“LA GRANDE MALATTIA DEGLI USA E’ LA DIPENDENZA DALLE ARMI”. INTERVISTA A MAURIZIO SIMONCELLI

Armeria (Photo by Samuel Corum/Anadolu Agency/Getty Images)

Armeria (Photo by Samuel Corum/Anadolu Agency/Getty Images)

L’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo – IRIAD ha pubblicato nei giorni scorsi un interessante studio sulle armi negli Stati Uniti. Il quadro che emerge è molto preoccupante. Ne parliamo, in questa intervista, con Maurizio Simoncelli,  Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche InternazionaliArchivio Disarmo.

Professore, nei giorni scorsi, come istituto avete pubblicato un interessante studio sull’uso delle armi negli USA. Per prima cosa le chiedo: quanto è dipendente la società americana dalle armi da fuoco? Quali sono le “radici” di questa dipendenza?
La diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti presso i privati cittadini affonda le sue radici nella storia di quel paese, dapprima nella rivolta armata contro la madrepatria inglese, poi nell’espansione dei coloni europei in territori immensi popolati da tribù di nativi che sono state spesso brutalmente espropriate della loro terra ed anche in una dura lotta per la sopravvivenza in aree dove non esistevano istituzioni adeguate a far rispettare la legge: la grande epopea del Far West narrataci da Hollywood ha delineato molto bene quelle vicende. La necessità di possedere un’arma fu codificata poi nel secondo emendamento della Costituzione, proprio in connessione alla resistenza popolare contro le truppe inglesi, tant’è che vi si parla di “milizia armata”.

Possiamo dare qualche numero su questa dipendenza?
Le vendite totali di armi da fuoco già nell’agosto 2020 avevano superato le vendite totali del 2019. Si calcola che circa il 30% degli americani detenga almeno un’arma, mentre il 66% ne possieda più d’una. Secondo la National Shooting Sports Foundation, un gruppo commerciale del settore, oltre 50 milioni di persone partecipano agli sport di tiro negli Stati Uniti e nel 2020 sono state vendute 20 milioni di pistole, di cui 8 milioni effettuate da acquirenti per la prima volta.

Quanto incide la lobby delle armi sul Pil statunitense?
Nell’intera industria della difesa statunitense (militare e civile) si valuta un’occupazione di circa 1.400.000 addetti (dati 2019) e si parla di cifre intorno ai 240 miliardi di dollari annui. Complessivamente settore delle armi leggere e relative munizioni si stimano 54.000 addetti nel in 790 industrie con un mercato che vale 19 miliardi di dollari (dati Ibisworld.com). Nella sola industria della Smith & Wesson (pistole, revolver e fucili) si contano 2.240 occupati, presso la Colt 19.700. Le entrate per l’industria delle armi da fuoco e delle munizioni sono cresciute del 13,4% solo nel 2020, quindi del 13,7% nel 2021 poiché l’industria è classificata come infrastruttura critica essenziale e autorizzata a continuare a operare dal Dipartimento della sicurezza interna.

Sappiamo che tra gli obiettivi del Presente Biden  c’è quello di ridurre drasticamente la vendita di armi da assalto e i caricatori a capienza elevata (che sono le armi più usate nelle sparatorie). È un obiettivo possibile?
Il presidente Biden, sin dall’inizio del suo mandato, ha dichiarato la sua volontà di contrastare il massacro annuale dovuto alla diffusione di un’enorme varietà di armi, dalle pistole ai fucili d’assalto e oltre. Le ragionevoli proposte di limitare la vendita di armi da assalto e di caricatori a capienza elevata purtroppo trovano una forte resistenza da parte della lobby armiera, che con la sua influenza sui membri del Congresso e su un’ampia fetta della società statunitense riesce a bloccare ogni tentativo di seppur minima regolazione.

Attualmente come funziona la regolamentazione della vendita di armi da fuoco?
Non esiste un sistema di raccolta dati a livello federale. Il National Instant Criminal Background Check System (NICS), facente capo all’FBI, è ad oggi l’unica fonte attendibile, peraltro ancora approssimativa. Il sistema, complesso e lacunoso, prevede che l’eventuale acquirente debba compilare un modulo, dichiarando di essere in regola per possederla. I negozianti devono controllare, collegandosi ad una agenzia federale, che il potenziale compratore non abbia precedenti penali o sia per qualche ragione segnato come “inabile” (disturbi mentali comprovati, tossicodipendenti, coloro che hanno commesso violenze domestiche e sospetti terroristi) a possedere un’arma, attraverso il meccanismo di “background check”. Tuttavia, è difficile che l’FBI possa accedere alle cartelle cliniche. Per i terroristi, invece, la legge è bloccata al Senato dal 2016. Nel modulo non si specifica quante armi si vogliono comprare e, se il controllo da parte dell’agenzia federale non avviene entro tre giorni, l’acquirente può comprare l’arma, Inoltre non tutti i negozi di armi usano esclusivamente il sistema NICS, mentre rimane aperta la questione dei venditori presso le fiere e i negozi di pegni, soprattutto online, o tra privati, dove per l’acquisto serve solo la patente di guida. Infine in molti Stati non viene richiesta la registrazione.

Il famoso secondo emendamento della Costituzione non è possibile eliminarlo?
Il Secondo Emendamento della Costituzione statunitense (promulgata nel 1789) afferma che «essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». La Corte Suprema nel 2008 si è espressa a favore di questa detenzione, considerando l’importanza della difesa dello Stato e il conseguente diritto del cittadino ad avere un’arma per adempiere a questo scopo. Anche se ci sono state imponenti manifestazioni popolari dopo ogni mass shooting, la potenza della lobby armiera, cioè la NRA National Rifle Association, riesce ad impedire ogni tentativo di maggior controllo del settore.

Volendo approfondire un po’ di più quanti americani possiedono armi e chi sono i possessori?
Si parla di 393.347.000 armi possedute su una popolazione di 327
milioni di persone. Di queste ultime si calcola che il 40% di esse detenga in casa almeno un’arma. E’ interessante ricordare che, secondo una ricerca del PEW Center del 2017, il possesso di armi è più comune tra gli uomini (soprattutto bianchi) rispetto alle donne. Il 46% della popolazione rurale dichiara di possedere armi, rispetto al 28% degli abitanti della periferie e al 19% di quelli delle aree urbane.

Chi sono le vittime delle armi da fuoco? E le maggiori cause
Si parla di quasi 40.000 morti all’anno, uccisi sia in sparatorie d massa (le cosiddette mass shooting), sia in situazioni di violenza privata, sia (e in misura maggiore) per suicidi. Nel 2014 le vittime di mass shooting erano 271, nel2021 606. Agli inizi di novembre 2021 ben 17.000 persone sono state uccise con armi da fuoco, 34.000 ferite e 20.000 suicidatesi. Dato che ogni mese questo bollettino di “guerra silenziosa” vede nuove vittime, possiamo aspettarci altre migliaia di vite umane falciate di qui alla fine dell’anno in corso. E’ comunque opportuno ricordare che la legislazione in merito al possesso delle armi da fuoco varia da stato a stato, con il risultato che quelli con maggiori restrizioni in merito hanno mediamente un minor numero di vittime. In Texas risulta in mano ai privati più di un milione di armi, oltre mezzo milione in Florida e oltre 400.000 in Virginia e California, mentre in quello di New York 92.000 e in Massachusetts 45.000.

Anche la Pandemia ha giocato un ruolo devastante nell’aumento della vendita delle armi… Perché?
Incredibilmente la diffusione della pandemia ha aumentato l’insicurezza dei cittadini statunitensi, che, per timore di disordini connessi a conseguenti scarsità di risorse alimentari o crisi occupazionali, hanno pensato bene di garantirsi con acquisti massicci di armi per difendersi da assalti di eventuali malintenzionati, di fatto ritenendo incapaci le forze dell’ordine di gestire una possibile situazione del genere.

Rispetto agli USA il nostro Paese è più rigoroso?
Da diversi anni il nostro Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo IRIAD monitora queste vicende statunitensi, dato che quel grande paese spesso ha precorso con largo anticipo tappe che poi la società italiana ha raggiunto, nel bene o nel male. La legislazione italiana in questo campo è più rigorosa, tanto che la licenza per il porto d’armi per difesa personale è concessa con estrema attenzione dalle autorità competenti (appena 18.000). Altro discorso è quello relativo alle armi da caccia, che possono richiedere appunto i cacciatori (738.000): possono avere un numero illimitato di fucili da caccia a due o tre canne con un calibro non superiore ai dodici millimetri e un massimo di 1.500 cartucce.
Il vero, grosso problema è quello del porto d’armi per uso sportivo: l’impennata di questi “sportivi” appare quanto meno sospetta. Infatti la cifra si è quadruplicata in pochi anni passando dalle 125.000 persone del 2002 all’oltre mezzo milione di adesso; peraltro, risultano circa solo 100.000 tesserati presso le unioni sportive. E’ verosimile che questo sia un modo per aggirare le norme stringenti del porto d’armi per uso personale. Non esiste un controllo che i detentori di armi per uso sportivo pratichino effettivamente tale disciplina e frequentino i poligoni di tiro delle unioni sportive. In generale non risultano richiesti frequenti esami psichiatrici e tossicologici. Per di più, tra il 2017 e il 2019 un omicidio su 10 è stato commesso con armi regolarmente detenute.
Nel nostro Paese, nonostante il reale e significativo decremento degli omicidi volontari (469 nel 2015, 318 nel 2019 – dati ISTAT), negli ultimi anni è andata aumentando la richiesta di armi ad uso civile, in relazione ad una narrazione allarmistica da parte di alcuni mass media e di forze politiche che molto hanno puntato sull’insicurezza riuscendo ad ottenere l’approvazione in Parlamento delle nuove norme del porto d’armi (decreto n. 104/2018) e sulla legittima difesa (legge n. 36 del 26 aprile 2019). Anche in Italia, le armi da fuoco, tra l’altro, emergono come mezzo nel caso di suicidio maschile (13,5 per cento), mentre nel caso dei condannati il rapporto uomini/donne nel caso di violazioni delle norme in materia di armi, munizioni ed esplosivi è addirittura del 95,3 per cento (ISTAT 2019).

Con droni armati e missili Cruise l’Italia cambia faccia. Intervista a Maurizio Simoncelli

Missili Cruise (LaPresse)

Missili Cruise – immagine d’archivio (LaPresse)

In questi ultimi giorni sono uscite due notizie, nell’ambito delle dotazioni dei sistemi d’arma delle nostre Forze Armate, che faranno cambiare il profilo militare dell’Italia. Ci riferiamo ai droni armati e ai missili Cruise. Dotazioni che pongono problemi di ordine tattico-strategico e di controllo politico assai rilevanti. Cerchiamo di approfondire, in questa intervista con Maurizio Simoncelli, alcuni di questi nodi.


Maurizio Simoncelli è Vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo.
Storico ed esperto di geopolitica, oltre ad aver realizzato numerose ricerche sull’industria militare, sulle forze armate italiane e sulla geopolitica dei conflitti, ha collaborato come docente in diversi master universitari e corsi d’istruzione superiore. E’ membro del CISRSM – Centro interuniversitario di studi e ricerche storico–militari e coordina l’attività documentaria del sito www.archiviodisarmo.it.

 

SIMONCELLI, l’uso dei droni armati, in recenti scenari di guerra, ha fatto sempre discutere l’opinione pubblica per molteplici ragioni che approfondiremo tra poco. Intanto guardiamo all’Italia. Pare, secondo un comunicato della Rete Italiana Pace e Disarmo, che il Ministero della difesa sia intenzionato ad investire su questo sistema d’arma. Su che basi si può affermare questo? 
L’Italia si è già dotata da oltre un quindicennio di 6 droni militari, utilizzati in missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e acquisizione del bersaglio in diversi contesti, soprattutto in varie missioni all’estero (Iraq, Afghanistan, Libia, Corno d’Africa ecc.). I droni sono in dotazione al 32° Stormo di Amendola (Foggia). Il Documento Programmatico Pluriennale 2021 del Ministero della Difesa prevede un investimento di 168 milioni di euro con una prima tranche finanziata di 59 milioni distribuiti in 7 anni.

Che tipo di drone?
I droni che l’Italia acquistò a suo tempo dagli Stati Uniti sono gli Apr classe Male (Medium Altitude Long Endurance), Mq-1A Predator e Mq-9 Reaper, prodotti dalla General Atomics, e nel Parlamento si parlò allora solo di un utilizzo non armato. Successivamente nel 2011 si è richiesto agli USA l’autorizzazione ad armarli ed ora lo stiamo facendo con la loro approvazione, dato che servivano determinati componenti tecnologici per questo utilizzo aggressivo.
Il Reaper (mietitore), capace di operare per 27 ore da un’altezza di 15 km in ogni condizione di tempo in ambiente diurno o notturno, è lungo 11 metri ed ha un’apertura alare di 20 metri, potendo viaggiare ad una velocità di 450 km all’ora, guidato satellitarmente senza rifornimenti per 2.000 km in missioni di ricognizione e per 1.200 qualora fosse armato di missili. Può portare quattro missili aria-terra Agm Hellfire, nonché due bombe a guida laser GBU-12 Paveway o due bombe a guida Gps CPU 38 Jdam. Il costo unitario si aggira sui 10,5 milioni di dollari.

C’è un progetto di LEONARDO? Come si svilupperebbe il programma? Con quali costi?
In ambito europeo è stata lanciata sin dal 2013 una cooperazione industriale e politica in questo ambito tra Germania, Francia , Italia e Spagna per un drone europeo per sorveglianza e difesa, detto «Male Rpas» o «Eurodrone». Capofila è la Germania con Airbus, poi la Francia con la Dassault e l’Italia con la Leonardo, che ha una quota del 25%. Airbus opera nell’ambito della struttura, mentre Dassault si occupa del sistema e Leonardo dell’equipaggiamento. Oltre alle funzioni di ricognizione e di controllo, sarà anche armato e dotato di doppio motore. Dovrebbe essere capace di operare ognitempo 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il programma dovrebbe costare sui 7 miliardi di euro. All’Italia dovrebbero giungere cinque di questi sistemi, ognuno composto da 3 velivoli e 2 stazioni di controllo a terra.

L’utilizzo di questo Sistema d’arma ha cambiato parecchio il volto della guerra. Quali sono le opacità e rischi nel loro utilizzo?
Attraverso l’uso militare dei droni è possibile monitorare il territorio, sorvegliarlo rispetto ad eventuali pericoli ed evitare determinati rischi per le nostre truppe, usufruendo di un vantaggio significativo rispetto ad un eventuale avversario che non ne sia dotato. In tal modo si evita l’esposizione fisica dei soldati e si controlla, anche a notevole distanza, comunque uno spazio critico. Se poi si ha l’utilizzo armati dei droni, si può condurre un attacco senza alcun rischio vitale per le nostre truppe, dato che l’equipaggio che li controlla risiede lontano in una plancia di comando, utilizzando anche informazioni provenienti da altre fonti (satelliti, intelligence ecc.). Si possono condurre azioni di guerra senza intervenire fisicamente con proprie truppe sul territorio interessato, potendo evitare di conseguenza anche di rendere noto all’opinione pubblica e ai mass media l’intervento stesso. Gli Stati Uniti, che da anni li stanno usando massicciamente, sono un esempio di questa opacità anche rispetto alle conseguenze letali. Non si sa ufficialmente il numero esatto né delle missioni né delle vittime, tra le quali non di rado sono coinvolti civili innocenti, dato che i cosiddetti bombardamenti chirurgici non sono innocui per chi ne è estraneo. Nello studio Droni militari: proliferazione o controllo? che abbiamo condotto nel 2017 con l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo avevamo già rilevato da un lato la difficoltà enorme nel determinare il numero esatto di vittime civili e dall’altro la quasi totale assenza d’informazione ufficiale sul loro uso. Per di più a volte vengono usati in situazioni non di guerra per eliminare supposti avversari senza che vi sia stata una condanna a morte da parte di un tribunale regolare, cioè si hanno veri e propri omicidi extragiudiziali, estremamente discutibili dal punto di vista del diritto.

Dal punto di vista strategico per l’Italia cosa significherebbe questo Sistema d’arma? È necessario?
L’uso di questi sistemi d’arma presuppone l’intervento armato a grande distanza nell’ambito di una proiezione di forza su scenari sempre più ampi, coerentemente con l’assetto che da anni le nostre FF.AA. stanno prendendo con sistemi d’arma non difensivi ma aggressivi come le nuove portaerei, i cacciabombardieri nucleari F35 e quant’altro, per operare a distanza dal nostro territorio nazionale, nonostante il famoso articolo 11 della Costituzione. D’altronde il “Libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” del Ministero della Difesa nel 2015 confermava questa crescente proiezione della nostra azione su teatri anche assai lontani (l’Afghanistan lo conferma, peraltro con risultati disastrosi).

Una scelta del genere dovrebbe essere analizzata dal Parlamento. Vi sono infatti grossi problemi di trasparenza e di controllo che l’utilizzo (del drone) pone. In particolare per le morti illegali e gli impatti negativi. È così?
In effetti l’utilizzo di questi sistemi d’arma pone numerosi problemi e servirebbero delle precise linee guida determinate dal Parlamento: dove usarle, come, perché, contro chi, ecc. Analogamente è necessaria una massima trasparenza nell’uso affinché si conoscano gli eventuali danni collaterali. Si potrebbero condurre azioni di guerra in teatri anche lontani e con conseguenze negative nella totale insaputa dell’opinione pubblica e dei mass media, nonché del Parlamento stesso. I paesi utilizzatori non di rado hanno compiuto per errore o per sottovalutazione stragi di civili, esacerbando ulteriormente l’ostilità della popolazione locale e avvantaggiando gli oppositori, terroristi compresi: vedi il recente caso del raid statunitense del 29 agosto a Kabul in cui sono stati uccisi 3 adulti e 7 bambini in cui è stata chiesta semplicemente “scusa per l’errore”!

Come controllare la proliferazione? Un controllo ONU?
Si calcola che attualmente siano oltre 100 i paesi che utilizzano droni militari di varie dimensioni e con varie capacità. Anche formazioni terroristiche e la criminalità organizzata ne dispongono, data la tecnologia ormai ampiamente diffusa e relativamente poco costosa. Il controllo che si può esigere nei paesi democratici, come già detto, può essere su due piani: il Parlamento deve indicare alle forze armate le linee guida fondamentali per il loro utilizzo in caso d’attacco e contemporaneamente esigere un’adeguata trasparenza ed informazione sul loro uso, affinché anche l’opinione pubblica e i mass media ne siano al corrente. Per questo si sta muovendo da tempo anche la società civile che nel nostro continente ha costituito il Forum europeo sui droni armati (EFAD), una rete di organizzazioni della società civile che lavorano per promuovere i diritti umani, il rispetto dello stato di diritto, il disarmo e la prevenzione. L’ONU, sistematicamente depotenziata e emarginata nel corso di questi anni, può far poco, se non approvare delle norme generali circa la responsabilità dell’uso nei confronti dei civili. Ma è difficile che le grandi potenze e i loro alleati le approvino e le rispettino.

Ultima domanda. È uscita, nei giorni scorsi, la notizia che la nostra Marina vuole dotarsi di missili Cruise. Un sistema d’arma assai particolare. Cosa significa questo e soprattutto se era così necessario?
I missili Cruise non seguono una traiettoria balistica (dal basso verso l’alto e poi i nuovo verso il basso contro l’obiettivo), ma viaggiano seguendo l’orografia dello spazio terrestre mediante un apparato GPS coordinato con sistemi satellitari, divenendo di difficile intercettazione con conseguenze significative sul clima d’insicurezza internazionale. Dal costo stimato di un milione di dollari ognuno, possono essere armati convenzionalmente o nuclearmente, con un raggio d’azione che negli ultimi modelli supera i 1.500 km. La collocazione su navi e sottomarini aumenta enormemente il raggio d’azione e la nostra proiezione di potenza militare cresce in modo significativo. Sarebbe utile sapere se il nostro Parlamento e il nostro Governo abbiano discusso di questa ulteriore dotazione di armamenti utile per una presenza armata in teatri sempre più lontani e per quali scopi. Ci stiamo preparando per uno scontro con il nostro alleato turco per le acque cipriote, per un’azione nel quadrante asiatico o altro? Non siamo più all’interno di un quadro di difesa costituzionale, ma di palese attacco. Sarebbe opportuno avere queste risposte prima che le FF.AA. acquistino tali missili evitando che il Parlamento abdichi al suo ruolo politico d’indirizzo in questo settore così importante.

L’Italia e gli armamenti: una questione seria. Intervista a Susanna Camusso

Susanna Camusso (Ansa)

Produzione ed esportazione di sistemi militari, il ruolo dell’Italia e dell’Europa, ma anche le divergenze tra rappresentanze locali e nazionali dei lavoratori. E, soprattutto, l’urgenza di una politica industriale nazionale rispettosa dell’ambiente, dei diritti e del futuro. “Crediamo che sia chiaro a tutti, dopo le crisi finanziaria prima e sanitaria dopo, che il nemico da cui ci dobbiamo difendere non è un esercito invasore, ma sono le diseguaglianze, le povertà, la corruzione, il cambio climatico, le nuove malattie, le nuove e le vecchie forme di sfruttamento del lavoro, e quindi, se vogliamo lasciare un mondo migliore alle generazioni del futuro, dobbiamo investire le nostre intelligenze e le nostre risorse nelle persone e nel pianeta”. Intervista a tutto campo a Susanna Camusso, ex Segretaria generale della CGIL e oggi Responsabile Politiche di genere, europee ed internazionali della CGIL.

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Documento dei leader della Chiesa Cattolica sullo stop alle armi nucleari

Pubblichiamo il Documento firmato da alcuni leader della Chiesa cattolica di tutto il mondo, che accolgono con favore l’entrata in vigore, il 22 gennaio 2021, del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari.

Noi, leader della Chiesa cattolica di tutto il mondo, accogliamo con favore l’entrata in vigore il 22 gennaio 2021 del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari.
Siamo incoraggiati dal fatto che la maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite sostenga attivamente il nuovo trattato attraverso l’adozione, le firme e le ratifiche. È giusto che la Santa Sede sia stata tra i primi Stati ad aderire all’accordo nel 2017. Inoltre, i sondaggi dell’opinione pubblica mondiale dimostrano la convinzione globale che le armi nucleari debbano essere abolite. La peggiore di tutte le armi di distruzione di massa è stata da tempo giudicata immorale. Adesso è anche finalmente illegale.
Siamo preoccupati per il continuo rischio per l’umanità che possano essere utilizzate armi nucleari e per le conseguenze catastrofiche che ne deriverebbero. È incoraggiante che questo nuovo Trattato si basi su un crescente corpo di ricerca sulle catastrofiche conseguenze umanitarie ed ecologiche di attacchi nucleari, test e incidenti. Due esempi che parlano a tutte le persone sono gli impatti sproporzionati delle radiazioni su donne e ragazze e i gravi effetti sulle comunità indigene le cui terre sono state utilizzate per i test nucleari.
Noi sottoscritti sosteniamo la leadership che Papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare. Durante la sua storica visita alle città bombardate di Hiroshima e Nagasaki nel novembre 2019 il Papa ha condannato sia l’uso che il possesso di armi nucleari da parte di qualsiasi Stato. La pace non può essere raggiunta attraverso «la minaccia dell’annientamento totale», ha detto. Papa Francesco ha sollecitato il sostegno per «i principali strumenti giuridici internazionali di disarmo nucleare e non proliferazione, compreso il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari». Prima della sua visita, le Conferenze dei Vescovi Cattolici in Canada e Giappone hanno esortato i loro governi a firmare e ratificare il nuovo Trattato.
Come loro, alcuni di noi provengono da paesi alleati con una potenza nucleare o che dispongono di arsenali nucleari. Sicuramente, in quest’epoca di crescente interdipendenza e vulnerabilità globale, la nostra fede ci invita a cercare il bene comune e universale. «Siamo tutti salvati insieme o nessuno si salva», dice la nuova enciclica del Papa Fratelli tutti. «È possibile per noi essere aperti ai nostri vicini all’interno di una famiglia di nazioni?», chiede Francesco. La cooperazione internazionale è essenziale per affrontare la pandemia Covid-19, il cambiamento climatico, il divario tra ricchi e poveri e la minaccia universale delle armi nucleari.
Non importa da dove veniamo, ci uniamo ad esortare i governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari. Ringraziamo coloro che lo hanno già fatto e li esortiamo a invitare anche altri paesi ad aderire al Trattato.
Invitiamo i colleghi leader della Chiesa a discutere e deliberare sul ruolo significativo che la Chiesa può svolgere nel costruire il sostegno per questa nuova norma internazionale contro le armi nucleari. È particolarmente importante per le conferenze episcopali nazionali e regionali, nonché per le istituzioni e le fondazioni cattoliche, verificare se i fondi relativi alla Chiesa vengono investiti in società e banche coinvolte nella produzione di armi nucleari. In tal caso, intraprendere azioni correttive ponendo fine ai rapporti di finanziamento esistenti e cercare modi per il disinvestimento.
Crediamo che il dono della pace di Dio sia all’opera per scoraggiare la guerra e superare la violenza. Pertanto, in questo giorno storico, ci congratuliamo con i membri della Chiesa cattolica che per decenni sono stati in prima linea nei movimenti di base per opporsi alle armi nucleari e ai movimenti per la pace cattolici che fanno parte della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, vincitrice del Premio Nobel (Ican).

Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme
Jean-Claude Höllerich, Cardinale, Arcidiocesi di Lussemburgo, Presidente di Pax Christi Lussemburgo
Gualtiero Bassetti, Cardinale, Arcidiocesi di Perugia-Città della Pieve, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Malcolm McMahon, Arcivescovo di Liverpool, Presidente di Pax Christi di Inghilterra e Galles
Giovanni Ricchiuti, Arcivescovo, Diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, Presidente di Pax Christi Italia
Antonio Ledesma, Arcivescovo di Cagayan de Oro, Presidente di Pax Christi Filippine
Joseph Mitsuaki Takami, Arcivescovo di Nagasaki, Presidente della Conferenza Episcopale Giapponese
González Nieves, Arcivescovo di San Juan, Porto Rico
José Domingo Ulloa Mendieta, Arcivescovo di Panama
Mare Stenger, Vescovo Emerito della Diocesi di Troyes, Francia, Co-presidente di Pax Christi Internazionale
Hubert Herbreteau, Vescovo, Diocesi di Agen, Presidente di Pax Christi Francia
Peter Kohlgraf, Vescovo, Diocesi di Mainz, Presidente di Pax Christi Germania
Gerard de Korte, Vescovo, Diocesi di Den Bosch, Paesi Bassi
Lode Van Hecke, Vescovo, Diocesi di Gand, Belgio
Luigi Bettazzi, Vescovo Emerito, Diocesi di Ivrea, ex Presidente di Pax Christi International e Pax Christi Italia
William Nolan, Vescovo, Diocesi di Galloway, Scozia
Brian McGee, Vescovo, Diocesi di Argyll e delle Isole, Scozia
Joseph Toal, Vescovo, Diocesi di Motherwell, Presidente dello Scottish Catholic International Aid Fund
John Stowe, Vescovo, Diocesi di Lexington, Presidente di Pax Christi Usa
Robert McElroy, Vescovo, Diocesi di San Diego, Stati Uniti
Terry Brady, Vescovo, Arcidiocesi di Sydney, Australia
Peter Cullinane, Vescovo Emerito, Diocesi di Palmerston North, Presidente di Pax Christi Aotearoa Nuova Zelanda
Alexis Mitsuru Shirahama, Vescovo, Diocesi di Hiroshima, Giappone
Wayne Berndt, Vescovo, Diocesi di Naha, Giappone
Bernard Taiji Katsuya, Vescovo, Diocesi di Sapporo, Giappone
Paul Daisuke Narui, Vescovo, Diocesi di Niigata, Giappone
Timothy Yu, Vescovo, Arcidiocesi di Seul, Corea del Sud
Allwyn D’Silva, Vescovo, Arcidiocesi di Bombay, India
Kevin Dowling, Vescovo, Diocesi di Rustenburg, Ex Co-Presidente di Pax Christi International, Sudafrica
Segue una lunga lista di firme di laici, religiosi e religiose di una ventina di Paesi.

22 Gennaio 2021

Dal sito: https://www.chiesacattolica.it/documento-dei-leader-della-chiesa-cattolica-sullo-stop-alle-armi-nucleari/

Navi militari all’Egitto: l’affare militare non riguarda solo il caso Regeni Intervista a Giorgio Beretta (Osservatorio OPAL)

La notizia dell’autorizzazione all’esportazione all’Egitto di due fregate multiruolo Fremm ha suscitato le proteste della famiglia Regeni che si è detta “tradita dallo Stato”. La vendita delle due navi militari solleva diverse questioni di natura geopolitica e strategica, ma soprattutto sulla politica estera dell’Italia e sull’osservanza delle norme che regolano l’esportazione di armamenti. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

 

Può spiegarci innanzitutto in cosa consiste questo contratto? Si tratta solo delle due navi militari o c’è dell’altro?

Questo è il punto principale perché riguarda l’informazione al parlamento e ai cittadini. L’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi,  originariamente destinate alla Marina Militare italiana, è infatti, secondo diverse e autorevoli fonti di stampa nazionale ed estera, solo una parte di un più ampio affare militare in trattativa tra Roma e il Cairo. Un maxi-contratto tra i 9 e gli 11 miliardi di euro che prevede, oltre alle due Fremm, altre quattro fregate missilistiche, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon e altrettanti aerei addestratori M-346 più un satellite di osservazione. Negli ambienti del settore militare-industriale è stato già definito “la commessa del secolo”. Ma, al momento, non vi è stata alcuna informativa precisa al riguardo, nemmeno sull’autorizzazione all’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm.
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