Slurp. Il libro di Marco Travaglio sui lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati

Travaglio_Slurpfascetta

Una stampa cinica e mercenaria,

prima o poi, creerà un pubblico ignobile.

Joseph Pulitzer

“OGNI SERVO HA IL PADRONE CHE SI MERITA E VICEVERSA. I LECCACULO NON CAMBIANO IDEA: CAMBIANO SOLTANTO CULO. PER QUESTO VEDIAMO TANTE LINGUE TRASFERIRSI DA UN CULO ALL’ALTRO IN MANIERA COSÌ IMBARAZZANTE.” MARCO TRAVAGLIO

“DA QUALCHE GIORNO I GIORNALISTI RAI CHE VENGONO A INTERVISTARMI, PRIMA DI COMINCIARE, COPRONO IL MICROFONO E MI SUSSURRANO ALL’ORECCHIO: ‘OH, MATTEO, IO SONO SEMPRE STATO DALLA TUA PARTE, EH?! ’. IL BELLO È CHE IO NON LI AVEVO MAI VISTI PRIMA.” MATTEO RENZI

 

“A FURIA DI LECCARE, QUALCOSA SULLA LINGUA RIMANE SEMPRE.” ENNIO FLAIANO

 

IL LIBRO

Ecco perché l’Italia non è una democrazia compiuta: questo libro, appena uscito in libreria, ne è la prova. Marco Travaglio racconta come i SIGNORINI GRANDI LINGUE, giornalisti e opinionisti di chiara fama (e fame) hanno beatificato la peggior classe dirigente d’Europa. Basta dar loro la parola. Cronache da Istituto Luce, commenti da Minculpop, ritratti da vite dei santi… Un esercito di adulatori in servizio permanente effettivo.

Ecco un’antologia, a tratti irresistibilmente comica, di tutto quello che ha cloroformizzato l’opinione pubblica per assicurare consensi e voti a un sistema di potere politico-economico incapace, mediocre e molto spesso corrotto. A Silvio Berlusconi per cominciare, ma anche ai tanti capi e capetti del cosiddetto centrosinistra che hanno riempito i brevi intervalli tra un governo del Cavaliere e l’altro. Fino all’esplosione di saliva modello “larghe intese” per GIORGIO NAPOLITANO, MARIO MONTI e MATTEO RENZI .

Altro che giornalisti cani da guardia del potere. IL VIRUS DEL LECCACULISMO è inarrestabile e con la Seconda Repubblica si è trasformato in una vera epidemia. Dalla tv alle radio ai giornali: un esercito di adulatori in ogni campo, dal calcio allo spettacolo. QUESTO LIBRO PROPONE UN CATALOGO RAGIONATO DELLA ZERBINOCRAZIA ITALIOTA. Un dizionario dei migliori adulatori e cortigiani dei politici e degli imprenditori italioti che, a leggere i giornali e a vedere le tv, avrebbero dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci hanno rovinati. Con la complicità della cosiddetta informazione.

L’AUTORE

Marco Travaglio è direttore de “il Fatto Quotidiano” e collaboratore fisso del programma “Servizio pubblico” di Michele Santoro. I suoi molti libri, tutti bestseller, compongono insieme una controstoria dell’Italia della Seconda Repubblica, da L’ODORE DEI SOLDI (con Elio Veltri, 2001), MANI PULITE (con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, 2002 e 2012), REGIME (con Peter Gomez, 2004), ai più recenti AD PERSONAM (2010) e VIVA IL RE! (2013). Dopo i successi teatrali di PROMEMORIA , ANESTESIA TOTALE (con Isabella Ferrari), È STATO LA MAFIA (con Isabella Ferrari e con Valentina Lodovini), è in scena con il nuovo spettacolo SLURP (con Giorgia Salari, sempre per la produzione Promo Music).

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione dell’autore

Dante Alighieri li tratta peggio degli assassini e dei tiranni: li sbatte nell’ottavo cerchio dell’Inferno. Li chiama «ruffiani, ingannatori e lusinghieri». E li fa frustare sulla schiena e sulle chiappe da cornutissimi diavolacci. Ma, siccome quel contrappasso ancora non gli basta, li immerge pure fino alla punta dei capelli in un lago di sterco che pare lo scarico di tutte le fogne del mondo. Avete leccato culi per tutta la vita? Allora sguazzate nel loro prodotto tipico per l’eternità. Uno gli pare di conoscerlo: è Alessio Interminelli, nobiluomo di Lucca e noto lustrascarpe.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso / vidi gente attuffata in uno sterco / che da li uman privadi [latrine, nda] parea mosso. / E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco. / Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo / di riguardar più me che li altri brutti?». / E io a lui: «Perché, se ben ricordo, / già t’ho veduto coi capelli asciutti, /e se’ Alessio Interminei da Lucca: / però t’adocchio più che li altri tutti». / Ed elli allor, battendosi la zucca: / «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Cioè stanca. Per Dante, che la lingua l’ha sempre usata per criticare il potere, non per leccarlo, e ne ha pagato le conseguenze, la ruffianeria è uno dei peccati più spregevoli. Ma non solo per lui. Sull’arte adulatoria c’è ampia, sterminata letteratura.

Moltissimi grandi scrittori – da Aristofane a Plauto, da Tolstoj a Proust, da Flaubert a Dostoevskij, da Mann a Kafka, da Dickens a Cervantes, da Goldoni a Verne, da Balzac a Beckett – vi si sono dedicati. Chi per descriverla, chi per sbeffeggiarla, chi per praticarla o addirittura teorizzarla.

Svetonio racconta che Nerone fece incetta di allori ai Giochi di Olimpia del 67 d.C. Per vincere tutto si era portato appresso una corte di cinquemila persone. Alla corsa delle quadrighe, un brusco movimento dei cavalli lo sbalzò giù dal cocchio imperiale. Ma gli avversari, anziché approfittarne per allungare il passo, si fermarono di colpo e attesero pazienti che risalisse dalla polvere a bordo e riprendesse la gara fino al trionfo finale. Del resto i leccapiedi erano di casa nelle corti di tutti gli imperatori romani: tant’è che il vizietto di Tiberio di immergersi nella piscina della sua villa a Capri circondato da ragazzini («pisciculi», pesciolini), che dovevano infilarglisi fra le gambe e vellicare le sue voglie con giochetti di lingua e piccoli morsi, diventò una metafora delle bassezze cui si piegavano i cortigiani. […]

Questo libro propone tutto il meglio del peggio dei loro emuli italici: giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, manager, scrittori e artisti o presunti tali), anch’essi pronti a scorticarsi le ginocchia, ma per stabilire primati molto meno nobili e disinteressati. Un catalogo ragionato della Zerbinocrazia italiota. Una storia in pillole del secondo mestiere più antico del mondo, il giornalismo, peraltro in spietata concorrenza con il primo. Un dizionario dei Signorini Grandi Lingue al servizio di tutti i padroni: non soltanto della politica, ma anche dell’economia, della finanza, della burocrazia, della Chiesa e di tutti gli altri poteri. Cioè della peggior classe dirigente di tutti i tempi che, a leggere i giornali di questi vent’anni, avrebbe dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci ha regolarmente, scientificamente rovinati.

Ma ha potuto ingrassare, sopravvivere e autoperpetuarsi fino a oggi, scampando gattopardescamente a ogni cataclisma, anche con la connivenza e/o complicità di milioni di persone cloroformizzate da un’informazione che avrebbe dovuto illuminarle e svegliarle, invece le ha accecate e addormentate. Poi, con comodo, al risveglio, hanno scoperto che molti di quei geniali imprenditori, manager, banchieri e finanzieri di cui la stampa e la tv cantavano le lodi avevano violato leggi, pagato mazzette, rubato a man bassa, avvelenato l’ambiente, devastato le aziende, incenerito valore economico, distrutto posti di lavoro e talvolta anche vite umane. E che quasi tutti i governi magnificati dalla cosiddetta informazione non avevano azzeccato una mossa, una scelta, una riforma, lasciando l’Italia in condizioni molto peggiori di come l’avevano trovata.

Chi leggerà il libro scoprirà che – a parte poche eccezioni di lingue unidirezionali, che leccano ossessivamente lo stesso destinatario – i leccatori sono più o meno sempre gli stessi per tutte le stagioni. Dal 1992 a oggi sono riusciti a incensare la Lega di Bossi e poi Di Pietro e Mani pulite perché ci salvavano dai ladroni della Prima Repubblica (che, peraltro, avevano leccato fino al 1992), poi Berlusconi perché ci salvava dai ladroni della Prima Repubblica e anche da Mani pulite, poi Dini perché ci salvava da Berlusconi, poi Prodi perché ci salvava da Dini e da Berlusconi, poi D’Alema perché ci salvava da Prodi, poi Amato perché ci salvava da D’Alema, poi Berlusconi perché ci salvava da Prodi, poi Prodi-2 perché ci salvava da Berlusconi-2, poi Berlusconi-3 perché ci salvava da Prodi-2, poi Monti perché ci salvava da Berlusconi-3, poi Letta perché ci salvava da Monti, infine Renzi perché ci sta salvando da Letta (come no). Con l’aggravante delle larghe intese imposte da Napolitano (sempre sia lodato): tutti i grandi partiti al governo e tutte le migliori lingue dietro.

Gli sciuscià sono fatti così. Se ne stanno carponi giorno e notte a lustrare scarpe e, lustratòne un paio, passano subito a quello successivo, senza neppure alzare gli occhi per accorgersi che è cambiato il cliente. Chi ci ha ingannati tradendo il dovere di informarci ha le stesse colpe di chi ci ha sgovernati promettendo di salvarci. E se né gli uni né gli altri hanno mai pagato un centesimo per le proprie responsabilità, è perché leccatori e leccati sono indissolubilmente legati. Simul stabunt, simul cadent. Diceva Flaiano: «A furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre».

Ps1. Può darsi che anch’io, in 32 anni di carriera, sia incorso in qualche leccalecca. Se è capitato, non me ne sono accorto, ma me ne scuso.

Ps2. Può darsi che vi sia incorso qualche giornalista del «Fatto». Se è capitato, non me ne sono accorto, altrimenti il collega sarebbe finito nell’apposita rubrica «Leccalecca» e, subito dopo, licenziato (in questi casi, e solo in questi, non c’è articolo 18 che tenga).

Ps3. Scandagliando gli archivi (non solo il mio) per questo libro, mi sono imbattuto in memorabili esemplari di leccatori d’annata: quanto basta per raccontare la storia delle lingue italiane dagli anni del fascismo a quelli della Prima Repubblica, molto più indietro dei confini temporali che mi sono imposto per Slurp (la Seconda Repubblica). Se questo libro vi piacerà, prima o poi diventerà il sequel di un prequel che ho già in mente. Come nella saga di Guerre – anzi di Lingue – stellari.

Marco Travaglio, SLURP. Dizionario delle lingue italiane lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati . ED. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 592. € 18,00

ABOLIRE IL CARCERE?

 

Abolire il carcere_ManconiUna ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini in un libro di “chiarelettere”

Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?” Dalla postfazione di Gustavo Zagrebelsky

 IL LIBRO  

Non è una provocazione. Certo in tempi come questi sicuramente può sembrarlo. Eppure nel 1978 il parlamento italiano votò la legge per l’abolizione dei manicomi dopo anni di denunce della loro disumanità. Ora dobbiamo abolire le carceri, che, come dimostra questo libro, appena uscito in libreria, servono solo a riprodurre crimini e criminali e tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area del carcere (solo il 24 per cento dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82 per cento). Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima. E dunque? La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione. Per questo la invoca, ma per gli altri. La detenzione in strutture in genere fatiscenti e sovraffollate deve essere quindi abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti) quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso. Il libro indica Dieci proposte, già oggi attuabili, per provare a diventare un paese civile e lasciarci alle spalle decenni di illegalità, violenze e morti.

 GLI AUTORI

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’università Iulm di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Nel 2001 ha fondato A Buon Diritto. Associazione per le libertà.

Stefano Anastasia è ricercatore di Filosofia e sociologia del diritto presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Perugia, dove coordina la Clinica legale penitenziaria. È stato presidente dell’associazione Antigone.

Valentina Calderone è direttrice di A Buon Diritto. Associazione per le libertà e autrice di saggi sul tema della detenzione.

Federica Resta è avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto della Postfazione di Gustavo Zagrebelsky _ Carcere e Costituzione

Questo bel libro di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta costituisce una importante occasione per affrontare un tema generalmente ignorato. Partiamo da un primo assunto. Nel suo nudo concetto, il carcere e amputazione dalla vita sociale tramite restrizione della libertà e soggezione a una disciplina speciale in appositi luoghi a ciò predisposti. Poiché da una tale segregazione nascono sofferenze, si dice che il carcere e una pena e che la pena e una sanzione giustificata dalla violazione della legge. Questo e il nudo concetto che corrisponde a una concretissima realtà che percepiamo con turbamento ogni volta che mettiamo piede in uno stabilimento penitenziario o anche, soltanto, passiamo a fianco di muraglioni, grate e bocche di lupo (dove ancora esistono) e pensiamo al mondo che esiste al di la, segregato da quello in cui ci muoviamo. Ma il carcere come tale – prima ancora del regime carcerario, cioè delle condizioni della detenzione più o meno avvilenti – non chiama in causa solo sentimenti e risentimenti, ma solleva anche fondamentali interrogativi di natura costituzionale. Non è facile parlare del carcere, del carcere come tale, senza avvertire tutta la contraddizione ch’esso introduce nel più venerato tra i principi dell’attuale nostro vivere civile. Si dirà: pero, i detenuti se lo sono meritato. Cosi dice il senso comune: prima di dedicarci a pensare ai delinquenti e alla loro condizione, c’e ben altro di cui dobbiamo preoccuparci. Ci sono i problemi della gente per bene, quali noi amiamo considerarci. E difficile far comprendere a chi ragiona cosi che la questione carceraria riguarda si i detenuti, ma solo in seconda istanza, come conseguenza della rappresentazione che la società dei liberi e rispettati cittadini da di se stessa,quali noi ci compiacciamo di essere. Insomma: se le carceri sono un problema, lo sono innanzitutto per noi, che ci interroghiamo sui caratteri della società in cui vogliamo vivere e sui principi ai quali diciamo di essere affezionati. Che vi sia un rapporto di derivazione diretta tra struttura sociale e sistema delle pene e una verità che, dal celebre studio di Michel Foucault,1 non può essere messa in dubbio. Parlando del carcere non parliamo solo dei carcerati: parliamo in primo luogo di noi stessi. Non ce ne si rende conto facilmente. Di solito si ragiona come se ci fossimo noi e loro, distanti gli uni dagli altri. E facile cedere all’illusione e al preconcetto.

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta ABOLIRE IL CARCERE. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Prefazione di Gustavo Zagrebelsky), Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 128. € 12,00

 

 

 

 

 

COMPLICI. CASO MORO: IL PATTO SEGRETO TRA DC E BR. UN LIBRO DI CHIARELETTERE

Dopo quarant’anni, quattro processi, continui depistaggi, un’inchiesta con nuovi fatti e testimonianze. La verità non è mai stata così vicina.

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IL LIBRO
CI HANNO MENTITO. Sul caso Moro ci hanno raccontato una VERITÀ AGGIUSTATA.

Nella storia dell’Italia repubblicana non si è mai verificato un delitto politico che abbia presentato tanti RISVOLTI OSCURI come il delitto Moro. Un delitto politico che è ancora cronaca viva: dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, è stato istituita un’apposita Commissione d’inchiesta parlamentare per indagare ancora. Perché quello che sappiamo oggi è il frutto della TRATTATIVA tra Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse. Ed è solo una minima parte di QUANTO È DAVVERO ACCADUTO.
Chi c’era in via Fani la mattina del sequestro? Chi sparò? Dov’erano la o le prigioni di Moro? Chi era il suo QUARTO CARCERIERE? Che fine hanno fatto le carte scritte dal presidente democristiano durante i cinquantacinque giorni e le REGISTRAZIONI dei suoi interrogatori? E, soprattutto, chi ha sottratto la LUNGA LISTA DEGLI APPARTENENTI A GLADIO stilata da Moro durante la prigionia?
L’inchiesta di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato ricostruisce tasselli e scava dentro i fatti. Quelli acclarati e quelli nascosti. Li enumera e li analizza. E li inserisce ciascuno nel loro esatto contesto insieme ai protagonisti di quella stagione: il presidente Giulio Andreotti e il ministro Francesco Cossiga, suor Teresilla e don Mennini, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il suo braccio destro, il generale Nicolò Bozzo. E brigatisti, mafiosi, uomini della Xa Mas, del Sismi e di Gladio, poliziotti, carabinieri e massoni. Una ricostruzione che ci porta davanti a una verità destabilizzante. 

 

GLI AUTORI
Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate su temi di attualità politica. Con Chiarelettere ha pubblicato L’ANELLO DELLA REPUBBLICA (2009) e DOPPIO LIVELLO (2013).

Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista professionista. Docente di criminologia e problemi della sicurezza presso diversi master, è direttore del sito www.misteriditalia.it. Con Chiarelettere, insieme a Ferdinando Imposimato, ha pubblicato DOVEVA MORIRE (2008) e ATTENTATO AL PAPA (2011).

 

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

Questo libro
Quella che state per leggere è l’anatomia di un delitto politico avvenuto oltre trentasette anni fa. Abbiamo analizzato minuziosamente, con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica, un avvenimento storico che, nonostante il tempo passato, è ancora cronaca viva, al punto da meritare, dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, l’istituzione di una nuova  Commissione d’inchiesta parlamentare, la seconda, senza considerare le tante sedute dedicate al tema dalle Commissioni stragi che si sono succedute nel tempo. Una cronaca così viva che perfino oggi, come potrete leggere, emergono novità e non di poco conto. A cominciare da quelle che riguardano il luogo dove il 16 marzo 1978 tutto è cominciato: via Fani, il teatro della strage che tolse la vita a cinque servitori dello Stato: loro difendevano quella di un uomo politico che da quel momento, per cinquantacinque giorni, finirà nelle mani di una banda terroristica prima di essere assassinato.
È per questo che il nostro racconto comincia proprio in via Fani dove – ora è possibile dirlo senza più ombra di dubbio – l’agguato delle Brigate rosse non andò come hanno stabilito le tante sentenze giudiziarie e neppure come ha raccontato l’unica «voce di dentro» dell’organizzazione armata presente sul luogo della strage: Valerio Morucci. Infatti quella mattina il commando non era composto solo da dieci brigatisti (otto uomini e due donne), ma ben supportato da elementi estranei che parteciparono in maniera attiva. In questo libro ricostruiamo pazientemente, e con l’aiuto indispensabile delle tante perizie tecnico-scientifiche che si sono susseguite negli anni, la dinamica di un’operazione terroristica che fino a oggi presentava troppi buchi illogici, troppe anomalie, troppe discrasie.  A cominciare dagli effettivi brigatisti presenti sul posto, per finire a quelle oscure presenze in veste di osservatori, ma anche di facilitatori, di persone che con l’eversione armata non c’entravano nulla, semmai puntavano a una diversa azione eversiva, per così dire «statale». Con stupore abbiamo dovuto constare che, quando c’è odore di servizi segreti, magistrati anche molto preparati e audaci hanno come un mancamento e diventano improvvisamente poco curiosi.
Sappiamo già che solo questa nuova ricostruzione dell’assalto del 16 marzo – e solo per aver fatto il nostro mestiere di giornalisti – basterà a farci piovere addosso le solite, stucchevoli critiche di «dietrologia» e «complottismo». Non ce ne rammarichiamo. Se l’esercizio di buon giornalismo comporta anche il fatto di non accontentarsi mai delle verità ufficiali o delle mezze verità, e quindi di studiare non solo la scena ma anche il retroscena dei fatti, il buon giornalista deve per forza essere un po’ «dietrologo». Altrimenti è solo un megafono altrui.
In questo libro abbiamo passato al microscopio ogni singolo istante di quei tormentati cinquantacinque giorni con un unico scopo: dare senso logico a ciò che senso ne aveva ben poco. Abbiamo voluto dare dimensione a tutti quei fatti, grandi o piccoli, sui quali ancora non esiste un’accettabile convergenza tra racconti, indizi, prove, dichiarazioni, testimonianze.
Dall’analisi minuziosa della dinamica della sparatoria e del rapimento dell’ostaggio alle confuse vie di fuga del commando; dalle tante bugie sulla «prigione del popolo» in cui Aldo Moro venne detenuto all’opaca e nebulosa gestione politica del più importante sequestro di persona mai compiuto in Italia; dai silenzi calcolati dei brigatisti alle campagne d’opinione di una parte consistente della Democrazia cristiana, gli uni e le altre finalizzati all’ottenimento e alla concessione del «perdono». Una soluzione tombale sotto cui seppellire la verità dei fatti, scomoda per le Brigate rosse così come per il potere, non solo quello democristiano; per finire con l’infinita e scandalosa gestione delle carte recuperate a rate in via Monte Nevoso – e che contenevano il vero pensiero del prigioniero – fino all’individuazione, quanto mai tardiva, del misterioso «quarto uomo» a guardia della prigione. Tutti aspetti che, oltre ogni ragionevole dubbio, non hanno mai quadrato, innegabilmente frutto di occultamenti, silenzi, omertà. Quali verità dovevano essere coperte?
Prendiamo un singolo fotogramma: 16 marzo 1978, poco dopo le 9 di mattina, in via Licinio Calvo. Lì i brigatisti riportano le auto usate nell’agguato: perché sfidare la sorte e rischiare di tornare così vicini al luogo del delitto? Si burlano delle forze dell’ordine rischiando tutto? Non c’è logica. A meno che, attorno a quella via, ci sia una loro base. Aldo Moro trascorre lì i primi momenti dopo l’inferno di via Fani? Scrivendo a sua moglie Eleonora, solo il 20 aprile le dice: «Chiama Antonio Mennini, viceparroco di Santa Lucia, e fallo venire a casa». La parrocchia è vicina all’abitazione della famiglia Moro e vicina a via Fani: Moro stava dando una precisa indicazione?
Si era reso conto del breve tragitto fatto per giungere al (primo) covo? È uno scenario verosimile, che spiega gli ingarbugliati e contraddittori racconti dei brigatisti sulla loro fuga dalla scena della strage.
Ricomponendo i mille pezzi di quel maledetto puzzle che va sotto il nome di «caso Moro», abbiamo cercato di dimostrare che almeno una parte dei tanti misteri sono racchiusi nei contatti e nelle trattative tra una parte della Democrazia cristiana e i vertici delle Brigate rosse; trattative che, al di fuori di quelle conosciute, cominciano addirittura quando il sequestro Moro è ancora in corso. Nella complicità tra i due principali attori visibili di questa tragedia tutta italiana – il terzo era Moro che cercò disperatamente una via d’uscita – si racchiude la massa enorme di contraddizioni, di mezze bugie e di mezze verità che hanno reso la vicenda un’inestricabile matassa, una nube tossica che ha occultato e protetto i personaggi invisibili.
Questo libro non affronta le trattative avviate (o fintamente avviate) per salvare la vita di Moro, un capitolo senz’altro rilevante del quale molto si è appreso nel corso degli anni. Anche se ancora non abbiamo una ragionevole spiegazione del perché fallì la possibilità di un accordo. Continua a essere oscuro il motivo per cui Paolo VI non riuscì nel suo pressante tentativo di restituire Moro al paese e alla sua famiglia. Eppure, come dimostra l’audizione di don Mennini in Commissione Moro del 9 marzo 2015, c’era stato il tentativo di aprire un «canale di ritorno», utile a una comunicazione diretta tra le Br e la famiglia Moro.
E forse anche qualcosa in più. Dice il sacerdote amico di Moro: «Il 20 aprile 1978, vestito da prete, andai a ritirare un messaggio delle Br nascosto nei pressi di un bar. Lì vidi un uomo con i baffi che in seguito riconobbi dalle foto segnaletiche: era Valerio Morucci. Solo che in tutte le foto segnaletiche pubblicate, dopo la fine del sequestro, Morucci è senza baffi». Cosa ci vuol dire don Mennini? Che ci fu un contatto diretto tra i due?
Ci siamo chiesti dove fossero le crepe della ricostruzione ufficiale. Dopo aver analizzato il piano militare dell’operazione, ci siamo calati nelle interminabili giornate del sequestro e poi, a dramma concluso, nel lungo dialogo a distanza, pubblico e clandestino al tempo stesso, tra i brigatisti sconfitti e gli uomini della Dc. Abbiamo così seguito il filo della loro complicità che ha reso il «caso Moro» una lunga trattativa, pressoché infinita, tra la Democrazia cristiana e le Brigate rosse, che forse si è conclusa con la scarcerazione degli uomini e delle donne più in vista dell’organizzazione.
La Dc non poteva permettere che venisse alla luce il suo sbandamento e la sua responsabilità per la perdita della vita dell’ostaggio Aldo Moro. Si pensi alle tante ambiguità sugli effettivi sforzi compiuti nella localizzazione della «prigione del popolo», alla scarsa capacità che ebbero i suoi massimi dirigenti di respingere le intrusioni esterne: da quel folto consesso piduista insediatosi al Viminale durante i giorni del sequestro, fino alle manovre degli esperti americani per orientare i rapitori all’eliminazione dell’ostaggio.
Le Brigate rosse, dal canto loro, hanno sempre voluto rivendicare la loro purezza rivoluzionaria. E alcuni superstiti di quella stagione, certamente in buona fede e inconsapevoli dei tanti compromessi che i loro capi hanno intessuto sulle loro teste, ancora oggi tentano questa disperata impresa. Anche di fronte alle evidenze più contrarie. Anche di fronte agli errori più macroscopici. Ma non solo questo importava ai grandi capi di una rivoluzione impossibile, soffocata nelle stanze del potere. Importavano anche gli sconti di pena, una legittima aspirazione che doveva però accompagnarsi al senso di responsabilità di dire come erano andate veramente le cose, momento per momento, senza inganni. Oppure dobbiamo credere che entrambe, la Dc e le Brigate rosse, divennero allora ostaggio di un potere intrigante e intelligente, capace di insinuarsi nelle pieghe del Partito di Moro e tra gli uomini della rivoluzione, ottenendo da entrambi una resa. E la morte di Moro.
E allora ecco che continuare a discutere di quel tempo e di quegli anni – che ci appaiono così diversi e lontani – è importante per capire non solo uno dei volti nascosti della nostra Repubblica, ma anche per riflettere sul paese in cui viviamo. Per farlo è necessario tornare indietro e andare frugare negli angoli bui della storia perché la verità, e purtroppo non solo nel «caso Moro», non è divenuta coscienza di tutti, patrimonio dell’opinione pubblica, storia condivisa: qualcuno voleva tenerla nascosta in qualche cassetto segreto.
Gli interrogativi che ancora rimangono troveranno in futuro nuove risposte. Qualcuno sostiene che un giorno sarà aperto un cassetto degli archivi di Washington, in forza del famoso Freedom of Information Act, e salterà fuori qualche altro frammento di verità. Anche perché molti tra coloro che si sono occupati della vicenda sono ormai convinti che la verità sia Oltreoceano. Gli stessi ritengono che Giulio Andreotti e Francesco Cossiga siano stati tra i maggiori depositari dei misteri del «caso Moro». Non si sa con chi abbiano stretto il patto ferreo del silenzio, ma lo hanno fatto. Certamente hanno condiviso con altri notizie importanti, e non è detto che i loro confidenti siano stati soltanto loro amici di partito. Magari nella ristretta cerchia ci sono anche uno o più avversari politici: ma il patto ha retto lo stesso.
Se avessimo saputo subito cosa fosse davvero successo prima, durante e dopo quei cinquantacinque giorni, la coscienza collettiva del paese avrebbe potuto fare un salto in avanti e magari contrastare le forme più deteriori di una democrazia in affanno. Ma non è mai troppo tardi per conoscere la verità e per questo è importante il contributo di analisi dato in questi anni da studiosi, giornalisti, ricercatori. Continuare a discutere attorno all’azione brigatista più clamorosa e scioccante dell’Italia repubblicana è molto importante perché non possiamo, non dobbiamo, accettare la versione «ufficiale» e di comodo dei fatti. Sbagliano, o forse sono in malafede, coloro che ritengono che sia ora di smettere di cercare, che sarebbe più comodo consegnare alla storia tutto il dossier Moro così com’è. Tra essi ci sono coloro che vogliono che nulla si muova, che tutto resti immobile: questo non solo non è accettabile, ma non è neppure possibile.

Stefania Limiti e Sandro Provvisionato  COMPLICI. CASO MORO. IL PATTO SEGRETO TRA DC E BR, Ed Chiarelettere, Milano 2015, Pagg. 320

I nuovi potenti al tempo di Matteo Renzi: da Bergoglio a Mattarella. Un libro di “Chiarelettere”

BisignaniMadron_piattoDa Berlusconi a Draghi, dalla Boschi al cardinale Scola… Il fuori scena della politica italiana. Tutto quello che “è così ma non si può dire ”.

IL LIBRO

Ritorna in libreria, domani nelle librerie dei capoluoghi di provincia, dopo il clamoroso successo con L’uomo che sussurra ai potenti, la “coppia” Bisignani – Madron. Questa volta passano ai “raggi X” i nuovi potenti dell’era renziana. Un libro che analizza il POTERE. In tutte le sue forme, i suoi tic, i suoi segreti, i suoi perché. Lo vogliono in tanti ma lo provano in pochi. La parola va a chi è informato sui fatti perché il potere lo conosce bene. Col libro precedente, Bisignani e Madron si erano fermati al 2013. Da allora molte cose sono cambiate. Dopo la morte di Andreotti e l’elezione di Bergoglio, la MAPPA DEL POTERE in Italia è tutta da ridisegnare.
Ora un uomo solo è al comando, MATTEO RENZI, e un altro Matteo, Salvini, si è affacciato alla ribalta del teatro politico. La commedia è stata allestita e i due autori provano a raccontarla tra le pieghe di una cronaca che giornali e tv propongono solo in parte. Dai retroscena dell’elezione di MATTARELLA e il vero perché della rottura del Patto del Nazareno alla crisi drammatica all’interno del VATICANO.
Ecco un Renzi sconosciuto, le storie inedite dei suoi collaboratori, l’improvvisazione e l’arroganza che ha stravolto ogni protocollo, gli affari in corso tra nuove nomine e gaffe internazionali (con BERGOGLIO e OBAMA).
Sull’altra sponda anche SALVINI è una vera sorpresa, a cominciare dal nuovo cerchio magico che comprende diversi GAY. Benissimo. Ma la Lega del celodurismo di Bossi? E la DERIVA FASCISTA dell’alleanza con CasaPound e l’amicizia con Putin?
Ecco la fotografia strappata e contraddittoria del potere oggi in Italia. Un’Italia che in parte non conosciamo, che fa ridere e anche un po’ piangere. Per salire sul carro di chi è più forte la gara è durissima, mentre i cittadini, disinformati, ignari, storditi, assistono fuori dai Palazzi.

GLI AUTORI

Luigi Bisignani ha lavorato per varie testate giornalistiche. È stato anche capo ufficio stampa per alcuni ministeri della Prima repubblica. Attualmente è partner di una società di consulenza. È stato al centro di clamorose inchieste giudiziarie. È autore di due spy-story: IL SIGILLO DELLA PORPORA e NOSTRA SIGNORA DEL KGB, uscite entrambe per Rusconi. Per Chiarelettere ha scritto il thriller IL DIRETTORE (2014) e con Paolo Madron L’UOMO CHE SUSSURRA AI POTENTI (2013).

Paolo Madron, giornalista, già corrispondente da New York di “Milano Finanza” e vicedirettore di “Panorama”, è ora direttore di Lettera43.it, quotidiano online da lui fondato nel 2010. Ha condotto importanti inchieste sul capitalismo italiano ed è autore di vari libri, tra cui IL LATO DEBOLE DEI POTERI FORTI (Longanesi 2005) e STORIA SEGRETA DEL CAPITALISMO ITALIANO (con Cesare Romiti, Longanesi 2012).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo una breve anticipazione del libro

Scusa Luigi, ma da uno a cento quanto piace Palazzo Chigi a Matteo Renzi?

Direi mille. Gode da impazzire a essere li e ormai ne apprezza anche tutte le diavolerie.

[…]
Abbiamo visto che cosa ama davvero fare Renzi.

Quel che ha sempre fatto: piazzare i suoi uomini, distruggere quelli che ritiene suoi avversari e tarpare le ali agli amici che emergono troppo e potrebbero rischiare di fargli ombra.

Si chiama potere. Se ricordi – la materia appassiona – io e te due anni fa ci abbiamo scritto un libro.

Adesso diranno che abbiamo scritto il seguito per battere il ferro finche e caldo.

Caldo lo e, ma e un altro ferro. Quando nel maggio del 2013 e uscito L’uomo che sussurra ai potenti (Chiarelettere), Renzi era ancora sindaco di Firenze e le primarie che lo avrebbero portato a diventare segretario del Pd erano ancora lontane.

Se e per questo anche Bergoglio era diventato papa da appena due mesi. E Matteo Salvini, il segretario della Lega che ora spopola su tv e giornali, non lo avevamo mai menzionato.

L’unico sempre rimasto in scena e Berlusconi.

I cui già seri problemi, nonostante la recente assoluzione della Cassazione, continuano a complicarsi. Insomma, in nemmeno due anni, la scena italiana, per non parlare di quella internazionale, con l’Isis alle porte, e completamente cambiata.

Eppure in cosi poco tempo ne sono successe di cose. Quindi ci sono un sacco di intriganti retroscena da raccontare.

Per esempio, la ricostruzione minuziosa e spiazzante delle trame che hanno portato Sergio Mattarella al Colle.

O i gustosi dietro le quinte sul cerchio magico di Berlusconi, racchiuso tra Arcore e Palazzo Grazioli.

Dove la «Scugnizza», come la chiama il capo, l’ha fatta da padrona insieme alla solita «Badante». I cerchi magici li trovi ovunque, quando si respira l’aria del potere.

Anche attorno a Salvini, la nuova star del centrodestra che si barcamena tra il Cremlino, le casse vuote del partito e i locali gay.

Guarda caso, comunque la giri, e sempre sul pruriginoso che si va a finire. Anche in Vaticano, dove oramai il sesso e diventato una perenne ossessione.

Tornerei a Renzi. Che il potere gli piaccia da matti e indubbio. Che sia un innovatore, magari spesso più nelle parole che nei fatti, altrettanto.

Innovatore di sicuro. Ora, per esempio, si sta battendo per avere sempre la connessione internet sui voli di Stato, in modo da twittare come Obama.

Be’, mi pare un’esigenza sacrosanta. Lui e il primo presidente del Consiglio della storia repubblicana interamente 2.0. Il problema e se e quanto durerà.

Tu che ne pensi?

Che avremo a che fare con lui per molto tempo, non foss’altro che per la desolante mancanza di alternative. Tu invece?

Se si ispirerà finalmente a Giorgio La Pira, illuminato sindaco della sua città degli anni Cinquanta e Sessanta, se baderà anche agli altri e non solo a se stesso, durerà molto a lungo. Altrimenti soccomberà. Ma lui si sente ormai come il Napoleone rignanese del «Prima ti butti e poi si vede».
Scusa Paolo, ma l’altro Matteo, Salvini, come si trova a capo della Lega «celodurista» di Bossi?

Alle prese con Flavio Tosi, circondato da gay, con tantissimi guai per i debiti del partito, che forse spera di risolvere a Mosca. A proposito di “omo”, in Vaticano papa Bergoglio come se la passa?

Vive asserragliato nel suo bilocale a Santa Marta, che sembra la stanza di un motel, mentre la curia e molti cardinali, soprattutto africani e statunitensi, sono in rivolta a causa di questa sua ossessione per il sesso e i diritti civili.

Visto che parliamo di sesso… L’«appassionato della materia» per eccellenza, il nostro (ex) Cavaliere, e ancora alle prese con il bunga bunga e la rivolta delle Olgettine che minacciano di
parlare?

Neanche più quello gli e rimasto, il cerchio magico l’ha ridotto a essere un uomo triste e sempre più fragile.

Il suo partito e dilaniato da più tribù di quante ce ne siano in Libia. Poi, da quando e arrivato Renzi, le sue extrasistoli, per il tradimento del Quirinale, sono impazzite.

Per il Quirinale? Mi spiace dirlo, ma ti sbagli, Paolo. Ti darò tutti gli elementi per dedurre che e stato Silvio a tradire Matteo, e non viceversa.

Sono curioso di conoscere da te i dettagli. E del fantomatico Patto del Nazareno che mi dici?

Un accordo di potere, un reciproco conflitto di interessi, forse inutilmente buttato all’aria. Ma vedrai che proseguirà, in forma riservata, su altri piani…
Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Renzi
da Bergoglio a Mattarella, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 256, € 16,00

L’Italia è matta? Intervista a Vittorino Andreoli

Vittorino Andreoli, tra i più noti psichiatri italiani, in questo suo ultimo libro, Ma Siamo Matti (Ed. Rizzoli) , cerca di analizzare, in quanto psichiatra, lo stato “mentale” degli italiani. Impresa assai complicata. Insomma porta nel “lettino” dell’analista gli italiani. Di quale malattia soffrono gli italiani? Quali sono le radici del malessere italiano? In questa intervista il professore ci offre un quadro, intercalando rigore scientifico e bonaria ironia, del nostro stato di salute profondo.

 Professore incominciamo ad analizzare, sinteticamente, i “sintomi” del nostro “mal d’essere” . Il primo sintomo è il “masochismo mascherato”, ovvero lei vede gli italiani come dei masochisti mascherati da esibizionisti. In che senso siamo dei masochisti “mascherati”?

Vittorino AndreoliDevo fare una premessa: io come psichiatra sono abituato ad occuparmi di una singola persona e ogni uomo rappresenta per me un mondo, un mondo intero, questo è il mio mestiere. È chiaro che vedere il mio nome su un libro che visita un popolo fa un certo scalpore. Sempre più spesso, in questi ultimi periodi, mi sono trovato di fronte a casi di patologia, da me come sa vengono casi gravi. Casi in cui sempre di più viene riferito all’origine del proprio disturbo, non qualcosa di interno, ma di esterno; è come se sui singoli casi ci si riflettesse una situazione esterna, familiare o sociale ecc. Allora io ho studiato, in quella lunga appendice, la mente del popolo italiano e mi sono convinto di questo: che in certe situazioni storiche tutti noi italiani, perché io sono dentro, questa volta parlo anche di me, in certe situazioni di crisi, che non è solo una crisi economica, ma una crisi dove i sentimenti crollano ecc, c’è un comportamento o dei comportamenti dominanti in tutto il popolo, la questione sarà più o meno intensa, ma c’è in tutti.

Detto questo – era una premessa –, per definire se un popolo è malato o no bisogna vedere se ci sono i sintomi. Primo sintomo: noi soffriamo di masochismo, il masochista, che è stato descritto in quel libro di Masoch “La venere con la pelliccia”, è uno che gode venendo maltrattato o facendosi del male. Noi siamo un popolo che in questo periodo ama farsi del male. Questo lo si vede, per esempio, dal fatto che stiamo distruggendo il nostro patrimonio culturale, che quando uno applica la legge muore Sansone e tutti i filistei. C’è quella che chiamo la distruttività, che è distinta dalla violenza. La violenza è un atteggiamento aggressivo per raggiungere l’obiettivo; la distruttività è una piccola apocalisse. Si ammazza la moglie e poi ci si ammazza. Una delle espressioni di questo masochismo è proprio quello della distruttività. C’è anche un ritorno della “danza macabra”, morire non ha poi tanto senso, uccidere è banale, si invita la morte a ballare. È un po’ questo atteggiamento che porta a distruggere. Il 47% sono giovani che non hanno nulla da fare, i vecchi vanno buttati via, abbiamo raggiunto la longevità e ora ci siamo accorti che costa troppo e quindi interrompiamo le terapie, buttiamo via gli anziani. C’è anche un masochismo politico che distrugge la democrazia.

Questo masochismo io lo chiamo con maschera perché è esibito, si vuole che si veda. Pensi che una volta vendevano gli oggetti falsi come veri. Adesso è successo che vendono l’originale e poi al posto dell’originale mettono la copia, il falso. C’è proprio un senso di distruzione della storia che credo sia evidente, si continua a rubare. Rubano anche quelli che sono entrati in politica su chiamata del Padre Eterno. Il masochista individuale è uno, in Masock lui fa un contratto con la moglie affinché questa verghi più volte al giorno, ma fa parte della vita individuale e privata. Qui è un esibizionista perché si mostra. Lei vada ad una riunione di condominio, si sente gente che dice: “se viene giù una goccia d’acqua io le spacco la testa, io la denuncio”. Esisto perché spacco, esisto perché spavento. È il masochismo come atteggiamento di tutti un po’. Questo non è pessimismo, lei sa che sono un pessimista attivo.

L’altro sintomo, molto grave, è che c’è un individualismo spietato. Ovvero un popolo senza un “noi”, ma solo con un grande “io”. Come si manifesta questa spietatezza ?

Il secondo sintomo è l’individualismo spietato: c’è l’io in famiglia, c’è l’io dappertutto. Siamo dei narcisi spaventosi, tutto io, faccio io. Se il narcisismo è maschile, la seduzione è femminile. E tutte si mostrano, mostrano tutto, ha visto Madonna? Se ai miei tempi una ragazza faceva un gesto cosi – tirandosi su le vesti e mostrando il didietro – la portavano dallo psichiatra. Pur di essere “io” faccio qualsiasi cosa, è un narcisismo fondato sull’io e sul mio. Quello che è del “noi” non importa, lo roviniamo. Questo, in un momento in cui si dovrebbe costruire qualcosa insieme, ognuno suona il proprio strumento, come se lei ascoltasse un’orchestra dove ognuno suona per conto suo. È un delirio dell’io. È una grave malattia, perché non siamo più capaci di relazioni, c’è il consumo dei sentimenti, uno si sposa e dopo cinque giorni si stufa e va via. I figli non contano più nulla. Uno parla e non ha pensato cosa dire, si ascolta, scopre anche di dire qualcosa che ritiene meraviglioso, siamo un popolo che non sa e continua a parlare. L’importante è dire, non fare. Inoltre, questo paese è facilissimo a risolvere le cose, tutti sanno come risolvere la crisi, però non fanno niente. È tutto un grande teatro.

Poi c’è il sintomo della “recita”, ovvero un popolo di “maschere” che nascondono il loro volto. Ricordiamo che Il termine persona deriva dal greco “prosopon”, la “maschera” dell’attore. Insomma la dialettica “persona” – “maschera” è assai antica e complessa. Comunque noi italiani cosa nascondiamo?

In fondo, siamo un popolo di poveri cani. Ognuno racconta di sé cose che non esistono, ognuno si “inventa”, è come l’attore nella Grecia antica. Persona deriva dal greco che significa maschera, ma nel senso greco la maschera significa diventare un altro: è una trasformazione rituale di valore, mentre quello che avviene adesso è diventare tutto, ci si racconta in positivo e in negativo, basta raccontare menzogne. La menzogna domina. Basta pensare ad un fatto di questi giorni: ci sono le registrazioni che dicono che uno ha telefonato per far assumere il proprio figlio in un appalto, che questo padre ha dato a quello che sarebbe diventato il datore di lavoro. Lei sente questo e c’è quell’altro che dice: “io non ho mani fatto nulla!”, la menzogna che diventa lapalissiana. Poi abbiamo avuto nel passato uomini, che lei sa, hanno mentito. Qualche anno fa le avrei detto che questa è una caratteristica di alcuni, in questo momento le dico che questa caratteristica è di tutti noi. La corruzione: siamo un po’ tutti corrotti, racconto un piccolo fatto. Una volta vado a cena con la famiglia di un amico e mi racconta la moglie che ha chiamato l’idraulico. Lei chiede quant’è, e l’idraulico le dice: “io l’IVA non gliela faccio e se lei vuole l’Iva non vengo più”, lei alla fine ha pagato in nero. Tutti noi abbiamo la piccola furberia, è un momento in cui non ci importa più della corruzione, tanto un pochino lo siamo tutti e tutti neghiamo, siamo persone tutte onestissime nelle nostre parole. È una recita menzognera.

L’ultimo sintomo è che siamo un popolo di creduloni, che aspettano il “miracolo” che risolverà i nostri problemi. E, quindi, siamo un popolo che s’affida all’uomo della Provvidenza, qualunque sia il suo nome. E’ Così?

Si crede che tutto si risolverà siccome siamo arrivati al fondo. Ma il fondo del barile si può anche raschiare! E poi siamo un popolo che ha la fortuna, il destino, l’oroscopo, i maghi, i gratta e vinci. Poi siamo pieni di patroni, si nomina sempre San Gennaro, ma a Verona c’è San Zeno, siamo pieni di questi patroni che ci fanno andare bene le cose. Non c’è posto di lavoro, però bisogna avere la raccomandazione, per cui ormai siamo all’assurdo che c’è la raccomandazione ma non c’è il posto di lavoro. Siamo arrivati all’assurda.

La sua diagnosi è spietata: siamo un popolo che è affetto da “amenza”. Una malattia grave. Può spiegarcela?

Questo termine è stato introdotto da Theodor Meynert e poi ripreso nella psichiatria italiana da Tanzi. L’amenza va distinta dalla demenza, che è una forma di degenerazione o delle fibre del cervello o delle cellule. L’amenza è il non uso della mente: l’amente è quello che non usa il cervello, ma se lo usasse funzionerebbe. Il cervello è una grande macchina, ma se lei non la usa; quindi l’amenza è una patologia che sovente si risolve completamente e quindi che si passa da un comportamento malato ad uno positivo ed equilibrato perché è come se quella macchina venisse messa in funzione. Il libro non è tragico, devono tutti mettere in azione questa macchina. Bisogna rendersi conto di essere malati.

Lei resta, però, nonostante tutto “ottimista” sugli italiani. Perché? Su quali basi lei vede una possibile “resurrezione” degli italiani ?

Io ho potuto mettere su un lettino un popolo, però alla fine dichiaro che uno psichiatra non può guarire un popolo, anche perché dovrebbe guarire se stesso come parte di questo popolo. Ci vuole un risveglio di questo popolo e in questa consapevolezza bisogna fare affidamento, nel mettersi insieme, sul noi, nel frenare questo masochismo. La terapia è la presa di coscienza di tutti, non si può aspettare che arrivi uno. Sta finendo una civiltà, i nostri figli cosa faranno? Siamo un popolo malato e ognuno deve contribuire ad uscire dal proprio individualismo. Questo bisogno di far sopravvivere le generazioni, che tutto questo possa risvegliare. In quel decalogo ho indicato alcuni punti necessari per far ripartire. Il primo punto è togliere al denaro il potere che gli abbiamo dato, come misura di tutte le cose, il denaro ha assunto una dimensione enorme; un secondo aspetto l’Europa, se crediamo nell’Europa non può essere quella del più forte, bisogna che ci sia l’Europa dell’insieme, della comprensione, del sostegno comune, altrimenti diventiamo tutti alle dipendenze di una certa Merker. Poi bisogna fare in modo che si eviti la povertà che è considerata una colpa, c’è gente che si suicida quando non riesce a lavorare, in Veneto è stata una strage di questi suicidi. Bisogna diminuire il concetto di voler essere il paese industriale. Rientriamo dentro una concezione che è legata al nostro popolo, che è la storia, la creatività, non dobbiamo essere la grande potenza che decide di fare le guerre agli altri. Appena abbiamo un amico che è portiere al ministero delle poste, andiamo a chiedere la raccomandazione. Questi atteggiamenti nuovi, sono la benzina per far ripartire il cervello .