Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo

Paterniti-Tutti-gli-uomini-del-generaleChi sono gli uomini che hanno combattuto in prima fila il terrorismo negli anni di piombo? Chi sono gli uomini che agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa hanno indagato, rischiato, vissuto come clandestini, servito il Paese e la democrazia, per essere dimenticati dopo l’uccisione del loro comandante passato a combattere la mafia?

Questo libro, “Tutti gli uomini del generale”, da pochi giorni nelle librerie, scritto dalla giornalista  Fabiola Paterniti per la casa editrice Melampo, con la prefazione dell’ex ministro degli interni Virginio Rognoni, racconta per la prima volta la lotta al terrorismo attraverso la voce dei protagonisti che sostennero il peso di un impegno senza limiti. Ne nasce una storia sincera, per molti aspetti nuova. Sono testimonianze orali raccolte in tante regioni d’Italia. Carabinieri semplici, marescialli, ufficiali, restituiscono le tinte di quella stagione e il senso di una difficilissima impresa collettiva, talora smontando con semplicità insinuazioni e ricostruzioni fantasiose che hanno tenuto banco per quasi quarant’anni. Le indagini, gli infiltrati, le vite da clandestini. E poi i successi, i caduti, i momenti di allegria, la fedeltà al loro comandante, che tutti ancora chiamano “il signor generale”.. E infine l’amarezza per essere stati dimenticati, superata dall’orgoglio di avere servito lo Stato.   Insomma è la Storia del Nucleo Speciale antiterrorismo dei Carabinieri.

Il libro è arricchito dalle testimonianze di Gian Carlo Caselli e di Armando Spataro, due magistrati che collaborarono con il generale in inchieste decisive; e si chiude con le storiche interviste che Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Enzo Biagi e a Giorgio Bocca, che rilette a distanza di trent’anni rivelano ancora più chiaramente la consapevolezza e il coraggio del generale nell’affrontare i misteri e le doppiezze del nostro Paese.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due estratti del libro:

Dal Capitolo “L’ufficiale dalla memoria buona. Gian Paolo Sechi. Parte seconda: il dopo Moro”   (pp.94-96)          (ora generale in pensione)

Il generale passa a questo punto, quasi automaticamente, a raccontare di Marco Donat Cattin. Lo fa con la determinazione di chi sa che sta per parlare di una grande storia. Una di quella vicende tipiche della nazione entrate negli annali e nella memoria pubblica per i nomi altisonanti dei protagonisti e per gli scenari umani e politici che fanno loro da sfondo.

“Ricordo bene quando arrestammo il figlio di Carlo Donat Cattin. Da mesi avevo incaricato un mio uomo di pedinare un tizio che ci risultava avesse contatti con Marco Donat Cattin. Un giorno questo presunto amico si recò alla stazione di Torino Porta Nova e salì su un treno diretto in Francia. A quel punto il mio uomo bloccò un signore che passava lì per caso, e gli diede una mancia con la richiesta di farmi arrivare un messaggio nel quale mi informava che stava prendendo il treno per la Francia. Poco dopo questi mi telefonò: ‘Tu sei Boss? – mi chiese – Trucido mi ha detto di chiamarti per dirti che quel tizio è salito su un treno che porta in Francia e, quindi, anche lui è diretto in Francia’. Dopo un po’, ricevetti un’altra telefonata, questa volta erano i carabinieri di Bardonecchia che mi lessero un promemoria che Trucido aveva scritto in treno e consegnato loro. Erano tutte le informazioni che aveva acquisito e che comunicai alla gendarmeria francese. Appena il treno giunse a destinazione, l’uomo che avevamo pedinato raggiunse altra gente. In seguito incontrò Marco Donat Cattin, che così venne arrestato. Quando fu preso tutti fingevano di non capire chi fosse, ma io arrivai in Francia quello stesso pomeriggio. E guardando l’uomo che avevano fermato dissi: ‘Ma questo assomiglia a Donat Cattin’. La mia osservazione naturalmente era ironica, sapevano tutti la sua identità, ma non osavano dirla. Infatti, appena feci quel nome, successe il putiferio. Da quel momento costui venne trattato come il Presidente della Repubblica in visita ufficiale in Francia. Vennero a prenderlo settimane dopo con l’aereo presidenziale, ossia quello che aveva tutte le comodità. Il Governo mandò quest’aereo con un ufficiale che non si occupava di lotta al terrorismo.  Al ritorno in Italia, atterrammo nella base militare di Vicenza, a bordo c’ero io e c’era anche Mario Mori, che faceva parte della nostra struttura. Poi feci salire Donat Cattin su un’auto e lo accompagnai a Torino. Lo chiusi in camera di sicurezza, mentre, in quegli stessi giorni, avevamo Patrizio Peci in un alloggio al piano di sopra”.

Alla Fiat seppero subito del nuovo arrivato. Così molti dirigenti fecero pressioni enormi, andarono a cercare gli uomini del generale con la richiesta di liberarlo o di dargli lo stesso trattamento di Peci. “Puntualizzammo loro che Peci era un pentito e ci stava raccontando tutto dell’organizzazione terroristica di cui faceva parte e quindi era un’altra questione.  Marco Donat Cattin non voleva collaborare”.

Il problema per gli uomini del nucleo era su come tenere le dovute distanze verso il padre, che era stato ministro in diversi governi, ricopriva l’incarico di Vice-Segretario unico della Democrazia Cristiana, ed era dotato di grande potere e influenza. A quel tempo c’era una norma che imponeva loro, per i casi di arresto, di informare subito il Ministro, e così fecero. “Quindi il padre venne a saperlo abbastanza in fretta. E questa vicenda scatenò anche una dura polemica nelle cronache di allora”.

Ma la storia più curiosa che Sechi mi racconta riguarda il periodo precedente, ossia il modo in cui erano arrivati all’illustre terrorista di Prima linea. “Oltre a pedinare l’amico, avevamo seguito anche la madre che da più di un anno sistematicamente prendeva il treno da Torino e scendeva a una stazione vicino Vercelli. Lì incontrava il figlio. Lui le dava un pacco e lei ricambiava con un altro. Sa cosa c’era dentro questi involucri? Biancheria. Sì, proprio così. Lui le dava la biancheria sporca e lei quella pulita. Già un anno prima, quindi, la famiglia sapeva, oltre che della sua militanza in un’organizzazione terroristica, la località in cui si era rifugiato.

Quello che ancora oggi mi dispiace è che un uomo delle istituzioni, come il padre di Marco, non abbia mai preso una posizione netta. Anche se è difficile parlarne ad anni di distanza. Una volta che aveva scoperto il figlio terrorista, avrebbe dovuto essere conseguente. In fondo era stato un Ministro con responsabilità ben precise nei confronti della collettività, ricopriva incarichi pubblici.  Ciò di cui sono sicuro è che lo sapesse già da un anno, ma non fece niente”.   

Dal Capitolo “Giuseppe Severino” (maresciallo),  pp.150-153

Giuseppe Severino sorseggia il suo caffè e, ogni tanto, tira fuori una risata che pare trascinata dai ricordi. Il racconto è spesso frenato dalla paura di dire troppo. In fondo, in questi lunghi anni, la memoria delle gesta degli “uomini del generale” ha subìto storpiature e libere interpretazioni che tuttora pesano sulle loro vite. I riconoscimenti sono stati pochi, mentre tante sono state le letture distorte della loro attività. Per fortuna li sorregge lo spirito di squadra: la grande risorsa che gli uomini del nucleo avevano creato in quegli anni, è ancora vivo, e ancora dà forza. Per questo, Severino fa in modo che il suo racconto torni sempre sul generale: “è morto in solitudine, se fossimo stati noi a difenderlo, non sarebbe successo. Quando veniva da queste parti e si fermava a prendere un caffè, ci chiedeva di lasciarlo da solo, non voleva che mettessimo a rischio la nostra vita per lui. Quindi, dopo tanta insistenza, lui entrava al bar e noi lo guardavamo a distanza di cinque o sei metri. Sapevamo di dover tenere gli occhi ben aperti. Io non dormivo la notte per questo lavoro, non vedevo la mia famiglia per molto tempo, mancavo spesso da casa, anche per 15 o 20 giorni di seguito”. Severino era a capo delle sedi di Parma, di Piacenza, di Reggio Emilia e di Modena. Un’area cruciale per l’antiterrorismo: in quelle provincie furono identificati parecchi brigatisti e sbaragliati numerosi covi. Ha collaborato direttamente con il generale anche quando questi costituì le carceri speciali: “I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo”. Il periodo del terrorismo l’ha segnato. Mentre parla si ferma a riflettere, come volesse capire se sta dicendo qualcosa di troppo. Ha il timore che le sue parole possano giovare a nuovi “sciacalli per infangare il nome del generale”.

Continua a voler essere un fantasma, come gli era stato richiesto in quegli anni del terrorismo, quando il suo nome di battaglia era “Seve” e il nome con il quale si presentava ai comuni mortali rimaneva tale, ma con un’aggiunta: geometra Severino. E, in effetti, quel “geometra” davanti al cognome sembra anticipare l’anonimato in cui si sarebbe immerso dopo i duri anni di servizio per lo Stato. Lontano dalla stampa, dal chiacchiericcio pettegolo dei palazzi del potere e dalle malevolenze di chi preferiva ricostruire la storia dell’antiterrorismo con le proprie fisime anziché con i fatti. Ma del generale non si stanca mai di parlare, perché è l’uomo che gli ha consentito di conoscere la parte bella dello Stato: “Lui è stato sempre presente nelle nostre vite. Ci chiamava al telefono, parlava con mia moglie. Spesso ci scriveva. Ho conservato gelosamente tutte le sue lettere. Mi cercò persino prima della sua morte, credo sia stata l’ultima telefonata, ma io non c’ero. E ricordo, ancora, dove mi trovavo in quel momento. Lui sapeva perfettamente chi lavorava e chi erano le persone fidate. Un giorno ha fatto neri alcuni ufficiali che non avevano rispettato le regole, in quell’occasione avrei voluto sprofondare dalla vergogna per loro, il generale fu durissimo. Era una persona seria, con un grande senso dello Stato. E se penso a quello che gli hanno detto dopo la sua morte, tutte queste congetture, questi retroscena fasulli, mi arrabbio. Lui era una persona limpida, il nostro lavoro era limpido, oltre che faticoso. Abbiamo dato la vita a questo Paese, ed ho visto tanti mascalzoni pronti a tirarci addosso le pietre. Se penso a quante volte l’ho accompagnato sulla tomba di sua moglie Dora… Spesso la notte mi chiamava e io gli andavo ad aprire il cancello del cimitero, perché poteva andarci solo a quell’ora, per ragioni di sicurezza. Io lo osservavo da lontano e pensavo a quel pover uomo che non poteva neanche pregare tranquillamente come tutti gli esseri normali”. Fatica a stare seduto e si guarda intorno, come per allontanare l’ emozione che riaffiora dai ricordi. Il bar a quest’ora è pieno di gente che chiacchiera e legge.

“Noi adesso viviamo in modo modesto, com’è giusto che sia, ma questo Paese non ha voluto riconoscere il nostro operato neanche conservandone una buona memoria. Prima di arrivare a casa, a quei tempi, facevo dei lunghissimi giri per timore di essere sotto osservazione dei terroristi.  Avevo paura non per me, ma per i miei familiari. Non conoscevamo orari, eravamo sempre in movimento, per controllare, per raccogliere informazioni, per identificare i terroristi. Sono stati anni durissimi. Ho visto morire tra le mie braccia il maresciallo Maritano, che per me era come un padre. E dalla Chiesa mi chiamò, subito dopo, per sapere come erano avvenuti i fatti. Di me si fidava, sapeva come lavoravo e quanto affetto mi legava a lui”. 

“Noi eravamo soli anche a quei tempi, non eravamo ben visti anche all’interno dell’Arma, perché eravamo autonomi. E anche molti magistrati non potevano vederci. Eravamo un corpo estraneo, compatto, autonomo e questo dava fastidio. Il nostro essere uniti era la forza che avevamo. Il lavoro si faceva con serietà, professionalità e sacrifici e sapevamo di poter contare solo su dalla Chiesa.  Certamente rifarei tutto, ma per lui, e non per questo Paese che non è stato in grado di proteggerlo e dargli il giusto riconoscimento. Sono arrabbiato, ho visto troppi mascalzoni in giro”.

Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Ed. Melampo, Milano 2015

Un libro geniale: Le leggi fondamentali della stupidità umana

8b0bfeccover26032.jpegUn libro geniale, più volte ristampato dalla casa Editrice “il Mulino”, questo piccolo saggio sulle “leggi fondamentali della stupidità umana”. Scritto da un grande storico dell’economia, Carlo M. Cipolla, autore di numerosi saggi, tradotti in diverse lingue, che hanno segnato la metodologia della storia economica italiana ed europea. Questo, forse, è il più noto, insieme al fondamentale volume  sulla “Storia economica dell’Europa pre-industriale”. Il saggio, del 1976, scritto in Inglese, nasce come regalo di Natale per gli amici. Il Titolo della prima edizione, era “Allegro ma non troppo”, e comprendeva anche una micro storia della diffusione di una preziosa spezia: il pepe. Visto, dato il suo potere afrodisiaco, come un potente fattore di sviluppo nel Medioevo.   Così il “The basic laws of Human Stupidity”, per una “magia” (il passaparola), conosce una serie fortunata di diffusione: solo in Italia, in poco più di 24 anni, ha venduto qualche centinaio di  migliaia di copie.

Davvero una bella storia editoriale. Quest’ ultima edizione italiana, uscita da poco sempre per il Mulino, è, poi, impreziosita dalle bellissime vignette di Altan. Insomma un libro da consigliare per l’irresistibile humor della prosa di Cipolla e per le micidiali vignette del grande Altan (e qui  ne segnaliamo una davvero bellissima: un uomo seduto, un marito,  su una poltrona legge un quotidiano e commenta: “questo mondo diventa sempre più idiota”. E una donna, la moglie, indaffarata ai fornelli, risponde: “Mi chiedo come hai fatto tu ad accorgertene”).

Sulla base dell’analisi, quasi applicando la metodologia della scienza economica, dei danni o vantaggi che l’individuo procura a se stesso e di quelli che procura agli altri, e data la definizione per cui “una persona è stupida se causa un danno a un’altra un subendo un danno”, Cipolla costruisce uno schema di assi cartesiani, ascisse e ordinate, in cui collocare con precisione i tipi degli intelligenti, degli sprovveduti, dei banditi e degli stupidi, dal quale si evince tra l’altro che «lo stupido è più pericoloso del bandito». Affermazione Assolutamente vera.

Così, ecco le leggi fondamentali della stupidità umana:

Prima Legge

Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero degli individui stupidi in circolazione:

Ovvero:

a) persone che abbiamo giudicato razionali ed intelligenti all’improvviso si sono rivelate essere irrimediabilmente, senza alcun dubbio, stupide;

b) Ed ogni giorno siamo condizionati in qualunque cosa che facciamo da persone, ostinatamente, stupide che improvvisamente compaiono nei luoghi meno opportuni.

E’ impossibile stabilire una percentuale, dato che qualsiasi numero sarà sempre inferiore alla realtà.

Seconda Legge

La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.

Non si può trovare nessuna differenza del fattore Stupidità nelle razze, condizioni etniche, educazione, eccetera. Anche, aggiunge Cipolla con perfidia, tra i Premi Nobel c’è la medesima percentuale.

Terza (ed aurea) Legge

Una persona stupida è chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.

E qui la razionalità non trova “ragionevoli spiegazioni” perché quell’assurda creatura abbia un comportamento del genere. O meglio una  spiegazione c’è: quella persona è stupida.

Quarta Legge

Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. Dimenticano costantemente che in qualsiasi momento, e in qualsiasi circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.

Quinta Legge

La persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista.

Questa è la più facile da capire delle leggi. Infatti per la conoscenza comune  i banditi intelligenti, per quanto possano essere ostili, sono prevedibili mentre gli stupidi non lo sono.  Perché, osserva l’autore, le persone intelligenti, generalmente, sanno di esserlo, i banditi anche sono consapevoli della loro attitudine al crimine, gli sprovveduti hanno la coscienza della loro sventura.  Ma le persone stupide non sanno di essere stupide, e questa è una ragione che li rende molto pericolose. Per cui, già detto, il corollario di questa legge è che lo stupido è più pericoloso del bandito.

Anche nella politica il tasso, come nella società, il tasso di stupidità è costante. Anzi attraverso la politica (con i suoi strumenti – elezioni e partiti politici) consente agli stupidi di mantenere la loro quota di potere.  Per cui la battaglia, assai complicata, contro la stupidità resta fondamentale nella società se si vuole mantenere il suo, sempre in divenire, equilibrio.

Resta una domanda da farsi alla fine della lettura del libro: Noi siamo coscienti della nostra stupidità? E questa domanda, forse, ci aiuta a capire che non siamo completamente stupidi.

Carlo M.Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, Ed. Il Mulino, pagg. 96, € 15,00

“Io vi accuso”. Così le banche soffocano le famiglie e salvano il sistema

Un J’ACCUSE senza precedenti, a partire da documenti interni e “confidenze” di dirigenti tuttora in attività.

IO VI ACCUSO_Imperatore

Vincenzo Imperatore, ex manager bancario e autore del bestseller “IO SO E HO LE PROVE”, entra nelle segretissime stanze dei principali istituti di credito e racconta come si sono riorganizzati dopo la crisi.

I clienti privilegiati, i prodotti da spingere, le vessazioni, i nuovi cavilli contrattuali, i corsi di formazione per manager e funzionari.

La regola è guadagnare il più possibile rischiando zero. Sotto ci siamo noi, le famiglie, le piccole e medie imprese, la maggioranza degli italiani.

IL LIBRO

Dopo IO SO E HO LE PROVE, Vincenzo Imperatore allestisce un vero processo al sistema bancario, a partire da documenti interni, estratti di conto corrente, confessioni circostanziate di “gole profonde” tuttora in attività. Ci sono PRETI di provincia che guadagnano 900 euro al mese ma effettuano movimenti per centinaia di migliaia di euro; GIORNALISTI e altre CATEGORI E PROTETTE che ricevono un trattamento “speciale” direttamente dalla direzione centrale; COMMERCIANTI CINESI che versano soldi in contanti e potenzialmente illegali senza alcuna segnalazione; nuovi MANAGER addestrati a piazzare non più mutui o prestiti ma televisori, tablet, frigoriferi, palestre, vacanze in centri termali, perfino un giro all’autodromo di Monza, con fatturati da capogiro…

È incredibile scoprire come si sta riorganizzando il sistema bancario, mentre arrivano miliardi da Bruxelles. Ben poco viene impiegato per sostenere commercianti in difficoltà, piccoli imprenditori, giovani famiglie, pensionati da 500 euro al mese. Si tratta di categorie tuttora vessate. Eppure i soldi ci sono. Certo, come dice Gianluigi Paragone nella prefazione, “le banche non fanno beneficenza”.

Ma è inaccettabile “che in mezzo a una burrasca sempre più potente i loro bilanci siano messi in salvo dalla politica o da doping contabili a scapito di clienti in buona fede”.

Una via d’uscita esiste ma non passa dal sistema bancario. Imperatore fornisce tutti i consigli utili per gestire la propria attività senza bisogno delle banche.

L’AUTORE

Vincenzo Imperatore (1963) è stato per ventidue anni manager di importanti istituti di credito nelle piazze principali del Meridione. Dal 2012 ha scelto la strada della libera professione fondando la società di consulenza aziendale InMind Consulting specializzata nel banking e nella gestione delle piccole e medie imprese in difficoltà. Collabora, come opinionista, con quotidiani e riviste finanziarie e conduce un programma radiofonico di informazione economica. Nel 2014 ha pubblicato IO SO E HO LE PROVE con Chiarelettere.

IN QUESTO LIBRO racconta anche come la piccola impresa può sopravvivere senza bisogno delle banche. Gli strumenti ci sono. Un nuovo sistema di lavoro finalmente è possibile.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro Perché io vi accuso

Questo libro

In Italia lavorano circa 5 milioni di piccole imprese dietro le quali ci sono altrettante famiglie. Più di un terzo della popolazione del nostro paese ruota intorno all’economia generata da queste aziende. Come nella più scellerata tra- dizione degli scandali finanziari, le banche hanno prima «sfruttato» i piccoli imprenditori per far lievitare i propri rendiconti, poi, quando non servivano più, li hanno sacrificati sull’altare del profitto.

Oggi la situazione economica è profondamente diversa rispetto al periodo in cui la piccola e media impresa rappresentava il motore della crescita nazionale. Così, per preservare il sistema e non saltare in aria a causa dei loro bilanci alterati, gli istituti di credito hanno bisogno di nuove fonti di arricchimento. Una volta messa in atto la «stretta del credito», che sta uccidendo la stragrande maggioranza delle aziende, a cui sono stati chiusi i rubinetti della liqui- dità, la strategia di raccolta del risparmio delle banche ha cominciato a concentrarsi su una lista di categorie protette, pochi ma fondamentali «clienti d’oro» – come dicono gli stessi funzionari – che fanno girare i soldi, molti soldi: preti, commercianti cinesi, speculatori immobiliari.
Questi hanno la priorità rispetto ai «normali» correntisti. A loro è permesso tutto, in alcuni casi anche ciò che non è consentito dalla legge: aggirare le norme antiriciclaggio, nascondere i proventi dell’evasione fiscale, compiere operazioni finanziarie spericolate e perfino pretendere il licenziamento di funzionari che hanno osato opporsi alle loro volontà. Ci sono anche altri clienti privilegiati, tra cui i giornalisti e gli editori, che ricevono, spesso senza esserne consapevoli, attenzioni e favori che sicuramente non sono riconosciuti ai «normali» cittadini.

Per scrivere questo libro ho avuto accesso a decine di documenti interni al mondo bancario e ho ricevuto le «confidenze» di alcuni dirigenti, che mi hanno contattato dopo aver letto Io so e ho le prove. Ho scritto la prima parte immaginando un processo senza difesa e senza appello, in cui il massacro delle banche nei confronti delle imprese – e quindi dell’economia italiana – viene messo a nudo, così come il nuovo sistema di drenaggio del denaro che nessuno finora ha mai raccontato. E vengono svelati tutti i nuovi stratagemmi pensati dai giganti del credito per ottenere profitti a discapito della stragrande maggioranza dei clienti.

Le banche sono diventate dei veri e propri centri com- merciali, in cui fa carriera solo chi vende più televisori, frigoriferi, palestre, Xbox, vacanze in centri termali. I fidi, i mutui e tutti gli altri prodotti creditizi sono vincolati all’acquisizione di questi prodotti: il correntista ha l’ob- bligo di comprarli se vuole sperare in un prestito, di cui comunque non ha la certezza. Di conseguenza, il nuovo manager è colui che sa piazzare meglio i «70 milioni di euro l’anno di prodotti di largo consumo» richiesti dai capi, come svela una delle mie fonti interne. Non esiste quasi più il bancario competente, professionale, ma solo funzionari formati da «motivatori» ed esperti di comunicazione. Queste sono le figure preposte a gestire oggi le nostre finanze.

Le banche sono diventate delle agenzie immobiliari capaci di far svendere le abitazioni dei clienti sul lastrico per far guadagnare anche i ricchi speculatori immobiliari già loro correntisti. Senza pietà, sballando il mercato e alterando le normali procedure della compravendita. Gli istituti stanno favorendo il dislivello sociale e consentono spesso abusi per i quali non pagano mai.

Nella prima parte del libro ho raccolto le storie e le con- fessioni delle «gole profonde» che hanno deciso, come feci io nel 2012, di denunciare il nuovo sistema tuttora vigente. E le testimonianze degli imprenditori e dei professionisti vessati e tartassati dalle banche. A pagare, oggi come ieri, sono i correntisti che piangono per non farsi protestare un assegno di poche centinaia di euro; i commercianti che supplicano il direttore di filiale per avere un piccolo prestito; gli artigiani minacciati della segnalazione antiriciclaggio per un versamento di poche migliaia di euro e poi «violentati» dalla Guardia di finanza attraverso un duro interrogatorio in merito alla provenienza di quel denaro.

Nella seconda parte del libro ho indicato, invece, gli strumenti che il piccolo imprenditore può utilizzare per sovvertire il sistema, per farcela anche senza il supporto degli istituti di credito, che poi tanto supporto non è. I metodi alternativi per ottenere risorse e finanziamenti, dai minibond al crowdfounding; dal peer to peer al commercio delle fatture fino al corporate barter.

Nell’attuale realtà globale le banche possono essere anche superate, l’importante è sapere come fare e avere il coraggio di farlo. In questo libro racconto di tutte le strategie aziendali indispensabili per superare la crisi e rilanciarsi sul mercato partendo dalla regola numero uno: «Ci si può indebitare molto solo se si guadagna molto».

Al termine di questo ideale processo ho immaginato anche la «sentenza» che, se fosse divina, porterebbe direttamente le banche all’inferno e le piccole imprese al purgatorio. Per uscire dal purgatorio della recessione, infatti, le aziende devono iniziare a utilizzare strumenti e metodologie che servono alla sopravvivenza. Il purgatorio, si sa, è il luogo dove transitano le anime «in stato di grazia» in attesa della loro purificazione. La lettura di questo libro potrebbe essere la loro ultima pena.

Vincenzo Imperatore, Io vi accuso. Così le banche soffocano le famiglie e salvano il sistema, Editore Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 160.
€ 14,00

“Toglimi le mani di dosso”: un libro su una storia vera di molestie e ricatti sul lavoro

Olga Ricci

“La violenza di genere nasce quando qualcuno dice chi sei al posto tuo, ti racconta come una decorazione muta e giudicabile, ti descrive come un oggetto a disposizione” (Michela Murgia)

“Sarebbe bello se gli uomini italiani provassero a immedesimarsi nella storia vera di questa giovane e coraggiosa collega. capirebbero meglio l’inferno di sofferenze, ricatti e vendette cui costringiamo le donne sui posti di lavoro. Un libro che parla a noi uomini” (Riccardo Iacona).

Due pensieri, di un giornalista e di una scrittrice, ci introducono al tema drammatico e grave del libro (pubblicato da Chiarelettere): quello delle molestie e ricatti sessuali che le donne subiscono sul luogo di lavoro.

IL LIBRO

POCHE DENUNCE, TROPPA VERGOGNA. Il racconto di Olga Ricci rompe il muro di silenzio e di ipocrisia che attraversa i luoghi di lavoro. “Il mio capo ci provava, ho resistito, avevo bisogno di lavorare. Non sapevo a chi chiedere aiuto. Poi ho mollato…”

Olga ha ricevuto avance e ricatti sessuali per mesi, in attesa di un contratto sempre promesso. Per non perdere il lavoro, ha cercato di resistere come ha potuto. “O ci stai, o te ne vai” il consiglio di colleghe e confidenti.

Tutto avviene, come sempre, in pubblico. Ammiccamenti, carezze, inviti a cena… Gesti apparentemente inoffensivi che invece servono a imporre IL POTERE DEL CAPO.

IN PRIVATO l’insistenza diventa ossessione violenta, ma la rabbia di Olga resta tutta dentro. In Italia nessuno considera molestie le battute a sfondo sessuale in ufficio, i massaggi sulle spalle, i complimenti imbarazzanti davanti ai colleghi. Chi si ribella passa per bacchettone.

Oggi Olga ha aperto un blog sotto pseudonimo. Si chiama IL PORCO AL LAVORO e ha avuto oltre 120.000 visite.

QUESTO LIBRO PARLA DI NOI, dell’Italia e del potere nelle relazioni e nei luoghi di lavoro. Della pigrizia mentale, di una rimozione collettiva e soprattutto della persistente disparità tra gli uomini e le donne, che continuano a essere penalizzate a livello economico e sociale.

L’autrice

Olga Ricci è lo pseudonimo di una giornalista trentenne italiana che oggi lavora come freelance per varie testate nazionali. Nel blog “Il porco al lavoro”, insieme alla sua testimonianza, ha dato visibilità alle tante storie di molestie in ufficio.

Chiude il libro un DECALOGO CONTRO LE MOLESTIE SUL POSTO DI LAVORO a cura di Rosa M. Amorevole, esperta in materia di lavoro e contrasto alle discriminazioni. Dal 2008 è consigliera di Parità per l’Emilia Romagna.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro. 

In redazione

Cammino cercando di essere fiduciosa: è il mio primo giorno di prova al giornale e ho la prospettiva di un contratto a tempo indeterminato. Significherebbe stipendio dignitoso, ferie pagate, malattia, maternità, pensione. Potrei iniziare a fare progetti, senza chiudermi nell’orizzonte temporale dei soliti sei mesi. È così che mi sono abituata a ragionare, per non essere lacerata dall’incertezza. I sei mesi sono le colonne d’Ercole del mio futuro sprovvisto di garanzie e di soldi messi da parte. Sto per arrivare in redazione quando squilla il telefono. È il direttore, mi chiede di fare colazione con lui. Rifiuto, ma lui insiste per raggiungermi in un bar, nel viale stretto tra gli edifici bianchi, le palme e gli oleandri. Mi vede e si avvicina per baciarmi le guance. La sua pelle fredda mi si appiccica agli zigomi. Mi ritraggo e colgo il suo disappunto. Per non deluderlo gli regalo un sorriso nuovo di zecca. Ci sediamo a un tavolino all’aperto. Lui è in vena di confessioni. Racconta di quando era inviato e girava l’Europa per il suo giornale importante. Appena aveva un po’ di tempo libero, inseguiva per il mondo la fidanzata (l’amore della sua vita) che faceva la hostess. Parla molto e io lo ascolto, annuendo e dicendo: maddai, assì, chebbello, nonlosapevo. Ostento interesse e d’un tratto mi sorprendo interessata per davvero. La profezia sartriana, secondo la quale chi finge un sentimento è come se lo provasse, si sta avverando. Dico che è ora di andare. Sono io il direttore, ribatte, non devi preoccuparti di arrivare tardi, beviamoci ancora qualcosa. Chiedo un secondo caffè. Lui un tramezzino con gamberetti, maionese e insalata iceberg. Gli suona il cellulare. Si alza e si allontana. Apro i giornali sparsi sul tavolo, ma non riesco a leggere. Piego la bustina vuota dello zucchero fino a ridurla a un quadratino. La lancio sul marciapiede. Vedo che il direttore parla ancora. Faccio un cenno, me ne voglio andare. Lui sorride e, coprendo il telefono con una mano, mi chiede di aspettare. Resisto altri dieci minuti. Guardo la sua schiena allargata, la giacca blu di cotone forma pieghe umide all’altezza delle ascelle. Lui si gira. Io mi alzo. Protesta a gesti. Sono già lontana. Entro in redazione cercando di farmi piccola. Non conosco nessuno. […]

Nello stanzone senza finestre, illuminato al neon, c’è un tavolo ovale. Il direttore troneggia sulla sua poltrona mentre attorno i caporedattori e i capiservizio aspettano che parli di come organizzare il giornale, dalle pagine nazionali a quelle locali. Un discorso di un’ora infarcito di considerazioni sull’attualità e i massimi sistemi. A un certo punto sento il mio nome. Vedo che mi indica. Mi strizza l’occhio destro. Dice: da oggi qui con noi ci sarà Olga Ricci, la nostra nuova inviata. Seguirà gli eventi più importanti, in Italia e all’estero. Sessanta occhi si spalancano all’unisono e trenta bocche alitano incredulità e risentimento. Ho un capogiro. Vedo il comune pensiero astioso: chissà da dove viene questa raccomandata che ci passa davanti. Ricambio gli sguardi stupefatti con un sorriso abbozzato, facendo spallucce. Vorrei dire: non so di cosa stia parlando il direttore, non è possibile che io sia stata nominata inviata, non ho nemmeno un contratto. Ma resto in silenzio. Abbasso la testa e guardo il pavimento di piastrelle grigie a buon mercato fino alla fine della riunione.

Olga Ricci, TOGLIMI LE MANI DI DOSSO, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 144

“L’ora di lezione può cambiare la vita”. Un libro di Massimo Recalcati

 

Lo consigliamo a docenti e alunni. Vale la pena di leggerlo a scuola, offre molti spunti di riflessione sia per il docente e che per l’alunno.

Un libro intenso, pieno di pathos, questo libretto, “L’Ora di Lezione”, scritto da uno dei più noti psicanalisti italiani.

Il libro è un saggio ricco di analisi che tocca diversi livelli: dalla filosofia alla psicanalisi. Ma c’è anche un piccolo “tesoro”: sono le pagine dedicate alla sua esperienza di studente, uno studente cui “destino” pareva segnato dal fallimento: “Ero stato un bambino considerato idiota, fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi riferisco.” “Andavo lento e ora mi rimproverano di andare veloce”.

Massimo Recalcati (Olycom)

Massimo Recalcati
(Olycom)

In quest’affermazione non c’è boria e trionfalismo. L’autore vuole sottolineare che era considerato una “vite storta”. E tutti siamo “vite storte”, la “stortura” può essere l’occasione di progredire nella conoscenza. Anzi è la condizione per conoscere la propria via. E’ la stortura, la nostra imperfezione, che accende il desiderio del sapere.

Ecco il punto, il tesoro del libro: in quel lontano 1977, gli anni del terrorismo, dell’esplosione della droga, in una classe dell’Istituto agrario, collocato alla periferia estrema di Milano, fa la sua apparizione una giovane e bella professoressa di lettere, Giulia, che incanta con la sua passione per la letteratura e la poesia il giovane studente annoiato dalla scuola. “Non esiste insegnamento senza amore. Ogni Maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert”. La parola diventa “corpo erotizzato”, accende il ionedesiderio. L’apprendimento, per Recalcati, non è pura ripetizione, plagio, sapere “morto” senza vita. L’insegnamento implica, per usare la metafora dell’amore, la trasformazione del soggetto che ascolta in soggetto attivo. Passare da “eromenos” a “erastes”. Ovvero passare al ruolo di “amante”.

La scuola come “sentinella dell’erotismo” del sapere, della possibilità del tuo futuro. Il luogo che mette in moto la vita che ti conduce all’altrove, verso mondi imprevisti.

Questo processo avviene nell’ora di lezione.

Ma oggi nel tempo della scuola “Narciso”, fatta di nozionismo pieno di efficienza fine a stessa, come se la mente degli studenti fosse da riempire con dei “file”, questo è assai complicato. Una scuola “narciso” che non contempla il fallimento, tutto è giocato sull’ansia della prestazione. Non è una bella evoluzione rispetto alla scuola, così viene definita dall’autore, “Edipo” (quella basata sull’Autorità). La proposta di Recalcati è quella di investire nella scuola lo spirito di “Telemaco”, ovvero dell’apertura al futuro delle possibilità.

La scuola come isola di anticonformismo sano, che rifiuta l’intruppamento, e ponga limiti all’indisciplina del godimento immediato.

La scuola come luogo della “legge della parola”. E senza legge non c’è desiderio.

Quindi come si trasforma un “libro in un corpo erotico”? ovvero come “tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere”?

Per Recalcati gli autori di questa “magia” sono stati i suoi “maestri” :dalla splendida Giulia Terzaghi, “un corpo celeste che veniva da un altro universo”, la professoressa di lettere, ai grandi professori di Filosofia della Statale di Milano, “Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro”.. Ecco perché – scrive Recalcati – “portare la parola è portare il suo fuoco”: è “il miracolo dell’insegnamento: mostrare che quel sapere che ritenevamo morto è vivo, è erotico, si muove, respira. In questo modo, il maestro, sempre, mentre insegna impara, ovvero ridà vita a tutto ciò che lo ha formato”. Ecco l’arte dell’insegnamento (che è un atto di amore).

E per ognuno di noi sicuramente c’è stato qualcuno che ha segnato il nostro destino, che ci ha aperto la via inesplorata o che ci ha consentito di “ripartire”. Ecco questi sono i “maestri” che ricorderemo a distanza di anni la voce, che è “espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare”. E’ Il desiderio d’insegnare che distingue il “maestro” dai replicanti. “Sei una presenza che insiste a vivere in me”, scrive della sua professoressa Recalcati. In-fine il sapere è, anche, un nome. L’amore è sempre, direbbe Lacan, l’amore per il nome. “Magia” dell’ora di lezione.

Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Ed. Einaudi, Torino 2014, pagg. 160, € 14,00