La “guerra fredda” tra il Cardinale Bagnasco e Papa Francesco. Intervista a Francesco Antonio Grana

imagesUno scontro che dura da mesi quello tra il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Cei, e Papa Francesco. Segno di una Cei allo sbando. Su questo abbiamo intervistato Francesco Antonio Grana, vaticanista de ilfattoquotidiano.it

Grana, lei, pochi giorni fa, in un articolo su ilfattoquotidiano.it, scriveva della “abissale” differenza tra il card. Bagnasco e il magistero di Papa Francesco. Non è un po’ troppo forte questo? Perché?

Sulla differenza abissale fra la Cei di Bagnasco e Papa Francesco bisogna dire innanzitutto che stiamo assistendo a uno scontro che è ormai in atto da diversi mesi, ovvero dall’autunno scorso quando Papa Francesco ha escluso il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, dalla  Congregazione per i vescovi. Questo è stato un gesto molto eloquente che non ha precedenti: mai infatti un presidente della Cei era stato escluso dal dicastero della Curia romana che si occupa di scegliere i vescovi nei paesi di antica evangelizzazione, Europa in primis. Questo gesto è certamente l’inizio di un conflitto fra i due abbastanza evidente a cui sono seguiti altri segni altamente significativi. Cosa ci dice l’esclusione di Bagnasco dalla Congregazione per i vescovi? È un segno di grande disistima del Papa verso Bagnasco perché i membri di questo dicastero provvedono alle nomine episcopali, cioè a valutare i sacerdoti che possono diventare vescovi e i trasferimenti dei presuli da una diocesi all’altra. Bagnasco non solo è stato escluso, ma è stato sostituito, nella Congregazione, con il vicepresidente della Cei più anziano per elezione, ovvero monsignor Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia. Lo stesso Bassetti ha ricevuto poi subito dopo la porpora da Papa Francesco.  Il conflitto tra Bergoglio e Bagnasco è abbastanza evidente e il Papa non ha ricevuto l’arcivescovo di Genova alla vigilia della prolusione di gennaio del Consiglio episcopale permanente della Cei, come è prassi, mentre invece lo ha ricevuto alla vigilia dell’ultimo Consiglio episcopale permanente,  quello di marzo. E poi, ultimo gesto forte di questo grande contrasto fra i due, è stata la decisione del Papa di aprire l’assemblea generale annuale della Cei di maggio in Vaticano pronunciando la prolusione che di norma spetta al presidente della Conferenza episcopale italiana. Quindi, come si vede, il conflitto non solo esiste ma è molto forte e nasce dalla visione periferica della Chiesa che ha Papa Francesco. Da non dimenticare che Bergoglio è stato anche presidente della Conferenza episcopale argentina e conosce bene i meccanismi di queste istituzioni. La Cei, oggi totalmente allo sbando, non ha saputo orientarsi sulle linee del pontificato di Bergoglio

Quali sono, nella Cei, gli oppositori di Papa Francesco?

Certamente l’oppositore principale è il presidente della Cei, il cardinale Bagnasco, che in questo momento svolge un ruolo assolutamente imbarazzante, e certamente sarà ancora più imbarazzante quello che avverrà a maggio quando il Papa, davanti a oltre duecento vescovi italiani, pronuncerà la prolusione togliendogli di fatto il microfono, come ho scritto su ilfattoquotidiano.it. È una chiara delegittimazione della leadership di Bagnasco. Il presidente della Cei in questo momento farebbe bene a rimettere il mandato non avendo più la fiducia del Santo Padre. La disistima di Francesco verso Bagnasco evidentemente si ripercuote a catena sui suoi confratelli dell’episcopato italiano.

Una figura importante nella Cei, in questo momento, è quella di mons. Nunzio Galantino…

Sì, il Papa ha scelto come segretario generale della Cei il vescovo di Cassano, monsignor Nunzio Galantino, abbastanza giovane per ordinazione episcopale, è vescovo da appena due anni. Francesco ha per lui un’attenzione privilegiata perché lo ha scelto in questa fase di transizione molto difficile per la Cei, chiamandolo a traghettare questa istituzione verso l’elezione del suo presidente. Il Papa vuole, infatti, che la Cei, come avviene in tutte le altre conferenze episcopali del mondo, elegga il suo presidente. Attualmente solo nel nostro Paese egli è nominato dal Papa che è primate d’Italia. Francesco ha scelto Galantino come suo braccio destro, come suo uomo di fiducia e adesso l’ha confermato segretario generale della Cei per cinque anni. Con un altro segno di grande affetto Bergoglio ha deciso di visitare, nel prossimo mese di giugno, la diocesi di Cassano. Quindi se da un lato Bagnasco è l’oppositore del Papa, Galantino è l’uomo che in questo momento sta cercando di concretizzare quelle riforme invocate da Bergoglio. Bisogna anche sottolineare un’altra cosa a favore di Galantino e cioè che sta cercando di mediare molto tra le posizioni dei due, di Bagnasco e di Bergoglio. Questo gli fa onore perché non ha voluto giocare un ruolo di forza avendo la fiducia piena del Papa, ma sta cercando di consentire una transizione più serena possibile.

Un altro oppositore è Scola?

Ma no. Certo nessuno si è dimenticato che poco più di un anno fa, il 13 marzo 2013, è partito un telegramma di auguri per “Papa Scola” a firma dell’allora segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, poi nominato da Papa Francesco alla guida della diocesi di Latina, che certamente non è una grande diocesi. In quel telegramma la Cei si “sgamò”. Certamente quello è stato il segno che il candidato di Bagnasco al pontificato era Scola. Ora l’arcivescovo di Milano compare meno anche sui giornali, ma non lo vedrei come un oppositore del Papa. Anche se bisogna dire qualche visione diversa con Francesco c’è. Per esempio anche sull’Expo di Milano loro speravano che il Papa accettasse subito l’invito. Sono andati da Francesco con una delegazione insieme al cardinale Scola e invece il Papa ha risposto con un semplice “vedremo” che nel linguaggio episcopale vuol dire no.

Quindi un bilancio fallimentare quello di Bagnasco?

Oserei dire che è fallimentare con il pontificato di Papa Francesco. Un esempio significativo è questo: il Papa non è un “primus inter pares” e quindi nella Chiesa cattolica al Papa si obbedisce e se il Papa chiede ai vescovi di eleggere il proprio presidente non capisco perché debbano passare mesi e mesi di discussioni nel Consiglio episcopale permanente, da gennaio a marzo, per dire che invece bisogna portare al Papa una lista di quindici nomi. C’è tanta confusione perché evidentemente c’è la volontà di contrastare Francesco. Se il Papa chiede un’elezione, la richiesta è un atto di educazione da parte del Papa, ma al Papa si obbedisce. Quindi non capisco perché Bagnasco, e con lui i suoi fedelissimi, non abbiano obbedito al Papa che aveva chiesto semplicemente di adeguare la Cei a tutte le altre conferenze episcopali del mondo.

Quindi il disegno di Papa Bergoglio è quello di una profonda ristrutturazione della Cei… 

Sì, è cosi! Nel lungo cammino verso l’elezione del presidente certamente lui ha indicato in Bassetti una particolare predilezione. Gli ha dato la porpora, lo ha messo al posto di Bagnasco nella Congregazione per i vescovi. Però se si va all’elezione il Papa non può certo imporre un candidato, ma è l’episcopato che dovrà scegliere liberamente. Ma, certamente, i vescovi italiani non saranno miopi davanti a un segno di così grande predilezione di Bergoglio verso Bassetti. Tra l’altro è da sottolineare che egli è stato anche rettore di seminario e la sua preparazione è certamente importante per dare suggerimenti sia per contrastare e prevenire i casi di pedofilia, sia per valutare la scelta dei candidati all’episcopato. Ha un curriculum che il Papa ha apprezzato molto, però se si va all’elezione si va all’elezione. Lo stesso Bagnasco potrebbe essere paradossalmente riconfermato dai suoi confratelli. Il problema è che Bagnasco è ben consapevole di non avere la fiducia dei suoi confratelli e questo è il segno eloquente che c’è uno sfaldamento dell’episcopato italiano che è sotto gli occhi di tutti.

Quando ci sarà l’elezione per il nuovo Presidente della Cei?

Dovrebbe essere a novembre. È già indetta l’assemblea generale speciale della Cei. Adesso è importante sentire quello che il Papa dirà a maggio. In quell’occasione Francesco darà dei criteri che poi l’assemblea generale dell’episcopato italiano dovrà votare. Da li dovrà uscire uno statuto nuovo e poi a novembre ci sarà l’elezione. A questo punto si è capito che il segretario generale non verrà sostituito e si procederà soltanto con l’elezione del presidente. Dobbiamo vedere chi la spunterà. Se la Cei di Bagnasco con una sorta di listone con quindici o venti nomi come dicono, oppure Papa Francesco con un’elezione secca.

Ricordando lo spirito di Tibhirine

4ce5641beeNella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il « Gruppo Islamico Armato » ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.
I loro nomi sono:
• Christian de Chergé, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971.
• Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947.
• Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987.
• Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985.
• Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1990.
• Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987.
• Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989.

Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher.

Le circostanze della loro morte non sono mai state chiarite: c’è chi addossa tutta la responsabilità ai terroristi, altri, invece, ai servizi segreti algerini e c’è chi ipotizza che a causare il loro eccidio fu un tentativo, non riuscito, di liberarli da parte dell’esercito algerino.

Il loro martirio è un segno luminoso e drammatico di una Chiesa che si pone con spirito di fraternità nei confronti dell’Islam.

L’ideale dei monaci di Tibhirine era la “simbiosi tra esseri umani differenti, per realizzare una comunità umana e fraterna nel rispetto delle differenze” (Frère Jean-Pierre – Nicolas Ballet, Lo spirito di Tibhirine, Ed. Paoline, Milano 2014, pag. 154).

Per saperne di più sulla vita della fraternità dell’ Atlas si può visitare il sito http://www.monastere-tibhirine.org .

Nel 18° anniversario della tragedia pubblichiamo il bellissimo testamento spirituale del priore della comunità.

L’immagine che pubblichiamo è tratta dal sito: http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/tibhirine-algeria-monaci-8201/

Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé

Quando si profila un ad-Dio

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me : come potrei essere trovato degno di tale offerta ? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.
So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.
L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.
Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, et totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!
Insc’Allah

Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994 Christian

I cattolici italiani e la rivoluzione di Papa Francesco.
Intervista a Guido Formigoni.

imagesUn anno di Papa Francesco cosa è cambiato nella Chiesa italiana? Ne parliamo con il professor Guido Formigoni, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Milano, studioso del Movimento cattolico italiano.

Professor Formigoni è passato appena un anno dall’elezione al soglio Pontificio del Cardinale Bergoglio, come sta reagendo la Chiesa italiana? Vede dei segnali di cambiamento? La trova all’altezza delle sfide di Papa Francesco?

Difficile dirlo in poche parole. Ho l’impressione che la Chiesa italiana soffra di un ormai lungo periodo di verticalizzazione istituzionale, che ha progressivamente favorito comportamenti e punti di vista allineati e obbedienti. Il che ha progressivamente disabituato al confronto, al dialogo, alla ricerca di dimensioni e scelte non scontate. Si è visto in questi anni molto «terziario ecclesiastico», diciamocelo, compiaciuto di se stesso. Circola il mito dell’Italia cattolica vista come unico paese europeo che ha reagito alla secolarizzazione.  Se però si gratta sotto la superficie di un’istituzione apparentemente solida, si trova una realtà in grande sofferenza nella capacità di interpretare i tempi e di accompagnare le persone reali nel loro difficile cammino. Per questo, le sollecitazioni del papa sono suonate non tanto nuove, ma inattese, e mettersi in gioco su questa nuova lunghezza d’onda non è facilissimo. Nel popolo di Dio, d’altra parte, c’è molta sintonia con l’approccio di Francesco, anche se a volte è un po’ irriflessa e superficiale e andrebbe approfondita e sviluppata. Comunque, la Chiesa italiana nei suoi mille rivoli e meandri è una realtà che esprime ancora molta vitalità, ma conservo l’impressione che debba essere ancora liberata per potere esprimersi appieno.

Dove si collocano, secondo lei, le resistenze alla Rivoluzione di Papa Francesco?

Quelle più visibili si esprimono un po’ curiosamente ai margini, ad opera di una serie di personalità e di giornali che avevano sposato la visione neointransigente partendo dall’esterno del mondo ecclesiale (penso al «Foglio»). Sotto questa resistenza ci sono però le posizioni più rigide che nel mondo cattolico si sono sempre espresse, in nome di una fede spesso talmente schematizzata in dottrina da diventare una ideologia. Il paradosso di queste componenti è che sono molto in imbarazzo ad esprimersi, perché fa parte del loro schema mentale la concezione della Chiesa come corpo unico attorno al papa. Un papa che non è “papa-centrico” o “ecclesio-centrico”, per loro è una contraddizione in termini, che li lascia spiazzati. Ed è salutare che sia così.

La Chiesa di Wojtila e Ratzinger aveva il suo “braccio armato” in Italia nel Cardinale Ruini, e successivamente, con qualche minima differenza in Bagnasco, puntava tutto ad essere “forza politica” (vedi i così detti “valori non negoziabili”). Ora la prospettiva di Papa Francesco è tutta puntata sulla “profezia evangelica”. Riuscirà il Papa a far cambiare mentalità alla Cei? Il “progetto culturale” della Cei è superato?

Lo spunto critico rispetto al mantra dei «valori non negoziabili» contenuto nell’intervista al «Corriere della Sera» non sarà un’enciclica, ma dice moltissimo. Si tratta di cambiare approccio: la Chiesa di Ruini non intendeva secondo me essere una forza politica, ma condizionare la politica con una rigida espressione di posizioni programmatiche e legislative sui temi più delicati, presentate come l’unica mediazione possibile dei valori. Per far questo doveva dare l’impressione di essere una forza sociale compatta e solida attorno all’istituzione ecclesiastica. Anche il «progetto culturale» non era affatto un’idea peregrina, ma è stato gestito con un approccio analogamente accentrato: le voci divergenti non avevano ospitalità. Ora c’è la possibilità di valorizzare una sensibilità diversa: i valori – ha ricordato Francesco –sono tutti non negoziabili, perché sono assoluti. Non bisogna certo attenuarne la forza, ma non bisogna nemmeno irrigidirli in formule morali o legislative. Attuare i valori nella storia significa riuscire a farli comprendere dalle persone e cercare assieme – ciascuno per la sua parte – come avvicinare le vite e le esperienze associate e collettive a quell’assoluto, a quella «bellezza» che ci precede e ci mette in cammino (come ha detto all’Epifania). Nella Cei, per quanto conosca io, questa sensibilità non manca, anche se finora era forse minoranza. Speriamo sia ora possibile rilanciarla. In questa logica, però, è apparsa un po’ curiosa la scelta della Cei di non accettare le sollecitazioni per l’elezione interna del proprio presidente: quasi che i vescovi italiani ancora non vogliano esprimere la propria originalità e vogliano rimanere nell’ombra della Santa Sede.

Qual è, secondo lei, la sfida più grande per il laicato cattolico italiano che si impone con Papa Francesco?

Beh, mi pare che resti la sfida di sempre, che però può contare su un nuovo aiuto nelle sollecitazioni forti del papa. E’ la sfida della creatività e della responsabilità. Il cristiano laico non applica ricette, non si intruppa in eserciti, non segue formulari. Secondo la vocazione di ciascuno, il cristiano laico vive l’impegno di conformarsi sempre più al Vangelo e di far reagire il Vangelo con la storia, vivendo nella condizione comune degli uomini e delle donne che vivono nel nostro tempo. Qui c’è lo spazio della ricerca e della comprensione del reale, lo spazio della costruzione di itinerari e quello della progettazione. Nella «Evangelii Gaudium» ci sono pagine bellissime sulla priorità da assegnare al tempo rispetto allo spazio: meglio avviare processi che presidiare poteri. L’ancoraggio all’essenziale e la risposta alla chiamata permettono di assumere le proprie responsabilità nella libertà. E’ naturalmente una sfida non semplice, per cui occorrerebbe poter contare su un patrimonio di cultura, socialità, condivisione. Guai a chi isola, in questo cammino! Per questo sarebbe importante salvare o rilanciare i luoghi di incontro associativi o culturali, oltre che i contesti vitali del tessuto pastorale, in cui ci si possa incontrare da laici con i pastori per aiutarsi reciprocamente ed essere aiutati in questo compito non facile e ovvio.

Francesco vuole una “Chiesa povera per i poveri”, una Chiesa sulla frontiera delle “periferie esistenziali” (la visita a Lampedusa è stata emblematica al riguardo). Vede dei segnali al riguardo nella Chiesa Italiana?

L’impegno di moltissimi credenti di questo paese per i poveri e con i poveri non è in discussione.  C’è una rete di volontariato capillare, lo sappiamo, che vive ogni giorno nelle periferie esistenziali. Non è che occorra insegnare niente, sotto questo profilo. Credo che lo stimolo del papa vada colto soprattutto nella direzione di un ripensamento delle priorità istituzionali delle strutture pastorali e dei responsabili delle comunità cristiane, a partire dalla curia romana: qui c’è forse spazio per un ripensamento forte sull’uso dei beni, delle strutture, dei tempi e degli spazi. Se questo ricentramento proseguisse, una Chiesa povera e dei poveri diverrebbe molto più in grado di riportare il punto di vista degli ultimi al centro anche della prospettiva pubblica di questo paese. Che è uno dei crucci più forti che esistono: il mondo dell’impegno cristiano per i poveri e con i poveri in questo paese non riesce a esprimere una valenza politica forte.

La Chiesa della fraternità e della liberazione. Un libro di Arturo Paoli

Arturo_PaoliA quasi un anno dall’elezione di Papa Francesco, imprevista e spiazzante per l’intera comunità ecclesiale, leggere questo bellissimo libro di Fratel Arturo Paolo, religioso dei Piccoli Fratelli del Vangelo (un ramo della famiglia spirituale di Charles de Focault), Cent’anni di Fraternità, pubblicato recentemente dalla Casa Editrice “Chiare Lettere” (pagg. 164, € 12,00), ci porta alle radici della profezia cristiana. Radici che stanno molto a cuore a Papa Francesco

Arturo Paoli, ha compiuto 101 anni il novembre scorso, ha attraversato le grandi temperie del novecento: la lotta al nazifascismo (per la sua opera di salvezza di cittadini ebrei dai campi di sterminio, lo Stato d’Israele, nel 1999, gli conferisce l’alto lliberazione in America Latina (Argentina, Venezuela e Brasile in particolare). La sua testimonianza di vita e di fede hanno permeato in profondità le comunità ecclesiali di base dell’America Latina. Tanto da essere considerato un precursore, e splendido testimone della “teologia della liberazione” (uno dei frutti più belli e significativi del post-concilio).

Maestro spirituale, e profeta mite, Paoli è un uomo “tellurico”, un uomo unitario, come tutti i profeti “non può da una parte pensare e dall’altra vivere” e tutta la sua vita è costellata dall’unità di pensiero e vita. La sua testimonianza è la sintesi di quel pensiero del teologo francese Teilhard de Chardin: amorizer le monde. Ecco segnato il compito della fede: non vivere astratta dal mondo, ma, al contrario, “alleggerire la terra” con opere di giustizia a partire dagli ultimi (i dannati della terra).

Tutto il libro è un inno alla liberazione integrale dell’uomo.

Due sono i piani dove si gioca la credibilità del cristianesimo: la prima liberazione tocca la liberazione dei poveri e degli sfruttati. Per Paoli, infatti, tutto il Vangelo “è una denuncia contro coloro che stanno sopra”, e qui è in gioco la stessa “immagine” di Dio: perché “Dio si trasforma in un’immagine tirannica se l’uomo non lo raggiunge per il cammino della relazione con gli altri”. E per Arturo Paoli sta qui, in questa “nuova arca “ della salvezza, cioè nella capacità della Fede di costruire nuove relazioni umane che si gioca il futuro dell’umanità. Quindi se è vero che esiste una realtà più profonda dell’economico l’’essere umano fa i conti nella realtà con l’economico e il politico. Per cui, per l’autore, “rinunziare a guardare in faccia l’economico è come svuotare la croce di Cristo”.E la rivoluzione evangelica, come ci ricordano le “Beatitudini” è fatta da quelli che hanno fame e sete della giustizia. Che altro è se non mettere in discussione l’antiregno dell’attuale sistema capitalistico?

Il secondo piano della liberazione riguarda proprio il cristianesimo. Ovvero è la battaglia contro la riduzione della fede a ideologia che difende i privilegi e diventa strumento di oppressione della lotta per la giustizia, come è avvenuto nell’Argentina di Videla. Questa ideologia ha “portato i Vescovi dell’Argentina ad aderire con un tacito assenso alla furia diabolica dei militari (…) con la complicità della Nunziatura apostolica, dunque del Vaticano”. Così In nome della così detta “civiltà cristiana” sono stati commessi enormi crimini contro l’umanità, non è un caso afferma Paoli che, nella storia, le “nazioni cristiane sono quelle che hanno creato più guerre”. Le parole di Paoli sono dure, sono le parole di un profeta di questo nostro tempo affaticato. Sono le parole, come le definisce il premio Nobel per la pace Perez Esquivel, di un “anticonformista resistente”. Parole che interpellano, motivano e cercano di scuotere le coscienze”.

Pochi giorni fa Fratel Arturo Paoli è stato ricevuto in Vaticano da Papa Francesco. L’incontro e’ durato circa 40 minuti ed e’ stato all’insegna della piu’ cordiale sintonia. “Forse – ipotizza il teologo Vito Mancuso – sta nascendo un Magistero della liberazione! Adelante Francisco!”.

Così rinasce la speranza cristiana.

La rivoluzione “solitaria” di Papa Francesco. Intervista a Marco Politi

UnknownL’elezione di Papa Francesco al soglio pontificio è stato, sicuramente, l’evento più significativo di questo anno 2013. Una vera rivoluzione sta avvenendo nella Chiesa Cattolica. Facciamo con Marco Politi, vaticanista del “Fatto Quotidiano” un primo, provvisorio, bilancio su questa “rivoluzione” in atto nella Chiesa Cattolica.

Politi, grande è l’entusiasmo popolare che circonda Papa Francesco . Questo è favorito anche dalla sua capacità di comunicazione. La sensazione però è che sia un Papa solo. Su quali forze può contare Francesco?

L’entusiasmo popolare per Francesco, che tra l’altro coinvolge anche gli ambienti di altre religioni, e anche agnostici e atei, consiste anche nel fatto che il Papa presenta una Chiesa non burocratica, ma che accompagna uomini e donne nella loro fragilità e nelle difficoltà dell’esistenza, in questo senso il Papa si muove come discepolo di Cristo. Contemporaneamente il Papa ha iniziato una rivoluzione nella fisionomia del Vaticano, perché il Papa ritiene che la Curia non vada soltanto resa efficiente, ma vada cambiata come strumento, non solo al servizio dei pontefici, ma dell’episcopato mondiale. Il Papa vuole realizzare il principio di collegialità sancito dal Concilio Vaticano II, secondo cui la Chiesa universale non è governata da un sovrano solitario, ma dal Papa con l’insieme dei Vescovi. Infatti il Papa ha già creato un organismo consultivo, rappresentativo di tutte le realtà mondiali, quello degli otto cardinali. Però a tutt’oggi non si vede, non è visibile, non è attivo nel mondo ecclesiastico un “partito” di Bergoglio, che lo appoggi e gli episcopati nazionali finora sono molto inerti. Continua a leggere