Galli Della Loggia e Ruini: nostalgici della Chiesa d’ordine. Intervista a Guido Formigoni

Nell’opinione pubblica cattolica italiana hanno fatto discutere gli interventi, nei giorni scorsi, di Ernesto Galli Della Loggia e di Camillo Ruini. Rispettivamente storico, Galli della Loggia, ed ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Camillo Ruini. Due interventi che hanno toccato il postconcilio e l’attuale pontificato. Cerchiamo, in questa intervista, con il professor Guido Formigoni, ordinario di Storia Contemporanea  all’Università IULM di Milano, di approfondire il significato di queste prese di posizione.

 

Guido​ Formigoni (Augusto Casasoli/A3/Contrasto)

Professor Formigoni, la Chiesa Cattolica ha appena celebrato i cento anni della nascita di Giovanni Paolo II. Un centenario che ha proiettato, da parte di qualche alto prelato, anche giudizi sugli ultimi cinquant’anni della storia della Chiesa contemporanea. Ma andiamo con ordine. Chiedo a lei, come storico, un giudizio sintetico su Karol Wojtyla. Al di là dell’apologia, e in questi giorni se n’è vista troppa, qual è la cifra del pontificato di Giovanni Paolo II?

Beh, difficile ridurre a una cifra semplice e sintetica un pontificato tra i più lunghi della storia recente e senz’altro complesso come quello di Giovanni Paolo II. A mio modo di vedere (e anche nei limiti della mia conoscenza), senz’altro il quadro iniziale del pontificato è stato collegato alla ripresa e alla valorizzazione del concilio (che si era chiuso da meno di quindici anni), ma con la caratteristica originale di attribuirvi un nuovo timbro “istituzionale”. Il senso del messaggio del papa era un rinsaldamento della Chiesa come struttura centralizzata e autorevole, come forza sociale in grado di esprimere una visione forte del mondo e della storia, sia nell’Occidente secolarizzato che nell’Oriente comunista e anche nel cuore delle nuove esperienze dei popoli extraeuropei e del loro rigoglio di sviluppo religioso. In questo senso l’esperienza polacca della Chiesa storicamente concepita come guida della nazione indubbiamente contava. Per cui, in alcune realtà come quella italiana dove il cammino postconciliare aveva seguito uno sviluppo proprio, centrato sulle chiese locali, la valorizzazione del laicato, il pluralismo teologico, il dialogo con l’esterno, questa logica apparve e fu piuttosto impositiva, provocando una crisi indubbia (si ricordi l’approccio del papa al convegno ecclesiale di Loreto). Oppure si ricordi il senso di una stretta sulle esperienze di comunità di base in America Latina, con la connessa riaffermazione dell’autorità episcopale oltre che i limiti rigidi imposti alla teologia della liberazione. Il papa pensava tutto ciò come un “tradimento del concilio” (titolo di un libro polemico che uscì in quegli anni)? Io direi di no, anche se la sua sensibilità e il suo approccio deciso e volitivo aprivano uno scontro multiforme ma visibilissimo su come intendere alcune delle conseguenze nella recezione del Vaticano II. Il sinodo del 1985 non a caso rilanciò l’idea del concilio come “grande grazia di questo secolo”: tutt’altro rispetto alla sua rilettura come causa di tutti i mali contemporanei, che era propria della destra cattolica. E che il papa restasse nel solco del Vaticano II lo si vide poi da alcuni gesti e parole importanti: la tenuta sulla riforma liturgica; la critica estesa anche al capitalismo dopo il crollo del comunismo europeo nel 1989; il deciso impegno per la pace e contro ogni giustificazione religiosa della guerra, partito dalla grande preghiera interreligiosa del 1986; l’apertura al ripensamento del ruolo papale nella “Ut Unum Sint”; la richiesta di perdono per i peccati della Chiesa connessa al grande Giubileo del 2000.

 Dicevano all’inizio che il centenario ha offerto l’occasione, a qualche autorevole prelato, in questo caso ad un  cardinale italiano, Camillo Ruini, già Presidente della Conferenza episcopale italiana sotto Wojtyla, di esprimere un giudizio su una stagione complessa, quella del post concilio. Secondo Ruini con Giovanni Paolo II “la Chiesa è uscita da quella posizione difensiva sulla quale era stata a lungo costretta dalla crisi del dopo Concilio e ha potuto riprendere l’iniziativa, soprattutto nell’ambito dell’evangelizzazione”. Un giudizio che tocca in pieno il pontificato di Paolo VI. Al di là della modalità espressiva assai poco felice e sbrigativa, è difficile pensare con Papa Montini, uomo dotato di grande cultura e di raffinata visione “politica” del cattolicesimo, ad una Chiesa difensiva come quella dell’immediato postconcilio. Mi sembra che il “dottor sottile” dell’episcopato italiano qui voglia colpire il Concilio e la sua visione di Chiesa sulla frontiera del dialogo con la modernità. Eppure Wojtyla, con i suoi limiti  ermeneutici, ha confermato su diversi punti (il dialogo est-ovest,  il dialogo interreligioso, ecumenico, la critica al modello di sviluppo economico) il Pontificato di Paolo VI. Qualcosa non torna nel giudizio di Ruini. E’ così Professore?

 Il giudizio di Ruini mi pare vada oltre Giovanni Paolo II stesso. Allude a un ruolo del concilio del causare una situazione di crisi nella Chiesa che è concetto frutto di una lettura storica non neutrale e ricca di conseguenze: molto diverso naturalmente è vedere invece sotto i cosiddetti “anni dell’onnipotenza” fermentare una crisi del cattolicesimo contemporaneo, cui il concilio provò a rispondere. L’ipotesi per cui Paolo VI si ridusse a una posizione difensiva è smentita dalle ultime ricerche storiche, che hanno messo in luce come indubbiamente il papa attraversò una fase di incertezze, dubbi e sconforto nell’immediato post-concilio, venendo molto turbato dalla violenta ondata anti-istituzionale che dalla società investiva la Chiesa. Ma è ormai chiaro che negli ultimi anni di pontificato il suo approccio divenne molto più saldo, sereno e fiducioso, fino a quegli interventi come l’«Evangeli nuntiandi» del 1975 che erano attraversati da una logica tutt’altro che difensiva, ma innovativa e propositiva, sul nocciolo stesso della questione dell’evangelizzazione.

 Veniamo, ora, al secondo fatto, non direttamente legato al centenario di papa Wojtyla, ma dato il personaggio coinvolto, forse un qualche legame c’è. Mi riferisco a  Ernesto Galli della Loggia. Un personaggio assai controverso nella sua “competenza” ecclesiale. Lo storico si è reso protagonista, con ben due articoli apparsi sul “Corriere della Sera”, di un duro attacco a Papa  Francesco. Nel primo, in estrema sintesi, si “accusa” la Chiesa guidata da Bergoglio di non avere alcun impatto politico in quanto, il “discorso pubblico” del Papa, sarebbe ridotto a ideologia (perché perde ogni specificità religiosa).  Non solo ideologia ma anche i suoi destinatari, dei discorsi, sarebbero non più gli uomini di buona volontà ma i poveri e i movimenti. Sociali. Affermazioni, queste, facilmente smontabili. Nel secondo articolo, poi, si accusa il Papa nel suo annuncio in favore dei poveri di mettere in secondo piano l’obbligo dei credenti verso Dio è anche per questo che diventa un discorso ideologico e quindi, inevitabilmente, la conseguenza è che la Chiesa diventi come un “partito”. Le accuse sono assai pesanti.  Professore che idea si è fatto di questi attacchi? Perché questa virulenza, da un “maestro” (si fa per dire) del moderatismo italiano?

Non scopriamo oggi la preferenza di Galli Della Loggia per una Chiesa che porti un contributo d’ordine sul modello della «religione civile», in un mondo governato dalla logica individualistica del liberalismo moderato. Questo lo porta a criticare un pontificato che non sta proprio nelle sue corde, per l’acquisizione di un modello post-cristianità totalmente diverso da quello da lui auspicato, in cui l’influenza della Chiesa è affidata alla coscienza delle persone, in un orizzonte di libertà che ha dismesso ogni sogno di potere mondano. Al di là di questa divergenza di opinione, quello che spicca nei suoi editoriali è un approccio per così dire «fissista» alla teologia e alla Chiesa, quasi che un certo modello del passato (impostazione filosofica veritativa, autorità centralizzata, dottrina della Chiesa centrista, istanze di conversione del mondo esterno…) sia dato per ovvio ed eterno. Per cui di fronte a un papa che sposta il tiro sulla predicazione di un’esperienza del divino centrata sulla misericordia di Dio rivelata nel vangelo di Gesù, egli si trova spiazzato e reagisce in modo francamente un po’ eccessivo, giudicando queste posizioni prive di originalità religiosa e lontane dal vangelo: che cosa sia propriamente religioso lo potrà decidere chi è dentro nella Chiesa, più che un osservatore intellettuale esterno, per quanto partecipe? Quello che poi Galli nota correttamente è invece che il papa ha preso un indirizzo molto più universalista nell’indirizzare il suo messaggio, oltre le mura dell’Occidente: naturalmente ancora una volta la sua lettura è di segno negativo, ma qui egli coglie nel segno.

 

 Di fronte a questi attacchi “brilla” l’assenza di una qualche reazione cattolica…E’ così?

 Non saprei dire se ci sia stata totale passività… Una certa mancanza di reazione fa parte probabilmente di un approccio ecclesiastico generale che non ama la polemica intellettuale pubblica (a torto o a ragione). Ma è anche forse da attribuire in parte a un approccio generale della Chiesa italiana che mi pare un po’ statico: mi sorprende sempre quanto la parte di questa comunità cristiana che dovrebbe essere più in sintonia con le novità del pontificato di Francesco – dopo anni di incertezze e difficoltà vissute nel corpo ecclesiale – in realtà sia come timorosa e prudente, semplicemente in ottica di ripetizione del magistero papale, più che non nell’assunzione di una propria funzione trainante nella Chiesa per far fecondare e rilanciare quanto il papa suggerisce.

 

Eppure nel mondo post-covid19 il ruolo della Chiesa sarà fondamentale. Non solo nell’ambito delle opere di carità ma anche nella ricostruzione morale del Paese.  Le sfide sono davvero enormi, e il papa Francesco, con buona pace di Galli Della Loggia, ha detto parole chiare in questo tempo di Pandemia.  In questo senso il discorso “politico” dei cattolici potrà giocare un ruolo fondamentale.   Vede spazi per un protagonismo dei laici cattolici?

 A questo proposito le cose sono complesse: non credo ci sia niente di scontato. Francesco ha computo gesti e detto parole di alto livello, soprattutto nella invocazione a Dio, solo in piazza San Pietro. Siamo tutti nella tempesta, nella stessa barca: nessuno è autosufficiente e padrone di sé stesso. Un messaggio forte, che dalla vulnerabilità non trae discorsi vecchio stile sul castigo divino o inviti alla flagellazione e all’ulteriore depressione, ma una invocazione allo Spirito perché aiuti coloro che stanno reagendo, in modo comunitario, mettendosi assieme, ai danni della tragedia cosmica. Questo messaggio a me appare forte e forse può mettere in carreggiata un modello per la pedagogia religiosa e per la risposta cristiana ai problemi del nostro tempo. Potremmo sicuramente anche dire che ci sono elementi di antropologia e di umanità tali da basare anche una prospettiva politica nuova. È però palesemente solo un inizio. Da qui a maturare una capacità politica di tradurre questo atteggiamento in scelte e consapevolezze acute e prudenti, ce ne passa. Far nascere un progetto politico all’altezza dell’«epoca di cambiamento» che stiamo vivendo non è cosa cui basti buona volontà ed entusiasmo, né ricchezza di principi. Non sono sicuro che nel cattolicesimo italiano si stiano muovendo oggi risorse all’altezza di questa sfida, difficilissima per quanto entusiasmante.

A che punto è Francesco? 
Intervista a Mariantonietta Calabrò

(foto Ansa)

 

Ha sorpreso l’opinione pubblica italiana, cattolica soprattutto, la recente nomina ad Arcivescovo di Genova di Padre Marco Tasca, ex padre generale dei frati minori conventuali.  Come si inserisce questa nomina nel più ampio „gioco“ strategico del pontificato di Papa Francesco? Lo abbiamo chiesto, in questa intervista, alla giornalista Mariantonietta Calabrò (vaticanista dell’HuffingtonPost).

 

(foto ofmconv.net)

Mariantonietta, partiamo da una notizia recente: la nomina, per molti aspetti inaspettata, di Frate minore conventuale ad Arcivescovo di Genova. Si tratta di Padre Tasca, già ministro generale dellOrdine. Insomma una nomina in puro stile bergogliano, che spiazza una tradizione consolidata. E lo spiazzamento è grande visto che si tratta di una Diocesi come quella di Genova. Ecosì?

Genova è stata dai tempi del cardinale Siri, la sede episcopale che ha avuto maggiormente a che fare con il potere italiano, un francescano, un minore conventuale, lí è un simbolo oltre che la valorizzazione di una persona. Ma, mi piace sottolinearlo, si tratta di un religioso schivo e lontano dalla ribalta mediatica.

Come sta procedendo il rinnovamento  “bergogliano” nella CEI? Una Conferenza Episcopale che ha mostrato, in alcuni esponenti , una certa resistenza al Papa. Vi sono ancora troppo incrostazioni?

Francamente non mi piace che venga usato l’aggettivo “bergogliano”. E’ un aggettivo proprio delle tifoserie, ed in particolare di quelli che sono ostili al Papa. Nè si può parlare di “incrostazioni” , come fossero sporco da ripulire, è un linguaggio da eresia catara, di qui i “puri”, di là gli sporchi. Si tratta di dinamiche che hanno a che fare con un pensiero assolutista, direi “leninista”, di cui ha fatto le spese prima Benedetto XVI e poi ( a partire dall’attacco dell’ex Nunzio Viganò nell’estate del 2018) anche Francesco. Vorrei ricordare che monsignor Viganò era “sponsorizzato” da autoproclamati fans di Bergoglio a diventare nel 2013, Segretario di Stato .Come si dice, c’è sempre uno più puro che ti epura. Se c’è una cosa che dovrebbe insegnare a tutti l’esperienza drammatica dell’epidemia che stiamo vivendo è l’umiltà davanti alla nostra fragilità. Del resto la prima riforma, ha sempre detto Francesco, è quella del cuore. E la pandemia è un fuoco che brucia tutto ciò che non è essenziale.

Parliamo sempre della Chiesa che è in Italia. Tra qualche giorno, stando al protocollo firmato con il governo, potranno riprendere, con la dovuta cautela, le celebrazioni eucaristiche. Certamente per alcuni assistere alla messa in streaming è stato un trauma (?). Per altri, però, è stata una opportunità per sperimentare  forme nuove di evangelizzazione. Insomma non tutto è  stato un male.  Ecosì?

Certamente è stata la possibilità di ascoltare la parola di Dio e quella dei pastori in un momento drammatico. Da questo punto di vista il gesto di Francesco del 27 marzo rimarrà nella storia come il gesto più potente. Il gesto del Pescatore ( non si chiama anello del Pescatore, l’anello della dignità papale che viene distrutto alla sua morte?) che assume su di sè le paure scatenate dalla tempesta , le fa proprie e le assume nella fede “rocciosa” di Pietro, come ha detto. Ma come ha detto lo stesso Francesco, che per questo sospenderà la messa in streaming da Santa Marta, la fede vive in una comunità che si raccoglie “fisicamente” per la Messa. Non mi sembra un caso che la prima messa con il popolo il cardinale Bassetti, presidente della CEI , la celebrerà per il centenario della nascita di San Giovanni Paolo II, il papa polacco, il papa del popolo polacco, non dell’opinione pubblica o del people nell’accezione inglese della parola.

Torniamo a Papa  Francesco. In questo momento di pandemia la sua persona è stata fatta oggetto di brutali critiche. Le inchieste di Report delle scorse settimane ci ha informati delle strategie comunicative infamanti contro Francesco messe in atto dai suoi nemici. Accuse allucinanti. Non sono mancate nemmeno le accuse deliranti del solito Socci (che successivamente ha chiesto scusa dimettendosi dallincarico di Direttore della Scuola di Giornalismo di Perugia). Ti chiedo: quanto è forte il fronte conservatore allintero della Chiesa?

Ripeto non lo chiamerei fronte conservatore, lo chiamerei fronte antipapale, tout court. Ricordo cosa dichiarò l’allora cardinale di Bologna, cardine Caffarra, uno dei cardinali dei Dubia, ma, secondo me, in totale buona fede: “preferirei che si dicesse che il cardinale abbia un’amante piuttosto che sia contro il Papa.”

L’opposizione antipapale è fatta di molto narcisismo intellettuale e di molta manipolazione propagandistica che viene dal di fuori della Chiesa, che ha a che fare con il Trono ( nazionale, almeno con la Lega al governo, e internazionale), esattamente come avvenne, a parti inverse, con Benedetto XVI.

SullAmazzonia Francesco ha fatto una frenata nel cammino riformatore. Pensi che ci saranno altre frenate? Oppure, invece, il cammino continuerà nel solco della Riforma?

La narrativa della frenata è speculare alla narrativa del progresso. E’ uno schema.

Sempre per parlare di critici del Papa, ha fatto discutere lattacco,  con un editoriale  di qualche giorno fa sul Corriere della    Sera, di Galli della Loggia.  In quelleditoriale il professore Galli della Loggia accusava il Papa di essere ideologico”…

C’è sempre chi sa fare il Papa meglio del Papa e gente per cui il Papa migliore è sempre quello morto (davvero o metaforicamente).

“L’EUROPA NON CEDA ALL’EGOISMO E ALLA TENTAZIONE DI UN RITORNO AL PASSATO”. IL MESSAGGIO “URBI ET ORBI” DI PAPA FRANCESCO

 

Pubblichiamo il testo integrale del messaggio “Urbi et orbi” pronunciato, oggi in Vaticano, al termine della liturgia pasquale da Papa Francesco.

 

Papa Francesco mentre pronuncia il messaggio Urbi Et Orbi, oggi in San Pietro

 

Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi riecheggia in tutto il mondo l’annuncio della Chiesa: “Gesù Cristo è risorto!” – “È veramente risorto!”.

Come una fiamma nuova questa Buona Notizia si è accesa nella notte: la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana. In questa notte è risuonata la voce della Chiesa: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

 

È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio.

 

Il Risorto è il Crocifisso, non un altro. Nel suo corpo glorioso porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta.

Il mio pensiero quest’oggi va soprattutto a quanti sono stati colpiti direttamente dal coronavirus: ai malati, a coloro che sono morti e ai familiari che piangono per la scomparsa dei loro cari, ai quali a volte non sono riusciti a dare neanche l’estremo saluto. Il Signore della vita accolga con sé nel suo regno i defunti e doni conforto e speranza a chi è ancora nella prova, specialmente agli anziani e alle persone sole. Non faccia mancare la sua consolazione e gli aiuti necessari a chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, come chi lavora nelle case di cura, o vive nelle caserme e nelle carceri. Per molti è una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici.

Questo morbo non ci ha privato solo degli affetti, ma anche della possibilità di attingere di persona alla consolazione che sgorga dai Sacramenti, specialmente dell’Eucaristia e della Riconciliazione. In molti Paesi non è stato possibile accostarsi ad essi, ma il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, «sono risorto e sono sempre con te» (cfr Messale Romano)!

 

Gesù, nostra Pasqua, dia forza e speranza ai medici e agli infermieri, che ovunque offrono una testimonianza di cura e amore al prossimo fino allo stremo delle forze e non di rado al sacrificio della propria salute. A loro, come pure a chi lavora assiduamente per garantire i servizi essenziali necessari alla convivenza civile, alle forze dell’ordine e ai militari che in molti Paesi hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze della popolazione, va il nostro pensiero affettuoso con la nostra gratitudine.

In queste settimane, la vita di milioni di persone è cambiata all’improvviso. Per molti, rimanere a casa è stata un’occasione per riflettere, per fermare i frenetici ritmi della vita, per stare con i propri cari e godere della loro compagnia. Per tanti però è anche un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane.

 

Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri.

Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda.

 

Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni.

Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa.

 

Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria.

 

Cari fratelli e sorelle,

indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto.

Con queste riflessioni, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua.

 

Dal Sito: http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/papa-francesco_20200412_urbi-et-orbi-pasqua.html

A chi è cara e a chi no la “Querida Amazonia”? un testo di Leonardo Boff

Leonardo Boff (Ansa)

Leonardo Boff (Ansa)

Questo che pubblichiamo, in una nostra traduzione dallo spagnolo, è una analisi “teologico-strutturale” dell’ Esortazione post-sinodale “Querida Amazonia” di Papa Francesco. Un testo prezioso, scritto dal famoso teologo della liberazione,  per capire anche alcuni nodi problematici della “ecclesiologia” dell’Esortazione.  Un testo sincero, nelle sue critiche, ma leale nei confronti di Papa Francesco. 

Papa Francesco è il campione del mondo nella difesa della Madre Terra e di tutto ciò che sostiene la sopravvivenza. Ho letto con attenzione e grande entusiasmo la sua Esortazione Apostolica “Cara Amazzonia, nella quale egli considera un vero e proprio crimine quello che si sta facendo ora in Amazzonia. Contrappone quattro sogni fondamentali: quello sociale, quello culturale, quello ecologico e quello ecclesiale.

Come non restare affascinati – tra le altre – da dichiarazioni come questa, chiara espressione di un’ecologia globale e cosmica: “Noi siamo acqua, aria, terra e ambiente di vita creato da Dio. Pertanto, chiediamo che cessino gli abusi e la distruzione della Madre Terra. La Terra ha sangue e sta sanguinando, le multinazionali hanno tagliato le vene alla nostra Madre Terra”. Sono perfettamente d’accordo con questo tipo di linguaggio e di denuncia e soprattutto i primi tre sogni s’inseriscono nella scia della “Laudato Si: sobre el cuidado de la Casa Común” (Laudato Si: sulla cura della Casa Comune”).

Tre sogni e mezzo e un incubo
La prima parte del quarto sogno segue lo stile della grande bellezza dei sogni precedenti. Tuttavia, la seconda parte di questo quarto sogno sembra piuttosto un incubo. Il tono prima profetico, etico, ecologico e poetico dei primi tre è svanito. Ci sarà sotto la presenza di un’altra mano?

Oso pensare che questa parte rientri nel vecchio paradigma culturale latino, clericale e maschilista. E si nega agli indigeni il diritto divino di ricevere il corpo e il sangue di Cristo dalle mani dei suoi viri probati sposati e ordinati. Glielo si impedisce in virtù di una legge umana ecclesiastica: il celibato. Altri teologi lo hanno detto e io lo sottolineo: “non possiamo porre la questione del celibato al di sopra della celebrazione dell’Eucarestia“.

Quella parte del quarto sogno, ho la netta impressione che provenga da un’altra mano e da un altro spirito, diverso da quello a cui ci ha abituati Papa Francesco. Lo conferma chiaramente il vescovo Erwin Kräutler dell’Amazzonia, figura centrale del Sinodo panamazzonico: “molte persone, ed io stesso, troviamo questa parte molto strana, perché cambia veramente stile, come se lo scritto papale avesse subìto un intervento nella parte più controversa dell’Esortazione Apostolica”.

In questa parte non parla il pastore ma il dottore. Non colui che ha il coraggio di andare contro il sistema anti-vita, ma colui che si arrende ai timori e alle pressioni dei gruppi conservatori, forse per via del pericolo di una spaccatura all’interno della Chiesa. Il timore frena sempre e ritarda le innovazioni a causa di un’eccessiva prudenza. Mi vengono in mente le parole di Dante nella Divina Commedia: “nel pensier rinova la paura” (Inferno I, v. 4).

Per quanto riguarda il punto importante del ministero sacerdotale, l’ “autore” preferisce l’ecclesiastico tradizionale all’indigeno amazzonico. Al volto amazzonico della Chiesa preferisce, nel punto del ministero sacerdotale, il volto romano-latino occidentale. Analogamente a coloro che impongono la ricolonizzazione economica dell’America Latina, l’ “autore” ha preferito la ricolonizzazione latino-romana della Chiesa amazzonica. Contro coloro che, con la maggioranza dei voti nel sinodo Panamazzonico hanno accettato l’ordinazione dei “viri probati”, l “autore” ha scelto la minoranza che l’ha respinta.

A chi non è cara la “Cara Amazzonia?”
Sicuramente non è “cara” al presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro, di estrema destra, anti-amazzonico e anti-indigeno. Non è “caro” ai taglialegna, o ai “garimpeiros” dell’oro e alle aziende nazionali ed internazionali che hanno in mente le industrie minerarie, le centrali idroelettriche e lo sfruttamento delle risorse naturali dell’Amazzonia. Ma c’era da aspettarselo.

Ma quello che non ci si doveva aspettare per quanto riguarda l’inculturazione del ministero sacerdotale era la mancata accettazione del sacerdozio degli indigeni viri probati. Per questo la “Cara Amazzonia” non è “cara” nei confronti di questi indigeni sposati ai quali si nega l’ordinazione. Non è “cara” nei confronti delle donne, alle quali viene negato il ​​diaconato femminile, facendo inoltre presente, secondo me in modo infondato, il rischio del clericalismo. E non è “cara” soprattutto nei confronti di tanti teologi e vescovi, missionari e missionarie, che si trovano tra gli indigeni, come ha chiaramente detto il già citato vescovo Erwin Kräutler dal cuore dell’Amazzonia (Xingú). Tutti speravano veramente nell’approvazione dei viri probati: indigeni sposati e ordinati con un volto autenticamente amazzonico.

Non è stato così. Nei suoi scritti di ecologia ed economia Papa Francesco ha saputo dare ascolto alla scienza. Per quanto riguarda questo specifico ministero sacerdotale, sembra che l’ “autore” non si sia dato pena di consultare un esperto in materia di ministeri, il Cardinale Walter Kasper, amico e molto vicino a Papa Francesco. Nei suoi scritti ha esposto le migliori riflessioni sul ruolo/missione del sacerdote nella Chiesa sulla base del Vaticano II. La sua posizione va in una direzione molto diversa rispetto a quella rappresentata dall’ “autore” nell’Esortazione “Querida Amazonia”. Con questa visione che mantiene il regime occidentale, clericale e a favore del celibato, non si può pensare ad una Chiesa amazzonica dal volto autenticamente indigeno.

La specificità del sacerdote non è concentrare il potere, ma coordinare e presiedere la comunità.
La visione di quel testo nel quarto sogno risale al Consiglio IV Lateranense del 1215 indetto da Innocenzo III, che dice “nemo potest conficere sacramentum nisi sacerdos rite ordinatus” (“nessuno può somministrare il sacramento eucaristico se non un sacerdote ordinato secondo il rito”). L’ecclesiologia di questo sogno applica il rigore del Concilio di Trento, che nella sessione XIII dell’11 ottobre 1551, sotto il pontificato di Papa Giulio III, ha ribadito la stessa dottrina esclusivista.

Secondo la migliore ecclesiologia nata dal Concilio Vaticano II, la funzione/missione specifica del sacerdote dev’essere pensata non in modo assoluto, ma sempre all’interno del Popolo di Dio e nel contesto della comunità.
La sua unicità non è consacrare assolutamente come un mago, ma essere nella comunità principio di coesione e di unità di tutti i servizi e carismi. Non è quella di concentrarsi, ma quella di coordinare. Per il fatto di presiedere la comunità, presiede anche alla celebrazione eucaristica.

Il problema sorge quando, senza colpa, non c’è nessun sacerdote presente e la comunità, come riconosciuto dall’Esortazione, “a causa in parte all’immensa estensione territoriale, con molti luoghi di difficile accesso” (n. 85) non può averlo.

Nel testo si pone il problema con grande realismo e qui si vede la mano di Papa Francesco: “sarà possibile evitare di pensare ad un’inculturazione dal modo in cui sono strutturati e vivono i misteri ecclesiali ?” (n. 85). E aggiunge con sincerità: “è necessario far sì che la ministerialità si configuri in modo tale che sia al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’Eucarestia, anche nelle comunità più remote e nascoste” (n. 86). Questa situazione è assolutamente vera. Ma l’ “autore” non l’ha ritenuta tale e ci ha proposto la configurazione del ministero come dovrebbe essere.

È qui dove l’ecclesiologia di comunione potrebbe avrebbe aiutato molto l’ “autore” nella sua concezione di poter consacrare. Essa ha prevalso per tutto il primo millennio come la ricerca storica ha dimostrato inequivocabilmente.

Per mille anni chi presiedeva la comunità presiedeva anche all’Eucarestia
La legge fondamentale di quei tempi era: chi presiede la comunità, presieda anche all’Eucarestia. Poteva trattarsi di un vescovo, di un presbitero, di un profeta o di un confessore, anche laico, secondo Tertulliano, che era un esimio teologo laico.

Se questo è vero, perché impedire a un indigeno sposato di presiedere la sua comunità e presiedere anche alla celebrazione eucaristica?

In questa parte si realizza quello che gli ecclesiologi chiamano “cefalizzazione” della Chiesa. Tutto il potere si concentra nella “testa“, nel papa o nel clero, prescindendo completamente dalla comunità.

In questa visione riduzionista l’ “autore” ha pensato solo al sacerdote come a colui che ha il potere di consacrare in modo esclusivo e assoluto, senza connessione con la comunità. Quindi emerge una contraddizione: un sacerdote può celebrare da solo, senza la comunità, ma la comunità non può celebrare da sola senza il sacerdote.

Nel successivo millennio: può consacrare solo chi è stato consacrato nel Sacramento dell’Ordinazione.
Questo punto di vista non deriva da questioni teologiche, ma da questioni politiche: le dispute per il potere tra l’Imperium e il Sacerdotium, tra Papi e Imperatori. Chi detiene, in ultima analisi, il potere? Ciò appare chiaramente sotto Gregorio VII (1077). Con lui l’asse della comunità laica si è spostato verso l’asse del potere sacro (sacra potestas). Il potere assoluto lo possiede il Papa. Ricordiamoci del suo Dictatus Papae che, se lo si traduce bene, significa la dittatura del Papa. Tutto il potere risiede nella testa, vale a dire, nel Papa e in coloro che esso delega. I latori del potere sacro saranno solamente coloro che sono stati ordinati esclusivamente nel sacramento dell’Ordinazione, vale a dire gli appartenenti alla gerarchia ecclesiastica. La comunità dei fedeli ormai non conta più.

Padre J.Y. Congar, l’ecclesiologo più erudito e importante del XX secolo, ha denunciato questa pericolosa deviazione teologica con conseguenze dannose per tutte l’ecclesiologia successiva, che dura ancor oggi. Nell’Esortazione “Querida Amazonia” risuona ancora questo tipo di ecclesiologia del potere sottratto alla comunità.

Per questo continuano a destare perplessità le affermazioni: “È importante stabilire ciò che è specifico del sacerdote, ciò che non può essere delegato. La risposta si trova nel sacramento dell’Ordinazione sacra, che configura Cristo sacerdote … Il carattere esclusivo ricevuto con l’Ordinazione fa sì che solo lui sia abilitato a presiedere all’Eucarestia; questa è la sua funzione specifica, principale e non delegabile” (n. 87).

È qui che credo – e non sono il solo – appare una “mano esterna”, con la sua ecclesiologia del potere specifico e indelegabile di consacrare, visione sacerdotalista, arretrata e scollegata dalla comunità della fede. Con questa visione invano può realizzare un’inculturazione del ministero sacerdotale a indigeni viri probati sposati, che darebbero un volto veramente amazzonico alla Chiesa. Anche in questo caso si continua a portare avanti un cristianesimo di colonizzazione dentro al paradigma cattolico-romano, occidentale e favorevole al celibato.

Per porre fine a questo tipo di ricolonizzazione si deve tornare all’ecclesiologia del primo millennio, che stabiliva un’intima connessione tra la comunità e chi la presiedeva. Non si deve dimenticare il canone 6 del Concilio di Calcedonia (451), valido per la Chiesa orientale fino ad oggi e per quella occidentale solo fino al XII-XIII secolo. In questa, quella occidente, tutto è cambiato a causa delle dispute politiche sul potere tra i Papi e gli Imperatori. Al posto della visione comunionale del primo millennio si è imposta la visione giuridico-canonica della sacra potestas degli inizi del secondo millennio. Dice il canone 6:

“Nessuno sia ordinato in modo assoluto, né sacerdote né diacono, a meno che non gli vengano espressamente assegnati una chiesa urbana o rurale, o un martyrion o un monastero. [Per quanto riguarda] chiunque sia stato ordinato in modo assoluto, il santo Consiglio ha deciso che la sua ordinazione sarà nulla o inesistente … e non potrà esercitare le sue funzioni da nessuna parte”.
Qui appare chiaro il collegamento tra la comunità e il celebrante dell’Eucarestia. Qui si presenta un problema teologico che dev’essere preso sul serio: esiste il diritto divino di tutti i fedeli a ricevere il corpo e il sangue di Gesù (Gv 6:35) e a celebrare la sua memoria (Lc 22,19; 1 Corinzi 11:25 ).

Questo diritto divino non può essere negato per via di una legge umana che lo vincola esclusivamente ad una sola persona, il sacerdote celibe, senza il quale questo diritto divino non si può realizzare. Il divino si pone sempre e senz’alcuna eccezione sopra a quello umano. È Cristo che battezza, perdona e consacra, e non il sacerdote.

D’altra parte occorre ricordare qualcosa che ha conseguenze fondamentali: dopo il sommo sacerdozio di Cristo non ci sono più sacerdoti in se nella Chiesa. Chi porta questo nome – sacerdote – altro non è che un rappresentante del sacerdozio di Cristo. È Cristo che battezza, è Cristo che perdona, è Cristo che consacra. Il sacerdote non ha in sé il potere di consacrare, ma solo quello di rappresentare e di agire “in persona Cristi”, al posto di Cristo, ma senza sostituirlo. Il sacerdote rende Cristo-Sacerdote invisibile.
Perché in assenza del sacerdote, per ragioni che non dipendono dalla comunità, un altro cristiano laico “vir probatus” dalla comunità e sposato, non può rappresentare Cristo, renderlo visibile quando, con il battesimo, partecipa anch’egli al sacerdozio di Cristo?

Inoltre il Concilio Vaticano II, riassumendo la tradizione, dice a ragion veduta: non si costruisce nessuna comunità cristiana se essa non ha come radice e come centro la celebrazione della Santissima Eucarestia” (PO 6).

Negando l’ordinazione di viri probati indigeni si nega la possibilità di costruire la comunità cristiana. Questo diritto divino non lo si può negare in nome di una legge umana e culturale come il celibato, e per un’ecclesiologia, che – tra l’altro – considera esclusivo il potere di consacrare. Qui allora non vale l’inculturazione sviluppata in modo tanto convincente nell’Esortazione “Querida Amazonia”?. Non la s’impedisce per ragioni ecclesiologiche estranee, che finiscono per rendere impossibile il volto indigeno e amazzonico della Chiesa negando l’ordinazione dei viri probati indigeni e sposati?.

Le 24 Chiese anch’esse cattoliche senza la legge del celibato
È illuminante in questo contesto ricordare che ci sono altre 24 Chiese, anch’esse cattoliche, ma non romane, come quella copta, quella melchita, quella maronita, quella etiope, quella greca bizantina, quella armena, quella siriaca, quella caldeo e altre. In tutte queste chiese ci sono sacerdoti sposati e sacerdoti celibi. Non per questo sono meno “chiese cattoliche” rispetto a quella romana.

Per quale ragione la Chiesa cattolica romana è così inflessibile per quanto riguarda la legge del celibato, condizione per poter essere ordinati sacerdoti? Sappiamo che la legge del celibato si è formata lentamente nella Chiesa e che nella storia è sempre stata un problema, venendo violata da papi, cardinali, vescovi e presbìteri. E negli ultimi anni è venuta alla luce, nei gradini più alti della Curia vaticana, la violazione del celibato, aggravata dai reati di pedofilia, che sono anch’essi un modo per violare il significato del celibato.

Nell’Esortazione “Cara Amazzonia” il tema dell’inculturazione nelle culture indigene e amazzoniche, per le ragioni già indicate, non è stato portato alle estreme conseguenze, non si è andati fino alla radice. Com’è noto, nella cultura indigena non esiste la figura dell’indigeno celibe. Tutti vivono con la moglie. E lo stesso vale per il sacerdote indigeno.

I viri probati indigeni: ostaggi della cultura romana, latina, occidentale e fautrice del celibato
Impedire a viri probati indigeni sposati di essere sacerdoti significa non calarsi completamente nella loro cultura. In essa il sacramento eucaristico dovrebbe essere celebrato da un sacerdote indigeno sposato. Il non calarsi completamente nella loro cultura condanna gli indigeni a rimanere ostaggi per quanto riguarda il sacramento dell’Ordinazione, della cultura romana, latina, occidentale e fautrice del celibato. Questo significa non far loro giustizia, poiché hanno il diritto divino di ricevere secondo la loro cultura la presenza eucaristica del Signore.

Il supplet Ecclesia e il ministro straordinario dell’Eucarestia
Nonostante questo limite nella comprensione di che presiede all’Eucarestia, la comunità cristiana può ricorrere ad un altro espediente ecclesiologico assicurato nella tradizione, il famoso “supplet ecclesia“. Chiarisco: gli indigeni sposati che già presiedono le loro comunità possono presiedere alla celebrazione della cena del Signore al posto del sacerdote celibe assente in qualità di “supplenza della Chiesa“. Fungono da ministri straordinari dell’Eucarestia e lo fanno con l’intenzione di stare con la Chiesa (cum Ecclesia), mai contro la Chiesa (contra Ecclesiam), e di fare tutto quello che avrebbe fatto il sacerdote se fosse stato presente.

Qualsiasi situazione straordinaria richiede una soluzione straordinaria: la legittimazione del laico indigeno e sposato a presiedere alla celebrazione della cena e alla memoria del Signore. Necessità non ha legge. L’ordo caritatis (l’ordine della carità) e la richiesta della salus animarum (della salvezza delle anime) e l’oeconomia salutis (il processo storico della salvezza) supportano teologicamente tale prassi.

La stessa visione la si ritrova nel sistema giuridico-canonico della Chiesa. Il Diritto Canonico afferma esplicitamente che la legge suprema della Chiesa è sempre la “salvezza dell’anima” (canone 1752). Ciò non implicherebbe anche l’accesso senza le limitazioni imposte dalle leggi umane al sacramento dell’Ordinazione?

È ingiusto considerare le donne cristiane inferiori
Lasciamo da parte la questione del diaconato delle donne, anch’esso negato nell’Esortazione. Tale rifiuto non supera, com’era purtroppo previsto, la questione del genere e fa sì che le donne restino, per impegnate che siano nelle comunità, cristiane inferiori, di seconda categoria, come sostiene anche la cultura maschilista ancora dominante per quanto le riguarda. Sarebbe bene che nella Chiesa si rompesse con una tradizione così ingiusta. Per le donne non valgono i sette sacramenti: per esse i sacramenti sono solo sei, essendo escluse dall’Ordinazione.

Ricordiamo che San Tommaso d’Aquino, nella sua dottrina sui sacramenti, sosteneva che il battesimo è il sacramento dell’iniziazione alla vita cristiana e contemporaneamente è per tutti l’iniziazione a tutti gli altri sacramenti e quindi contiene i sette sacramenti. Secondo questa interpretazione del Dottore Angelico, per il fatto di essere donna, essa, la donna, riceve un battesimo minore perché le manca il contenuto del sacramento dell’Ordinazione.

Ma noi non vogliamo non ricordare un paradosso flagrante: una donna può generare un figlio che è Figlio di Dio. Questa stessa donna che ha dato alla luce questo figlio che è Figlio di Dio non può rappresentare suo figlio che è figlio di Dio. Solo per il fatto di esser donna. Le Scritture dicono che questa donna, Maria, “è benedetta tra tutte le donne” (Lc 1,41). Sembra tuttavia che non sia benedetta abbastanza per rappresentare il proprio Figlio che è il Figlio di Dio che si è fatto uomo.

Aggiungo anche il fatto che le donne non hanno mai tradito Gesù, come fecero Pietro e gli apostoli, che lo abbandonarono. Furono sempre fedeli e furono esse le prime testimoni del più grande fatto della fede, che è la Resurrezione. Solo per queste ragioni dovrebbero avere un posto centrale nella Chiesa, se questa non fosse stata vincolata alla cultura maschilista latino-occidentale.

Niente è più forte di un’idea quando raggiunge il suo punto di maturità
Tutto quello che ho scritto non significa mancanza di lealtà a Papa Francesco, che è incrollabile in me. Vale però il vecchio detto: Amicus Plato, sed magis amica veritas. Compete al teologo cercare nuove vie per i nuovi problemi, sempre al servizio delle comunità cristiane e della stessa Chiesa universale.

Come già si è detto: “Niente è più forte di un’idea quando arriva il momento della sua realizzazione”. Verrà questo momento per i viri probati indigeni e soprattutto per le donne all’interno della Chiesa cattolica romana.

Ma quanto tarda questo  momento …

Nonostante questi vincoli interni, l’ “Esortazione Apostolica Querida Amazonia” è, in questo momento cruciale della crisi ecologica come emergenza planetaria, la difesa più determinata e coraggiosa del Rio delle Amazzoni, presente in 9 paesi, fonte di vita per tutta l’umanità, garanzia del futuro della Terra e speranza della salvaguardia della nostra civiltà. Per questo non smetteremo di ringraziare Papa Francesco per questo servizio profetico a vantaggio di tutta l’Umanità e per tutti coloro che amano e si prendono cura di questo bello e splendido pianeta, la nostra Casa Comune, la grande e generosa Madre Terra.

(Traduzione dallo Spagnolo)

Leonardo Boff è un ecclesiologo del Brasile che ha scritto, tra gli altri, i seguenti testi di ecclesiologia: Die Kirche im Horizont der als Sakrament Welterfahrung, Padeborn 1972; Eclesiogénesis: la reinvención de la Iglesia, Record, Rio de Janeiro 2008 e Dabar, Messico 2009; Iglesia: carisma y poder, Vozes 1982; La Iglesia se hizo pueblo, Vozes 1984; Nuevas fronteras de la Iglesia, Verus 1986.

 

“Querida Amazonia è un testo aperto alla creatività ecclesiale”. Intervista ad Andrea Grillo

Con il teologo Andrea Grillo, docente di Teologia al Pontificio Istituto Teologico Sant’Anselmo di Roma, facciamo il punto sull’Esortazione Querida Amazonia di Papa Francesco. Il documento, uscito ieri in Vaticano, sta creando un grosso dibattito all’interno della Chiesa Cattolica.

Professore, ieri è uscita l’esortazione post sinodale di Papa Francesco Querida Amazonia. Proviamo a fare un piccolo bilancio. Per cominciare partiamo dalla mancata considerazione della proposta, presente nel documento finale del Sinodo Amazzonico di Ottobre, riguardo

l’ordinazione di viri probati, o comunque di diaconi permanenti sposati, al sacerdozio per risolvere il problema della mancanza di clero in molte comunità ecclesiali della Amazzonia. La proposta aveva ricevuto una larga maggioranza nei padri sinodali. Ma aveva anche suscitato polemiche e attacchi da parte conservatrice e di Cardinali di curia. Come spiega questo comportamento del Papa,? Pensa che abbia subito pressioni forti?

Vi sono diversi aspetti da valutare. Da un lato assistiamo ad una sorta di “mutazione del magistero sinodale”. Il fenomeno era già cominciato con il sinodo duplice sulla famiglia, ma ha assunto da ieri una sorta di versione accelerata: il documento papale non “recepisce” solo in parte il documento finale, ma intende esplicitamente “non sostituirlo” e introdurlo direttamente e con il suo tenore integrale nell’esercizio della autorità magisteriale. Dunque non è esatto dire che vi sia una “mancata considerazione” di ciò che il Sinodo aveva elaborato. E’ giusto dire, invece, che il Sinodo ha come esito un duplice livello di pronunciamento, che dal papa è indicato come doppiamente normativo. Questo è una cosa nuova e che crea anche un certo imbarazzo, comprensibile soprattutto sul piano “operativo”. Infatti il documento finale non ha, diremmo per essenza, “intenzioni operative”, mentre la Esortazione, che potrebbe averle, non ritiene di doverle assumere. E il rimando tra i due testi potrebbe generare un grande conflitto di interpretazioni. Ma è certo che questo modo di procedere sta cambiando il modo di funzionare del Sinodo e la stessa funzione del Sinodo dei Vescovi. Potrei dire che ne sovverte quella logica, che si era affermata a partire dagli anni 70, e nella quale il Sinodo era destinato a non riservare mai sorprese. Ora, forse, ne riserva anche troppe! Ma questo è un segno di vitalità e di movimento, anche se ancora non codificato e non immediatamente efficace.

Parliamo ancora delle dinamiche ecclesiali. Per il card Muller, ex prefetto della Congregazione, questo documento è un documento di riconciliazione (nel senso che pone fine al conflitto ecclesiale), per altri invece non chiude a possibili soluzioni future, per altri ancora è una sconfitta di Francesco. Per lei?

E’ inevitabile che molti si siano lasciati trascinare dalla foga: da un lato, si è letto, “non cambia nulla”. Dall’altro “tutto può ancora cambiare”. Oppure “il papa ha fallito”. Io direi che la impressione di “paralisi”, che certo può sorgere alla lettura del testo, deve far spazio a due considerazioni diverse. In primo luogo, il “dispositivo di blocco” al quale eravamo abituati da decenni, si è interrotto. Proprio perché la parola definitiva di “impotenza” e di “impossibile mutamento” non è stata detta. Le questioni più brucianti “restano sul tavolo”, come ha detto il Card. Czerny. E questo è promettente, anche se non risolutivo. In secondo luogo, il mutamento linguistico, il tono poetico e profetico di 3/4 delle pagine del testo (almeno fino al n.85) dice una ripresa potente del linguaggio conciliare, che caratterizza tutto il pontificato di Francesco e che si è fatto udire fin dalle prime parole del marzo 2013. Tutto questo è tutt’altro che un dettaglio irrilevante. E qualifica quella “mutazione del magistero” che alcuni addetti stampa, anche della sala stampa del Vaticano, fanno fatica a capire del tutto e a presentare correttamente.

Nell’Esortazione, riprendendo il Documento finale del Sinodo Amazzonico, si parla con parole bellissime del sogno ecclesiale del Papa di sviluppare una Chiesa dal volto amazzonico, con grande spirito missionario. Però la soluzione alla mancanza di sacerdoti nell’area amazzonica, secondo il documento, è quello  di inviare più missionari nell’Amazzonia. Insomma una soluzione classica. Come reagiranno i vescovi dell’Amazzonia?

Questa domanda, come è giusto, mette a paragone il tono ispirato e profetico della prima parte con le soluzioni “di piccolo cabotaggio” dell’ultima parte. Ma queste soluzioni, appunto, vengono dalla “foresta curiale”. La foresta amazzonica, lo si dice chiaramente, deve elaborarne diverse, a partire da una cultura e da una esperienza ecclesiale diversa, dello stesso cattolicesimo “romano”, ma che vive lontano da Roma, a 10.000 Km. Su questo Francesco è stato molto onesto nell’ammettere che le soluzioni devono essere trovate e assunte dagli esperti “in loco”, non dal papa o dalla curia romana. Questo è molto bello e importante. E consente di guardare con un occhio più sereno e indulgente a quei numeri in cui la “foresta curiale” sembra restare del tutto estranea alla “foresta pluviale” e si ferma alle piccole categorie che sistemano tutto per bene: il prete, la donna, Gesù, Maria, la messa e la confessione. Ma qui si resta senza poesia e senza profezia. Come se non ce ne fosse bisogno.

Anche sui laici e sulle donne si auspica un maggior protagonismo, e c’è il riconoscimento ruolo forte delle donne nelle comunità cristiane amazzoniche, però il papa si scaglia contro la clericalizzazione delle donne. E con questo chiude all’ordinazione delle donne. L’argomento della clericalizzazione è un argomento forte. Dov’è il limite del Papa?

Sicuramente il testo è capace di poesia anche nel pensare diversamente la Chiesa. E in questo dipende profondamente dalla tradizione conciliare. Ma quando riflette su questi profili “istituzionali” il discorso utilizza un linguaggio che pare non del tutto all’altezza della sfida. Anche lo stesso termine “laici”, che pure viene usato con vera determinazione e grande apertura, è un termine troppo limitato. Soprattutto nel momento in cui diventa speculare e reciproco a “chierici”. La insistenza sui laici in un certo modo legittima quella lettura clericale dei chierici e della donna, del sacerdozio e dei sacramenti, che in QA appare stanca e datata. Lì il sogno si spegne, resta solo una “insonnia preoccupata”, che rischia la paralisi. Qui è anche evidente come, rispetto al tono di Amoris Laetitia, la Chiesa fa fatica a condividere una teologia del ministero davvero aggiornata e comune. Una teologia dinamica è oggi più facile per pensare la famiglia che per pensare il sacerdozio. Su questo anche i teologi portano la loro bella responsabilità. D’altra parte come si potrebbe concepire una Commissione che studia il possibile diaconato femminile, se fosse solo un modo di esporre le donne al rischio di clericalismo? Dovremmo forse proteggere le donne dal contagio del ministero ordinato? Queste argomentazioni sono fragilissime in sé, e sicuramente non aiutano a comprendere la foresta amazzonica. Ma, lo ripeto, è bello che non pretendano di chiudere il discorso, perché lasciano aperto il testo del documento di fine sinodo, che su questi temi parla con la competenza della vita, della sofferenza e della passione.

Al di là di questi “limiti” c’è comunque un messaggio positivo per la Chiesa universale?

Su questo punto vorrei dire due cose diverse. La prima riguarda la natura “speciale” del Sinodo sulla Amazzonia. Spesso dimentichiamo che questo sinodo ha avuto, fin dall’inizio, carattere non universale, ma speciale. D’altra parte il cattolicesimo, negli ultimi secoli, sperimenta una certa difficoltà a fare i conti seriamente con la particolarità e la specialità delle questioni. Il testo, almeno nei suoi primi tre sogni, è molto ricco di questa “specializzazione” e pensa davvero a fondo le esigenze di “inculturazione” che scaturiscono da questo approccio. La seconda cosa, legata a questa prima, è proprio che a livello universale dobbiamo scoprire il valore “particolare” delle esperienze ecclesiali che viviamo. E dobbiamo poter concepire forme ministeriali, forme di esercizio del sacerdozio, forme di servizio alla Chiesa, riconosciute nel loro esercizio da parte di uomini sposati e di donne, che non siano pensati soltanto dalla logica un pochino ossessiva della conformità con la “foresta curiale”, che misura tutta la realtà tra via della Conciliazione e Piazza S. Pietro. Dal Concilio Vaticano II in poi, l’universale fa i conti con le culture, con le lingue e con i sogni di 5 continenti diversi. Ormai anche il Papa sa di far parte, già con il suo corpo, di questa complessità interculturale e continentale.

Veniamo ora agli aspetti sociali, culturali ed ecologici dell’esortazione. Per ciascuno di questi il Papa ha “disegnato” un sogno. “Sogni” che formano una via amazzonica allo sviluppo integrale della società. Che tipo di conseguenze politiche avrà l’esortazione?

Penso che questo aspetto del testo, che proprio in prospettiva “speciale” suona come del tutto prioritario, possa essere valutato come una spinta formidabile alla difesa della dignità e delle culture che la regione panamazzonica vive con incertezza e con trepidazione. Qui non mi sembra che il testo mostri incertezze.

Una battuta finale sulla Sinodalità. Pensa che questo sviluppo del Sinodo Amazzonico influenzerà il Sinodo tedesco?

Non ci sono “sinodi speciali o locali o nazionali” che possiamo leggere come “dispute accademiche” su temi universali. Viceversa ci sono Chiese che, in Amazzonia o in Germania, riflettono sulla tradizione e assumono orientamenti, indirizzi e decisioni. Questa è la tradizione sinodale. Il fatto che ci siano queste possibilità riconosciute e istituite è già il frutto di un cammino di trasformazione che dobbiamo riconoscere come positivo.  Una possibilità di trasformazione del ministero ecclesiale, ordinato o non ordinato, è nella logica della tradizione e delle cose. Non credo che vi sia, immediatamente, una influenza tra sinodi locali, visto che, pur all’interno della medesima tradizione, si deve rispondere a e di storie e forme ecclesiali tra loro assai diverse. Come ha detto un bravo commentatore, il documento di Francesco non si intitolava: “Amazzonia in veritate”, o “De virginitate in Amazzonia”, ma “Querida Amazonia”. Della logica sinodale è costitutiva una “contingenza” che non si lascia dominare da alcuna universalità astratta. Prendersi cura, con passione, delle Chiese particolari e locali esige la elaborazione di procedure nuove, che stanno nascendo lentamente in Amazzonia, in Germania ed anche a Roma, ossia in una città che talvolta appare come “foresta oscura”, ma che sa essere anche bosco ameno, prato ridente e comunità viva.