ORFANI BIANCHI. Un libro di Chiarelettere

Volevo misurarmi con un personaggio femminile. Una donna unica con una vita difficile che per trovare un angolo di serenità è pronta a sacrifici immensi. Mia nonna stava morendo, io guardavo Maria che le faceva compagnia e veniva da un paesino della Romania. E mi domandavo: quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?”

(Antonio Manzini)

Antonio Manzini Orfani bianchiIL LIBRO

Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio, poi la signora Mazzanti, “che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all’albero, ai regali e al panettone”, poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall’esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirli c’è lei, Mirta, che non li conosce ma li accompagna alla morte condividendo con loro un’intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane.

Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo, che verrà presentato oggi pomeriggio a Roma alla Libreria Feltrinelli nella Galleria Alberto Sordi, sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato, il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. “Nella disperazione siamo uguali” dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell’ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi.

Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza. Una storia contemporanea, commovente e vera, comune a tante famiglie italiane raccontata da Manzini con sapienza narrativa non senza una vena di grottesco e di ironia, quella che già conosciamo, e che riesce a strapparci, anche questa volta, il sorriso.

L’AUTORE

Antonio Manzini ha lavorato come attore in teatro, al cinema e in televisione, e ha curato la sceneggiatura dei film Il siero della vanità (regia di Alex Infascelli del 2004) e Come Dio comanda (regia di Gabriele Salvatores del 2008). Con Sellerio ha pubblicato racconti e romanzi gialli con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, poliziotto fuori dagli schemi, poco attento al potere e alle forme: Pista Nera (2013), La costola di Adamo (2014), Non è Stagione (2015), Era di maggio (2015) e il recente 7.7.2007 (2016), per settimane in testa alle classifiche dei libri più venduti. Sempre nel 2016 ha pubblicato l’antologia Cinque indagini romane per Rocco Schiavone e il racconto satirico Sull’orlo del precipizio (Sellerio). Suoi racconti sono presenti nelle antologie poliziesche Turisti in giallo, Il calcio in giallo, Capodanno in giallo, Ferragosto in gialloRegalo di Natale, Carnevale in giallo e la Crisi in giallo, tutte pubblicate da Sellerio.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

«Ciao Mirta…» le sorrise il prete. Poi si chinò a raccogliere un ceppo di legno che gettò nel fuoco. «Ti piacciono i fagioli nel minestrone?» Mirta annuì sapendo che Ilie li detestava. Si sedette sul letto. Guardò l’ora: le sei e mezza. Accese il cellulare ed entrò in chat.

Il nome di Nina Cassian era già verde, segno che l’amica era in linea.

Eccomi Nina… – Come ti senti Mirta? – Uno schifo. – Sei a casa? – Non c’è più la casa, Nina. Non c’è più nulla. È tutto bruciato. C’è rimasto qualche muro e una finestra. – Hai parlato con padre Boris? – Sono qui con lui e Ilie. Ilie non parla. Mi guarda e non dice niente. Ha gli occhi spenti e l’ho trovato magro, Nina. Magro come un gatto randagio. – Io ho chiesto in giro. Per Ilie. Dovresti fare come Marisha e come ha fatto Lyudmilla. – … – Mirta? Mirta ci sei? – … – Mirta? – L’internat? – Sì. Altra soluzione non c’è. – Come faccio a mettere Ilie in un internat? Ti rendi conto Nina? – Lyudmilla ha i suoi a Chi¸sina˘u, all’internat numero 1 da tre anni. Stanno bene. Studiano, mangiano, fanno i compiti, giocano e hanno un sacco di amici. – Non mangiano, Nina. Studiano poco. E stanno in otto in una stanza! – Hanno una casa. – È un orfanotrofio. – Li ospitano e gli vogliono bene. – Ti sei accorta che io sono ancora viva?

Per favore, stammi a sentire. Tu eri fortunata, avevi mamma. Ma ora devi pensare a come fare. Puoi portare Ilie in Italia? – No. – E allora? Sarà solo per poco tempo. Uno, al massimo due anni. Poi si aggiusta. Chiedi a Lyudmilla. Ce l’hai l’indirizzo? – L’internat no! – Chiedi a Lyudmilla. Non fare sciocchezze Mirta. Chiedi a Lyudmilla!

Mirta alzò gli occhi. La madre di padre Boris s’era addormentata con la bocca aperta. Il sacerdote girava il cucchiaio di legno nella pentola. «Che succede?» le chiese, ma Mirta non rispose. «Hai avuto una brutta notizia?» Mirta fece sì col capo. Poi guardò il cellulare che teneva fra le mani. «La vuoi condividere con me?» «No padre Boris. No…»

Passò la notte a guardare il soffitto basso della casetta. Da dietro la tenda si sentiva il russare del prete e di sua madre. Mirta teneva una mano di suo figlio che le dormiva accanto. Che faccio, pensava, che faccio? Fuori era ricominciato a piovere. L’acqua tamburellava il tetto sottile e i vetri della finestra, nel camino erano rimaste solo le braci. Mirta si tirò la coperta fin sotto il mento. Inutile girarci intorno. Nina aveva ragione, altre soluzioni non ce n’erano. L’internat. Solo la parola le faceva venire un brivido nella spina dorsale e le chiudeva la gola. Che razza di madre sei se sei costretta a mettere tuo figlio in un orfanotrofio? Che razza di madre sei?

Non lo sapeva. Era una madre sola, e il mondo era un masso, un enorme masso che rotolava per una discesa e lei poteva solo scappare e cercare un posto dove nascondersi. Perché quello acquistava velocità, giorno per giorno, e se non fosse riuscita a evitarlo, a farlo rotolare via, l’avrebbe schiacciata sotto il suo peso. L’alba la sorprese con gli occhi ancora aperti. Si alzò lentamente per preparare la colazione. Non voleva svegliare Ilie. In quei giorni la scuola poteva anche aspettare. Riempì il pentolino dal rubinetto che sputava un filo di acqua. Poi lo mise a bollire per il tè. La tenda di padre Boris si spalancò e apparve il sacerdote, già vestito con la tonaca. «Buongiorno Mirta.»

Antonio Manzini, ORFANI BIANCHI, Ed.ni Chiarelettere, Milano 2016, Collana Narrazioni _ euro 16,00, pp. 256

SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata ai cittadini

COPSilenzi.inddVogliamo assumerci la piena responsabilità dei nostri errori e auspichiamo che voi li indichiate quando manchiamo noi di farlo. Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna repubblica può sopravvivere.”

John Fitzgerald Kennedy

In caso di dubbio, la trasparenza deve sempre prevalere. L’amministrazione non dovrebbe mantenere informazioni riservate solo perché i funzionari pubblici potrebbero essere messi in imbarazzo dalla loro pubblicazione.”

Barack Obama

IL LIBRO

Dieci casi esemplari di trasparenza negata. Uno più stupefacente e vergognoso dell’altro… Un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…” (Dalla prefazione di Gian Antonio Stella)

Quanto ha speso il sindaco in viaggi e con chi è andato a cena? Quanto è sicura la mia scuola? Quanto è inquinata l’aria del mio quartiere? Come sono fatte le graduatorie dei concorsi pubblici? L’amianto uccide ancora, ma dove? Quanti sono i “derivati” acquistati dal ministero e dalle amministrazioni?

Tutte informazioni non coperte dal segreto di Stato, ma il cui accesso, fino a oggi, è stato negato a cittadini, associazioni e giornalisti. A dispetto delle sbandierate riforme sulla trasparenza e delle promesse elettorali. Un atteggiamento che, oltre a essere ingiusto, è dannoso perché il prezzo che gli italiani pagano in vite umane e in reddito pro capite è altissimo.

Finalmente ora la situazione dovrebbe cambiare perché è stato varato anche da noi, dopo anni di pressioni e di lotte, il Freedom of Information Act (Foia), cioè una legge che consente libero accesso ai documenti pubblici. Un ritardo grave rispetto agli altri paesi europei, che ha alimentato la sfiducia nelle istituzioni ed è stato causa di inefficienze e corruzione. Certamente l’applicazione della legge non sarà facile anche perché, come dimostra questo libro, i cassetti dello Stato sono sempre stati tenuti rigorosamente chiusi.

Le battaglie qui raccontate non hanno tutte un lieto fine ma rappresentano il segnale che la democrazia può essere praticata a partire dal basso e che la palude burocratica può essere combattuta.

GLI AUTORI

Ernesto Belisario, avvocato, si occupa di diritto amministrativo, accesso all’informazione e diritto delle tecnologie, ed è autore dei libri “La nuova Pubblica Amministrazione digitale” e “Diritto tra le nuvole: profili giuridici del cloud computing”. È docente in numerosi corsi e master sui temi della digitalizzazione e della trasparenza e collabora con CheFuturo, IlFattoQuotidiano.it e Agendadigitale.eu.

Su Twitter è @diritto2punto0

Guido Romeo, giornalista, scrive di innovazione per “Il Sole 24 Ore” e “Vogue”, ed è stato caposervizio per il data-journalism e l’economia a “Wired”. È cofondatore di Diritto Di Sapere, la prima ong italiana dedicata all’espansione e alla difesa del diritto di accesso all’informazione.

Su Twitter è @guidoromeo

Entrambi gli autori hanno promosso la campagna Foia4Italy (www.foia4italy.it) per l’approvazione della legge sulla trasparenza e l’accesso all’informazione.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la Prefazione di Gian Antonio Stella

Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico. (Max Weber)

Tryckfrihetsförordningen è impronunciabile? Provate con «l’art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito…». Qual è la differenza? Chi parla lo svedese la parola Tryckfrihetsförordningen la capisce benissimo: è il diritto alla libertà di stampa e alla trasparenza. Chi parla l’italiano davanti ai nostri codicilli stramazza: quel linguaggio iniziatico è una barriera che impedisce l’accesso. Come diceva tre secoli fa Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». È passato un quarto di millennio da quando la Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini l’accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica. Mancavano tre anni alla nascita di Napoleone, dieci alla Dichiarazione d’indipendenza americana, ventitré alla presa della Bastiglia e alla Rivoluzione francese. Eppure duecentocinquant’anni dopo, come dimostrano Ernesto Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato, l’Italia fatica a adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni in tutti quei paesi che credono nelle ragioni di John F. Kennedy. E cioè che «come disse un saggio: “un errore non diventa madornale finché non rifiuti di correggerlo”» e che proprio la denuncia degli errori può aiutare chi comanda a governare meglio. «Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna Repubblica può sopravvivere.» Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi anni. Perfino dopo il decreto legislativo 33 del 2013 (il «decreto trasparenza» voluto da Mario Monti) che ordina alle amministrazioni di mettere a disposizione dei cittadini (salvo rare eccezioni) una quantità senza precedenti di documenti e informazioni in loro possesso nell’intento di favorire «un controllo diffuso da parte del cittadino sull’operato delle istituzioni e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Se «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo», l’occhio del cittadino può sgrassare il bilancio più obeso. E scorgere storture, clientelismi, sprechi, privilegi, reati e malversazioni altrimenti invisibili. Abbiamo visto la Calabria negli anni del governatore Giuseppe Scopelliti pubblicare sul Bollettino ufficiale della Regione decine e decine di delibere di spesa con i nomi degli oscuri destinatari dei soldi per questo o quell’incarico coperti da ancora più oscuri omissis. Come nel caso della concessione del vitalizio, che solo successivamente sarebbe stato revocato, a Mimmo Crea, per anni consigliere e assessore regionale, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per l’«onorata sanità». «Il dirigente delle risorse umane – diceva l’incredibile delibera – determina, per quanto in premessa evidenziato, che qui si intende integralmente riportato e accolto: di liquidare all’on. omissis l’assegno mensile dell’importo di euro 6647,67 al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio maturato per il mandato di consigliere regionale.» Abbiamo letto, a dimostrazione di come il problema riguardi tutto il paese da Lampedusa a Vipiteno, interviste come quella del capogruppo regionale dell’unione per il trentino, Giorgio Lunelli, che per giustificare il rifiuto di rendere pubbliche le ricevute per le quali chiedeva i rimborsi disse: «Io sono per la massima trasparenza ma dobbiamo stare attenti all’eccesso di trasparenza, che può mettere in difficoltà chi svolge attività politica. Se io ho un incontro riservato e vado a pranzo con una persona può rappresentare un problema dover pubblicare la spesa con il nome della persona con cui sono andato a pranzo». Stupefacente. È l’esatto motivo per cui nei paesi seri è obbligatorio denunciare tutto ma proprio tutto. Scrive divertita Caterina Soffici in Italia yes Italia no, dove ci mette a confronto con l’Inghilterra: «Perfino Buckingham Palace è trasparente. La regina pubblica ogni anno un rapporto di oltre cento pagine con il rendiconto di tutte le spese della monarchia, comprese le più piccole, come la sostituzione di un vetro o di un water nella tenuta di Balmoral. Ci sono gli stipendi dello staff, i costi e i consumi volumetrici di gas, elettricità, combustibile per scaldare le residenze reali. Anche ogni volo o treno preso dalla regina, dal suo staff e dai membri della famiglia reale per viaggi dentro e fuori dall’isola è rendicontato nel dettaglio».i In certi casi, aggiunge, si rasenta il ridicolo come in «quello di tal Sir Campbell: ha registrato un pagamento di 15 sterline per un discorso tenuto il 18 agosto 2010 al Probus Club di Auchtermuchty. L’importo del gettone di presenza, si specifica, è stato donato in beneficenza». tutti candidi come angioletti? Il conto a Panama di David Cameron, per fare un esempio, dice che non è così. I furbi fanno i furbi anche là. Sanno però di rischiare molto di più. La trasparenza ha imposto allo stesso Cameron, infatti, di scrivere nella sua scheda di aver ricevuto in dono dal personal trainer Matt Roberts venticinque sedute di ginnastica che sarebbero costate 130 sterline l’una. Somma girata in beneficenza alla onlus suggerita dall’allenatore. Al di là dell’Atlantico funziona allo stesso modo. Dice tutto il caso dell’ex segretario al tesoro americano Henry Paulson, costretto nel 2009 a dimettersi per aver fatto delle telefonate (vietatissime perché lì il conflitto di interessi è una cosa seria) alla Goldman Sachs, l’azienda della quale in precedenza era stato il numero uno. Vi chiederete: e come fu scoperto? Sulla base del Freedom of Information Act, la legge sulla libertà d’informazione, il «New York times» aveva chiesto l’elenco di tutte le chiamate fatte dall’ufficio dell’allora potentissimo segretario. Le aveva esaminate una a una et voilà: smascherato. E qualcosa di simile era già successo ad Al Gore, beccato e messo alla gogna dagli avversari per aver negato di aver fatto dal suo ufficio un po’ di telefonate elettorali quando correva contro George W. Bush: non si fa. Questa è la trasparenza. Che non può essere concessa a capriccio, un po’ sì e un po’ no, in dosi omeopatiche. o c’è o non c’è. Da noi, invece, i trinariciuti guardiani della riservatezza sono andati avanti per anni a invocare la privacy. L’hanno invocata in Sicilia, quando opposizioni e giornali diedero battaglia per avere la lista dei 397 giovani assunti senza concorso in certe municipalizzate e società miste palermitane: «C’è la privacy, quei nomi non li possiamo dare» spiegava il vicesindaco Giampiero Cannella, braccio destro di Diego Cammarata. «Io li renderei pubblici, ma si rischia la gogna mediatica, un clima da unione Sovietica, mi sembra una violenza ingiusta verso chi era disoccupato e ora ha finalmente un posto di lavoro.» Il difensore civico Antonino tito, invitato a dire la sua, sospirò: «Non ho il potere di fare questa richiesta». Finché saltò fuori che tra i fortunati assunti, per pura coincidenza, c’erano anche i suoi figli Giuseppe e tania. Hanno invocato la privacy a tolentino, nelle Marche, dove i dirigenti della municipalizzata Assm Spa si sono sì rassegnati a mettere on line, come dice la legge, le loro retribuzioni, ma erano convinti che nessuno se ne sarebbe accorto. Così, quando una rivista locale distribuita ogni mese in ottomila famiglie, «Mpn» («Multiradio Press News»), ha osato pubblicare le cifre «per permettere anche a chi non ha tempo o dimestichezza coi mezzi informatici di leggere i dettagli delle varie spese», hanno fatto il finimondo. «La condotta da voi tenuta con la pubblicazione del periodico “Press News” – si leggeva in una lettera alla rivista che minacciava sfracelli – è assolutamente contraria alla normativa vigente in materia di protezione e riutilizzo dei dati personali e, più in generale, ai principi di diligenza e buona fede. La censura si basa sulla totale assenza di una preventiva richiesta scritta per il riutilizzo dei dati personali pubblicati nel sito web di Assm Spa e dell’estratto della delibera del consiglio di amministrazione.» Infatti, proseguivano gli avvocati, «l’obbligo previsto dalla normativa in materia di trasparenza on line della Pa di pubblicare dati in “formato aperto” non comporta che tali dati siano anche “dati aperti”, cioè liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque scopo». Hanno invocato la privacy nel maggio del 2014 in Sardegna per non consegnare ad Anthony Muroni, il direttore de «L’unione Sarda» che lo chiedeva da settimane, l’elenco dei consiglieri regionali appena decaduti ma già in pensione. Elenco indispensabile dopo la scoperta che la presidente del consiglio uscente Claudia Lombardo, perso il seggio, era già in pensione a quarantun anni con 5100 euro netti al mese pur essendo più giovane di Nicole Kidman o Cameron Diaz. E l’hanno invocata nelle regioni autonome del Nord. Come in Friuli-Venezia Giulia dove la governatrice Debora Serracchiani sbalordì i partecipanti a un convegno raccontando di avere un «problemino» coi dirigenti dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari: «Ho chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’aeroporto, posso sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». E anche dopo essersi rassegnati a mettere on line le buste dei sergenti, dei caporali e dei soldati semplici, i vertici aeroportuali si sono rifiutati di rivelare lo stipendio del più pagato di tutti, il direttore generale. Nota nella casella: «Compenso deliberato: dati non trasmessi». Perché? Perché trattandosi comunque di una Spa, pur avendo un unico azionista… l’Avvocatura dello Stato dice che anche gli stipendi più alti devono essere pubblici? Loro, i vertici, dissentono. Quanto al trentino-Alto Adige, le autorità locali hanno avuto per la trasparenza (non è mai stata data la lista neppure di chi ha la tessera gratis dell’autostrada del Brennero, totalmente pubblica) una vera allergia. ogni volta che scoppiava uno scandalo per le retribuzioni stratosferiche (si pensi che l’assessore provinciale alla Sanità sudtirolese, Richard theiner, nel 2008 prendeva 22.900 euro e cioè 6600 più di ursula Schmidt, ministro della Sanità in Germania) o per i trattamenti pensionistici, si alzavano barricate. Privacy! Privacy! un alibi penoso: il garante per la privacy ha infatti chiarito da anni che la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e in seguito il «codice privacy» non hanno «inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa». Pertanto «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti». In testa ai guardiani della privacy sempre lui: Franz Pahl, un «duro e puro» autonomista, prima presidente del consiglio provinciale e poi dell’Associazione ex consiglieri del trentino-Alto Adige. Così roccioso nella difesa dei segreti e dei privilegi che quando i neopensionati che avevano esagerato furono chiamati a rendere, nel 2014, una parte dei mega anticipi sui vitalizi (calcolati come se tutti dovessero vivere ottantacinque anni!) rispose: «Non restituisco neanche un euro!». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Napoletan-tirolese. Per farla corta, a duecentocinquant’anni dalla prima legge mondiale sulla trasparenza, migliaia di burocrati italiani, arroccati nei palazzi del potere centrale e in quelli del potere periferico, sembrano in trincea con l’elmetto e la baionetta a difendere l’indifendibile: la segretezza dei dati. Scriveva Max Weber: «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». È passato un secolo. Siamo sempre inchiodati lì. Ernesto Belisario e Guido Romeo, in questo libro, raccontano dieci casi esemplari di trasparenza negata. uno più stupefacente e vergognoso dell’altro. Dalle cortine fumogene sollevate sui soldi della politica a quelle che impediscono ai cittadini di saperne di più sugli edifici scolastici a rischio, sui centri di accoglienza per i profughi troppo spesso in mano a furbetti e delinquenti, sui siti che ancora traboccano di amianto assassino… un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…

i Caterina Soffici, Italia yes Italia no: che cosa capisci del nostro paese quando vai a vivere a Londra, Feltrinelli, Milano 2014.

Ernesto Belisario e Guido Romeo, SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata e di cittadini che non si arrendono, (Prefazione di Gian Antonio Stella), Ed.Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 192, 14 euro

Gli Eurosprechi che alimentano il populismo. Un libro di Roberto Ippolito

“Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di ospedale. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare.” Vanessa Stevenson, cittadina di Hillingdon, ovest di Londra, dopo il referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

“Chi immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi.”
Roberto Ippolito

Come sempre documentatissimo, Roberto Ippolito, nel suo ultimo libro, fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi dell’Unione Europea: autostrade con poche auto nonostante immani investimenti, aeroporti nuovi eppure deserti, tonno pagato sei volte di più, dipendenti gratificati da un’indennità extra anche se malati, la proliferazione di enti perfino con nomi simili, la media di un immobile su cinque al mondo non adoperato. E poi errori che inficiano il 4,4 per cento di tutti i pagamenti. Eurosprechi mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Fa rabbia che la casa comune, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dagli innumerevoli episodi raccontati dettagliatamente emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. Con un paradosso: il deficit di bilancio balza al 4,8 per cento, molto oltre il tetto di Maastricht. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Gli europeisti sono davvero impegnati per togliere pretesti all’azione disgregatrice? L’Unione può superare le resistenze e crescere se, oltre a ritrovare la forza dello slancio ideale e una visione solidale, affronta adeguatamente la questione dei soldi. Gli eurosprechi sono un macigno sulla strada di chi vuole gridare ancora: “Viva l’Europa”.

L’Autore
Roberto Ippolito, scrittore e giornalista, ha pubblicato con Chiarelettere i libri di successo “Ignoranti” (2013) e “Abusivi” (2014). In precedenza ha firmato “Evasori” (Bompiani 2008) e “Il Bel Paese maltrattato” (Bompiani 2010). Ha diretto a Roma “Libri al centro” a Cinecittà, “conPasolini”, “Nel baule” al Maxxi; a Ragusa, il festival letterario “A tutto volume”. È stato editor del “Festival dell’economia” di Trento e ha ideato il “Tour del Brutto dell’Appia Antica”. Dopo aver curato a lungo l’economia per il quotidiano “La Stampa”, è stato direttore comunicazione di Confindustria e direttore relazioni esterne dell’Università Luiss, dove ha anche insegnato “Imprese e concorrenza” alla Scuola superiore di giornalismo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro.

L’Unione Europea non va di moda. Va di moda attaccarla, denigrarla, ritenerla la causa di tutti i mali. Fonte di sventure, di impoverimento, di ingiustizie. Per quello che fa e anche per quello che non fa. Eppure l’Europa è qualcosa di unico al mondo. Ma quale Europa? Questo libro fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi. Mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Già prima della Brexit, l’addio della Gran Bretagna alle istituzioni comuni deciso con il referendum del 23 giugno 2016, l’Unione era malata. Dopo quel giorno incredibile tutto è diventato più incerto. Il domani per l’Europa ci può essere, se l’Europa cambia. Sapere è più prezioso che mai. Fa rabbia che l’Unione, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dov’è la politica che costruisce? Dove sono i progetti che fanno progredire? Dov’è l’attenta valutazione del beneficio di ogni euro impiegato? Episodio per episodio emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. E pensare che il tema dei costi dell’Unione ha già un grande impatto sulla gente, ha pesato nella vittoria del leave, l’abbandono dell’Unione da parte del Regno Unito, e fornisce legna agli incendiari leader populisti e anti-immigrati che infiammano l’Europa. Per rendersene conto potrebbero bastare le opinioni degli abitanti di Hillingdon, il quartiere a ovest di Londra dove il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, l’Ukip di Nigel Farage, ha pilotato il grosso successo della Brexit respinta invece praticamente in tutta la capitale inglese. 1 Con lo scrutinio alle ultime battute, lasciando l’ospedale di Hillingdon all’alba, una votante, Vanessa Stevenson, ha sfoderato in chiave personale tutto il suo rancore anti-Ue: «Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di posto. Sporco, senza infermieri, tenuto come un garage. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare qui». Vanessa Stevenson ha semplificato troppo? Ha mischiato le conseguenze delle politiche locali con quelle europee? Si è sentita appagata dall’aver individuato e messo ko chi ha identificato come il nemico? La sua irritazione sembra la sintesi privata della diffusa avversione per l’Europa. Nove giorni prima del voto, il vendutissimo quotidiano conservatore inglese «The Sun», impegnato a tirare la volata alla Brexit e alle sue motivazioni, ha scritto che, nei «nostri 43 anni nell’Unione Europea», Bruxelles «si è dimostrata sempre più avida, sprecona, tirannica e incredibilmente incompetente in una crisi». 2 I giudizi all’origine della Brexit sul cattivo governo dell’Unione, fondati e non, si ritrovano diffusi nei paesi membri, da est a ovest, da nord a sud, tra paure, arroccamenti e propaganda. Travolgono le istituzioni comuni a prescindere, sovrapponendole alle politiche adottate, anche se le politiche possono essere differenti in rapporto ai risultati delle elezioni per il Parlamento Europeo, agli orientamenti e alla composizione della Commissione europea, al colore e agli atteggiamenti dei governi nazionali. Nei singoli stati c’è chi strilla, chi esagera, chi sbatte la porta e chi vorrebbe sbatterla. Ma i problemi esistono. Gli eurosprechi esistono. E neanche pochi. Infatti nelle pagine che seguono il lettore troverà vicende e importi scaturiti da ricerche, davvero infinite, cioè qualcosa di estremamente concreto ed estremamente negativo. Questo libro rivela quanto e come si sperpera, offendendo perfino il comune senso del pudore (economico). Dilapidare i soldi dell’Unione, facendola funzionare male, mette in pericolo addirittura la sua sopravvivenza. E dunque guardare in faccia lo stato delle cose, passare al setaccio i comportamenti significa essere consapevoli della svolta necessaria, nella lunga stagione di stallo del processo di integrazione. Sono innumerevoli e gravi i casi trovati di sperpero di soldi dei cittadini, soldi spesso buttati via senza logica, senza progetti, senza controlli, senza badare ai risultati ma con gli eccessi della burocrazia. Sciupare montagne di euro mina la fiducia nei confronti delle attuali istituzioni. Riduce la passione e l’interesse della gente anche per il loro rafforzamento. L’uso distorto delle risorse a Bruxelles e nei posti più disparati del continente è uno sgambetto sul cammino dell’unificazione, ostacola le azioni comuni su fronti caldi come la sicurezza o le difficoltà dell’economia e offre argomenti, facili ma forti, agli avversari dell’Unione. I costi dell’Europa sono il carburante dell’avanzata antieuropeista. L’operazione trasparenza dei conti, al contrario, può costituire una carta decisiva da giocare per chi vuole rilanciare la costruzione europea, oggi ferma e con il futuro appannato da pesanti incertezze. Questo libro è stato concepito in seguito a una constatazione elementare: finora nessuno si è preso la briga di studiare i conti dell’Unione e di descrivere che fine fanno veramente piccole e grandi somme. Sempre pronta a rimproverare, bocciare e mettere in castigo, anche giustamente, i governi dei paesi membri (ventisette senza la Gran Bretagna), la Commissione europea, presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker dall’1 novembre 2014 e nei dieci anni precedenti dal portoghese José Barroso, 3 non sembra guardare con uguale severità in casa propria. E pensare che il rigore, il tanto discusso rigore, è la sua bandiera, quella del Partito popolare europeo maggioritario nel Parlamento Europeo e della cancelliera tedesca Angela Merkel. L’esigenza di serietà nelle politiche economiche di ogni stato, per soddisfare l’interesse generale, è stata sostenuta in modo anche oltranzistico. È storia. Nonostante questo, ben altra cosa sono i fatti che avvengono nella casa comune. Nell’orbita dei ventotto commissari, tra direzioni, agenzie e segrete stanze, ne accadono di tutti i colori. Per tutte le scoperte raccontate, ci sono le pezze d’appoggio e sono indicate le fonti. Non si tratta di opinioni. Un grosso lavoro di accertamento e verifica viene compiuto dalla Corte dei conti europea, che ha sede a Lussemburgo. La Corte punta ripetutamente il dito sull’uso anomalo o sbagliato del denaro dei contribuenti. I suoi giudizi sono importanti anche se non vincolanti e dovrebbero pesare visto il compito, affidato dal Trattato di Bruxelles del 1975, di controllare la regolarità delle entrate e delle spese dell’Unione Europea e la correttezza della gestione finanziaria. 4 Invece per le sue relazioni e per i suoi ammonimenti il disinteresse sembra sistematico. Queste pagine sono state realizzate guardando in tutte le direzioni, ma più di cento documenti della Corte spulciati e studiati rappresentano la base fondamentale essendo ufficiali e il frutto dell’analisi delle spese effettuate e delle decisioni prese, dei contratti stipulati e delle pratiche svolte nonché dei sopralluoghi e dei colloqui con valore formale. All’ombra del presidente francese François Hollande o del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi o della Merkel e dei governanti di tutti i paesi membri, miliardi e miliardi di euro vengono dissipati ogni anno. Sì, miliardi. Un bel po’ di miliardi. Se si continua così, il disfacimento di tutta l’Unione è inevitabile. Altro che Brexit. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi sulla questione quattrini, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Chi impiega il denaro dei cittadini ha il dovere di preoccuparsi. Direzione per direzione, ente per ente, ufficio per ufficio, il portafoglio può essere aperto con maggiore oculatezza e maggiori benefici. E il sogno dell’Unione può essere coltivato, per un grande disegno solidale ancora più forte e per il benessere dei suoi abitanti, 450 milioni una volta salutati quelli al di là della Manica. Chi non vuole veder scendere ancora questo numero e immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi. Il viaggio negli sperperi del Vecchio Continente, dunque, ora può cominciare.

Pagamenti bocciati
Alcuni hanno persino tratto vantaggio dallo scompaginamento dell’Europa. L’Ue però non figura tra i beneficiari. Jan Zielonka 20145

Anche lui è preoccupato. Il portoghese Vítor Manuel da Silva Caldeira cammina pensieroso. È per strada a Strasburgo, diretto al Parlamento Europeo. In qualità di presidente della Corte dei conti europea, la mattina di giovedì 26 novembre 2015, non può sottrarsi al suo compito, anche se sgradevole: certificare, numeri alla mano, che l’Unione Europea butta via i soldi con una facilità estrema. E così, nella seduta plenaria del Parlamento, illustrandomla relazione sul bilancio del 2014 dell’Unione 6 presentata al termine dell’analisi dei conti, pronuncia il verdetto che non potrebbe essere più severo: «Troppe spese non sono ancora conformi alle norme finanziarie dell’Ue» sono le sue parole che rimbalzano nell’aula. 7 L’intervento dura pochi minuti, in un clima gelido. Non ci sarebbe da aggiungere altro per descrivere l’inesorabile dissipazione di soldi e quindi di opportunità. Questa è l’Europa. Oggi. Il discorso di Caldeira ai deputati non può che essere una rapida sintesi dei giudizi e dei fatti contenuti nella relazione sul bilancio che occupa 320 pagine della «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea». 8 Più che sufficiente, però, per mostrare il panorama tutt’altro che limpido. Il presidente della Corte dei conti europea sente infatti il bisogno di lanciare un avvertimento: «La gestione finanziaria dell’Ue trarrebbe grande beneficio da una maggiore trasparenza. Ciò è fondamentale per ottenere la fiducia dei cittadini». Caldeira fa suonare l’allarme: «A giudizio della Corte, le risorse di bilancio dell’Ue potrebbero essere investite meglio e più rapidamente per affrontare le molte sfide cui l’Europa è confrontata». Troppe spese non conformi vuol dire troppi soldi spesi male. La Corte dei conti europea calcola errori nei pagamenti del 2014 pari al 4,4 per cento di tutte le uscite. I soli errori incidono per 6,3 miliardi di euro su un bilancio complessivo di 142,5 miliardi. La cifra è enorme dopo le cifre immense già registrate per i due anni precedenti. Il livello di errore stimato, che misura il livello di irregolarità, infatti, è praticamente lo stesso di quello del 2013 e del 2012, quando è stato del 4,5 per cento. Ancora una volta si colloca al di sopra della soglia di rilevanza del 2 per cento nonostante le azioni correttive disposte. Il 4,4 per cento deriva dalle verifiche che sono state compiute su un esteso campione, che copre tutti i settori di spesa. La realtà, però, è anche peggio. All’esito del grosso lavoro di accertamento svolto ad ampio raggio bisogna aggiungere i molti errori che la stessa Corte dichiara di non essere in grado di quantificare, «quali le violazioni minori di norme in materia di appalti, l’inosservanza di norme in materia di pubblicità o il recepimento non corretto di direttive dell’Ue nella legislazione nazionale». Questi altri errori «non sono inclusi nel tasso» stimato dalla Corte che, pertanto, dovrebbe essere più elevato.9

Roberto Ippolito, EUROSPRECHI. Tutti i soldi che l’Unione butta via a nostra insaputa, Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 160, 13 euro

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1Ettore Livini, Chi vince. Tra i «marziani» di Hillingdon. «La Ue era solo per i ricchi», «la Repubblica», 25 giugno 2016.
2BeLeave in Britain, «The Sun», 14 giugno 2016. Editoriale anticipato alle 22.58 del giorno prima sul sito «thesun.co.uk» con il titolo Sun Says. We urge our readers to beLeave in Britain and vote to quit the Eu on June 23.
3In carica dal 22 novembre 2004 al 31 ottobre 2014.
4Trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati che istituiscono le Comunità europee e del trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee, firmato a Bruxelles il 22 luglio 1975 e in vigore dall’1 giugno 1977, «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. L359 20° anno, 31 dicembre 1977.
5Jan Zielonka, docente polacco di Politiche europee all’Università di Oxford, Is the Eu doomed?, Polity Press, Cambridge 2014 (edizione italiana Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015).
6Corte dei conti europea, «Relazione annuale della Corte dei conti sull’esecuzione del bilancio per l’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni relative a questo documento in tutto il libro sono ricavate anche da Corte dei conti europea, «2014 Sintesi dell’audit dell’Ue. Presentazione delle relazioni annuali della Corte dei conti europea sull’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni prive di note in tutte le pagine successive sono relative a questi due documenti.
7Corte dei conti europea, «Discorso di Vítor Caldeira, Presidente della Corte dei conti europea. Presentazione delle relazioni annuali sull’esercizio 2014. Seduta plenaria del Parlamento Europeo», Strasburgo, 26 novembre 2015.
8«Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. C373 58° anno, 10 novembre 2015.
9Corte dei conti europea, «Relazione annuale sull’esercizio 2014 – Risposte alle domande più frequenti», Lussemburgo, 10 novembre 2015.

Un inno alla leggerezza: Lettera sul fanatismo. Un testo di Shaftesbury

lettera-sul-fanatismo_cover-1Tre motivi per leggerlo.

“Le opinioni più ridicole, le mode più assurde possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve.” Ashley-Cooper, conte di Shaftesbury). Prezioso questo libretto pubblicato da Chiarelettere. Un classico del pensiero del ‘700. In tempi segnati da fanatismo e integralismo ci farà bene la lettura di questo libretto- Perché è una lettera illuminante scritta da un filosofo più di tre secoli fa e ancora oggi essenziale. Perché è un manifesto contro la malinconia e l’eccesso di serietà. Perché è un inno alla leggerezza che è l’anticamera della libertà.

L’AUTORE (DA WIKIPEDIA)

Shaftesbury nasce a Londra, nipote di Anthony Ashley-Cooper, I conte di Shaftesbury e figlio del secondo Conte. Sua madre è Lady Dorothy Manners, figlia di John, Conte diRutland. Secondo il racconto del III Conte, il matrimonio tra i genitori di Shaftesbury venne combinato grazie all’intercessione di John Locke, fidato amico del I Conte. Il padre di Shaftesbury pare fosse debilitato sia dal punto di vista fisico che psichico, tanto che, all’età di tre anni, il figlio è posto sotto la tutela del I Conte, il nonno. Locke, presente nella casa del Conte grazie alle sue conoscenze mediche, ha già assistito alla nascita del piccolo Shaftesbury, ed è a lui che gliene viene affidata l’educazione, che la condusse sulla base dei principî enunciati nel proprio scritto Pensieri sull’educazione (pubblicato nel 1693); il metodo di insegnamento del latino e greco antico tramite la conversazione fu portato avanti con successo dalla sua istruttrice, Elizabeth Birch, tanto che all’età di undici anni si dice il piccolo Shaftesbury fosse in grado di leggere scorrevolmente entrambe le lingue.

Nel novembre del 1683, alcuni mesi dopo la morte del I Conte, il padre inviò Shaftesbury al College di Winchester, dove trascorse un periodo infelice, a causa del suo carattere timido e perché schernito a causa del nonno. Lasciò Winchester nel 1686, per una serie di viaggi all’estero, che gli permisero di entrare in contatto con associazioni di artisti e classicisti, che ebbero una forte influenza sui suoi carattere e opinioni. Durante i suoi viaggi sembra non cercasse il dialogo con altri giovani inglesi quanto piuttosto coi loro tutori, con cui poteva conversare su tematiche a lui più congeniali.

Nel 1689, l’anno successivo alla Gloriosa Rivoluzione, Shaftesbury tornò in Inghilterra, e sembra che abbia trascorso i successivi cinque anni dedicandosi a una tranquilla vita di studio. Non c’è dubbio che la maggior parte della sua attenzione era rivolta all’analisi degli autori classici, nel tentativo di comprendere il vero spirito dell’antichità classica. Non era sua intenzione, tuttavia, trasformarsi in un “recluso”. Divenne candidato parlamentare nel villaggio di Poole, ottenendo l’elezione il 21 maggio 1695. Si distinse tra l’altro per un intervento in favore della legge per la regolamentazione delle controversie in caso di tradimento, in particolare per quella norma che doveva assicurare agli accusati di tradimento, o di mancata denuncia di un tradimento, l’assistenza di un avvocato. Nonostante appartenesse ai Whig, Shaftesbury fu sempre pronto a supportare le proposte della parte avversaria, se queste gli sembravano promuovere la libertà dei sudditi e l’indipendenza del parlamento. La salute debole lo costrinse a ritirarsi dal parlamento nel 1698. Soffriva d’asma, disturbo aggravato dall’atmosfera inquinata di Londra.

Shaftesbury si ritirò quindi nei Paesi Bassi, dove entrò in contatto con Jean LeclercPierre BayleBenjamin Furly (il mercante inglese quacchero, che aveva ospitato Locke durante la sua permanenza a Rotterdam) e probabilmente con Limborch e il resto del circolo letterario che una diecina di anni prima aveva avuto Locke come suo membro onorato. Probabilmente questo era un ambiente sociale ben più congeniale a Shaftesbury che non quello inglese. In questo periodo erano i Paesi Bassi la nazione dove si potevano tenere, con la maggior libertà e il minor rischio che non nel resto d’Europa, confronti sugli argomenti che più interessavano a Shaftesbury (filosofiapoliticamorale,religione). Sembra si debba riferire a questo periodo la pubblicazione clandestina, in patria, in un’edizione incompleta della Ricerca sulla virtù e il merito, ricavata da una bozza che Shaftesbury aveva schizzato all’età di vent’anni; pubblicazione dovuta a John Toland.

Dopo oltre un anno, Shaftesbury tornò infine in Inghilterra, e dopo poco succedette al padre come Conte. Partecipò attivamente, a fianco dei Whig, alle elezioni generali del bienno 1700-1791, e ancora, ma con minor successo, a quelle dell’autunno 1701. Si dice che in quest’ultima occasione Guglielmo III espresse il suo apprezzamento per i servizî di Shaftesbury, offrendogli la carica di segretario di Stato, che tuttavia Shaftesbury rifiutò, a causa del progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute. Se il Re fosse vissuto più a lungo, probabilmente l’influenza di Shaftesbury a corte sarebbe stata maggiore. Dopo le prime due settimane di regno della regina Anna, Shaftesbury, privato del suo titolo di vice-ammiraglio di Dorset, tornò alla propria vita ritirata, anche se da alcune sue lettere si evince che mantenne un forte interesse per la politica.

Nell’agosto del 1703 si stabilì nuovamente nei Paesi Bassi, nel cui clima sembrava avere, al pari di Locke, grande fiducia. Tornò in Inghilterra nel 1704, fortemente provato nella salute. Nonostante il soggiorno all’estero gli avesse prodotto, sull’immediato, dei benefici, la malattia progredì inesorabilmente fino a diventare cronica. Shaftesbury ridusse quindi le sue attività a mantenere la corrispondenza e a scrivere, completando e rivedendo, i trattati in seguito raccolti nelle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi. Continuò tuttavia ad avere un grande interesse per la politica, sia interna che estera, in particolar modo per la guerra contro la Francia, guerra che sostenne in maniera entusiasta.

All’età di quasi quarant’anni si sposò, e anche in questo caso sembra che si decidesse al passo dietro le insistenti richieste dei suoi amici, principalmente per garantire un successore al suo titolo. Oggetto della sua scelta (o, meglio, della sua seconda scelta, in quanto un primo progetto di matrimonio era già fallito in breve tempo) fu Jane Ewer, la figlia di un gentiluomo di Hertfordshire. Il matrimonio ebbe luogo nell’autunno del 1709, e il 9 febbraio dell’anno successivo l’unico figlio di Shaftesbury nacque a Reigate, nelSurrey; è ai suoi manoscritti che dobbiamo molti dettagli sulla vita di Shaftesbury stesso. L’unione sembrò felice, anche se Shaftesbury si sentiva troppo coinvolto dalla sua vita matrimoniale.

Se si esclude, nel 1698 la prefazione a uno scritto di Whichcote (esponente della scuola di Cambridge), Shaftesbury non pubblicò nulla di proprio sino al 1708. A quel tempo iCamisardi francesi attiravano l’attenzione grazie alle loro folli stravaganze, rispetto alle quali erano stati proposte diverse misure repressive, ma Shaftesbury affermò che non c’era nulla di meglio per combattere il fanatismo, se non la presa in giro e il buon umore. A sostegno di questa sua visione, scrisse Lettera sull’entusiasmo, datata al settembre1707, che venne pubblicata in forma anonima l’anno seguente, provocando numerose risposte. Nel maggio del 1709 tornò sull’argomento dando alle stampe un’ulteriore lettera, titolata Sensus communis, e nello stesso anno pubblicò anche Il moralista, seguito l’anno successivo dal Soliloquio o consiglio a un autore. Pare che nessuno di questi titoli sia stato pubblicato col suo nome o con le sue iniziali. Nel 1711 comparvero i tre volumi delle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi, anch’esse in forma anonima e prive persino del nome dello stampatore. Questi volumi contenevano, oltre ai quattro trattati già citati, le inedite Riflessioni miscellanee e la Ricerca sulla virtù e il merito, che si segnalava esser già stata pubblicata in forma imperfetta, ora corretta e intera.

A causa dell’aggravarsi della malattia, Shaftesbury fu costretto alla ricerca di un clima più caldo; nel luglio del 1711 partì per l’Italia. A novembre si stabilì a Napoli, dove visse per più di un anno. La sua principale occupazione, in questo periodo, sembra sia consistita nella preparazione di una seconda edizione delle Caratteristiche, che fu pubblicata nel1713, poco dopo la morte. La copia, minuziosamente corretta di suo pugno, è attualmente conservata nel British Museum. Durante il soggiorno a Napoli fu impegnato anche nella stesura di brevi saggi (poi inclusi nelle Caratteristiche), e all’abbozzo di Plastica, o l’origine, il progresso e la potenza delle arti del disegno, che però era appena iniziato quando sopraggiunse la morte (venne pubblicato comunque nel 1914, col titolo Caratteristiche seconde o il linguaggio delle forme).

Gli eventi che precedettero il Trattato di Utrecht, che Shaftesbury vedeva come un segnale dell’abbandono dell’Inghilterra da parte dei suoi alleati, lo preoccupò particolarmente durante gli ultimi mesi di vita. Non visse comunque sino a vederne la ratifica (che avvenne il 31 maggio 1713), in quanto morì il mese precedente, il 4 febbraio 1713. Il suo corpo fu riportato in Inghilterra e sepolto nella residenza di famiglia nel Dorsetshire. Il suo unico figlio gli successe come IV Conte, mentre il suo pronipote, VII Conte, divenne un famoso filantropo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo stralci dell’introduzione del curatore del volume David Bidussa

“Una nuova prospettiva”

Nel Settecento per dire «fanatismo» si diceva «entusiasmo». Il primo a distinguere tra le due parole è Voltaire nel suo Dizionario filosofico. Fanatismo, scrive, è una degenerazione della superstizione. Diverso l’entusiasmo, che «è il frutto della religiosità male intesa», in cui la ragione può essere sopraffatta. Non diversamente Hume: la superstizione è figlia della supremazia del clero, della paura e del panico; l’entusiasmo è quella condizione di spirito, altrettanto fondata sull’intolleranza, ma effetto della liberazione dell’individuo dai poteri forti, soprattutto dal clero. In questo senso, a differenza della superstizione, l’entusiasmo sarebbe amico della libertà civile. Entrambi si nutrono direttamente di ciò che all’inizio del Settecento aveva scritto Shaftesbury nella sua Letter concerning Enthusiasm, che in questa edizione abbiamo scelto di tradurre come Lettera sul fanatismo per il doppio significato che la parola «entusiasmo» contiene nell’opera: fanatismo, appunto, da un lato; resistenza a una condizione di sopruso dall’altro. Un tipo di resistenza che nasce da una visione della politica la cui finalità è quella di «salvare le anime» e il cui portatore si sente in «missione per conto di Dio, in nome di un bene da raggiungere». «Salvare anime – scrive Shaftesbury – è diventata ormai la passione eroica degli spiriti esaltati e, in qualche modo, la principale preoccupazione del magistrato e il vero e proprio fine del governo.» È questa la matrice degenerativa di qualsiasi forma di credo, in religione come in politica.

“Prima della violenza”

Shaftesbury ci spiega che la scelta intransigente che all’inizio del Settecento fonda le correnti del fanatismo religioso, non nasce né è la conseguenza di un pensiero religioso, ma è data dalla rivolta contro un sistema che si ritiene «falso», che promette un «bene falso» e contro il quale non può esserci né tregua né pietà. È la rivolta di coloro che si sentono depositari della verità, testimoni di Dio, e che perciò non pensano che il perdono né la comprensione siano una via di riconciliazione in grado di redimere e «salvare» i reprobi. Ma è anche una rivolta di coloro che scoprono la verità della parola di Dio come arma contro la corruzione, come via per la salvezza. Un modello di comportamento fondato sulla rinuncia e che legge la rinuncia come virtù La violenza non necessariamente è inclusa in questo paradigma. La premessa necessaria infatti più che nella violenza consiste nella natura intransigente e radicale della scelta nei confronti del modello di società (e dei suoi valori) da cui si dichiara di voler fuoriuscire. Su questa caratteristica dobbiamo fissare la nostra attenzione. Questa scelta non è solo contrassegnata dall’orgoglio (che certamente c’è ed è rilevante) ma comunica anche la domanda di dignità che chi si rivolta esprime nei confronti di una società che considera corrotta. L’intransigente presenta se stesso come appartenente a un mondo di liberati, soprattutto di non sottomessi. Questa scena e questa scelta non si sono verificate per la prima volta nelle periferie di Europa, in una delle tante banlieues della rabbia. Esprimono una storia e un sentimento che prima degli ultimi anni hanno avuto almeno altre due occasioni di manifestazione: all’inizio degli anni Ottanta e vent’anni dopo. Nel primo caso la meta era l’Afghanistan, vent’anni dopo l’Iraq. Oggi il fenomeno è numericamente più consistente ma non toglie che risponda anche a una crisi complessiva appunto di promesse non mantenute, al crollo del mito emancipativo in Occidente. Tuttavia questa scena si è svolta in un luogo già definito e compiuto molto tempo fa. Questa storia ci riguarda direttamente.

La scena è un palazzo vescovile; il tempo circa otto secoli fa; il luogo è Assisi. Un giovane benestante decide che la qualità di vita che la sua famiglia gli offre non è fatta per lui, non è quella che desidera. Non solo la rifiuta, ma la ritiene contraria ai principi cui attenersi. Il segno del tradimento. Perciò decide di assumerne un’altra. Per rendere radicale la sua scelta fa un gesto pubblico e plateale in modo da rendere impossibile la revoca. Non vuole essere né solitario né unico, tant’è che chiede che anche altri facciano lo stesso gesto e si uniscano a lui. L’entusiasmo, l’intransigenza, la radicalizzazione non sempre hanno parlato la lingua del darsi e dare morte. Non sempre hanno seguito la strada della violenza e del sangue, ma hanno sempre usato il vocabolario dell’irriducibilità della scelta e dell’impossibilità di mediazione. Tutto questo è la premessa che può tramutarsi nella cultura del dare e darsi morte oppure in quella del rifiuto radicale. Comunque sia, nel suo lessico non è prevista la possibilità di revoca e dunque di compromesso. Anche per questo, inaspettatamente, ma non impropriamente, la storia dell’entusiasmo e le parole di Shaftesbury ci riguardano e, soprattutto, più che a noi, parlano di noi. E delle nostre icone.

Shaftesbury, LETTERA SUL FANATISMO. Introduzione di David Bidussa, Edizioni Chiarelettere Milano 2016, 8 euro.

L’Infiltrato. Il PCI e la lotta alle BR. Intervista a Vindice Lecis

cop.aspxDurante gli anni di piombo il Partito comunista fu in prima linea nella battaglia contro il terrorismo rosso, che minava i principi democratici del paese e la forza stessa del partito, al suo massimo storico di consenso. Oltre al lavoro alla luce del sole, il Pci operò per individuare e denunciare i soldati della lotta armata e i loro fiancheggiatori, svolgendo anche un’azione d’intelligence parallela, in collaborazione con gli organi dello Stato.

In quel periodo Ugo Pecchioli, braccio destro di Berlinguer, concordò con il generale Dalla Chiesa un’importante operazione segreta: l’infiltrazione in un gruppo di fuoco di un militante del partito, che avrebbe dovuto riferire al comandante dell’antiterrorismo. Un episodio accertato e documentato, sebbene ancora coperto per molti aspetti dal necessario riserbo, che non ha avuto un’adeguata considerazione storica.

Alternando fatti reali e finzione narrativa, questo libro ricostruisce l’attività dei comunisti italiani contro il terrorismo nella stagione violenta tra il 1978 e il 1979: le azioni di spionaggio, i documenti interni, le riunioni riservate, il lavoro di controllo e denuncia nelle fabbriche.

Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore Vindice Lecis. Lecis è giornalista al gruppo Espresso. È autore di numerosi romanzi storici e saggi sulla politica italiana del Novecento e sulla storia antica della Sardegna.

Vindice, incominciamo dalla storia  di questo tuo libro davvero interessante. Già ti eri occupato degli anni drammatici della Repubblica. Come nasce il libro?

“Dall’esigenza di raccontare un episodio quasi sconosciuto della lotta al terrorismo, vale a dire l’infiltrazione di un militante del partito comunista italiano nelle Brigate Rosse. Fatto già rivelato in rare occasioni da alcuni studiosi ma mai assunto a paradigma della coraggiosa battaglia del partito più importante della sinistra italiana dell’epoca contro l’eversione armata. Battaglia a viso aperto e senza ambiguità. La documentazione è scarna ma la vicenda mi è stata anche confermata da chi è stato uno dei protagonisti dell’operazione”.

Ti muovi bene tra finzione letteraria e realtà vera (l’infiltrazione di un militante del PCI nelle BR, con l’accordo tra Ugo Pecchioli e il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa). Dalla lettura del libro emerge un quadro devastante dell’Italia di quegli anni. Dall’omicidio Moro a quello di Guido Rossa. Senza dimenticare la violenza di Autonomia Operaia. Emergono anche le gravi colpe dello Stato (la presenza della loggia massonica sovversiva P2). Qual è stato il risultato operativo concreto di questa infiltrazione?

L’infiltrazione fece avviare un lavoro di intelligence che portò, qualche anno dopo, allo smantellamento della colonna romana delle Br. E’ paradossale, se posso aggiungere, che mentre un partito metteva a disposizione un suo uomo, i servizi di informazione e sicurezza fossero infiltrati dalla P2, definita poi come organizzazione criminale ed eversiva dalla Commissione Anselmi e sciolta nel 1982.

Il protagonista quello vero è ancora vivo. Quanto tempo è durata la sua infiltrazione?

Il protagonista è vivo, a quanto ne so. Il suo coraggioso lavoro al servizio della Repubblica durò probabilmente poco meno di sei mesi. Ma la sua attività di infiltrato era cominciata prima, dentro un gruppo violento dal quale spesso le organizzazioni armate reclutavano militanti da utilizzare in attività illegali

Nel libro emerge anche la potente capacità organizzativa del PCI, un partito costruito sulla militanza e su quadri altamente motivati e “professionalizzati”. La figura, letteraria, del quadro Sanna, una sorta di responsabile dell’intelligence, uomo di fiducia di Pecchioli è emblematica. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?

Antonio Sanna è uno di quei tipici quadri comunisti, disciplinati, riservati, rigorosi, impegnati nelle attività classiche del Pci, partito che all’epoca vantava un milione e seicento mila iscritti e che godeva del consenso elettorale di un italiano su tre. Durante gli anni di piombo molti di questi quadri furono utilizzati anche per studiare il fenomeno del terrorismo, dell’eversione. Quando dico studiare intendo proprio lo scandagliare la pletora di organizzazioni armate e gruppi con l’analisi dei documenti, le rivendicazioni, il linguaggio. E dove venivano messi a fuoco gli uomini che fiancheggiavano o aiutavano il terrorismo. Il Pci aveva antenne in ogni luogo, persino negli apparati dello Stato. Molti dirigenti come Antonio Sanna erano presenti negli apparati delle federazioni e nei luoghi di lavoro. Molto del lavoro del Pci fu quello di mantenere viva la mobilitazione del mondo del lavoro contro il terrorismo, di fatto mettendo ai margini qualche settore di ambiguità e collusione con ambienti eversivi, o forse solo di simpatia.

Nel libro c’è la presenza di fonti documentarie  della sezione, diretta da Ugo Pecchioli (il Ministro dell’Interno ombra del PCI),  “Problemi dello Stato”.Questa sezione ha prodotto una documentazione fitta e ricca di analisi sul fenomeno terroristico. Queste informazioni dove sono conservate oggi?

“Sul sito internet del Senato della Repubblica, su concessione dell’’istituto Gramsci che conserva il grande patrimonio documentale del Pci, è consultabile parte delle carte del Fondo Pecchioli. Ugo Pecchioli era il dirigente comunista stretto collaboratore di Enrico Berlinguer e responsabile della sezione problemi dello stato che fu il fulcro dell’antiterrorismo comunista. Nel Fondo ci sono documenti di analisi, alcuni ad uso interno, dove si analizza il fenomeno terroristico con grande accuratezza e si definiscono proposte di lotta all’eversione”.

IL PCI sposò la linea della fermezza dello Stato contro ogni trattativa, per liberare Moro, con le BR. E nel libro la durezza di posizione è esposta chiaramente.  Pensi che non ci fossero altre strade? Qual è il dato politico del libro?

“Il mio parere è che la linea della fermezza fu la necessaria risposta della Repubblica a chi, come le Br, puntavano a costringere lo Stato a scendere a patto e a ottenere un riconoscimento, uno status politico. Altre strade, sinceramente, non ne vedo nemmeno oggi che sono trascorsi decenni. Il terrorismo comunque il riconoscimento lo ebbe ugualmente. Mi spiego: Moro era inviso agli Usa e ai britannici per la sua politica di apertura al Pci. L’agguato di via Fani e la sua morte di Moro fecero deragliare un progetto di intesa politica e costrinsero il Pci ad appoggiare dall’esterno un governicchio, quello di Andreotti, di cui non faceva parte. Un appoggio che portò a un logoramento dei comunisti e una flessione elettorale, sotto un fuoco di fila fortemente polemico della destra Dc e dei socialisti e l’ aperta ostilità degli ambienti atlantici. D’altra parte il progetto brigatista era quello anzitutto di colpire il Pci e la sua strategia di avanzata democratica.

Siamo negli anni bui della nostra Repubblica. Conosciamo tanto ma ci sono molti lati oscuri sulle BR. Quali sono secondo te le cose da chiarire ancora?

La vicenda Moro è chiarita solo in parte. Da tempo emergono oscuri collegamenti con ambienti sia di Gladio che della criminalità organizzata. Come sono da chiarire meglio non pochi e inquietanti aspetti relativi all’individuazione della prigione di Moro e ad alcune bizzarre operazioni brigatiste come il trasporto d’armi in pieno Mediterraneo su barca a vela. Inoltre non comprendo, o forse lo capisco bene, il silenzio brigatista su quelle carte trovate in via Montenevoso a Milano in un covo Br che parlavano di Gladio. Mi riferisco al patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano per usare un’espressione fortunata del senatore Sergio Flamigni che ha dedicato parte della sua vita a scardinare alcuni misteri. Lo scopo è quello di impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro: pensiamo che ancora non conosciamo l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani.