che giungesse anche a condizionare la politica, la messa in secondo piano dell’approdo democratico e costituzionale della sintesi democristiana, la correzione socialmente conservatrice e politicamente a tratti reazionaria (nella logica dell’alleanza democristiana a destra per difendere la civiltà contro il comunismo) aveva un collegamento con il citato cruciale quadro identitario. La missione della riconquista era in questo caso letta secondo schemi molto più rigidi rispetto ad altre sensibilità, che la traducevano in mediazioni culturali più sfumate.
Gli studi su Gedda, la sua crescita nella considerazione di Pio XII e la sua conquista dell’Ac nazionale con la vicepresidenza nel 1949 e la presidenza tre anni dopo sono ormai diventati molto più cospicui, documentati e solidi. Indubbiamente l’Ac dopo il 1948 cambiò marcatamente il proprio volto pubblico: le crisi interne come quelle Carretto e Rossi, ma anche un tessuto di confronto continuativo restituito dagli ultimi studi, testimoniavano però di un persistente pluralismo. La parentesi geddiana, in fondo, non fu nemmeno così lunga, perché già con le nomine roncalliane del 1959 si tornò su posizioni meno esposte e più prudenti (Trionfini-Ferrantin).
Concilio e scelta religiosa
Qui si arriva ormai all’ultimo passaggio rilevante: la vicenda conciliare e la stagione della cosiddetta «scelta religiosa». Ridimensionamento e rinascita dell’associazione sono due lati di una storia sola. Che ormai sappiamo non essere guidata dal distacco e dalla critica nei confronti della politica. Tutt’altro: la sensibilità della nuova dirigenza montiniana (Bachelet e Costa) guidò un cammino di cordiale persuaso inserimento nella dinamica conciliare, con la coscienza che essa e i conseguenti stimoli provenienti dal disegno di ordinata recezione del concilio di papa Montini richiedevano un adeguamento della lunga tradizione associativa, non senza vere e proprie svolte rispetto al passato recente. Tale impostazione continuava comunque a ritenere il ruolo religioso e formativo dell’Ac come capace di comprendere anche un’attenzione critica alla vicenda civile e una attitudine a formare coscienze che si impegnassero alla costruzione di percorsi attivi nella società e nella politica.
Semplicemente, occorreva insistere su chiare distinzioni di responsabilità. Il nesso con la Dc venne indubbiamente ridimensionato. Tale distacco maturava quindi per ragioni squisitamente ecclesiali, confermando d’altronde valutazioni piuttosto simpatetiche e spesso anche controcorrente dell’unità dei cattolici nella Dc (mons. Costa cercava sempre, in quegli anni, un «contatto cordiale» con il partito di ispirazione cristiana). Anche dopo che i fermenti anti-istituzionali maturati tra i giovani e i movimenti sociali avevano fatto increspare il quadro del collateralismo cattolico, non furono certo prevalenti nel quadro associativo le sensibilità critiche verso il partito-Stato.
Appare opportuno peraltro mettere al centro della scena non solo la necessità dell’associazione di ritagliarsi uno spazio e un volto pubblici meno dipendenti dal legame con il partito-guida del paese. Occorre pesare specularmente la crescita nel partito di una nuova classe politica molto più centrata nella formazione interna, con carriere e opportunità molto meno dipendenti da ruoli associativi o comunque da riconoscimenti ecclesiastici. La «terza generazione» democristiana non sopportava molte concorrenze in questo senso. Perlomeno, il distacco deve essere rappresentato come biunivoco nelle sue cause e tendenze profonde.
Non si trattava comunque di una fuga dai problemi reali della storia: come hanno mostrato anche studi recenti, la dimensione civile era ben presente nelle attenzioni formative e nella stampa associativa. Era bensì il frutto di una lettura più articolata delle opportunità di servizio cristiano alla società, e di una valorizzazione della distinzione conciliare tra azioni del singolo credente e impegni della Chiesa (o dell’associazione stessa, strettamente collegata alla gerarchia), secondo «Gaudium et Spes», n. 76. Anzi, potremmo dire che in questi anni fu evidente il recupero e la nuova centralità di spunti e tradizioni culturali non omogenei all’intera storia associativa, o perché patrimonio prevalente di alcuni ambienti (in particolare quelli intellettuali), oppure perché legate a un filo rosso genericamente «cattolico-democratico» che spesso era stato storicamente esterno all’Ac «papalina» e intransigente. A livello di intenzioni espresse, quindi, appare oggi difficile sostenere che l’Ac avesse a un certo punto scientemente e volutamente cessato di «alimentare l’impegno politico dei cattolici» come si espresse una famosa lettera aperta al papa di sette noti intellettuali cattolici (da Gabrio Lombardi a Augusto Del Noce a Sergio Cotta), nel settembre 1974. Naturalmente, però, forme e modi di questo impegno formativo e culturale che non si traducesse in schieramento partitico non erano semplici da costruire, come mostrò soprattutto l’intricata crisi interna sul referendum sul divorzio, recentemente ricostruita da Vecchio.
In termini teorici, la discussione metodologica più agguerrita fu quindi quella sulla cosiddetta «mediazione culturale», che secondo la prospettiva della scelta religiosa doveva condurre a una distinzione e riconnessione originale tra i diversi livelli di azione e le rispettive autonomie. Lo scontro con la cosiddetta «linea della presenza» fatta propria da Comunione e liberazione dalla metà del decennio ’70 in poi è difficilmente sottovalutabile come indice di una divaricazione sul modo di assestare la dinamica post-conciliare nella Chiesa italiana. Recentemente alcune retoriche della comunicazione ecclesiastica hanno provato a ridimensionare tale confronto, addebitandolo semplicemente a incomprensioni o a sotterranee esigenze competitive. Mi pare difficile seguire questa tendenza: si trattò della maturazione di prospettive molto diverse su come leggere la secolarizzazione, interpretare la risposta ecclesiale, collegare il proprio progetto pastorale e la propria autocoscienza religiosa al loro impatto civile. Peraltro, ambedue le linee, potremmo dire, furono tendenzialmente ridimensionate nel medio periodo: la prima dall’assunto neo-istituzionale del pontificato di Giovanni Paolo II, la seconda dalla tutela gerarchica della spinta movimentista imposta dalla Cei presieduta dal cardinal Ruini.
In seconda battuta, esisteva però nella via ecclesiale italiana una linea di resistenza più sotterranea e meno articolata verso la «scelta religiosa», che faceva perno proprio sulla sfiducia di molti ambienti ecclesiastici nei confronti di un investimento sull’autonomia culturale (e infine politica) del laicato, e che chiedeva sorveglianza anche nei confronti del dibattito interno alla chiesa e all’Ac sui temi politici, dato che non si doveva mettere in questione l’unità fondamentale della Chiesa e nemmeno la precaria ma ancora centrale unità politica dei cattolici nella Dc (attorno a cui il discorso ecclesiastico conobbe addirittura un rilancio negli anni Ottanta).
In buona sostanza, però, questo ridimensionamento – potremmo forse dire questa progressiva emarginazione di tale sintesi nelle dinamiche della Chiesa italiana – pesò sulla ripresa di un ruolo di formazione all’impegno. E rese meno significativo e corale, riducendolo in qualche modo a scelta di minoranza, l’approdo di una nuova generazione di dirigenti dell’Ac alla militanza politica, sia a livello locale che nazionale. Un’esperienza ancora da studiare a fondo in termini storiografici, che iniziò dalla metà del decennio ’80, consolidandosi proprio in rapporto con la crisi dell’autosufficienza democristiana e poi con la dissoluzione della Dc. Si allargò quindi ulteriormente nel nuovo Partito popolare, soprattutto dopo la spaccatura del 1995 e la sua collocazione sul fronte di centro-sinistra politico del nuovo bipolarismo italiano. Una ripresa di passaggi personali che si collegò ad esperienze di altri circoli dirigenti dell’associazionismo, nel contribuire a formare una stagione di impegno originale di credenti nelle istituzioni. La fatica personale e la difficoltà storica di tale impegno fu peraltro connessa alla crisi incipiente della politica democratica, alla sua verticalizzazione e specializzazione, alla sua spettacolarizzazione e personalizzazione: tutti processi non certo semplici da gestire con la cultura democratica e la sensibilità culturale piuttosto articolata che erano maturate nell’associazione.
Conclusioni
In sintesi, è quasi banale riconsiderare il fatto che la questione politica coinvolse e interessò a lungo un’esperienza nata sul piano di un ripensamento profondo del ruolo del cristiano laico nel quadro della modernità. Specularmente, e forse con qualche minore ovvietà, possiamo affermare che la storia d’Italia non potrebbe essere compiutamente conosciuta senza considerare gli effetti di tale storia associativa, di un percorso formativo che ha raggiunto molte persone, di una mentalità originale consolidata nel tempo.
Potrebbe essere evocativo sintetizzare questo lungo percorso come un passaggio dall’intransigenza alla democrazia. Messa in questo modo, però, la riflessione storica si impoverirebbe molto, sena riuscire a rappresentare la complessità interna di questa evoluzione, la sua non linearità e nemmeno il pluralismo continuo di sviluppi possibili (via via divenuti maggioritari ed evidenti, oppure rimasti come alternative interne, oppure ancora progressivamente usciti dell’orizzonte associativo). L’onda lunga dell’eredità originariamente intransigente si è via via ripresentata e continuamente riespressa, ma è anche stata profondamente rivista e integrata da riletture innovative, da innesti esterni e rimodulata in sviluppi spesso divergenti. Straordinaria è stata l’importanza del mutamento storico della vicenda del paese, da cui sono provenute sfide e provocazioni che hanno costituito elementi decisivi della continua ridefinizione di sé stessa da parte dell’associazione.
L’effetto complessivo di questo itinerario è stato originale in ogni momento storico, ha visto spesso un confronto interno tra protagonisti e sensibilità diverse. Alla fine, ha portato comunque un contributo in termini di protagonismo personale e di influsso collettivo, nell’alveo della crescita storica dell’Italia unita. Successi e limiti della costruzione originale avvenuta nel nostro paese di un percorso costituzionale moderno di stampo europeo, oltre la dittatura e il totalitarismo, hanno avuto nel loro cuore anche la storia di questi uomini e queste donne credenti. E si spiegano meglio considerando congiuntamente sia il valore intrinseco e la forza trasformativa, sia le asperità e le fragilità tipiche del loro approccio al mondo contemporaneo.
(TESTO PROVVISORIO)
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