Confessioni di un trafficante di uomini. Un libro di Chiarelettere.

SeriesBAW08ALTAnche oggi nel Canale di Sicilia si è consumata l’ennesima tragedia . Trenta poveri immigrati hanno perso la vita, il rosario interminabile dei morti continua. L’impotenza dell’Europa è un macabro scaricabarile. Dietro alle decine di migliaia di migranti che ogni anno arrivano in Europa c’è un’industria fatta di grandi professionisti del crimine, gente in doppiopetto, uomini d’affari il cui fatturato mondiale è secondo solo a quello della droga. Un libro, uscito per i tipi di Chiarelettere, scritto da Andrea De Nicola e Giampaolo Musumeci squarcia il velo criminale di questo traffico immondo.

Nel libro, infatti, per la prima volta parlano gli uomini che controllano il traffico dei migranti. Un sistema criminale che gli autori di questo libro hanno potuto raccontare dopo aver percorso le principali vie dell’immigrazione clandestina, dall’Europa dell’Est fino ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Ecco cosa si muove dietro la massa di disperati che riempiono le pagine dei giornali. Una montagna di soldi, un network flessibile e refrattario alle più sofisticate investigazioni. La testimonianza dei protagonisti conduce dentro un mondo parallelo che nessuno conosce. Ora finalmente possiamo vedere in presa diretta la più spietata agenzia di viaggi del pianeta.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del volume:

Marina di Turgutreis, distretto di Bodrum, Turchia meridionale.
Sono le 9.30 del mattino di un giorno di maggio del
2010. Al numero 26 di Gazi Mustafa Kemal Bulvarı c’è la
sede della Argolis Yacht Ltd, una società di gestione e affitto
natanti a vela e a motore. Le carte del Bavaria 42 Cruiser
– un monoalbero di tredici metri battente bandiera greca
ormeggiato al molo poco distante – attendono sulla scrivania.
Un uomo sulla quarantina, il viso abbronzato e un po’
segnato, le braccia forti e la stretta di mano vigorosa, si presenta
in agenzia con il passaporto e la patente nautica per
concludere il contratto. È uno skipper. Si chiama Giorgi Dvali,
di nazionalità georgiana. È nato a Poti e da anni lavora con i
turisti sulla costa turca. Organizza crociere nel Mediterraneo.
Data la loro lunga tradizione marinara, i georgiani, insieme
con gli ucraini, sono velisti assai apprezzati. I porti che
affacciano sul Mar Nero hanno cresciuto, nei secoli, esperti
navigatori. Dvali riferisce all’impiegata che i suoi prossimi
clienti sono una famiglia di americani di Seattle: una coppia
con due figli adolescenti che vuole passare un paio di settimane
tra le coste turche e le isole greche. Vogliono godersi la
mavi yolculuk, la «crociera blu», come la chiamano i pescatori
locali. Per un uomo di mare come lui è una rotta usuale di
rara bellezza, sicura attrattiva per tanti turisti.
Dvali paga in contanti quanto dovuto per l’affitto e l’assicurazione.
Poco dopo è già sul molo e osserva la barca.
Al suo fianco, i tradizionali caicchi turchi, costruiti nelle
marine di Bodrum e Marmaris, e yacht a vela di quindiciventi
metri. Andirivieni di skipper, turisti inglesi e tedeschi,
qualche greco: sul molo una babele di lingue diverse. Dvali
si guarda intorno, poi ispeziona lo scafo, quindi sale, va
sottocoperta e controlla che sia tutto in ordine. Tre cabine
attrezzate, sei posti letto in tutto, una capiente cambusa e
due bagni. Gli interni sono eleganti, ricchi di boiserie. La
barca ha non più di cinque anni; è seminuova. Sul mercato
dell’usato costerebbe intorno ai 120-130.000 euro. L’indomani,
alle prime luci dell’alba, si salpa.
Dvali decide di impostare fin da subito la rotta sul navigatore
Gps per verificarne il funzionamento: 40.1479 gradi
di latitudine, 17.972 di longitudine. Yacht come il Bavaria
42, da aprile a settembre, fra la Turchia e le isole greche e
poi fino al litorale italiano, tra Corfù e Vieste, tra Creta e
la Calabria, tra Adalia e Santa Maria di Leuca, ce ne sono a
centinaia. Lunghe crociere, lontane dalle spiagge affollate.
Turismo per pochi eletti. Sei giorni dopo, nelle prime ore
del mattino, l’imbarcazione è al largo di Porto Selvaggio,
provincia di Lecce. Sta navigando a motore e fende le onde
a circa sette nodi. La terra è a sole dieci miglia. Il guardacoste
della finanza affianca lo scafo: è un controllo ordinario,
uno dei tanti. Il libretto di navigazione è in ordine, Dvali
sembra un professionista del mare. I finanzieri salgono
a bordo. L’uomo a quel punto tradisce nervosismo. Alla
richiesta di notizie sulle persone a bordo, Dvali risponde
che sta accompagnando una famiglia americana in vacanza
nel Mediterraneo. Ora stanno dormendo, non vorrebbe
disturbarli. Il suo inglese non è stentato, eppure balbetta.
A insospettire le forze dell’ordine è soprattutto il suo sguardo, che corre più volte verso la porta chiusa della cabina. I finanzieri decidono di fare un controllo più approfondito.
Sottocoperta non c’è la famiglia americana appassionata
di vela. Non c’è la coppia con i figli adolescenti. Quando
gli uomini in divisa infilano il naso all’interno, accolti da
una zaffata di acido e puzzo di sudore, trovano quaranta
uomini afgani dai sedici ai trentadue anni. Tutti della provincia
di Herat. I loro sguardi sono smarriti, molti hanno il
mal di mare. Sono passati dalla Turchia: prima Istanbul, la
centrale di smistamento del traffico di uomini provenienti
da mezzo mondo, poi Smirne, da lì fino a Bodrum, dove
hanno incontrato Dvali. Mollati gli ormeggi, facile rotta
verso l’Italia, ultima destinazione le coste pugliesi.
Giorgi Dvali in realtà non si chiama così. Il suo vero
nome è un altro, ma i magistrati che hanno indagato sulla
vicenda e che ce la raccontano preferiscono non rivelarlo. È
uno scafista. Astuto e capace, utilizza l’ultimo stratagemma
per superare le barriere del Vecchio continente aggirando la
polizia internazionale che contrasta l’immigrazione clandestina.
Il suo è l’ultimo, formidabile chiavistello per violare
la «fortezza europea». Un trucco recente, che ha preso piede
non solo nel Mediterraneo ma anche nel Canale della
Manica. Gli yacht di lusso, a vela e a motore, non attirano
l’attenzione delle forze dell’ordine. I migranti possono essere
nascosti sottocoperta, invisibili dall’alto quando un aereo
o un elicottero sorvola i mari. L’unico segnale esterno, il
tallone di Achille, è il notevole abbassamento della linea di
galleggiamento di barche che, nate per portare al massimo
dieci persone, arrivano a contenerne quattro o cinque volte
di più.

Chi sono gli autori:

Andrea Di Nicola insegna Criminologia all’Università di Trento. Da anni conduce ricerche sulle migrazioni clandestine organizzate e sulla tratta di persone a scopo di sfruttamento.
Giampaolo Musumeci, giornalista, fotografo e videoreporter, si occupa di conflitti, immigrazione e questioni africane per radio, tv e giornali italiani e internazionali.

Il Libro:

Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci, Confessioni di un trafficante di uomini, Ed.Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 176, €12,00

L’avvocato del diavolo. I segreti di Berlusconi e di Forza Italia

SeriesBAW08ALTScrive l’autore : “Vent’anni dopo: è il titolo di un vecchio film e potrebbe esserlo anche di questo libro. Inizia infatti nel marzo del 1994 l’avventura politica di Silvio Berlusconi, e per un tratto di quel percorso sono stato al suo fianco. Nonostante sia finita male, quella mia esperienza piuttosto tormentata è rimasta dentro di me, e mi accompagna discretamente nei miei pensieri, nei miei giudizi, nella mia vita quotidiana. E’ per questo che, al compimento del ventesimo anno dal suo festante inizio, e stemperate nel tempo le sue asprezze, ho voluto con questo libro fissare il ricordo di quella breve stagione, e insieme il ricordo dell’intero mio rapporto con Silvio Berlusconi, di cui sono stato l’avvocato e uno degli amici piu assidui da ben prima della “discesa in campo”. Il mio non è quindi un libro “politico”, ma un libro su un rapporto umano, quello fra me e Silvio, durato oltre sedici anni e snodatosi in una miriade di situazioni, occasioni, eventi, non solo professionali, di cui, nella maggior parte dei casi, grazie forse al filtro del tempo, mi è grato il ricordo, pur non essendo affatto indulgente il mio giudizio sulla parabola politica (non ancora compiuta) di Silvio Berlusconi”.

Vittorio Dotti di Berlusconi conosce tutto: i segreti professionali, il carattere, le passioni, le debolezze. Lo ha visto in famiglia, forte e positivo sul lavoro, fantasioso e incontenibile in politica, ma anche fragile e impaurito di fronte ai ricatti dei faccendieri che lo hanno da sempre circondato, e docile preda di adulatori e carrieristi di ogni specie.

Ora, per la prima volta in questo libro pubblicato da “Chiarelettere”,  Dotti, suo avvocato e stretto collaboratore, lo racconta ricostruendo un pezzo fondamentale della sua storia: dal 1980 al 1996, l’anno delle dimissioni di Dotti da capogruppo di Forza Italia alla Camera e della fine dei loro rapporti. Dalla Milano da bere di Craxi e Pillitteri alla fine della Prima repubblica e l’inizio della nuova. Un cambiamento epocale.

Dalle acquisizioni della Standa e Mediolanum a quella clamorosa del Milan (dopo averci provato con l’Inter), al boom televisivo del Biscione con la felice espansione in Spagna e gli insuccessi in Francia e in Germania e l’avventurosa e impensabile esportazione della pubblicità tv in Russia negli anni della Perestrojka. Un mix sbalorditivo di audacia e spregiudicatezza come dimostra il caso Ariosto, quando il teste “Omega” squarcia il velo sugli scandali finanziari di Berlusconi e le tangenti pagate da Previti per il controllo della Mondadori (di qui la rottura tra Dotti e Berlusconi).

Attraverso aneddoti, ricordi, rivelazioni, ecco i particolari di questo incredibile, grottesco e italianissimo copione teatrale che a poco a poco ha costretto personaggi come Dotti a un progressivo allontanamento. Hanno vinto i falchi, non c’è posto, qui da noi, per un liberalismo democratico, onesto e socialmente responsabile. Questo libro lo dimostra. Insomma un “documento” importante per entrare più in profondità nel “modus vivendi” del berlusconismo.

Chi sono gli autori?

Vittorio Dotti è stato per sedici anni il legale di Silvio Berlusconi e della Fininvest. Ha curato le più importanti acquisizioni del gruppo: Standa, Milan, Mediolanum. Ha seguito la nascita del polo televisivo nazionale ed estero del Cavaliere, il caso Sme e la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. Eletto al parlamento nel 1994, ha ricoperto le cariche di vicepresidente della Camera dei deputati e di capogruppo di Forza Italia.

Andrea Sceresini è giornalista e autore di libri d’inchiesta. Tra gli altri, PIAZZA FONTANA. NOI SAPEVAMO e la biografia non autorizzata su Flavio Briatore, IL SIGNOR BILLIONAIRE, entrambi pubblicati da Aliberti. Ha realizzato inoltre numerosi documentari per le reti Rai. Collabora con “La Stampa”, Repubblica.it, “l’Espresso”, “Oggi” e “il Fatto Quotidiano”.

Vittorio Dotti (con la collaborazione di Andrea Sceresini), L’avvocato del diavolo. I segreti di Berlusconi e di Forza Italia, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 240, € 14,60.

L’Italia si cambia con la Politica 2.0. Un libro di Alessandro Rimassa

UnknownParlare di futuro, di progetto, di metodo, di “parole chiave”, di “visione”, di “cittadini attivi”, di “cocreazione”, di generazione sharing, in questo momento in Italia, con gli enormi problemi che assillano gli  italiani, è sicuramente un atto di grande coraggio morale e intellettuale rispetto all’Italia cialtrona che in questi giorni stiamo conoscendo attraverso le cronache sugli scandali di corruzione sull’Expo e sul Mose di Venezia.

Il libro di Alessandro Rimassa (che è direttore della Scuola di Comunicazione e Management di IED – Istituto Europeo di Design), che qui presentiamo, dal titolo, un poco provocatorio,E’ facile cambiare l’Italia, se sai come farlo” (Ed. Hoelpi, Milano 2014, pagg. 152, € 14, 90), fornisce tanti spunti per chi, dal politico al “cittadino attivo”, vuole rimboccarsi le maniche per rendere meno complicato, e più trasparente, questo nostro Paese. Un Paese che da decenni soffre, è l’accusa che fa l’autore a tutta la classe dirigente italiana,  di una mancanza di “visione” (ovvero la capacità delle elité di “tratteggiare” obiettivi di lungo periodo) e quindi di creare progetti carichi di futuro.

E la “visione” per creare futuro deve creare empatia, ossia creare immedesimazione nella costruzione di futuro. E’ chiaro che questo porta, per logica, ad una creazione di una pienezza della democrazia. Ed è proprio questa “pienezza”, a cui l’autore da un nome “Politica 2.0”, fatta di “progettazione partecipata” e “cocreazione” può rendere vitale quel tessuto sociale dove si compie il destino di ciascuno di noi.

C’è molto “renzismo” e del “Movimento 5 Stelle”, per certi versi sembra che su alcuni concetti, oggi in voga nel linguaggio politico, l’autore sia stato copiato da alcuni protagonisti. A parte questo, che sia o non sia così, l’autore si trova sulla stessa lunghezza d’onda di “quei” protagonisti sull’atteggiamento positivo, a volte un po’ troppo fideistico, nei confronti della “Rete”. Per Rimassa la “democrazia elettronica è il mezzo che permetterà la realizzazione di una nuova società relazionale e inclusiva, centrata sul cittadino: grazie a innovazione e tecnologia sta nascendo la human-centered-society”. Questa è una Lista dei sogni,Utopia, ingenuità o realismo? Certo alcune esperienze di “democrazia elettronica” suscitano fortissime perplessità, resta comunque un dato che per l’autore i  “media civici” non vogliono sostituire la democrazia a cui siamo abituati ma semmai è quella di favorire con questi strumenti nuovi una maggiore partecipazione dei cittadini. E quindi creare un vero potere democratico. Insomma una vera “rivoluzione copernicana” per il nostro Paese. Questa “rivoluzione” è ben sintetizzata in questo “Manifesto” che riprendiamo, qui sotto, per intero:

Manifesto del cambiamento



Metodo numero uno.
È facile cambiare l’Italia, se immaginiamo un futuro frutto di una visione chiara e inclusiva.

Metodo numero due.
È facile cambiare l’Italia, se sviluppiamo la cultura del progetto e dell’innovazione.

Metodo numero tre.
È facile cambiare l’Italia, se attiviamo meccanismi di condivisione e progettazione partecipata.

Metodo numero quattro.
È facile cambiare l’Italia, se scegliamo co-creazione e intelligenza collettiva al posto del potere del singolo.

Metodo numero cinque.
È facile cambiare l’Italia, se impariamo a ossigenare il cervello e azionare il pensiero laterale.

Metodo numero sei.
È facile cambiare l’Italia, se liberiamo l’energia dei giovani mettendoli al centro del sistema.

Metodo numero sette.
È facile cambiare l’Italia, se costruiamo una human-centered-society con lo sharing come nuovo modello socio-economico.

Metodo numero otto.
È facile cambiare l’Italia, se condividiamo che fondare una startup sia un forte gesto politico con valore sociale.

Metodo numero nove.
È facile cambiare l’Italia, se crediamo nel made in Italy come fattore di unicità del nostro Paese.

Metodo numero dieci.
È facile cambiare l’Italia, se trasformiamo lo Stato in una casa trasparente, aperta alla partecipazione attiva dei cittadini.

CONTRADA ARMACÀ, un “giallo” su Reggio Calabria

Contrada ArmacàUn giallo ambientato nel cuore di Reggio Calabria, tra violenza e bellezza, irresistibile vitalismo e sanguinaria ferocia. Scritto dal bravo giornalista, e inviato dell’Espresso, Gianfrancesco Turano (nato lui stesso  a Reggio Calabria).

LA TRAMA
L’omicidio di Rosario Laganà, giovane parrucchiere ucciso per strada in un agguato, non suscita particolare clamore a Reggio Calabria. Il movente, si mormora, sarebbe una faccenda di corna o di droga. Nessuno sembra insospettito dal fatto che il ragazzo era intimo di Oriana, la collaboratrice più fidata del sindaco, morta suicida solo poche settimane prima. Chi non si accontenta di facili spiegazioni è lo zio di Rosario, Demetrio Malara, ex insegnante, un uomo solitario che ha già perso il figlio quindicenne in un regolamento di conti fra clan rivali.
La pista di Oriana diventa una scommessa privata, ma per esplorarla Malara ha bisogno di aiuto. Fortunato Amato detto Nato, un suo ex studente che alla carriera di avvocato ha preferito il business dei matrimoni e si è ritagliato un ruolo come organizzatore di eventi, è l’uomo giusto al momento giusto. Narcisista e donnaiolo, brillante e abituato a vivere all’insegna del “me ne fotto”, Nato conosce mezza Reggio ed è ben introdotto nei circoli che contano. Fra risse nei locali della movida reggina, container gonfi di armi e cocaina in transito nel porto di Gioia Tauro, sparatorie nei boschi dell’Aspromonte, donne irresistibili e sicari disposti a tutto, la strampalata coppia d’investigatori entrerà nelle viscere di una città dove nulla accade per caso e dove ogni delitto è il risultato del mancato rispetto di regole non scritte. Un romanzo dove tutte le consorterie oscure del potere  si intrecciano. Insomma Contrada Armacà è un giallo che squarcia la facciata rispettabile di Reggio Calabria, svelando un sistema criminale che arriva a lambire perfino la Casa bianca.

Gianfrancesco Turano, Contrada Armacà,Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 320, € 16,90.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

UNO

CAPOCRIMINE  Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani.
Non è la prima volta. Nel 1976 – io ero bambino – sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve.

“E’ Stato la Mafia”. Un libro di Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia

E' Stato la mafia_piatto“Perché avvelenarci il fegato con queste storie vecchie di oltre vent’anni, con tutti i problemi che abbiamo oggi? La risposta è semplice e agghiacciante: sono storie attuali, come tutti i ricatti che assicurano vita e carriera eterna tanto ai ricattatori quanto ai ricattati. Da ventidue anni uomini delle istituzioni, della politica, delle forze dell’ordine, dei servizi e degli apparati di sicurezza custodiscono gelosamente, anzi omertosamente, i segreti di trattative immonde, condotte con i boss mafiosi le cui mani grondavano del sangue appena versato da Giovanni Falcone, da Francesca Morvillo, da Paolo Borsellino, dagli uomini delle loro scorte, dai tanti cittadini innocenti falciati o deturpati dalle stragi di Palermo, Firenze, Milano e Roma. E su quei segreti e su quei silenzi hanno costruito carriere inossidabili, che durano tutt’oggi… 

Chi volesse capire perché in Italia tutto sembra cambiare – gattopardescamente – per non cambiare nulla provi a seguire con pazienza il filo di questo racconto. Se, alla fine, avrà saputo e capito qualcosa in più, questo spettacolo e questo libro avranno centrato il loro obiettivo: quello di mettere in fila i fatti per strappare qualche adepto al Ptt, il partito trasversale della trattativa.”  Così scrive Marco Travaglio, Vice Direttore del Fatto Quotidiano, in questo che oggi presentiamo. Di seguito, per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo il Prologo del volume.

Prologo

Ci sono diversi modi per raccontare la trattativa Stato- mafia.

Il primo è quello dei politici, dei grandi giornali e delle tv: la presunta trattativa, la supposta trattativa, la pretesa trattativa, la cosiddetta trattativa. Forse, magari, chissà.

Il secondo è quello che raccontano le sentenze e i protagonisti.

Le sentenze sono quelle – definitive – dei processi celebrati a Caltanissetta sulle stragi di Palermo del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e a Firenze sulle bombe di Firenze in via dei Georgofili, di Milano in via Palestro e di Roma alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro. Scrivono i giudici della Corte d’assise di Firenze (verdetto confermato fino in Cassazione):

I testimoni hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i «corleonesi»; anzi, direttamente Riina. Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina. […] I testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio […]. In ciò che ha raccontato Brusca vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno […]. L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una «trattativa»; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di «trattativa», «dialogo», ha espressamente parlato il capitano De Donno (il generale Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Cian- cimino a scoprirsi; o altro) di contattare i vertici di Cosa nostra per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.

Conclusione dei giudici di Firenze:

Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, «in ginocchio» nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-1992, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di «show down», giunta, a quanto pare logico ritenere, addirittura in ritardo.

La stessa Corte d’assise di Firenze, nella sentenza di condanna all’ergastolo per il boss Francesco Tagliavia (già confermata in Appello) del 5 ottobre 2011, aggiunge:

Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno ini zialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia.

Borsellino si oppose, giudicandola «la negazione stes- sa della battaglia condotta da sempre con Falcone» e prevedendo che la trattativa non avrebbe frenato, ma moltiplicato le stragi. Infatti fu ucciso. Per questo.

Ma di «trattativa», senza alcun aggettivo dubitativo, parlano anche i protagonisti, mafiosi e istituzionali. A cominciare da Giovanni Brusca, che per primo la rivelò nel 1996-97, costringendo i trafelati ufficiali del Ros, il generale Mario Mori (all’epoca vicecomandante) e il suo braccio destro, l’allora capitano Giuseppe De Donno, a confermarla. Ecco Mori il 27 gennaio 1998 davanti ai giudici di Firenze (dove, diversamente da quanto affer- mano i giudici, parla anche lui più volte di «trattativa»):

Incontro per la prima volta Vito Ciancimino a via di Villa Massimo dietro piazza di Spagna a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992. L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo, e cominciai a parlare con lui: «Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?». La buttai lì, convinto che lui dicesse: «Cosa vuole da me, colonnello?». Invece disse: «Si può, io sono in condizioni di farlo». […] Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: «Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo». Gli dissi: «Lei non si preoccupi, lei vada avanti». Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa […]. Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: «Guardi, quelli accettano la tratta- tiva» […]. Poi la trattativa ebbe un momento di ripensamento.

Ecco, questi erano i rappresentanti dello Stato nel 1992: si stupivano del «muro contro muro» fra mafia e Stato, non si davano pace nel vederli l’una contro l’altro armati dopo decenni di festosa convivenza. Infatti si precipita- rono a ripristinare le «larghe intese», andando a trattare con un mafioso come Vito Ciancimino per ristabilire lo status quo. C’è tutta una filosofia, nelle parole di Mo- ri. Che va ben oltre il suo pensiero. È l’atteggiamento dello Stato italiano, che ha sempre dichiarato di voler «combattere la mafia», mai di volerla sconfiggere: al massimo, per contenerla quando alza troppo la cresta. Per sconfiggerla bisognerebbe dichiararle guerra e poi vincerla. E la guerra alla mafia per sconfiggere la mafia non l’avevano in testa nemmeno i carabinieri del Ros.

Il processo in corso a Palermo vede imputate dodici persone: sei per la mafia e sei per lo Stato. Perfetta par condicio. Anche se non si capisce bene dove finisca l’una e dove cominci l’altro.

Per la mafia: i boss irriducibili Salvatore Riina, Ber- nardo Provenzano (attualmente «stralciato» per le sue gravi condizioni di salute), Leoluca Bagarella, il mafioso pentito Giovanni Brusca, e gli «ambasciatori» di Cosa nostra Antonino Cinà e Massimo Ciancimino.

Per lo Stato: gli ex carabinieri del Ros Antonio Su- branni (all’epoca comandante), Mario Mori (viceco- mandante) e Giuseppe De Donno (braccio destro di Mori); gli uomini politici Calogero Mannino (nel 1992 ministro del Mezzogiorno del governo Andreotti), Ni- cola Mancino (nel 1992-93 ministro dell’Interno dei governi Amato e Ciampi) e Marcello Dell’Utri (presi- dente di Publitalia e ideatore di Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi).

Ciancimino risponde di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro. Mancino è accusato «soltanto» di falsa testi- monianza. Gli altri dieci imputati sono a giudizio per il reato previsto dagli articoli 338 e 339 del Codice penale: «Chiunque usa violenza o minaccia a un Corpo politico, o amministrativo o giudiziario o a una rappresentanza di esso, o a una qualsiasi pubblica Autorità costituita in Collegio, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni» (che, con le aggravanti delle armi e del numero dei colpevoli, possono arrivare fino a quindici anni di reclusione). Qual è il «Corpo politico o amministrativo» violentato e minacciato nel nostro caso? Il governo italiano, anzi i governi italiani presieduti da Giuliano Amato nel 1992, da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, da Silvio Berlusconi nel 1994 e così via.

In separata sede sono indagati altri tre rappresentanti delle istituzioni, per false dichiarazioni al pm: Giovanni Conso (già ministro della Giustizia dei governi Amato e Ciampi), Adalberto Capriotti (dal 1993 direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia) e Giuseppe Gargani (all’epoca parlamentare della Dc, poi di Forza Italia, ora in forza all’Udc). Per legge, saranno giudicati al termine del processo principale.

Nessun imputato è accusato di «trattativa»: il reato contestato è il Grande Ricatto ordito dai boss contro le istituzioni democratiche, con l’aiuto di esponenti delle istituzioni medesime che agevolarono il progetto di Cosa nostra e l’aiutarono a mettere in ginocchio vari governi, cioè lo Stato.

Si dice: per sapere se la trattativa è esistita, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo. Eh no, troppo comodo. Sarebbe come dire: per sapere se Meredith Kercher è stata uccisa, bisogna attendere la sentenza definitiva del processo di Perugia. Il processo sulla trattativa serve ad accertare se vi furono dei reati, e in caso affermativo se sono proprio quelli contestati agli imputati, e in caso positivo se gli imputati li hanno commessi. Ma la trattativa è già certa oggi: sia perché esistono sentenze definitive che l’hanno accertata, sia perché la consecutio dei fatti la dimostra senza ombra di dubbio.

È, questo, il terzo modo di raccontare la trattativa: quello dei giornalisti (quelli veri, si capisce). L’informazione non deve fondarsi soltanto sugli atti giudiziari (che riguardano solo i reati provati al di là di ogni ragionevole dubbio), ma anche e soprattutto sui fatti accertati (in- dipendentemente dalla loro rilevanza penale). Fatti che stanno in piedi da soli, senza alcun bisogno di sentenze che li confermino. Fatti che continuerebbero a esistere anche se il processo non si celebrasse, e persino se gli attuali imputati dovessero finire tutti assolti. Fatti che possiamo raccontare già oggi, a prescindere dal processo.

«Io so, ma non ho le prove» diceva Pier Paolo Pasolini a proposito della strage di piazza Fontana. Noi, a proposito della trattativa Stato-mafia, siamo più fortunati: abbiamo le prove. Ma quasi tutti fanno finta di non sapere.

Marco Travaglio, È Stato la Mafia.Tutto quello che non vogliono farci sapere sulla trattativa e sulla resa ai boss delle stragi, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, Libro + DVD, pagg.160, € 14,90