Medicine e bugie. Un libro-denuncia di Chiarelettere sulle truffe mediche

Più medicine, più salute. Siamo ossessionati dal benessere e abbiamo talmente paura delle malattie (anche quelle inventate) che siamo disposti a ingerire qualsiasi pillola, e a credere a truffatori e guaritori senza scrupoli.

Bombardati da pubblicità ingannevoli, compriamo integratori di ogni specie senza sapere che per la maggior parte non servono a nulla, siamo disposti a sottoporci a esami più volte all’anno con costi elevatissimi anche quando non ce n’è bisogno, ci affidiamo a qualsiasi prodotto che sia naturale e biologico sicuri della sua efficacia, anche quando non provata scientificamente, e siamo in balia della prima novità farmaceutica che ci prometta di farci diventare più belli e più giovani. Poveri ingenui.

Ecco un libro che ci può aiutare. Di Grazia, medico di professione, combatte da anni contro truffe e ciarlatani. Riporta casi di farmaci inutili o addirittura dannosi spacciati per miracolosi, dal nuovo prodotto contro l’Alzheimer allo scandalo dell’Oscillococcinum, o di certi psicofarmaci o antidolorifici causa di morte e disturbi gravissimi. Tutto provato e documentato.

Essere informati è l’unica cura che può salvarci da facili illusioni e aiutarci a essere cittadini e pazienti più sani e consapevoli.

L’AUTORE
Salvo Di Grazia è un chirurgo specialista in Ginecologia e Ostetricia, medico ospedaliero e divulgatore scientifico. Appassionato di musica e internet. Scrive per diverse testate e siti, collabora con “Le Scienze” e “il Fatto Quotidiano”. Ha fondato nel 2008 e gestisce il blog MedBunker che è diventato con il tempo punto di riferimento sulla medicina e contro i ciarlatani della salute. Nel 2014 ha pubblicato il libro SALUTE E BUGIE (Chiarelettere) sulle terapie truffaldine.
http://medbunker.blogspot.it

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro.

La truffa degli integratori alimentari
Fin da piccoli ci hanno convinto che, per stare meglio (ma se si sta già bene, perché dovremmo stare meglio?), è necessario (quasi obbligatorio) assumere vitamine, pillole e bustine. Un integratore, per legge, non può vantare effetti terapeutici (ovvero non può sostenere di «curare» o «guarire» da una malattia) e per questo ha una procedura di approvazione molto più semplice rispetto a quella dei farmaci standard. Questi ultimi, per essere venduti, devono superare molti test e autorizzazioni. Devono dimostrare di essere sicuri ed efficaci, bisogna presentare degli studi che ne attestino gli effetti e che vengono passati al vaglio degli enti preposti (in Italia l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, in Europa l’Ema, European Medicines Agency, negli Stati Uniti la Fda, Food and Drug Administration) e solo dopo diverso tempo possono essere messi in commercio. Gli integratori non sono sottoposti a un iter così rigoroso: basta dimostrare che siano innocui. Quando li compriamo, quindi, sappiamo semplicemente che non fanno male, ma non abbiamo alcuna certezza della loro efficacia: la maggioranza degli integratori in vendita non serve a niente. Ma allora perché hanno tanto successo? Per il solito motivo: siamo alla continua ricerca di un rimedio per i nostri problemi, veri o ipotetici che siano. Prendiamo per esempio gli antiossidanti. Non mi dite di non aver mai sentito parlare dei loro benefici, ne discutono ovunque in maniera quasi martellante. Esperti e medici sono d’accordo: per sconfiggere i radicali liberi (che tra le altre cose ci fanno invecchiare e ammalare) gli antiossidanti sono un’autentica panacea. Sono contenuti in molti alimenti (economici, come la frutta e la verdura) ma possiamo anche assumerli in pratiche capsule (acquistandole a caro prezzo, s’intende). Ma i prodotti della terra non esercitano sui consumatori lo stesso fascino di una pillola colorata, sono troppo semplici, ordinari, neanche ci sembra credibile che possano contenere sostanze capaci di contrastare l’invecchiamento e la malattia. Meglio assumere una piccola compressa che si manda giù con un sorso d’acqua, che magari contiene ingredienti dai nomi altisonanti e che evocano effetti portentosi. Noi non vogliamo stare meglio, vogliamo il miracolo. Non si spiegherebbe altrimenti il successo immotivato degli innumerevoli prodotti inutili venduti come fondamentali per la salute, e che troviamo sia in farmacia sia al supermercato. Si stima che il mercato statunitense degli integratori ammonti a oltre 30 milioni di dollari, in Italia è ovviamente più contenuto ma solo perché la nostra popolazione è numericamente molto inferiore a quella americana. Il dato è sorprendente, visto che in assenza di malattie o carenze specifiche un integratore non serve a nulla: né a stare meglio né tantomeno a guarire da qualcosa che non abbiamo. Vitamine, sali minerali, sostanze e derivati vegetali rappresentano un mercato enorme che ormai anche le grandi aziende farmaceutiche si vogliono accaparrare, e non a caso le due classi di integratori più vendute sono quelle relative ai dietetici e agli stimolanti sessuali, seguite dai prodotti per palestre. In molti di questi sono addirittura contenute sostanze tossiche e proibite, come i derivati delle anfetamine. Il pericolo si scopre solo quando si effettuano controlli mirati sul prodotto, cosa che, come abbiamo detto, non avviene prima del rilascio sul mercato. Una recente indagine giornalistica del «New York Times» ha dimostrato che molti integratori presenti sul mercato americano contenevano componenti non permesse, e peraltro non elencate tra gli ingredienti, che hanno causato gravi effetti collaterali, e che in tre quarti degli integratori a base di olio di pesce (venduti per i loro presunti, ma per niente accertati, effetti positivi sul sistema nervoso e sull’intelligenza) non era contenuto il quantitativo di omega-3 (la molecola che avrebbe l’effetto positivo) dichiarato in etichetta. Il boom dell’olio di pesce è legato anche alla prevenzione delle malattie cardiache ma, ancora una volta, non sembra esserci alcuna evidenza dei suoi effetti benefici. Non è così scontato che l’assunzione o l’integrazione (non necessaria) di una vitamina possa essere utile alla salute, anzi. Si è visto, per esempio, che l’assunzione di calcio, alla quale spesso si ricorre per prevenire i problemi ossei, non è soltanto inutile perché meno efficace di altre terapie, ma può essere anche dannosa, visto che sembra aumentare di circa il 20 per cento il rischio di problemi cardiovascolari (ictus, infarti). Lo stesso discorso si può fare per gli antiossidanti. Quelli contenuti negli alimenti sono utili, contrastano la degenerazione delle cellule e riescono persino a prevenire alcune malattie, ma quelli assunti come «medicina» non sembrano avere gli stessi effetti, anzi, alcuni studi hanno evidenziato pericolose controindicazioni: nelle cavie, per esempio, l’assunzione di antiossidanti ha causato il peggioramento del melanoma, un tumore cutaneo. Alcuni medici prescrivono integratori a base di glucosamina e condroitina, due sostanze ritenute benefiche per certe malattie osteoarticolari come l’artrite o per dolori alle ossa e altri disturbi delle articolazioni. Nonostante qualche evidenza positiva, non mancano certo prove della loro assoluta inutilità, come quelle notate nei confronti dei dolori dell’artrite: mentre un antinfiammatorio li riduceva, gli integratori di glucosamina o condroitina sortivano quasi lo stesso effetto di un placebo (ovvero una sostanza neutra, priva di qualsiasi effetto). Altri studi hanno rilevato un miglioramento lieve o moderato. Persino i noti fermenti lattici, se presi a sproposito, possono essere inutili, quando non dannosi. Si tratta infatti di batteri di vario tipo (si chiamano «probiotici») che vivono nel nostro intestino aiutandone le funzioni e che possono avere un ruolo positivo anche dal punto di vista immunitario. Sono contenuti in molti alimenti (come lo yogurt o i formaggi) e spesso sono prescritti per prevenire o curare la diarrea (come quella causata dall’uso di antibiotici). Alcuni studiosi hanno fatto notare che i benefici vantati dai probiotici presenti in alcuni alimenti sono annullati dall’eccessivo contenuto in zucchero degli stessi, che anzi finirebbe per renderli nocivi. Inoltre uno studio pubblicato sul «Lancet» ha constatato che la diarrea da antibiotici ha avuto gli stessi identici (piccoli) benefici sia dai probiotici sia da un placebo (un flaconcino di acqua zuccherata), negli individui oltre i sessantacinque anni. Questi esempi possono farci capire che se alcune vitamine o sostanze possono avere un’utilità in certe condizioni, in altre (e nella maggioranza dei casi) non servono a nulla. Pensate poi al business degli integratori in gravidanza. Alle donne in attesa viene consigliata l’integrazione con acido folico perché in grado di prevenire un grave problema alla colonna vertebrale del feto, anzi, dovrebbe essere assunto già prima del concepimento e fino all’undicesima settimana di gestazione, dopodiché la sua efficacia è trascurabile, anche perché lo assumiamo già normalmente con la nostra alimentazione. Utile può essere anche l’integrazione di vitamina D. Tutte le altre vitamine e sostanze che servono in gravidanza sono assunte con la normale dieta quotidiana che, ovviamente, deve essere ben bilanciata e varia. Eppure sono prescritti alle donne incinte svariati multivitaminici, prodotti che integrano decine di vitamine e sali minerali, componenti essenziali per la vita ma che, in una donna in salute e che si alimenta bene, non hanno necessità di integrazione o maggiore consumo. Da non sottovalutare il costo di questi prodotti, in genere elevato. Un affare per chi li produce. Eppure gli integratori rappresentano un richiamo irresistibile per il consumatore e per procurarseli non serve neanche una prescrizione, esattamente come se acquistassimo un gioco, un panino o un frutto: semplice e veloce. E sono spinti da un marketing aggressivo proprio perché prevedono un investimento molto basso a fronte di un guadagno (per il produttore) sicuramente interessante che punta sull’illusione del benessere di tutti noi. Tra i prodotti che hanno un inspiegabile successo di mercato ci sono anche le acque oligominerali (che contengono pochi sali minerali, come il magnesio, il sodio, il potassio e altre componenti normalmente presenti nelle acque potabili e fondamentali per la nostra salute). Ora, oltre al fatto che i sali minerali sono utili e non dannosi (e quindi non c’è alcun motivo per preferire un’acqua con pochi sali minerali rispetto a quella normale di rubinetto), spesso chi assume gli integratori lo fa con l’acqua oligominerale, sciogliendovi le bustine solubili o bevendone un sorso per mandar giù una pillola. Avviene dunque un fenomeno curioso: compriamo un integratore che ci fornisca sali minerali, evidentemente considerandoli utili, e lo assumiamo con un’acqua povera di sali minerali. Non siamo proprio strani noi consumatori?

Il Vocabolario di Papa Francesco, 50 voci per capire il suo pontificato

Vocabolario di Papa Francesco

Cosa ci sta dicendo Papa Francesco? A questa domanda, apparentemente presuntuosa e quasi blasfema per il Pontefice che tutti indicano come ‘mago della comunicazione’ e che punta molto sulla forza esplosiva del gesto e della testimonianza, prova a rispondere il secondo ‘Vocabolario di Papa Francesco’ pubblicato da Elledici e curato da Antonio Carriero. E’ un libro particolare per almeno due motivi: perché lo si può leggere come un vocabolario, scomponendo e ricomponendo un ordine di parole, e perché , un po’ come nelle opere enciclopediche degli illuministi, ognuna delle 50 voci è affidata ad un autore diverso, a scrittori e giornalisti che seguono il Santo Padre. Il Papa dei gesti, che sale in aereo con la valigia, che si muove su un’utilitaria, che vive a Santa Marta e festeggia gli 80 anni facendo colazione con 8 barboni di Roma, che vuole sacerdoti che ‘conoscono l’odore delle loro pecore’, cosa dice quando parla?
Per capire le sue parole, spiegano il rabbino Abraham Skorka e il pastore evangelico Marcelo Figueroa, bisogna entrare nella sua logica di dialogo, confronto, apertura, più che in un’ottica di indottrinamento ex cathedra. E’ il suo uno sforzo maieutico che non ha paura di sfidare le convenzioni e le tradizioni, che non guarda all’incasso immediato ma investe nel futuro e si spinge fino ai confini che può raggiungere l’erede di Pietro.
Confini che a qualcuno, anzi, sembrano già pericolosamente valicati, come dimostrano – per restare agli ultimi tempi – un altro libro molto interessante, quello di Aldo Maria Valli (266.Jorge Mario Bergoglio. Franciscus P.P Liberlibri, 2016) e la lettera dei cardinali Brandmueller, Burke, Caffarra e Meisner al Pontefice dopo la Amoris Laetitia e il sinodo sulla famiglia.
Dunque, il Papa al quale alcuni chiedono se è davvero cristiano, vuole, per dirla con l’arcivescovo di Manila Antonio Tegle “comunicare con tutti, senza esclusione”, “non spezzare mai la relazione e la comunicazione”, “generare una prossimità che si prenda cura” ( Il decalogo del buon comunicatore secondo Papa Francesco, Alessandro Gisotti, Elledici, 2016).

Sì, ma questo Papa che si concede ai selfie, che piace ai divorziati e ai gay, agli ambientalisti e perfino ai vegani, non riceve troppi applausi? Non è, da buon gesuita, troppo innamorato del mondo? Troppo poco rigoroso nel separare il Bene dal Male? Alla voce ‘Peccato’, Matteo Liut ci ricorda che per Francesco chi “ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità”. Per il Papa il peccato individuale introduce un elemento di degenerazione nella società. “Insomma – scrive Liut – la verità è un bene irrinunciabile che illumina e guida la realtà concreta”. Ma il punto è che per Papa Francesco una delle verità più importanti del Vangelo è che “Dio è più grande del peccato”. Questa è la bussola di Bergoglio anche nel governo della Chiesa che, spiega Andrea Tornelli alla voce ‘Chiesa’, “non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con la misericordia di Dio”. Un’altra parola del Vocabolario, ‘Carrierismo’, di Pierluigi Mele, svela come per Francesco l’egoismo e la degenerazione dell’ambizione nel conformismo e nell’opportunismo “camminano insieme alla malattia dell’indifferenza verso gli altri”. “I recenti scandali della Chiesa sono frutto di questa logica antievangelica”. Da qui la durezza di Francesco “contro i vescovi che vivono come faraoni” e che non testimoniano la diversità del Vangelo “in un mondo dove ciascuno si pensa come la misura del tutto” e “dove non c’è più spazio per il fratello”. Nell’era della comunicazione immediata globale, dei risultati a portata di click, dei capitali senza limiti d’azione e senza confini, Papa Francesco invita a diffidare delle scorciatoie. Anche nella Fede, con la trasformazione di Maria in “capoufficio delle Poste che invia messaggi tutti i giorni”. E’ la pazienza, spiega Enzo Romeo, “l’altra faccia della misericordia, anzi la base su cui poggia”.

Altre voci del Vocabolario aiutano nella comprensione della portata della svolta impressa dal Pontificato di Francesco. Che talvolta nei telegiornali, sui giornali, perfino su Twitter ormai, sembra flirtare con il mondo così secolarizzato, lontano dall’ideale evangelico, con il relativismo che abbraccia eutanasia, aborto, maternità surrogata. E’ Francesco il Papa di una Chiesa del ‘ma anche’ che rischia, sporcandosi con la storia quotidiana, di dimenticare la Storia, la missione senza tempo del suo messaggio evangelico necessariamente netto, deciso sui ‘valori irrinunciabili’ richiamati con maggior ortodossia teologica da Papa Benedetto secondo Giuliano Ferrara?
Non servirebbero, insomma, altre parole da un Papa?
Francesco, ricorda alla voce ‘Umanesimo’ Chiara Giaccardi, continua a guardare al volto di Gesù. “Perché quello che Gesù ci mostra è un Dio ‘svuotato’: ‘Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda…Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto”. (Paolo Cappelli)

IL VOCABOLARIO DI PAPA FRANCESCO – 2

Parole profetiche per il nostro tempo

A cura di Antonio Carriero

Presentazione di Greg Burke

Prefazione di Mons. Nunzio Galantino

Postfazione di Mons. Domenico Pompili

(Editrice Elledici – Pagine 350 – € 9,90)

La “preda” del potere. Il “Corriere della Sera” nella storia italiana in un libro di “Chiarelettere”

“Il ‘Corriere’ è una delle pochissime istituzioni di garanzia di questo paese… La libertà d’informazione è vista con insofferenza crescente.” Ferruccio de Bortoli14 giugno 2003, in occasione delle sue dimissioni da direttore del “Corriere della Sera

IL LIBRO
Una storia e una testimonianza. Di chi si è battuto per quarant’anni in difesa dell’indipendenza del giornale più famoso d’Italia, il giornale della borghesia illuminata, il giornale di Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un giornale che veramente libero non è mai stato perché sempre al centro di appetiti economici e politici. Raffaele Fiengo, giornalista del “Corriere” dagli anni Sessanta, di formazione liberal, ci offre la sua versione dei fatti attraverso le lotte che ha condotto con tenacia sempre dalla parte dei giornalisti per affermare i principi di una stampa libera. Una lotta dura, dai tempi eroici della direzione di Piero Ottone alla strisciante occupazione della P2 sotto Franco Di Bella fino ai disegni egemonici di Craxi e poi le indebite pressioni dei governi Berlusconi. Oggi gli attori sono cambiati ma con le interferenze del marketing e della nuova pubblicità, e l’invasione dei social network, il mestiere del giornalista è ancora più contrastato, anche al “Corriere”, da sempre “istituzione di garanzia” in un’Italia esposta a continue onde emotive e a tensioni di ogni tipo. Se cade il “Corriere” cade la democrazia. E questo libro lo dimostra. Come scrive Alexander Stille nell’introduzione, “considerate le varie lotte avvenute per il controllo del ‘Corriere’, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro”.
eglio
Prossimamente approfondiremo meglio la vicenda “Corriere” con un’intervista all’autore.

L’AUTORE
Raffaele Fiengo è nato a Cambridge (Stati Uniti) nel 1940. Dal 1968 ha lavorato al “Corriere della Sera” trovandosi più volte in contrasto con la direzione. Per vent’anni è stato rappresentante sindacale. Nel 1973 fonda la società dei redattori del “Corriere della Sera” e nel 1974 è autore, con la direzione di Piero Ottone, dello “Statuto del giornalista”. Chiamato dai suoi antagonisti “il soviet di via Solferino”, in realtà non si è mai considerato comunista e si è sempre battuto per l’indipendenza del giornale e dei giornalisti. Nel 2004 è tra i fondatori di “Libertà di stampa, diritto di informazione” (Lsdi), centro di ricerca sulle trasformazioni del giornalismo. Nel 2012 promuove, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, l’Iniziativa per l’adozione in Italia di un Freedom of Information Act. Dall’anno accademico 2000-2001 è docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Padova.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione di Alexander Stille.

Il «Corriere» e la lotta politica in Italia
Il primo quotidiano nazionale, il grande giornale della cosiddetta «borghesia illuminata», il «Corriere della Sera», è stato il teatro centrale della lotta per il potere in Italia per quasi tutta la storia del paese. Il suo appoggio alla causa dell’intervento nella Prima guerra mondiale – ospitando tra l’altro le arringhe di Gabriele D’Annunzio («Viva Trento e Trieste, viva la guerra!») – è stato un fattore importante nella decisione di prendere parte al conflitto. L’opposizione del giornale e del suo leggendario direttore Luigi Albertini al fascismo rappresentò uno degli ultimi seri ostacoli al consolidamento del potere di Benito Mussolini. Così i proprietari – i membri della famiglia Crespi – nel 1925, per non rischiare rappresaglie pericolose da parte del regime, dovettero rimuovere Albertini.
È stato così anche durante i quarant’anni della carriera di Raffaele Fiengo che va dalla fine degli anni Sessanta fino a poco tempo fa, negli anni Duemila. Redattore e soprattutto capo, per molti anni, del sindacato dei giornalisti del «Corriere», Fiengo è stato un osservatore privilegiato e un protagonista di molte lotte.
I proprietari amano fare dichiarazioni circa la loro fedeltà ai principi della libera stampa, come questa del 1972: «Gli editori […], consapevoli che il giornale è un servizio pubblico, riaffermano il loro assoluto rispetto dei principi di libertà e indipendenza dei giornalisti dell’azienda». Ma la realtà è parecchio più complessa. L’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, proprietario de «Il Messaggero» di Roma e de «Il Mattino» di Napoli, ha detto: «Caro mio, se vuoi fare il grande imprenditore in Italia devi avere per forza un piede nei media, meglio due piedi». Per aiutare l’imprenditore, il giornale dev’essere usato come strumento di potere attraverso gli articoli che pubblica, quelli che non pubblica e per il modo in cui essi vengono impaginati. Al momento della bomba a piazza Fontana – l’inizio del periodo del terrorismo in Italia e della «strategia della tensione» – il «Corriere» avallò la tesi della strage degli anarchici. Ecco il mostro fu il titolo del «Corriere d’Informazione», confratello della sera del «Corriere», che riportava una foto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito arrestato ma successivamente scagionato. Allo stesso tempo il «Corriere» non pubblica la notizia su un negoziante di Padova che aveva identificato le borse usate per l’attentato in cui erano morte diciassette persone, una prova che conduceva l’indagine verso la «pista nera», che si sarebbe rivelata quella giusta.
Nel luglio del 1970 il treno da Palermo a Torino uscì violentemente dal suo binario nella zona di Gioia Tauro, in Calabria, uccidendo sei persone e ferendone un centinaio. La versione ufficiale in un primo momento fu che si trattava di un incidente. Ma il cronista che seguiva la storia per il «Corriere», Mario Righetti, aveva saputo da una sua fonte che c’erano segni evidenti di un atto di sabotaggio. E lo scrisse nell’articolo che fu pubblicato nella prima edizione del giornale ma che scomparve nell’edizione definitiva, che titolava: A Reggio Calabria fonti ufficiali escludono l’ipotesi di un atto doloso.
«La mattina [dopo] – scrive Fiengo – Righetti è chiamato dal caporedattore, che allora era Franco Di Bella, e messo in ferie.» Di Bella è una delle bestie nere di Fiengo. Fu il direttore del giornale durante il periodo della P2, la loggia massonica di cui era membro, insieme ai proprietari del gruppo Rizzoli e ad alcuni giornalisti. Nel caso del treno di Gioia Tauro e di piazza Fontana, però, le censure del «Corriere» non furono conseguenza di un intervento della P2, ma di pressioni governative. Secondo Fiengo, il ministro dell’Interno intervenne personalmente per bloccare l’articolo sull’attentato di Gioia Tauro e un magistrato minacciò Righetti di denunciarlo per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’opinione pubblica» qualora avesse ancora scritto sull’argomento. La lotta di potere non era però sempre a senso unico. Dopo la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo nel 1975, durante la quale i tipografi comunisti occuparono il giornale socialista «Republica», un gruppo di redattori comunisti del «Corriere» cambiò il titolo dell’articolo sull’argomento da I comunisti occupano il giornale socialista in Tensione a Lisbona tra Pc e socialisti. Fiengo fu comunque considerato il leader della sinistra all’interno del giornale per almeno vent’anni. Con autoironia Fiengo racconta come veniva visto in via Solferino durante la direzione di Giovanni Spadolini, futuro leader del Partito repubblicano e di un governo di centrodestra. «Spadolini guardava con qualche apprensione il mio berretto nero alla Lenin sul quale per scherzo un giorno il mio compagno di stanza, Guido Azzolini, aveva cucito una stella rossa di stoffa. “Vedi, Fiengo – mi diceva dolcemente Spadolini, – tu sei l’ultimo rivolo della contestazione, una miscela rara, ma assai esplosiva perché contemporaneamente sei liberal, anzi radicale, e comunista.” Certamente su suo suggerimento il condirettore Michele Mottola, che di rado pronunciava una parola, limitandosi di solito a gesti e farfugliamenti, mi consigliava di tagliarmi i capelli lunghi.» Poi nel 1972 Giulia Maria Crespi assunse un ruolo più attivo come azionista principale del giornale, licenziò Spadolini e al suo posto mise Piero Ottone che, pur non essendo comunista, era decisamente più aperto alla sinistra. La «sterzata» di Ottone portò all’uscita da via Solferino di Indro Montanelli insieme a una sessantina di giornalisti – una vera e propria secessione di una parte del «Corriere» che avrebbe fondato «il Giornale». Il «Corriere» di Ottone pubblicò, per esempio, le famose Lettere luterane e Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, testi chiave della sinistra italiana degli anni Settanta. Ma, come rivela Fiengo, il loro non fu un rapporto facile. Anche se Ottone veniva etichettato come direttore di sinistra, Pasolini, in una lettera privata, lo coprì di insulti. E in un’altra lettera scrisse:

Caro ineffabile Ottone,
sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere.

Il famoso scritto di Pasolini Io so sui presunti crimini impuniti del governo italiano rimase per quaranta giorni nel cassetto di Ottone, impegnato nella ricerca di un pezzo di uguale peso da contrapporgli.
Ma già durante il periodo dei Crespi e di Ottone le debolezze economiche della proprietà aprirono le porte all’influenza esterna. Per far fronte ai bisogni economici del quotidiano, i proprietari stipularono un accordo con la Montedison (vicino alla Democrazia cristiana e quindi al governo). Solo anni dopo Fiengo scoprì l’esistenza di un accordo segreto che permetteva a Montedison di approvare la scelta del caporedattore per l’economia.

La crisi più acuta
La battaglia principale sostenuta da Fiengo fu durante la crisi della P2. Nel 1974 il gruppo Rizzoli acquistò il «Corriere della Sera» e fece una serie di investimenti pesanti nel giornale e nell’editoria, aumentando pericolosamente i suoi debiti. All’insaputa dei lettori e della redazione, le difficoltà del gruppo lo spinsero sempre di più tra le braccia di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano, che diventò il vero proprietario del quotidiano. Anche Calvi, il cosiddetto «banchiere di Dio», vicino al Vaticano ma anche alla mafia, aveva grossi problemi finanziari e dipendeva sempre di più dall’appoggio occulto della loggia massonica Propaganda 2 e dal suo Maestro Venerabile, Licio Gelli, un ex fascista fervente. Mentre molti dei circa mille membri entrarono a far parte della loggia semplicemente per interesse di carriera, il Maestro Venerabile aveva un chiaro piano politico (il Piano di rinascita democratica) per creare in Italia un regime presidenziale orientato a destra. Riuscì a tirare dentro la sua loggia segreta centinaia di uomini tra i più potenti del paese, compresi 195 membri delle forze armate (12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di finanza, 22 dell’esercito, 4 dell’aeronautica e 8 ammiragli della marina), 44 membri del parlamento, giudici, banchieri, e tra gli editori: Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e Franco Di Bella, direttore del «Corriere della Sera». Così l’influenza della P2 sul giornale crebbe gradualmente, come dimostrano la sostituzione del corrispondente in Argentina (dove Gelli aveva forti legami con il regime militare), quella di Ottone con Franco Di Bella, l’uscita di vari giornalisti (come Giampaolo Pansa) considerati di sinistra, e la pubblicazione di diversi articoli strani, chiaramente confezionati ad arte per piacere alla P2: l’intervista allo stesso Licio Gelli, fatta da un giornalista, Maurizio Costanzo, anch’esso membro della loggia. E la collaborazione regolare con il «Corriere» di Silvio Berlusconi, altro membro della P2.Fiengo in quegli anni portò avanti una battaglia feroce per preservare l’indipendenza dei giornalisti e della testata, e, successivamente, incaricato dall’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare sulla P2, si adoperò per far luce su quel losco periodo della storia italiana.
Considerate le varie lotte di potere avvenute per il controllo di via Solferino, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro.

Raffaele Fiengo, Il cuore del potere. Il “Corriere della Sera” nel racconto di un suo storico giornalista (Introduzione di Alexander Stille), Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 416 , € 19

MIO NIPOTE NELLA GIUNGLA. L’ultimo libro di Oliviero Beha

“Con la freddezza di un chirurgo, fa un’analisi caustica e spietata, prendendo di mira i paradigmi della cultura contemporanea.” (Franco Battiato, prefazione a Il culo e lo stivale)

Tra racconto, confessione e pamphlet, in uno stile accattivante, il libro più crudo e più chiaro di un critico feroce dei nostri giorni alle prese con il futuro da inventare di nipoti, figli, fratellini, sorelline…

Un manuale appassionato, da domani nelle librerie, di sopravvivenza pratica e intellettuale che non nasconde i pericoli senza consegnarsi alla rassegnazione.

Il libro
Soprattutto per un giovane, o per un neonato, il futuro è una muraglia altissima, apparentemente insuperabile e la giungla in cui siamo precipitati sembra inestricabile: difficile trovare una direzione. A proteggere il novello Mowgli dalle insidie e dai pericoli non ci sarà nessuna pantera Bagheera, dovrà cavarsela da solo. Ma qualcosa per lui possiamo fare da qui, ora, senza aspettare: chiarirgli le idee, avviarlo o riavviarlo al coraggio e alla libertà di pensiero. E questo libro ci prova, cercando di accorciare le distanze tra noi abitanti di una palude maleodorante, certo italiana ma sempre più planetaria, e la “vegetazione” minacciosa che attende i nostri nipoti. Acuto e tagliente come sempre, Beha questa volta racconta il presente per superarlo, per trovare le parole che non abbiamo più e quelle che non abbiamo ancora, sospesi tra un passato senza ricordi consapevoli e un avvenire pressoché indecifrabile. La salute come merce, la “sindrome da cucina” che avanza, la desertificazione del sapere, il clima impazzito, la memoria truccata, la politica ma anche la camorra e l’Isis, il “fondamentalismo finanziario” del denaro, il messaggio evangelico tra banche, massonerie e mafi e, la paura, l’amicizia, gli altri spariti dai nostri orizzonti… insomma la vita che siamo al tempo di Facebook, Instagram e Snapchat. “Un oggi usurato ed estenuato, consumato ancor prima di esserci.” Ecco qualche utensile per il nostro Mowgli e per noi che siamo qui. Senza illusioni ma con un afflato umano intergenerazionale che non spenga le fiammelle interiori di speranza.

L’Autore
Oliviero Beha è uno dei più noti giornalisti italiani e conduttori radiotelevisivi. Le sue trasmissioni, regolarmente censurate da ogni parte politica, hanno avuto grande seguito e continuano a essere ricordate dal pubblico. Ha scritto per “la Repubblica” e vari quotidiani e settimanali, ed è ora editorialista de “il Fatto Quotidiano”, di cui è cofondatore. Molti i suoi libri, anche di poesie. Per Chiarelettere ha pubblicato: Italiopoli, I nuovi mostri, Dopo di Lui il diluvio, Il culo e lo stivale.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo il prologo del libro.
Lui è lì, che sospira nel mondo, ormai è in piedi e cammina da un pezzo pur avendo compiuto un anno da pochi mesi. Gorgheggia anche parole basiche. Lui è lì, e come una folgorazione nella comune, banale e straordinaria esperienza di un nipote, di due generazioni dopo di te, del tempo che corre negli anni davvero luce (be’, insomma, anche in penombra…), improvvisamente mi colpisce come uno schiaffo la realtà del futuro. È lui il futuro, e gli altri come lui, qui e dappertutto, semplicemente lui. Sono il futuro le sue manine, i piedini che sbatte, gli occhi radiosi per fortuna più allegri di quelli di molti, per esempio dei miei (ed è già un delitto, ormai un peccato originale dei contemporanei…), è il futuro quello che tu riesci a immaginare attraverso di lui. Niente a che vedere per intensità emotiva con i discorsi seri, più o meno impegnati, a volte apocalittici e altre integrati, sulla catastrofe del pianeta, la degenerazione delle persone, lo svuotamento ideale ed etico dell’Italia dove a lui è capitato di nascere. Come al nonno, ma in tutt’altro periodo, in tutt’altro Paese. Adesso è davvero una giungla. Che posso fare per non spegnere l’entusiasmo vitale nel suo sguardo, la sua curiosità, la sua socievolezza? Che fare per lui e per loro, per i nipoti di tutti, in un’Italia trasfigurata al suo interno e decimata nei rapporti con il resto del mondo, se non descrivere la giungla in cui è venuto al mondo, novello Mowgli senza un Kipling a raccontarlo? Lui, cucciolo dell’idea di uomo in una foresta sempre più disumana di piante carnivore e individui animalizzati nel senso peggiore, di organismi geneticamente modificati dall’insensatezza. Lui che crescerà senza pantere come Bagheera che lo proteggano, e verrà invece aggredito fin dall’inizio da serpenti a misura umana di qualunque taglia che mutano pelle per sembrare come lui, in un libro della giungla che si scrive da solo, quotidianamente. Mentre tutti i segnali ci dicono che stiamo andando giù, sempre più giù, e non tanto e non solo dal punto di vista economico, assurto ormai a unico metro della nostra esistenza? Nella giungla che non ha memoria per cui nessuno ricorda niente di nessuno e soprattutto non se ne dispiace, in cui il futuro sembra un’altissima muraglia che ottunda qualunque orizzonte in un paesaggio circoscritto alla configurazione dell’oggi, un oggi istantaneo usurato ed estenuato, consumato ancor prima di esserci. Nella giungla in cui tutto sembra obsoleto perché «niente è paragonabile a prima grazie alla scienza e alla tecnologia», supplenze tendenzialmente straordinarie e invece troppo spesso mostruose del senso della vita. Un «prima» impietosamente già polverizzato? Posso solo raffigurarla, questa giungla, o provare a farlo nella maniera più lineare e accessibile, sintetizzando i temi che si intersecano nella nostra/sua quotidianità, dicendo senza sconti le cose come stanno, almeno a parere di chi le ha vissute e se le è sentite addosso, disboscando gli intrecci di liane mentre gli anni si accalcano alla porta qualche volta bussando, altre entrando senza difficoltà perché ne possiedono la chiave. Posso solo tentare di rintracciare che cosa abbiamo in comune, il futuro nel passato, il passato verso il futuro, lui batuffolo fatto già quasi persona e io persona sempre più imbatuffolita negli acciacchi, che ha già traversato molta vita in un mix di velleitarismo e conoscenza, sul limitare dell’età in cui ci si trasforma in vecchi bavosi o in venerati maestri (o altro ancora: scostiamo il frusciame tra Arbasino e Berselli). Per il cucciolo se vorrà saperlo: trattasi di due intellettuali, finissimo il primo, randelloso il secondo, scomparsi all’inizio del terzo Millennio, eccellenti descrittori dell’Italia di allora e di sempre. È un modo di fargli gli auguri, di offrirgli istruzioni per l’uso che dovrà ovviamente come tutti forgiarsi da sé, alla faccia dell’esperienza trasmessagli da chi lo ha preceduto. È il disegno di una passerella interiore affacciata sul vuoto, che ballonzoli tra lui e il suo duende in embrione. Il duende che non è necessario sapere bene che cosa sia ma che confligge, simpatizza e antipatizza con lui, nel suo spirito, un Dna ballerino come lui che cammina sulle punte, imprescindibile se avrà qualcosa dell’artista. È un machete per la mente laddove il groviglio sembra più fitto e sempre meno naturale. È un espediente personale, credo umanissimo, per ricominciare a pensare e a pensarsi nel futuro, a farsi domande e non solo a darsi risposte estemporanee e ingannevolmente risolutrici, a tracciare linee guida esistenziali che si sporgano dalla finestra di un presente cupo e, se ci riescono, inducano al sorriso. Non è forse questa la capacità che ci distingue dagli animali nel libro della giungla di sempre, preverbale? E, d’altro canto, non è proprio questa difficoltà a sorridere che ci sta avvelenando la vita nella nostra giungla quotidiana, secolare e per certi versi ultramondana? E tale mancanza del sorriso e dell’allegria di un popolo che ha sempre cantato, sotto qualunque vessazione, e ora non canta più, che altro è in realtà se non una paura a vivere davvero, senza recitare per forza una parte ma rischiando di essere se stessi come è umanissimo che sia? Questa mancanza, fanciullino, che dopo aver gattonato in modo strambo, insieme unico e universale, finalmente scorrazzi per casa barrendo parole che aprono al mondo, questa davvero non la posso concepire né permettere: qui siamo ben oltre le colpe dei padri o dei nonni che ricadono su figli e nipoti, qui abbiamo fatto crescere una giungla malsana dove poteva esserci un ambiente ordinato e consapevole. Qui la natura è stata sostituita da qualcosa che è stato fatto passare per cultura, e di certo non lo era nel suo significato migliore. Una vegetazione che ti può soffocare e che ripropone un homo homini lupus aggiornato al nucleare e ai mercati finanziari del denaro e del potere, da Hobbes al plutocrate Soros per chi ha una vaga idea di chi siano. Come premessa dunque intanto perdonami, nipote, cioè perdonaci. P.S. E non sei neppure nato ad Aleppo, dove la tragedia ininterrotta dei tuoi coetanei è diventata mostruosa, una pioggia di bombe terrificante anche solo a immaginarla da lontano. Sai, M., non è solo un «incidente» bellico che accade in Siria, ma è diventato un genocidio voluto da qualcuno ben identificato e collegato ahimè a tutto il resto. Barbarie all’ennesima potenza in questa giungla, adesso anche tua.

Oliviero Beha, MIO NIPOTE NELLA GIUNGLA. Tutto ciò che lo attende (nel caso fosse onesto), Editrice Chiarelettere, Milano 2016, pp. 176 , 15 €

La “mia” Repubblica tradita. Intervista a Giovanni Valentini

 

9788899784089_0_190_0_80Giovanni Valentini, storico Direttore dell’ Espresso ed ex vice direttore di Repubblica, ha appena pubblicato per “Paper First” (la casa editrice del Fatto Quotidiano) un libro sulla mega fusione editoriale tra due grandi quotidiani italiani: Repubblica e La Stampa. Già dal titolo, La Repubblica tradita, si intende che il libro è una testimonianza personale e inedita degli avvenimenti che hanno portato alla fusione di questi giornali. Una mega-concentrazione che Valentini giudica una minaccia per il pluralismo dell’informazione del nostro Paese. In questa intervista approfondiamo le ragioni che l’hanno spinto a scrivere il libro.

Il tuo libro, davvero interessante e al tempo stesso inquietante, apre uno squarcio sul velo di ipocrisia che riguarda il più prestigioso quotidiano italiano: la Repubblica. Il titolo non lascia dubbio alcuno la Repubblica tradita. Diversi sono stati i protagonisti di questo tradimento, ne parleremo più avanti. Adesso fissiamo un punto. Perché scrivi che l’attuale Repubblica tradisce il progetto originale e i suoi valori? Dove si compie il tradimento? Sui valori di sinistra riformista?
Parlo di “tradimento”, all’indomani della mega-fusione con La Stampa e con Il Secolo XIX, perché quarant’anni fa Repubblica è stata fondata da un “editore puro”, come allora usava dire: nacque infatti dal matrimonio fra il gruppo L’Espresso e la Mondadori. Un soggetto cioè che non aveva altri interessi, estranei all’attività editoriale. A 27 anni, lasciai Il Giorno di Milano, che era il terzo quotidiano italiano ed era di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare con Eugenio Scalfari. Ora la maxi-concentrazione di “Stampubblica” trasforma quel giornale in uno strumento di potere, in mano a un gruppo economico-finanziario, costituito da De Benedetti e dalla Fiat. Non è Repubblica che tradisce il progetto originario, è il nuovo soggetto editoriale che tradisce il progetto originario del giornale.

Repubblica nasce nel 1976. Siamo nel periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Il fatto di chiamare un quotidiano “Repubblica” è già una scelta di campo. Eugenio Scalfari, anche recentemente, ne ha descritto la carta d’identità: siamo liberaldemocratici. Ti chiedo quale è stato il contributo maggiore dato dal quotidiano alla storia civile italiana?
Direi, per riassumere, il contributo alla modernizzazione del Paese: sul piano politico, innanzitutto, ma anche civile e culturale. Scalfari ha sempre usato la definizione di “liberali di sinistra”. Non mi risulta che la Fiat o gli Agnelli possano essere considerati tali. Né tantomeno Marchionne e John Elkann.

Nel tuo libro analizzi, sulla base della tua esperienza davvero straordinaria all’interno del gruppo “Espresso-Repubblica, le varie fasi del quotidiano. Parliamo, quindi, degli ultimi vent’anni. Che coincidono praticamente con la direzione di Ezio Mauro e con la gestione padronale di De Benedetti. Il “tradimento” incomincia con la direzione di Mauro. Francamente una cosa difficile da comprendere…. Se penso alle battaglie di Repubblica contro il berlusconismo imperante. Perché Mauro è diverso, qual è il suo “peccato” d’origine?
No, il “tradimento” non comincia con l’arrivo di Ezio Mauro alla direzione: quello, semmai, fu un primo “strappo”, una discontinuità accettata e condivisa da Caracciolo e da Scalfari. Carlo, finché ha vissuto, ne è stato il garante editoriale; Eugenio ne è stato il garante politico, la guida e il tutore. Se vogliamo parlare di “peccato originale”, quello di Ezio era la provenienza dalla direzione del giornale targato Fiat: basti pensare alla politica economica e sindacale, a quella dei trasporti o dell’ambiente, per farsene un’idea. Quanto all’anti-berlusconismo, per me è cominciato a metà degli anni Ottanta, quando andai a dirigere L’Espresso e lanciai una campagna contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi che consideravo una minaccia per il pluralismo e la libertà d’informazione. Poi, è diventato un orientamento politico, ideologico e antropologico. Ma è stato anche un alibi per non vedere, o fingere di non vedere, i ritardi e le responsabilità della sinistra.

Veniamo alla vera “anima nera” del tradimento, Carlo De Benedetti. Su sul suo conto usi parole dure, ne denunci il conflitto d’interessi su molteplici piani. Alla fine ne esce un quadro disperante sul personaggio: viene spontaneo domandarti qual è la differenza, se mai esiste, tra lui e Berlusconi?
Non confondiamo i personaggi e le rispettive estrazioni. La differenza sostanziale è che Berlusconi era un imprenditore, un concessionario pubblico ed è diventato un uomo politico, con un macroscopico conflitto d’interessi; mentre De Benedetti è sempre stato un finanziere, un uomo d’affari, ma non ha mai avuto cariche pubbliche. Fino a quando Caracciolo e Scalfari hanno garantito l’autonomia del gruppo e dei giornali, erano loro che incarnavano la figura dell’editore. Ma ora, con la complicità della crisi, gli interessi economici purtroppo hanno preso il sopravvento…

E veniamo all’ultima fase quella della fusione con la Stampa di Torino, ironicamente definita da te “Stampubblica”, cui emblema diventa Mario Calabresi (il gigante nano). Eppure Calabresi nasce, giornalisticamente parlando, a Repubblica. Sul piano dello spessore, Calabresi sicuramente è inferiore a Ezio Mauro. Però, consentimi, Repubblica ha ancora fior di giornalisti (vedi Giannini) che reggono la deriva “minimalista” di Calabresi. Perché definisci la fusione con La Stampa un pericolo per la democrazia? E perché Scalfari continua a scrivere?
Calabresi, professionalmente parlando, non nasce a Repubblica ma all’Ansa. E con tutto il rispetto per il giornalismo d’agenzia, c’è una bella differenza con quello d’opinione e d’intervento. Lui è il testimonial di questa mega-concentrazione. Non sono stato io a definirlo “un gigante nano”, bensì la perfidia dei suoi redattori, in contrapposizione al “nano gigante” Ezio Mauro. Dico che la maxi-fusione è un pericolo per la democrazia perché è destinata fatalmente a ridurre il pluralismo e la concorrenza, oltre che gli organici dei giornali interessati. Anche per questo mi auguro che Scalfari continui a scrivere su Repubblica fino a quando ne avrà la forza e la voglia.

Ultima domanda: Sei pessimista sulla stampa italiana?
Qui bisognerebbe fare un discorso molto lungo sulla crisi dei giornali e della pubblicità, sull’avvento della televisione e di Internet, sul “giornalismo diffuso” alimentato dai social network. Non c’è dubbio che l’unica prospettiva per il futuro può essere quella della “multimedialità”, cioè dell’integrazione fra i vari mezzi e i vari codici della comunicazione. Ma, a parte Cairo e lo stesso Berlusconi, non vedo in Italia molti editori che abbiano le capacità e le possibilità di proseguire su questa strada. Mi conforta, però, registrare che – nonostante tutto – testate d’opinione come Il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio o La Verità, riescano a trovare uno spazio per sopravvivere e magari per crescere. Nel campo editoriale, c’è sempre tempo per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione.

L'immagine è tratta da Prima Comunicazione

L’immagine è tratta da Prima Comunicazione