“La lettera di Ladaria farà bene alla democrazia americana”. Intervista a Stefano Ceccanti

Sta facendo discutere l’opinione pubblica cattolica, statunitense ed europea, la lettera del Cardinale Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, al presidente dei Vescovi americani Gomez, ultraconservatore. Lettera che stoppa radicalmente l’iniziativa clamorosa da parte dell’ala conservatrice di negare la comunione al Presidente Biden (in quanto favorevole alla legislazione pro aborto). In questa intervista con il costituzionalista, e deputato PD, Stefano Ceccanti cerchiamo di approfondire i contenuti di questa lettera.

Professor Ceccanti, i termini della lettera non sono per niente teneri nei confronti dei conservatori: tra le righe si denuncia il comportamento strumentale dell’iniziativa di Gomez. È così professore? 

Veda, io partirei da un po’ più lontano, dall’anniversario che si celebrerà domani. Il 14 maggio 1971, 50 anni fa, Paolo VI scrisse al Cardinale Roy la lettera Octogesima Adveniens, per gli 80 anni dalla Rerum Novarum. Il parametro per le nostre questioni è quello perché essa rappresenta il punto di arrivo della riflessione conciliare sul tema dei rapporti tra Chiesa e politica. Infatti, pur avendo la Gaudium et Spes, la Costituzione conciliare, espresso alcune scelte significative, tra cui il riconoscimento dell’opzione preferenziale per la democrazia (paragrafo 31), lo specifico capitolo 4 ebbe una trattazione del tutto insufficiente perché essa coincise con la giornata del ritorno di Paolo VI dall’Onu, il 5 ottobre 1965, e i lavori dell’assemblea furono concentrati sul suo discorso. Fu questa la ragione per la quale Paolo VI rifece il punto con la Octogesima Adveniens ed in particolare nei punti 4 e 50.

Il punto 4 fa due affermazioni molto importanti che deideologizzano l’insegnamento sociale: la prima è che “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale” e la seconda è che le comunità cristiane attingono da esso “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione” che consentono di giungere a conclusioni concrete. L’elemento comune di principi, criteri e direttive è il fatto che essi hanno dei margini di elasticità rispetto alle soluzioni concrete. Margini che evidentemente non sono infiniti, l’elastico oltre una certa soglia si rompe, ma ciò non di meno essi esistono, le soluzioni concrete non coincidono con essi. E’ per questo che, come chiarisce il n. 50: “Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili” con “uno sforzo di reciproca comprensione per le posizioni e le motivazioni dell’altro”.

Dietro queste affermazioni si coglie tutta la finezza di un papa che per storia familiare conosceva la concretezza della vita politico-parlamentare che è fatta non di referendum su princìpi, ma di continue mediazioni tra più princìpi che entrano in gioco nella stessa decisione, tra princìpi e realtà sociale concreta e tra diverse visioni che sono rappresentate in una società aperta. Solo così si evitano approcci strumentali.

Lei quindi ritrova questo approccio che viene da lontano nella lettera del Prefetto, ovvero specificamente nel punto in cui si afferma che né il tema dell’aborto, né quello della eutanasia possono essere usati come ‘unica materia in cui si richiede il pieno livello di responsabilità da parte dei cattolici. Una gran picconata al “partito dei valori non negoziabili”? Ma quello non veniva dal pontificato di Giovanni Paolo II e dalla Nota dottrinale del 2002 della medesima Congregazione che però Ladaria cita come fondamento della sua critica?

Anche nell’enciclica Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II del 1995 (che aveva confermato l’opzione prefrenziale per le democrazie liberali nella Centesimus Annus del 1991) si riscontrano almeno due importanti passaggi nella medesima direzione della Octogesima Adveniens. Il primo (par. 71) ricorda sulla base dell’insegnamento di Tommaso (su cui a lungo aveva riflettuto Jacques Maritain) che la difesa e lo sviluppo di alcuni principi e valori non coincide con la massima estensione possibile del diritto penale per punire comportamenti che li neghino:” la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave”. Se un principio o un valore siano concretamente sviluppati in un ordinamento dipende da una serie di incentivi, da un insieme di politiche pubbliche: può darsi che un diritto penale meno esteso accompagnato da politiche sociali positive più consistenti abbiano in un determinato contesto storico, effetti ben più positivi. Il secondo (par. 73) tende a valorizzare comportamenti politico-parlamentari tesi alla riduzione del danno.

Viceversa questo senso della complessità non sembra riprodotto per intero nella Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 perché essa sembra presupporre che vi siano ambiti in cui “l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno” (par. 4) in cui cioè lo schema sia bianco-nero, tutto-nulla, verità-errore. Qui sta il problema teorico, che poi è anche un serio problema pratico: infatti la Nota risulta a tutt’oggi del tutto disapplicata e non per volontà dei singoli, ma perché in questi termini è sostanzialmente inapplicabile. Ora alcuni vescovi americani, i primi che concretamente vogliano farlo sia pure arrivando a conclusioni sulla Comunione non direttamente previste nel testo, credono di interpretare correttamente la Nota ritenendo che questo ragionamento riguardi un particolare ambito materiale, in particolare i temi dell’aborto e dell’eutanasia perché sarebbero i primi citati nel testo. Il cardinale Ladaria, a nome della Congregazione, reagisce segnalando che scegliere un preciso ambito materiale finirebbe per selezionare arbitrariamente alcune materie a danno di altre: “sarebbe fuorviante dare l’impressione che l’aborto e l’eutanasia da soli siano gli unici temi centrali della Dottrina Sociale cattolica, che richiedono il più alto livello di rendiconto da parte dei cattolici”.

Il cardinale Ladaria, così facendo, evita opportunamente un doppio standard tra materie diverse, ma logicamente gli esiti possibili sono due e sono opposti. O si conferma che sia possibile teorizzare che rispetto a tutti i principi e valori che si vogliano difendere e sviluppare vadano rifiutati compromessi, ma allora diventa sostanzialmente impossibile fare politica specie nelle sedi parlamentari, si arriva a un non expedit generalizzato o, viceversa, si ammette che esistono sempre margini di elasticità. Ovviamente tutte le istanze sociali, comprese quelle ecclesiali, hanno il diritto di ritenere che nei casi concreti l’elasticità sia usata oltre i limiti ragionevoli e possono benissimo contestare i concreti compromessi raggiunti, ma non possono disconoscerne a priori l’esistenza. Questo nodo non può essere aggirato. E’ la nota del 2002 come tale che non funziona su quell’aspetto, difforme rispetto all’impostazione dellOctogesima Adveniens, che la rende inapplicabile e che, qualora si tenti di applicarla, crea conflitti non risolubili.

Pensa che questo intervento rasserenerà l’episcopato americano, o, invece, alimenterà contrasti (fomentati dai vari Bannon e Viganò)?

Come ho cercato di spiegare prima per esteso chiarendo il parametro (l’Octogesima Adveniens) e ciò che fa problema (la Nota del 2002) la linea dell’episcopato americano è insostenibile. Peraltro si tratta in questo momento e da molti anni dell’unico episcopato che sta tentando un’applicazione intransigente di quella Nota. Farebbe bene a riflettere sul suo isolamento non solo rispetto al Papa, ma anche alla Chiesa universale.

Cosa può significare per la politica americana questo intervento? 

Mentre l’intervento della Conferenza episcopale si inseriva in quella logica di over partisanship, di eccesso di partigianeria che segna quel paese da vari anni e che tanto nuoce alla democrazia americana, l’intervento del cardinal Ladaria si presta ad un più positivo rapporto con la politica. Non è in questione il diritto di esprimere posizioni critiche in pubblico secondo le regole del diritto di libertà religiosa in una società aperta, ma la Chiesa cattolica deve decidere se in una situazione già segnata da molte polarizzazioni vuole essere vista come parte del problema o parte della soluzione. Un certo intransigentismo finisce non col portare un contributo nella vita politica ma con l’esasperare le differenze politiche dentro la Chiesa.

 Non si può non vedere anche un riverbero per l’Italia, la patria del “ruinismo”…… Anche lei vede questo? 

In Italia quel periodo è tramontato irreversibilmente da tempo, prima sul piano politico e poi su quello ecclesiale. Accantonerei pertanto le polemiche sul passato e mi concentrerei sulla ricerca di una linea che raccolga in positivo la spinta innovativa del pontificato. Una linea che va sapientemente costruita.

Benedizione alle coppie omosessuali: “Il Responsum non è un documento definitivo”. Intervista ad Andrea Grillo

Matrimonio (Pixabay)

Sul recentissimo documento, il cosiddetto “responsum”, della Congregazione per la dottrina della Fede sulla possibilità di benedire le unioni formate da persone dello sesso, si sta sviluppando un forte dibattito all’interno della Chiesa Cattolica romana. Infatti la risposta negativa della Congregazione ha suscitato sconcerto in alcuni episcopati europei (in particolare quello tedesco, da segnalare anche la presa di posizione di molti teologi tedeschi ). Nella giornata ieri alcune testate internazionali hanno riportato le voci, da fonti anonime vaticane non si sa quanto credibili, che anche il papa si sarebbe distanziato da quel documento. Insomma si tratta di un documento che merita un approfondimento. Per questo abbiamo sentito il parere qualificato del professor Andrea Grillo. Grillo è docente di Teologia al Pontificio Istituto “Sant’Anselmo” di Roma.

Professor Grillo, nell’opinione pubblica c’è un grande dibattito sul recente Responsum della CDF sulla liceità di concedere, da parte della Chiesa cattolica, alle coppie dello stesso sesso la benedizione alla loro unione. Sappiamo che il responso è stato negativo. Il papa stesso ha condiviso questo. Una decisione per alcuni cattolici, e anche cristiani di altre confessioni, assai controversa. Al di là di alcune parole positive sulle unioni, resta la chiusura? Perché?

Credo che si debba considerare un doppio aspetto della questione. Il primo riguarda la
inerzia di una comprensione della sessualità e del matrimonio basata essenzialmente su una prospettiva morale e legalista. E’ facile che, anche nelle Congregazioni, prevalga un modo di ragionare su ogni novità di tipo puramente difensivo. L’idea stessa di benedizione viene così fraintesa e ricondotta semplicemente al potere della Chiesa, come se benedire significasse prima di tutto “autorizzare” e “convalidare”. La illiceità della benedizione di tutto ciò che non sia “integralmente buono” diventa perciò uno scandalo insopportabile e da evitare. Ma qui è in gioco proprio la nozione di benedizione e la relazione con il bene. Da un lato benedire è più un atto di riconoscimento che di regolarizzazione, dall’altro riguarda un aspetto della esistenza e non la sua integralità. Ma il riconoscimento è un atto difficile quando una Chiesa si è abituata, da 150 anni, a combattere sul matrimonio e sulla sessualità come se fosse sua competenza esclusiva. In ogni questione in cui vi sia in gioco una forma di “comunione di vita e di amore” immediatamente scatta una volontà di potenza più forte di ogni riconoscimento. Ogni altro potere è negato: anche quello di benedire una coppia di uomini o di donne. Del passaggio ad una lettura escatologica della
“letizia dell’amore” e della autocritica delle forme ottocentesche di pastorale familiare, che Amoris Laetitia aveva sancito con forza nei suoi numeri 34-37, non sembra esservi traccia nella mens del responsum.

Non c’era da aspettarsi una evoluzione dopo il Sinodo sulla famiglia?
Senza dubbio l’evoluzione, sul piano generale di lettura della esperienza familiare, vi è
stata, sia sul piano pastorale, sia sul piano teologico. La inerzia delle Congregazioni è nota e non è sorprendente che possa esprimere una lettura della vita personale e della
relazione sessuale tanto chiusa in una lettura meramente “funzionale”. Certo, a leggere
bene il responsum, non tutto è arretrato. Ci sono anche piccole apertura, che però non
hanno potuto incidere sulla decisione, che appare rinserrata nelle evidenze di una società tradizionale, che non ha conosciuto il passaggio dal sesso alla sessualità.
Sostanzialmente continua a ragionare con l’idea che il matrimonio sia esercizio legittimo di uno “ius in corpus”.

Qual è il punto debole del responsum?
La debolezza non riguarda nello specifico la questione sollevata, ossia la questione della benedizione delle coppie omoaffettive. Riguarda invece la comprensione generale e strutturale del rapporto tra gioia dell’amore e esercizio della sessualità. Poiché, secondo la tradizionale posizione premoderna, l’unico luogo legittimo per l’esercizio del sesso è il matrimonio, e poiché l’esercizio del sesso tra due uomini o due donne è obiettivamente disordinato – ossia non finalizzato in alcun modo alla generazione – ecco che se ne deduce una duplice causa di illiceità: perché non può essere esercitato nel matrimonio e non può essere finalizzato alla generazione. Come è evidente, in questa prospettiva la comunità di vita e di amore, che può essere certo accessibile anche ad una coppia omoaffettiva, non entra neppure in considerazione, se non in modo talmente marginale, da non riuscire ad intaccare il giudizio drasticamente negativo. La “legge oggettiva” prevale in modo drastico su ogni considerazione soggettiva. Per questo, fin dal primo momento, mi è sembrato che fosse giusto definire la prospettiva di questo responsum con le parole di Amoris Laetitia 304: “pusilli animi est”, ossia “è meschino”, proprio perché si illude che una “legge oggettiva” possa scavalcare e determinare integralmente la logica della benedizione.

Tra le tante prese di posizione contrarie va segnalata quella del Vescovo di Anversa,
Johan Bonny, e anche di vescovi tedeschi (che stanno celebrando il loro sinodo). Per il
vescovo di Anversa il “Responsum” “manca di cura e attenzione pastorale, di fondamento scientifico e di precauzione etica”. Una stroncatura netta. Insomma tra chi vive nel concreto vivente della società questa presa di posizione è sentita come dottrinaria e astratta. Siamo lontani dalla Chiesa in uscita tante volte evocata in questi anni. È così Professore?

La reazione più sana, a mio avviso, è quella che nota come, 5 anni dopo Amoris Laetitia, e quasi in coincidenza della data anniversaria di quel documento, è possibile restare assolutamente chiusi in una comprensione formale, legalistica ed anche, me lo lasci dire, poco canonistica della questione. Ha avuto ragione il prof. Consorti ad affermare che, nella decisione, non si è considerata la questione sul piano più schiettamente canonico, il che avrebbe lasciato spazi di manovra più ampi, proprio per non anticipare il giudizio morale in un atto liturgico come la benedizione che “non chiede nulla ai soggetti” se non di essere testimoni del bene. Una lettura solo “pedagogica” ha bloccato ogni spazio di manovra, riducendo le persone al loro comportamento sessuale, inevitabilmente pregiudicato.

Quali sono invece le ragioni, dal suo punto di vista, per le quali la benedizione si potrebbe dare?

Proviamo a entrare diversamente nel problema, senza lasciarci condizionare da come è
stata posta la domanda sul “potere della Chiesa di benedire le coppie dello stesso sesso”. Mi sorprende che la CDF non abbia voluto imitare nemmeno un poco lo stile di Gesù, che non rispondeva mai alle domande, ma cambiava la domanda. Cambiamo la domanda e chiediamoci: “non può forse la Chiesa riconoscere il bene che c’è in una coppia, non importa come sia composta, nella quale la comunione di vita e di amore siano assunte come prospettive di dono reciproco e di una reale esistenza per l’altro”? Io credo che ad una tale domanda qualsiasi Congregazione non avrebbe difficoltà a rispondere: affermative. Aggiungerei, parafrasata, una frase famosa del Card. Martini, che potremmo applicare a questa condizione. Anche qui si tratta di cambiare la domanda: non dobbiamo chiederci “se si possano benedire queste coppie omoaffettive”, ma “se non siano soprattutto queste coppie a dover essere benedette”!

Sappiamo che la Chiesa Cattolica ha fatto un grande cammino verso la comprensione
della omosessualità, e questo è presente, in alcuni passaggi, del responsum. Non c’è il
rischio di passi indietro?

I passi indietro sono evidenti nel momento in cui tutta la elaborazione compiuta, anche
solo rispetto al testo del CCC, non ha avuto alcuna incidenza su una decisione che è stata assunta con categorie che sono quelle della neoscolastica degli anni 50. Tuttavia, e questo dobbiamo saperlo bene, senza un nuovo sapere sistematico, che sappia coniugare a dovere aspetti oggettivi e soggettivi nuovi, non riusciremo a affrontare correttamente le questioni. E, lo ripeto, per integrare a dovere la “omo-sessualità”, dobbiamo comprendere in modo nuovo la sessualità. Per certi versi la fatica più grande dobbiamo farla con le coppie eterosessuali, per poter comprendere, in maniera nuova, anche le coppie omosessuali. Viceversa, la incomprensione della omoaffettività dipende da una teologia della eteroaffettività ancora troppo rozza, troppo moralistica e troppo legalistica. Potrei fare questo esempio: si osservi quanto impacciati siamo nell’affrontare istituzionalmente le crisi delle coppie eterosessuali per capire quanto arretrate sono le categorie con cui pensiamo matrimonio, famiglia, sessualità e vita comune. Da categorie arretrate nel pensare la eterosessualità difficilmente verremo a capo delle questioni, solo parzialmente diverse, che emergono dalle nuove forme di unione, che dovremmo anzitutto riconoscere come esistenti e non solo come perversioni manifeste.

Veniamo per finire al Papa Francesco. Sappiamo che papa Francesco è un uomo dai
grandi gesti. Sono davvero tanti. E dalla parola profonda e sincera. Domanda : ma questo responsum è in sintonia con il suo magistero?

Fin dall’inizio io sono rimasto piuttosto perplesso per la insistenza con cui il responsum
veniva riferito direttamente al papa, cosa che in sé è tanto ovvia quanto sospetta. Dico
ovvia, perché il procedimento con cui si arriva ad un responsum prevede il passaggio
papale. Ma che un documento firmato da un Prefetto e un Segretario di Congregazione si pretenda di attribuirlo direttamente al papa dice una debolezza. E quando un documento, la cui forza starebbe nella argomentazione, pretende di valere direttamente per la autorità che rappresenta, mostra la corda prima ancora di aver parlato. Ad ogni modo, se anche fosse firmato dal papa, non sarebbe un documento definitivo. Nella sua qualità di responsum ha un valore dottrinale modesto. L’unico livello su cui potrebbe essere valorizzato è su ciò che non ha ritenuto rilevante per decidere in senso negativo. E un documento che dice no, ma diventa importante per i sì che non ha saputo argomentare come doveva, lasciando lo spazio perché colui, al servizio del quale è stato scritto, ma che non lo ha firmato, possa trovare il tempo e il modo per chiarire che cosa è veramente una benedizione e quanto è preziosa per entrare in relazione autentica con le vite di coloro che conoscono che cosa significa amare e vivere per l’altro. E non è detto che di fronte alla stessa coppia, la cui benedizione sarebbe giudicata illecita, non si trovi chi sia disposto a levarsi i calzari.

 

Versione Italiana della dichiarazione dei 212 professori di teologia tedeschi sul responsum
Dichiarazione sul “Responsum” della Congregazione per la Dottrina della Fede
Lunedì 15 marzo 2021, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato un responsum,
in cui nega la possibilità di benedizione da parte della chiesa delle unioni dello stesso sesso. Come professori di teologia cattolica, prendiamo posizione su questo.
La “Nota esplicativa” sul responsum e il “Commento” pubblicato con essa mancano di profondità teologica, comprensione ermeneutica e di rigore argomentativo.  Se rilevanti conoscenze scientifiche vengono ignorate e non recepite, come accade nel documento, il Magistero mina la propria autorità.
Il testo è caratterizzato da un gesto paternalistico di superiorità e discrimina le persone omosessuali e il loro stile di vita. Prendiamo decisamente le distanze da questa posizione. Al contrario, assumiamo che la vita e l’amore delle coppie dello stesso sesso valgono davanti a Dio non meno della vita e dell’amore di tutte le altre coppie.
In molte comunità, sacerdoti, diaconi e altri operatori e operatrici pastorali riconoscono le persone omosessuali, anche celebrando riti di benedizione per coppie dello stesso sesso e riflettendo sulle forme liturgiche appropriate di tali celebrazioni. Le riconosciamo espressamente come pratiche da valorizzare.

“Francesco sta costruendo l’arca della fratellanza umana”. Intervista a Franco Ferrari

In questi giorni Papa  Francesco conclude  l’ottavo anno del suo pontificato, iniziato il 13 marzo 2013. Anni non semplici, pieni di avvenimenti che hanno scosso e rivitalizzato la Chiesa. Ne parliamo con Franco Ferrari, caporedattore della rivista “Missione Oggi” e autore di uno degli ultimi libri sul pontificato del papa argentino (Francesco, il papa della riforma, Paoline, Milano 2020), a partire dal

33° viaggio apostolico che Francesco ha appena compiuto in Iraq (5-8 marzo 2021), una terra martoriata dalle guerre e dal terrorismo del settarismo religioso.

Qual è il senso di questo viaggio, che il papa ha voluto mantenere fermo nonostante le molte ragioni avverse?

Francesco realizza il sogno di Giovanni Paolo II, che nei pellegrinaggi del Grande giubileo del 2000 (Sinai, Terra santa) aveva inserito anche quello ad Ur dei Caldei, impedito dal mancato accordo con il governo di Saddam Hussein. Si tratta di un viaggio con un triplice scopo. Strettamente religioso e spirituale: visitare la terra da dove è iniziata l’”avventura” di Abramo, il patriarca riconosciuto dalle tre grandi religioni abramitiche, appunto: ebraismo, islam e cristianesimo. Poi, un obiettivo più finemente politico. Da un lato, portare sostegno alla minoranza cristiana – che nel tempo, a causa in particolare della persecuzione del califfato Daehs, si è ridotta, secondo le stime, da 1 milione 400mila a poco meno di 400mila unità -, nella speranza che la visita inneschi il ritorno dei molti che sono fuggiti. Dall’altro, proseguire nella realizzazione del dialogo con l’islam nello spirito della Dichiarazione sulla Fratellanza umana…

Proprio di questa Dichiarazione, firmata nel 2019 con il Grande imam di al-Azhar (Al-Tayyib), si è da poco celebrato il secondo anniversario. Due giorni fa, il 6 marzo, durante il viaggio in Iraq, c’è stato anche l’incontro con il Grande Ayatollah Al-Sistani. Cosa spiega questa grande attenzione del Vescovo di Roma nei confronti dell’islam?

Francesco ha una visione geopolitica della situazione internazionale e la sua lettura si può dire che anticipi e porti a livello di coscienza aspetti che i politici sembrano non voler vedere. Pensiamo all’immagine della “terza guerra mondiale a pezzi” utilizzata per definire una micro-conflittualità endemica in molte regioni del mondo. Lo stesso dicasi per “la cultura dell’odio” che Bergoglio vede come conseguenza del populismo e del sovranismo, ma anche del fondamentalismo religioso. Le religioni e le teologie non sono innocenti rispetto alla violenza, per questo Francesco cerca di disinnescare una delle possibili micce della nuova violenza religiosa. E il dialogo, come ha scritto ai cristiani del Medio Oriente, è “il migliore antidoto alla tentazione del fondamentalismo religioso”, in particolare poi il dialogo interreligioso, là dove le situazioni sono più difficili.

Per evitare una conflittualità distruttiva, Bergoglio propone alle Chiese cristiane e agli esponenti delle varie fedi di “entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo”. Quest’arca si chiama “arca della fratellanza umana”.

Francesco sta lavorando alla costruzione di quest’arca. L’imam e l’ayatollah che lei ha citato sono entrambi importanti esponenti dell’islam: Al-Tayyib della corrente sunnita e Al-Sistani dell’islam sciita.

Questo papa, come mai prima in modo così aperto e virulento, è al centro di continui attacchi e contestazioni. Da cosa è generato questo clima conflittuale e in particolare chi sono i nemici di Francesco?

Dobbiamo considerare un aspetto che, a otto anni dalla sua elezione, si tende a dimenticare cioè le condizioni in cui versava la Chiesa al momento delle dimissioni di Benedetto XVI. Ci sono almeno tre questioni che vanno ricordate: la credibilità della Chiesa era compromessa per una serie di gravi scandali; la curia mandava segnali di cattivo funzionamento e di lotte intestine neanche troppo nascoste; il clima crepuscolare e il diffuso disagio che si respirava per la mancata risposta ai molti e prepotenti segni dei tempi e per l’attardarsi sulla questione se il Vaticano II avesse segnato o meno una discontinuità con il passato.

Negli incontri preparatori del Conclave i cardinali avevano chiesto a gran voce un’azione di riforma in particolare della curia romana. Il papa “venuto dalla fine del mondo” è andato però alla radice dei problemi e ha avviato una riforma che riguarda sia le strutture, sia la pastorale, sia l’impegno missionario e la conversione personale. Tutti temi che, affrontati in modo molto diretto come fa Francesco, stanno scuotendo un’istituzione che non riesce a stare al passo con i tempi; cambiamenti che generano paure, divisioni. Interventi che hanno ridato fiato, soprattutto, agli ambienti conservatori e reazionari, ma hanno anche suscitato perplessità in coloro che vorrebbero un cambiamento. Perciò i “nemici” sono una categoria trasversale e non facilmente catalogabile.

Questi oppositori fanno un fronte comune o sono una galassia frammentata? E, soprattutto, quanto contano realmente, al di là della risonanza mediatica?

Si può osservare che l’opposizione al papa ha una grande varietà di attori: si va dai blog e siti reazionari, ai media con una linea editoriale conservatrice, ai “giornalisti attivisti” con i loro blog (per l’Italia si possono citare Magister, Valli, Rusconi, Tosatti), a vescovi (ma anche a Conferenze episcopali), a cardinali per giungere a gruppi di pressione sostenuti economicamente da esponenti del mondo economico-finanziario ed imprenditoriale, particolarmente presenti negli Stati Uniti.

Secondo un osservatore attento come il vaticanista Marco Politi questo fronte è valutato in un “buon trenta per cento”. Una consistente minoranza, certamente agguerrita e molto forte sui social e in alcuni suoi filoni (è il caso di vescovi e cardinali) può essere presente in gangli vitali dove non conta il numero, ma l’ambito di potere e di autorità che si esercitano.

Nel titolo e nel sottotitolo del tuo libro utilizzi i termini “riforma” e “conversione”: Che rapporto c’è tra i due e a quale riforma pensa Francesco?

Ogni conversione è già di per sé una riforma e viceversa ogni riforma richiede una conversione. Sono come due facce della stessa medaglia.

Bergoglio nell’affrontare il compito di riformare ha un ordine di priorità, come ha indicato nella prima intervista concessa a “La Civiltà Cattolica”: “Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento”, cioè la conversione spirituale personale, perché ogni riforma per essere efficace si attua «con uomini “rinnovati” e non semplicemente con “nuovi” uomini».

Per questo il tema della conversione personale è sempre al centro dell’attenzione di Francesco: dalle omelie di santa Marta alla denuncia delle quindici malattie della Curia (qualcuno con ironia ha commentato che sono “più delle dieci piaghe d’Egitto”); dall’invito a vescovi e presbiteri ad abbandonare la “mondanità spirituale” alla richiesta di utilizzare i conventi vuoti per i poveri che sono la “carne di Cristo”.

Una costante revisione di vita, un ritorno al Vangelo per tutta la Chiesa; un intervento nella carne viva che non è indolore. La conversione spirituale, si pone quasi come una pre-condizione per realizzare gli elementi centrali della riforma, che sono la conversione pastorale e missionaria.

Bergoglio ritorna spesso al tema della sinodalità. Ha già indetto quattro sinodi e nel prossimo anno ve ne sarà un quinto dedicato proprio a questo tema. Perché questa scelta?

La scelta della via sinodale sottintende un modello di chiesa che si caratterizza: per l’ascolto dei fedeli e del loro “fiuto” cioè del loro senso della fede; per un’autorità e per un potere intesi come servizio; per una diversa modalità di intendere il ruolo del papa. Una Chiesa caratterizzata dalla sinodalità potrebbe favorire anche un ripensamento delle forme con le quali il Vescovo di Roma esercita la sua autorità e i suoi poteri.

Si tratta di instaurare una circolarità della comunicazione tra i fedeli e la gerarchia con un duplice movimento dal basso verso l’alto e viceversa.

La via sinodale è anche un percorso “educativo”. Bergoglio crede che un confronto vero aiuti la maturazione reciproca e possa favorire la conversione pastorale richiesta dal “cambiamento d’epoca”. Non è senza significato il fatto che i temi dei sinodi abbiano riguardato questioni sulle quali la vita pastorale è in grave crisi: la famiglia, i giovani e la situazione di una terra di missione come l’Amazzonia.

Francesco tra l’altro ha varato una riforma del Sinodo che responsabilizza fortemente i vescovi anche sul piano dell’elaborazione del magistero. Ora diversamente dal passato, a conclusione dei lavori, i padri sinodali devono produrre un documento organico sul tema in discussione, che il papa potrebbe anche assumere direttamente nel suo magistero.

Non si può però ignorare che una nutrita minoranza di vescovi, manifestatasi in tutti e quattro i sinodi, non sembra favorevole al metodo della sinodalità.

Francesco ha preso di petto due questioni: l’abuso sui minori e la riorganizzazione degli organismi economici della Santa Sede, ma quali risultati ha ottenuto fino ad ora?

Gli interventi relativi alla legislazione sulla giustizia hanno consentito di scrivere un nuovo capitolo circa la condanna degli abusi sui minori e le persone vulnerabili da parte del clero. Significativi l’obbligo di denuncia alla giustizia civile e l’Istruzione (2019) con la quale si toglie il segreto pontificio per le denunce, i processi e le decisioni riguardanti gli abusi.

Inoltre, non si deve sottovalutare l’Incontro dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali del mondo per un pubblico esame di coscienza sul tema e aiutarli a superare in proposito la “cultura del silenzio”. Dobbiamo anche essere consapevoli che ora per completare questa dolorosa operazione verità molto dipende dalla volontà e dalle scelte delle Conferenze episcopali nazionali.

Circa la gestione economica credo non sia di poco conto il fatto che gli interventi di riorganizzazione dei vari organismi (Ior, Apsa, …) e l’aggiornamento della normativa hanno fatto sì che lo Stato della Città del Vaticano sia stato tolto prima dalla lista nera dei paesi “paradisi fiscali” e, in un secondo tempo, da quella dei paesi con una legislazione inadeguata per contrastare il riciclaggio.

Una caratteristica dell’azione pastorale di Francesco è la dimensione sociale dell’evangelizzazione, fino a dare vita agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (Immp). Qual è il senso di una scelta così forte?  

A differenza dei suoi predecessori, il papa argentino non si limita a condannare l’ingiustizia sociale, invita a trarne anche le conseguenze operative. Per liberare i popoli dalle ingiustizie e dalle marginalità il Popolo di Dio non può limitarsi a “fare la carità”. Non ci si può limitare ad una risposta individuale “ad una mera somma di piccoli gesti personali”, occorre collaborare con tutti “per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri”. Una sorta di invito alla rivoluzione, che con Paolo VI abbiamo imparato a chiamare “promozione umana”.

La dimensione sociale dell’evangelizzazione rimarca Francesco, in continuità con Paolo VI, è nel cuore stesso del Vangelo che propone la vita comunitaria e l’impegno per gli altri.

In quest’ottica va collocato il sostegno agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari, che si presenta come una strategia “per promuovere l’organizzazione degli esclusi” al fine di costruire il cambiamento sociale dal basso.

In questi giorni ricorre l’ottavo anniversario dell’elezione di Bergoglio al soglio di Pietro e in molti, anche di coloro che non gli sono ostili, sembrano delusi dal governo di Francesco. Molti dossier aperti senza che se ne veda la possibile conclusione….

Non mi sento di condividere queste valutazioni. Non si può sottovalutare il fatto che in un tempo breve Francesco abbia rimesso la Chiesa in cammino su molte strade e abbia avviato un processo che, per quanto aperto e incompleto, ha innescato la dinamica del cambiamento.

L’osservazione però rimanda al metodo di governo che Francesco utilizza; la risposta credo stia nel primo dei quattro principi esposti nell’Evangelii gaudium: il tempo è superiore allo spazio. Ciò significa avviare processi, mettersi in cammino. È il principio fondamentale che consente, strada facendo di tenere conto delle situazioni e di adeguare il percorso prima di giungere alla decisione finale. In una istituzione dove c’è una tradizione secolare di pensiero strutturato tutto questo indubbiamente disorienta.

Non si può, però, dire che Francesco non governi. Pensiamo alle decisioni riguardanti tutta la partita della riorganizzazione degli organismi economici e degli abusi nei confronti dei minori di cui abbiamo parlato prima.

Occorre considerare che i diversi processi avviati si possono dispiegare solo in un tempo lungo. Alcuni di questi li potrà concludere lui stesso, la conclusione di altri saranno nelle mani del suo successore. L’intento riformatore di Francesco è di tale ampiezza che necessariamente eccede il suo pontificato.

“È tempo di scuotere la polvere dai vostri calzari. Lettera ai fratelli e alle sorelle espulsi da Bose”. Un testo di Riccardo Larini e un comunicato di Enzo Bianchi

Enzo Bianchi (Ansa)

La vicenda della Comunità di Bose, e del suo Fondatore (Enzo Bianchi), ha segnato, nei giorni scorsi, un’altra tappa molto dolorosa per Enzo Bianchi. Infatti alla vigilia della partenza per il viaggio apostolico in Iraq, nel corso dell’udienza, avvenuta due giorni fa, a padre Amedeo Cencini, delegato Pontificio per la Comunità monastica di Bose, con il Priore della medesima, Fr. Luciano Manicardi, papa Francesco “ha manifestato la sua sollecitudine nell’accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l’esecuzione”, riferisce un comunicato della Santa Sede. Il Pontefice ha pertanto confermato che il fondatore Enzo Bianchi deve lasciare la Comunità. La reazione, al provvedimento Vaticano, è stata, per i tanti amici di Enzo Bianchi, di profonda amarezza e dolore. La vicenda ha, ancora, lati non chiari. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione di Riccardo Larini, il testo di una lettera aperta a Enzo Bianchi scritta dallo stesso Larini (teologo ed ex monaco di Bose). Pochi minuti fa Enzo Bianchi, sul suo sito, ha pubblicato un comunicato in cui da la sua spiegazione dei fatti. Lo pubblichiamo, in fondo alla lettera di Larini, per completezza d’informazione

Caro Enzo,
inizio col rivolgermi a te, non per fare graduatorie di merito o ignorare (come hanno fatto in troppi) gli altri fratelli e sorelle che sono stati, inutile usare un eufemismo, espulsi da Bose, ma perché è palese che è soprattutto a causa tua (il che non vuol dire per colpa tua) che si sono riversati anche sugli altri l’odio e la furia dei parabolani/talebani che hanno preso in mano i destini della comunità che tu hai fondato, supportati da un’istituzione ecclesiale che sembra aver dimenticato ormai del tutto il vangelo e che ha optato palesemente per il ricorso a strumenti totalitari, degni dei peggiori regimi al mondo. Il tutto, infine, sotto gli occhi compiacenti e in larga misura complici di una stampa cattolica che conferma l’attuale abbandono della traiettoria conciliare da parte della chiesa italiana.

Non intendo con questa lettera aperta gettarmi in ulteriori analisi delle divisioni occorse e delle tue eventuali corresponsabilità, che mai ho negato e che non sono il punto fondamentale della questione. Già mi sono espresso con molta chiarezza dalle pagine del mio blog e non solo, e da persona franca e libera quale sono non ho nascosto nulla mentre imperversavano in rete le fazioni, e soprattutto ho sempre detto direttamente in faccia a tutti (te compreso, come ben sai) quelle che ritenevo essere deviazioni dal vangelo, esortando tutti e ciascuno unicamente alla carità, al dialogo e alla riconciliazione.
Voglio dirti innanzitutto che ammiro profondamente la lealtà alle vostre chiese di appartenenza che tu, Antonella, Goffredo e Lino avete sempre mostrato, confermandola anche in questa occasione. Siete cattolici, alla chiesa cattolica avete dedicato sempre in primis la vostra appassionata opera di testimonianza e di riflessione, e ad essa avete deciso di appellarvi anche in questi travagliatissimi mesi.

Come sai io non mi riconosco da oltre un decennio in alcuna chiesa, e pur avendo sperato che il Vaticano II avesse avviato un cammino di risanamento dell’enorme vulnus inferto al vangelo dal Vaticano I, mi sono convinto da tempo che una vera riforma sia intrinsecamente impossibile nel cattolicesimo istituzionale, e che si possa essere pienamente cristiani anche senza appartenere formalmente a una confessione o senza fare riferimento ad alcuna autorità ecclesiale.

Il mio essere “diversamente cristiano” non mi porta tuttavia mai a fare “il tifo contro” nessuna chiesa o comunità, ma soltanto a cercare di favorire i semi di vangelo e di riconciliazione sparsi ovunque. Ciò nonostante, se un tempo ritenevo, con il grande teologo anglicano Richard Hooker, che si potesse parlare di infallibilità della chiesa “eventually”, prima o poi (dunque senza alcuna certezza o strumento incrollabile), sono ormai convinto che l’unica cosa che sia veramente infallibile è il vangelo, e l’unica figura umana pienamente degna di fiducia sia Gesù di Nazareth.

Caro Enzo, non so se posso chiamarti “amico”, nel senso che l’amicizia è fatta di intimità, di rapporti preferenziali, di complicità che non so se ho mai intrattenuto con te. Sicuramente, però, ti posso e ti voglio chiamare “fratello”. Sei fratello perché da te ho imparato molte delle cose più importanti in assoluto per la mia vita, in primis il primato del vangelo e l’importanza della misericordia, oltre alla passione per la conoscenza e la fatica del pensare. E con me hanno imparato queste cose dalla tua testimonianza personale decine di migliaia di persone, in Italia e non solo.

Carissimi Antonella, Enzo, Goffredo, Lino,
e voi tutti fratelli e sorelle di Bose che vi riconoscete ancora nei valori fondamentali del vangelo ma ora vi sentite contraddetti, avviliti o perfino umiliati, io non ho e non avrò mai l’ardire di dirvi: “Fatevi carico di questa croce”. Come ho già scritto altrove, solo il Signore può dirvelo, e solo voi potete riconoscere la sua voce e decidere cosa sia e cosa non sia una sua croce da portare. Se altri cercano di identificare per voi le vostre croci, oltre a essere superficiali e inumani, sono molto vicini alla bestemmia. Dio vuole che viviamo, non che moriamo, oppure è un idolo in cui non bisogna credere neppure un istante.

Posso solo ricordarvi, umilmente, come vostro fratello, ciò che Enzo stesso ci ha insegnato e ha spesso ripetuto, e cioè che nessuno può impedirci di vivere il vangelo, neppure la chiesa. Voglio perciò innanzitutto ringraziarvi pubblicamente per avere cercato un dialogo, da veri cristiani, con chi vi colpiva in maniera potenzialmente mortale. La ragione, infatti, non sta mai da una parte sola, e pur compiendo anche voi i vostri errori sono pienamente cosciente della vostra costante ricerca e attesa di soluzioni più umane e cristiane alla crisi profonda che ha colpito la vostra (oso dire “nostra”) comunità.

Voglio ringraziarvi per avere cercato una ricomposizione in primo luogo per vie ecclesiali e non per tribunali. Si tratta di una scelta per nulla scontata. Il diritto a un processo equo è infatti uno dei capisaldi della Dichiarazione Fondamentale dei Diritti Umani del 1948, e il diritto canonico contiene (e fa uso di) strumenti in chiarissimo contrasto con questo documento fondamentale dell’umanità. La vostra decisione è ancor più degna di rispetto perché sicuramente, in sede civile, risulterebbe impossibile privarvi di ciò che avete largamente contribuito a realizzare sul piano materiale. E aggiungo che se anche decideste di appellarvi in futuro ai tribunali secolari, compirete un atto legittimo che non cambierà certamente la mia considerazione per voi.

Giunti a questo punto, però, visto che dall’altra parte si è voluta sancire antievangelicamente la definitività dell’allontanamento di alcuni di voi o l’inaccettabilità delle vostre posizioni o addirittura dei vostri dubbi in generale, credo che l’unico modo che avete per continuare a vivere il vangelo sia, come dice Gesù, prendere congedo da Bose “scuotendo la terra di sotto i vostri piedi a testimonianza per loro” (Mc 6,11).
Scuotendo la polvere si affermano infatti due cose fondamentali.

Innanzitutto è un gesto che avviene dopo che si è annunciato e chiesto di condividere uno stile evangelico e si è ricevuto in risposta un diniego. Perciò non solo è lecito ma è anzi un bene andare a vivere altrove il vangelo, senza sprecare energie in logiche di distruzione o di morte, o anche solo di tristezza e di impoverimento spirituale.

Ma è anche una chiara presa di distanza, in cui si dice: vi lasciamo anche la polvere di questo suolo, perché è suolo arido che non sentiamo più nostro.
Il monachesimo ha portato splendori ma anche talvolta oscurantismi nella storia umana e dello spirito. Ha prodotto figure meravigliose e gruppi di fanatici pronti a lacerare una donna straordinaria come Ipazia sull’altare delle loro chiese.

C’è un modo altro, però, di vivere il radicalismo cristiano, carissimi fratelli e sorelle. Il “siamo semplici cristiani” è l’intuizione forse più cruciale di chi ha dato vita all’esperienza di Bose, sulla scia di esperienze esemplari come quella di sorella Maria a Campello, a cui vi invito a tornare come fonte e ispirazione, pur con i tratti tipici delle vostre ricche personalità.

Sono certo che saprete continuare a essere semplici cristiani e a testimoniare il vangelo. Io sarò sempre al vostro fianco, perché sono vostro fratello nel Signore

Riccardo Larini

Dal sito: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/03/06/e-tempo-di-scuotere-la-polvere-dai-vostri-calzari-lettera-ai-fratelli-e-alle-sorelle-espulsi-da-bose/?fbclid=IwAR3oxM73IfWNKDluDqDPnamTEHWFdsjU1E3A4r4YObHguT_VjL6FnpxAEZs

Comunicato di fr. Enzo Bianchi, fondatore di Bose

Questo comunicato è stato redatto per essere pubblicato il 9 febbraio 2021 in risposta al comunicato dello stesso giorno del delegato pontificio e a quello apparso sul sito di Bose. Tuttavia, per obbedienza, e ripeto solo per obbedienza, ho continuato a mantenere il silenzio fino ad oggi.

Silenzio sì, assenso alla menzogna no!

Nel Decreto del Segretario di Stato consegnatoci il 21 maggio 2020, veniva chiesto a me, a due fratelli e a una sorella l’allontanamento da Bose a causa di comportamenti a noi mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l’esercizio del ministero del priore di Bose, fr. Luciano Manicardi. Pur non avvallando le calunnie espresse nel Decreto, coscienti che non ci era consentito l’esercizio del diritto fondamentale alla difesa (come sancito dalla Carta dei diritti umani e dalla Convenzione europea) abbiamo obbedito al Decreto.

Ho immediatamente iniziato la ricerca di un’abitazione adatta a me e alla persona che mi assiste, dove poter anche trasferire la vasta biblioteca necessaria al mio lavoro e l’ampio archivio personale. Dopo mesi di ricerca condotta anche da agenzie specializzate, ricerca complicata altresì dall’emergenza sanitaria del Covid-19, non ho trovato nulla di confacente alle mie esigenze. I costi per l’acquisto di una casa in campagna (sempre superiore a 500.000 euro) o di un affitto di un alloggio in città restavano eccessivamente elevati rispetto alle mie possibilità economiche e alla scelta di una vita sobria che ho sempre condotto.

A queste difficoltà si aggiungono la mia età avanzata e le precarie condizioni di salute: gravissime difficoltà di deambulazione causata da una seria sciatalgia, una grave insufficienza renale che non permette alcun intervento chirurgico risolutivo, ai quali si aggiunge una patologia cardiaca. É a seguito di questa situazione e non per altre ragioni, che non ho potuto lasciare l’eremo nel quale vivo da più di quindici anni e si trova dietro alla collina della Comunità di Bose. Alla consegna del Decreto ho da subito interrotto ogni rapporto con i membri della Comunità, incontrando soltanto un fratello incaricato dal priore per la mia assistenza quotidiana. Pertanto, l’allontanamento concreto l’ho realizzato ma non abbastanza lontano come indicato dal Decreto.

Nell’ottobre 2020, direttamente dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin mi è giunta la proposta di trasferirmi presso la fraternità di Bose a Cellole, sita in S. Gimignano (Si), insieme ad alcuni fratelli e sorelle che si sarebbero resi disponibili, così da attuare pienamente il Decreto e trovare una soluzione per la mia residenza fuori comunità.

A questa proposta, il priore di Bose, l’economo della comunità e il delegato pontificio hanno da subito posto alcune condizioni, tra le quali la perdita di tutti i diritti monastici per i fratelli e le sorelle che si sarebbero trasferiti a Cellole nella condizione di extra domum. Fu mia premura informare il Segretario di Stato che la condizione alla quale venivano ridotti questi fratelli e sorelle era in aperta contraddizione con il can. 665 com. 1 del Diritto canonico vigente, avvalorato dall’interpretazione data dal documento “Separazione dall’Istituto. Extra domum, esclaustrazione e secolarizzazione” redatto dal Gruppo Segretari/e di Roma del 12 novembre 2013.

Il 13 novembre del 2020, il Cardinale Parolin, in una lettera a me indirizzata, accoglieva le mie osservazioni, chiedendomi di trasferirmi a Cellole con alcuni fratelli e sorelle disponibili, da me scelti in intesa con il priore di Bose, i quali avrebbero vissuto come monaci extra domum ma conservando tutti i loro diritti monastici. Cellole non sarebbe stata più una fraternità di Bose ma comunque una fraternità monastica in cui era possibile la presenza di un fratello presbitero per la celebrazione eucaristica.
Tuttavia, l’8 gennaio 2021 mi giungeva il decreto del delegato pontificio con le disposizioni per il trasferimento a Cellole, e in allegato un contratto di comodato d’uso gratuito precario che avrei dovuto firmare immediatamente. Il contratto, ideato e redatto dell’economo di Bose fr. Guido Dotti e approvato del priore di Bose fr. Luciano Manicardi e del delegato pontificio, poneva le seguenti condizioni:

1. Il decreto del delegato pontificio ingiunge a fr. Enzo Bianchi di trasferirsi a Cellole senza sapere né identità né numero dei fratelli e delle sorelle che sarebbero andati a vivere con lui.
2. Nel contratto di comodato si prevede che l’Associazione Monastero di Bose, nel suo rappresentante legale fr. Guido Dotti, può cacciare da Cellole in ogni momento, su semplice richiesta e senza motivarne le ragioni, fr. Enzo Bianchi e quanti vi risiedono con lui.
3. Il contratto di comodato d’uso concede gli edifici del priorato di Cellole stralciando però intenzionalmente i terreni annessi all’edificio e necessari per la coltivazione, per l’orto e per la provvigione dell’acqua durante l’estate.
4. Si dichiara che ai monaci e alle monache di Bose che vivranno a Cellole è vietato non solo fare riferimento a Bose, ma anche affermare di condurre vita monastica o cenobitica: potranno semplicemente definirsi come coloro che danno assistenza a fr. Enzo Bianchi, pertanto ridotti a meri “badanti”.

Anche alla mia richiesta che a Cellole ci fosse un fratello idoneo designato a guidare la comunità, il delegato pontificio ha risposto che “non c’è alcun priore, né responsabile, né presidente del gruppo a Cellole, né vita monastica né vita cenobitica”. Ai monaci e alle monache di Bose presenti con me a Cellole ai quali erano riconosciuti dal Segretario di Stato tutti i diritti monastici era tuttavia espressamente vietata la vita monastica. Con tutta evidenza, questa imposizione risulta lesiva della dignità personale e dei diritti monastici fondamentali di questi fratelli e sorelle che vivono a Bose anche da quarant’anni. Se a Cellole è loro vietato di condurre vita monastica, essi cosa vivono? Vengono loro riconosciuti i diritti monastici ma è loro espressamente vietata la sostanza della vita monastica.

A queste condizioni, che non sono mai state rese note alla comunità, io non ho mai dato il mio assenso, perché mi sembrano disumane e offensive della dignità dei miei fratelli e delle mie sorelle. Il decreto del delegato pontificio pone con tutta evidenza me e quanti con me vivono a Cellole in una condizione di radicale precarietà, obbligandoci a vivere perennemente nell’angoscia di essere cacciati in ogni momento e per qualsiasi ragione. Se alle indicazioni del Segretario di Stato avrei sempre potuto ubbidire, alle modalità di realizzazione dettate in particolare da fr. Guido Dotti non ho mai potuto dare il mio assenso.

Per queste ragioni, per la quarta volta, il 2 febbraio scorso ho comunicato al delegato pontificio e al priore, tramite lettera consegnata nelle sue mani, la mia decisione di non trasferirmi a Cellole alle condizioni poste da loro. Inoltre, per amore della Chiesa e in particolare della diocesi di Volterra, del suo vescovo Alberto Silvagni padre veramente premuroso, di tutte le persone che da otto anni frequentano l’eucaristia domenicale e la liturgia delle ore quotidiana e che hanno tessuto vincoli ecclesiale e spirituali con la fraternità di Cellole, non posso in coscienza accettare che una fraternità di così grande valore monastico fosse chiusa al semplice scopo di diventare una casa privata destinata a me e a chi mi assiste. Ribadisco tutto il mio dolore per una chiusura decisa improvvisamente e in questa modalità e non certo per volontà mia. Il delegato pontificio e il priore di Bose, ignorando questa mia decisione a loro tempestivamente comunicata per iscritto di non trasferirmi a Cellole, hanno ugualmente pubblicato il 9 febbraio 2021 i rispettivi comunicati ufficiali, omettendo gravemente di rendere nota la mia decisione, anzi dicendo che io avevo accettato di trasferirmi a Cellole, alterando in tal modo la verità dei fatti.

Per questo, dall’inizio di febbraio, ho ricominciato la ricerca di una dimora in cui poter vivere la vita monastica e praticare l’ospitalità come sempre ho fatto tutta la mia vita a Bose: alla mia vocazione non intendo rinunciare.

Non ho nulla in più da comunicare almeno PER ORA. GIUDICATE VOI!

Di quanto qui scritto sono disposto a mostrare i documenti che lo provano.

Fr. Enzo Bianchi
fondatore di Bose

DAL SITO.
https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/114743/comunicato-di-fr-enzo-bianchi-fondatore-di-bose?fbclid=IwAR0TpzKcLfrAuYLf-6e99dHeO_krXkJcUbUS3fiwFWX9mZxg8wkco0fjQ3c

Padre Sorge, da Sturzo aI Concilio Vaticano II. Intervista a Rocco D’Ambrosio

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

Padre Bartolomeo Sorge (Ansa)

La morte di Padre Bartolomeo Sorge, avvenuta ieri mattina a Gallarate, ha lasciato un grande vuoto nel cattolicesimo italiano. Ma è tutta la cultura del nostro Paese che piange la scomparsa del grande gesuita. Con il professor Rocco D’Ambrosio, docente di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana, in questa intervista ripercorriamo alcuni punti del suo pensiero.

Professore, il cattolicesimo italiano è in lutto. La morte di Padre Bartolomeo Sorge, gesuita ex direttore di Civiltà Cattolica e di Aggiornamenti Sociali, lascia un grande vuoto nel pensiero cattolico sociale contemporaneo. Per alcuni in padre Sorge ha incarnato, in modo esemplare, la teologia del Concilio Vaticano II. È così professore?
Certamente si! Il suo pensiero e il suo agire ecclesiale sono in perfetta linea di attuazione del Vaticano II. Tutte le volte che ho avuto modo di confrontarmi con lui ho sempre avuto la percezione che il suo profondo spirito conciliare partisse dal desiderio di rinnovare la nostra spinta di evangelizzazione, senza mai disgiungerla da un’attenta analisi della realtà sociale e politica. Lo dico anche relativamente a quando, da discepolo, non condividevo la sua linea magisteriale: mi riferisco alla “ricomposizione dell’area cattolica”. Su di essa gli presentavo diverse perplessità, eppure anche in esse la sua intenzione era limpida: non perdere il patrimonio di pensiero sociale cattolico e permettere che potesse ancora ispirare azioni positive; al di là delle strategie pratiche.

Padre Sorge non è stato solo un raffinato teologo ma è stato un precursore della “Chiesa in uscita” di Papa Francesco. Ricordiamo, a questo proposito, il grande convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e Promozione umana”. Una Chiesa che si fa prossimo all’uomo contemporaneo.
Il Convegno “Evangelizzazione e promozione umana” del 1976 fu presieduto dal card. Antonio Poma, presidente della Cei, affiancato da mons. Luigi Maverna, da padre Bartolomeo Sorge e da Giuseppe Lazzati. Gli interventi fondamentali furono affidati a mons. Giovanni Nervo, Paola Gaiotti, Achille Ardigò, Giuseppe De Rita e mons. Filippo Franceschi. Fu un convegno decisivo per la Chiesa Italiana e Sorge ne fu fattivo protagonista e umile tessitore. L’aspetto del farsi prossimo fu conferma e sprono per tutti quei pastori e fedeli laici che erano impegnati nel mondo, specie nel servizio di carità.
Ma voglio anche ricordare una nota non tanto positiva. Qualche tempo fa, lo stesso padre Bartolomeo lamentava che “i vescovi lasciarono cadere le due principali proposte del Convegno: l’introduzione nella Chiesa italiana dello «stile del con- venire» (come allora si chiamava la «sinodalità») e la nuova concezione di missionarietà, diversa dalla pastorale classica tradizionale” (La Civiltà Cattolica, q.4062). Parole su cui meditare tanto, visto che, i diversi appelli di papa Francesco per un sinodo della Chiesa italiana, sono ancora inascoltati da pastori e fedeli laici!

Come intende, profondamente, la sua ammirazione per l’arcivescovo martire
del Salvador Oscar Romero. Una fede per liberazione. È così? 
È certamente così. Padre Bartolomeo ha saputo cogliere il nucleo profondo della teologia della liberazione, proprio attraverso testimoni autentici quali Romero. Questo ci permette di sottolineare come il patrimonio di altre Chiese, specie relativo alla testimonianza nel mondo, può diventare fecondo anche in Chiese lontane, purché ci sia un lavoro di studio e discernimento profondi, che superando le riduzioni giornalistiche o i protagonismi pacchiani, aiutano le nostre chiese a essere sempre più autentiche, “in uscita” direbbe papa Francesco.

Padre Sorge è un vero maestro di dottrina sociale della chiesa e, quindi, un vero intellettuale politico. In questo senso qual è la sua eredità di pensiero per i cattolici impegnati in politica?
Parlerei di un’eredità pensata e attiva. Vede, la dottrina sociale, o magistero sociale della Chiesa cattolica, è spesso citata in maniera retorica e sterile, cioè la si pensa solo come una raccolta di grandi principi etici. Era proprio padre Sorge a ricordare spesso la Octogesima adveniens di Paolo VI: “Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito santo, – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi”. Se i cattolici non si impegnano concretamente per il bene del nostro Paese e del mondo, se le comunità non pongono segni in controtendenza con chiusure, illegalità e mafia, razzismi, corruzione, populismi e liberismo sfrenato… meglio non citarla la dottrina sociale! Anche questo ci ha insegnato padre Bartolomeo.

È stato anche un grande uomo di dialogo. Insomma una vita contro ogni forma di integralismo. È così?
Si lo è. Ed è bello ricordare non la sua “testa” ma anche il suo cuore e i suoi modi: un tratto gentile, pieno di humour, cordiale e affettuoso. Lode a Dio anche per questi suoi doni!

Non si può dimenticare il suo impegno antimafia nella stagione della “Primavera di Palermo” La politica vista come ribellione etica e culturale alla non cultura mafiosa. Anche questa è una preziosa eredità. È così?
Ricordo una volta che andai in aeroporto a prenderlo perché partecipasse a uno degli incontri con le scuole di Cercasi un fine. Mi raccontò di Palermo, del suo impegno li, della collaborazione con padre Pintacuda e soprattutto di lotta alla mafia mafia e impegno alla legalità. In alcuni momenti le parole erano così cariche di emozioni e tensioni da poter palpare il tutto. Ma poi o una battuta o un riferimento “alto” gli facevano riacquistare un sorriso carico di speranza.

L’ultima sua battaglia politica e culturale è stata contro il sovranismo e il populismo. Dure sono state le sue parole contro la cultura leghista. In questo è stato davvero intransigente. Quale pericolo vedeva per la democrazia italiana?
Un po’ il pericolo che vediamo tutti: sovranismo e populismo, in Italia e nel mondo, minano la democrazia sin nei suoi fondamenti. Le sue parole chiarissime: “In questo tempo si è fatta largo la convinzione che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo intero, e i leader dei movimenti populisti hanno portato all’imbarbarimento culturale, avvelenando la società italiana con odio, egoismo, discriminazione delle persone immigrate, razzismo e xenofobia”.

Ultima domanda: possiamo definire padre Sorge come il continuatore del popolarissimo sturziano?
Credo proprio di si, tra i pochissimi a farlo. Il popolarismo è una dottrina difficile: per comprenderla bisogna studiare bene sia la vita che il pensiero di Sturzo e per attuarla bisogna lavorare molto su alcuni meccanismi sociali ed economici che sono il cuor e del popolarismo. Padre Bartolomeo l’ha fatto egregiamente.