La “preda” del potere. Il “Corriere della Sera” nella storia italiana in un libro di “Chiarelettere”

“Il ‘Corriere’ è una delle pochissime istituzioni di garanzia di questo paese… La libertà d’informazione è vista con insofferenza crescente.” Ferruccio de Bortoli14 giugno 2003, in occasione delle sue dimissioni da direttore del “Corriere della Sera

IL LIBRO
Una storia e una testimonianza. Di chi si è battuto per quarant’anni in difesa dell’indipendenza del giornale più famoso d’Italia, il giornale della borghesia illuminata, il giornale di Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un giornale che veramente libero non è mai stato perché sempre al centro di appetiti economici e politici. Raffaele Fiengo, giornalista del “Corriere” dagli anni Sessanta, di formazione liberal, ci offre la sua versione dei fatti attraverso le lotte che ha condotto con tenacia sempre dalla parte dei giornalisti per affermare i principi di una stampa libera. Una lotta dura, dai tempi eroici della direzione di Piero Ottone alla strisciante occupazione della P2 sotto Franco Di Bella fino ai disegni egemonici di Craxi e poi le indebite pressioni dei governi Berlusconi. Oggi gli attori sono cambiati ma con le interferenze del marketing e della nuova pubblicità, e l’invasione dei social network, il mestiere del giornalista è ancora più contrastato, anche al “Corriere”, da sempre “istituzione di garanzia” in un’Italia esposta a continue onde emotive e a tensioni di ogni tipo. Se cade il “Corriere” cade la democrazia. E questo libro lo dimostra. Come scrive Alexander Stille nell’introduzione, “considerate le varie lotte avvenute per il controllo del ‘Corriere’, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro”.
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Prossimamente approfondiremo meglio la vicenda “Corriere” con un’intervista all’autore.

L’AUTORE
Raffaele Fiengo è nato a Cambridge (Stati Uniti) nel 1940. Dal 1968 ha lavorato al “Corriere della Sera” trovandosi più volte in contrasto con la direzione. Per vent’anni è stato rappresentante sindacale. Nel 1973 fonda la società dei redattori del “Corriere della Sera” e nel 1974 è autore, con la direzione di Piero Ottone, dello “Statuto del giornalista”. Chiamato dai suoi antagonisti “il soviet di via Solferino”, in realtà non si è mai considerato comunista e si è sempre battuto per l’indipendenza del giornale e dei giornalisti. Nel 2004 è tra i fondatori di “Libertà di stampa, diritto di informazione” (Lsdi), centro di ricerca sulle trasformazioni del giornalismo. Nel 2012 promuove, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, l’Iniziativa per l’adozione in Italia di un Freedom of Information Act. Dall’anno accademico 2000-2001 è docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Padova.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione di Alexander Stille.

Il «Corriere» e la lotta politica in Italia
Il primo quotidiano nazionale, il grande giornale della cosiddetta «borghesia illuminata», il «Corriere della Sera», è stato il teatro centrale della lotta per il potere in Italia per quasi tutta la storia del paese. Il suo appoggio alla causa dell’intervento nella Prima guerra mondiale – ospitando tra l’altro le arringhe di Gabriele D’Annunzio («Viva Trento e Trieste, viva la guerra!») – è stato un fattore importante nella decisione di prendere parte al conflitto. L’opposizione del giornale e del suo leggendario direttore Luigi Albertini al fascismo rappresentò uno degli ultimi seri ostacoli al consolidamento del potere di Benito Mussolini. Così i proprietari – i membri della famiglia Crespi – nel 1925, per non rischiare rappresaglie pericolose da parte del regime, dovettero rimuovere Albertini.
È stato così anche durante i quarant’anni della carriera di Raffaele Fiengo che va dalla fine degli anni Sessanta fino a poco tempo fa, negli anni Duemila. Redattore e soprattutto capo, per molti anni, del sindacato dei giornalisti del «Corriere», Fiengo è stato un osservatore privilegiato e un protagonista di molte lotte.
I proprietari amano fare dichiarazioni circa la loro fedeltà ai principi della libera stampa, come questa del 1972: «Gli editori […], consapevoli che il giornale è un servizio pubblico, riaffermano il loro assoluto rispetto dei principi di libertà e indipendenza dei giornalisti dell’azienda». Ma la realtà è parecchio più complessa. L’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, proprietario de «Il Messaggero» di Roma e de «Il Mattino» di Napoli, ha detto: «Caro mio, se vuoi fare il grande imprenditore in Italia devi avere per forza un piede nei media, meglio due piedi». Per aiutare l’imprenditore, il giornale dev’essere usato come strumento di potere attraverso gli articoli che pubblica, quelli che non pubblica e per il modo in cui essi vengono impaginati. Al momento della bomba a piazza Fontana – l’inizio del periodo del terrorismo in Italia e della «strategia della tensione» – il «Corriere» avallò la tesi della strage degli anarchici. Ecco il mostro fu il titolo del «Corriere d’Informazione», confratello della sera del «Corriere», che riportava una foto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito arrestato ma successivamente scagionato. Allo stesso tempo il «Corriere» non pubblica la notizia su un negoziante di Padova che aveva identificato le borse usate per l’attentato in cui erano morte diciassette persone, una prova che conduceva l’indagine verso la «pista nera», che si sarebbe rivelata quella giusta.
Nel luglio del 1970 il treno da Palermo a Torino uscì violentemente dal suo binario nella zona di Gioia Tauro, in Calabria, uccidendo sei persone e ferendone un centinaio. La versione ufficiale in un primo momento fu che si trattava di un incidente. Ma il cronista che seguiva la storia per il «Corriere», Mario Righetti, aveva saputo da una sua fonte che c’erano segni evidenti di un atto di sabotaggio. E lo scrisse nell’articolo che fu pubblicato nella prima edizione del giornale ma che scomparve nell’edizione definitiva, che titolava: A Reggio Calabria fonti ufficiali escludono l’ipotesi di un atto doloso.
«La mattina [dopo] – scrive Fiengo – Righetti è chiamato dal caporedattore, che allora era Franco Di Bella, e messo in ferie.» Di Bella è una delle bestie nere di Fiengo. Fu il direttore del giornale durante il periodo della P2, la loggia massonica di cui era membro, insieme ai proprietari del gruppo Rizzoli e ad alcuni giornalisti. Nel caso del treno di Gioia Tauro e di piazza Fontana, però, le censure del «Corriere» non furono conseguenza di un intervento della P2, ma di pressioni governative. Secondo Fiengo, il ministro dell’Interno intervenne personalmente per bloccare l’articolo sull’attentato di Gioia Tauro e un magistrato minacciò Righetti di denunciarlo per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’opinione pubblica» qualora avesse ancora scritto sull’argomento. La lotta di potere non era però sempre a senso unico. Dopo la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo nel 1975, durante la quale i tipografi comunisti occuparono il giornale socialista «Republica», un gruppo di redattori comunisti del «Corriere» cambiò il titolo dell’articolo sull’argomento da I comunisti occupano il giornale socialista in Tensione a Lisbona tra Pc e socialisti. Fiengo fu comunque considerato il leader della sinistra all’interno del giornale per almeno vent’anni. Con autoironia Fiengo racconta come veniva visto in via Solferino durante la direzione di Giovanni Spadolini, futuro leader del Partito repubblicano e di un governo di centrodestra. «Spadolini guardava con qualche apprensione il mio berretto nero alla Lenin sul quale per scherzo un giorno il mio compagno di stanza, Guido Azzolini, aveva cucito una stella rossa di stoffa. “Vedi, Fiengo – mi diceva dolcemente Spadolini, – tu sei l’ultimo rivolo della contestazione, una miscela rara, ma assai esplosiva perché contemporaneamente sei liberal, anzi radicale, e comunista.” Certamente su suo suggerimento il condirettore Michele Mottola, che di rado pronunciava una parola, limitandosi di solito a gesti e farfugliamenti, mi consigliava di tagliarmi i capelli lunghi.» Poi nel 1972 Giulia Maria Crespi assunse un ruolo più attivo come azionista principale del giornale, licenziò Spadolini e al suo posto mise Piero Ottone che, pur non essendo comunista, era decisamente più aperto alla sinistra. La «sterzata» di Ottone portò all’uscita da via Solferino di Indro Montanelli insieme a una sessantina di giornalisti – una vera e propria secessione di una parte del «Corriere» che avrebbe fondato «il Giornale». Il «Corriere» di Ottone pubblicò, per esempio, le famose Lettere luterane e Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, testi chiave della sinistra italiana degli anni Settanta. Ma, come rivela Fiengo, il loro non fu un rapporto facile. Anche se Ottone veniva etichettato come direttore di sinistra, Pasolini, in una lettera privata, lo coprì di insulti. E in un’altra lettera scrisse:

Caro ineffabile Ottone,
sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere.

Il famoso scritto di Pasolini Io so sui presunti crimini impuniti del governo italiano rimase per quaranta giorni nel cassetto di Ottone, impegnato nella ricerca di un pezzo di uguale peso da contrapporgli.
Ma già durante il periodo dei Crespi e di Ottone le debolezze economiche della proprietà aprirono le porte all’influenza esterna. Per far fronte ai bisogni economici del quotidiano, i proprietari stipularono un accordo con la Montedison (vicino alla Democrazia cristiana e quindi al governo). Solo anni dopo Fiengo scoprì l’esistenza di un accordo segreto che permetteva a Montedison di approvare la scelta del caporedattore per l’economia.

La crisi più acuta
La battaglia principale sostenuta da Fiengo fu durante la crisi della P2. Nel 1974 il gruppo Rizzoli acquistò il «Corriere della Sera» e fece una serie di investimenti pesanti nel giornale e nell’editoria, aumentando pericolosamente i suoi debiti. All’insaputa dei lettori e della redazione, le difficoltà del gruppo lo spinsero sempre di più tra le braccia di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano, che diventò il vero proprietario del quotidiano. Anche Calvi, il cosiddetto «banchiere di Dio», vicino al Vaticano ma anche alla mafia, aveva grossi problemi finanziari e dipendeva sempre di più dall’appoggio occulto della loggia massonica Propaganda 2 e dal suo Maestro Venerabile, Licio Gelli, un ex fascista fervente. Mentre molti dei circa mille membri entrarono a far parte della loggia semplicemente per interesse di carriera, il Maestro Venerabile aveva un chiaro piano politico (il Piano di rinascita democratica) per creare in Italia un regime presidenziale orientato a destra. Riuscì a tirare dentro la sua loggia segreta centinaia di uomini tra i più potenti del paese, compresi 195 membri delle forze armate (12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di finanza, 22 dell’esercito, 4 dell’aeronautica e 8 ammiragli della marina), 44 membri del parlamento, giudici, banchieri, e tra gli editori: Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e Franco Di Bella, direttore del «Corriere della Sera». Così l’influenza della P2 sul giornale crebbe gradualmente, come dimostrano la sostituzione del corrispondente in Argentina (dove Gelli aveva forti legami con il regime militare), quella di Ottone con Franco Di Bella, l’uscita di vari giornalisti (come Giampaolo Pansa) considerati di sinistra, e la pubblicazione di diversi articoli strani, chiaramente confezionati ad arte per piacere alla P2: l’intervista allo stesso Licio Gelli, fatta da un giornalista, Maurizio Costanzo, anch’esso membro della loggia. E la collaborazione regolare con il «Corriere» di Silvio Berlusconi, altro membro della P2.Fiengo in quegli anni portò avanti una battaglia feroce per preservare l’indipendenza dei giornalisti e della testata, e, successivamente, incaricato dall’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare sulla P2, si adoperò per far luce su quel losco periodo della storia italiana.
Considerate le varie lotte di potere avvenute per il controllo di via Solferino, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro.

Raffaele Fiengo, Il cuore del potere. Il “Corriere della Sera” nel racconto di un suo storico giornalista (Introduzione di Alexander Stille), Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 416 , € 19

MIO NIPOTE NELLA GIUNGLA. L’ultimo libro di Oliviero Beha

“Con la freddezza di un chirurgo, fa un’analisi caustica e spietata, prendendo di mira i paradigmi della cultura contemporanea.” (Franco Battiato, prefazione a Il culo e lo stivale)

Tra racconto, confessione e pamphlet, in uno stile accattivante, il libro più crudo e più chiaro di un critico feroce dei nostri giorni alle prese con il futuro da inventare di nipoti, figli, fratellini, sorelline…

Un manuale appassionato, da domani nelle librerie, di sopravvivenza pratica e intellettuale che non nasconde i pericoli senza consegnarsi alla rassegnazione.

Il libro
Soprattutto per un giovane, o per un neonato, il futuro è una muraglia altissima, apparentemente insuperabile e la giungla in cui siamo precipitati sembra inestricabile: difficile trovare una direzione. A proteggere il novello Mowgli dalle insidie e dai pericoli non ci sarà nessuna pantera Bagheera, dovrà cavarsela da solo. Ma qualcosa per lui possiamo fare da qui, ora, senza aspettare: chiarirgli le idee, avviarlo o riavviarlo al coraggio e alla libertà di pensiero. E questo libro ci prova, cercando di accorciare le distanze tra noi abitanti di una palude maleodorante, certo italiana ma sempre più planetaria, e la “vegetazione” minacciosa che attende i nostri nipoti. Acuto e tagliente come sempre, Beha questa volta racconta il presente per superarlo, per trovare le parole che non abbiamo più e quelle che non abbiamo ancora, sospesi tra un passato senza ricordi consapevoli e un avvenire pressoché indecifrabile. La salute come merce, la “sindrome da cucina” che avanza, la desertificazione del sapere, il clima impazzito, la memoria truccata, la politica ma anche la camorra e l’Isis, il “fondamentalismo finanziario” del denaro, il messaggio evangelico tra banche, massonerie e mafi e, la paura, l’amicizia, gli altri spariti dai nostri orizzonti… insomma la vita che siamo al tempo di Facebook, Instagram e Snapchat. “Un oggi usurato ed estenuato, consumato ancor prima di esserci.” Ecco qualche utensile per il nostro Mowgli e per noi che siamo qui. Senza illusioni ma con un afflato umano intergenerazionale che non spenga le fiammelle interiori di speranza.

L’Autore
Oliviero Beha è uno dei più noti giornalisti italiani e conduttori radiotelevisivi. Le sue trasmissioni, regolarmente censurate da ogni parte politica, hanno avuto grande seguito e continuano a essere ricordate dal pubblico. Ha scritto per “la Repubblica” e vari quotidiani e settimanali, ed è ora editorialista de “il Fatto Quotidiano”, di cui è cofondatore. Molti i suoi libri, anche di poesie. Per Chiarelettere ha pubblicato: Italiopoli, I nuovi mostri, Dopo di Lui il diluvio, Il culo e lo stivale.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo il prologo del libro.
Lui è lì, che sospira nel mondo, ormai è in piedi e cammina da un pezzo pur avendo compiuto un anno da pochi mesi. Gorgheggia anche parole basiche. Lui è lì, e come una folgorazione nella comune, banale e straordinaria esperienza di un nipote, di due generazioni dopo di te, del tempo che corre negli anni davvero luce (be’, insomma, anche in penombra…), improvvisamente mi colpisce come uno schiaffo la realtà del futuro. È lui il futuro, e gli altri come lui, qui e dappertutto, semplicemente lui. Sono il futuro le sue manine, i piedini che sbatte, gli occhi radiosi per fortuna più allegri di quelli di molti, per esempio dei miei (ed è già un delitto, ormai un peccato originale dei contemporanei…), è il futuro quello che tu riesci a immaginare attraverso di lui. Niente a che vedere per intensità emotiva con i discorsi seri, più o meno impegnati, a volte apocalittici e altre integrati, sulla catastrofe del pianeta, la degenerazione delle persone, lo svuotamento ideale ed etico dell’Italia dove a lui è capitato di nascere. Come al nonno, ma in tutt’altro periodo, in tutt’altro Paese. Adesso è davvero una giungla. Che posso fare per non spegnere l’entusiasmo vitale nel suo sguardo, la sua curiosità, la sua socievolezza? Che fare per lui e per loro, per i nipoti di tutti, in un’Italia trasfigurata al suo interno e decimata nei rapporti con il resto del mondo, se non descrivere la giungla in cui è venuto al mondo, novello Mowgli senza un Kipling a raccontarlo? Lui, cucciolo dell’idea di uomo in una foresta sempre più disumana di piante carnivore e individui animalizzati nel senso peggiore, di organismi geneticamente modificati dall’insensatezza. Lui che crescerà senza pantere come Bagheera che lo proteggano, e verrà invece aggredito fin dall’inizio da serpenti a misura umana di qualunque taglia che mutano pelle per sembrare come lui, in un libro della giungla che si scrive da solo, quotidianamente. Mentre tutti i segnali ci dicono che stiamo andando giù, sempre più giù, e non tanto e non solo dal punto di vista economico, assurto ormai a unico metro della nostra esistenza? Nella giungla che non ha memoria per cui nessuno ricorda niente di nessuno e soprattutto non se ne dispiace, in cui il futuro sembra un’altissima muraglia che ottunda qualunque orizzonte in un paesaggio circoscritto alla configurazione dell’oggi, un oggi istantaneo usurato ed estenuato, consumato ancor prima di esserci. Nella giungla in cui tutto sembra obsoleto perché «niente è paragonabile a prima grazie alla scienza e alla tecnologia», supplenze tendenzialmente straordinarie e invece troppo spesso mostruose del senso della vita. Un «prima» impietosamente già polverizzato? Posso solo raffigurarla, questa giungla, o provare a farlo nella maniera più lineare e accessibile, sintetizzando i temi che si intersecano nella nostra/sua quotidianità, dicendo senza sconti le cose come stanno, almeno a parere di chi le ha vissute e se le è sentite addosso, disboscando gli intrecci di liane mentre gli anni si accalcano alla porta qualche volta bussando, altre entrando senza difficoltà perché ne possiedono la chiave. Posso solo tentare di rintracciare che cosa abbiamo in comune, il futuro nel passato, il passato verso il futuro, lui batuffolo fatto già quasi persona e io persona sempre più imbatuffolita negli acciacchi, che ha già traversato molta vita in un mix di velleitarismo e conoscenza, sul limitare dell’età in cui ci si trasforma in vecchi bavosi o in venerati maestri (o altro ancora: scostiamo il frusciame tra Arbasino e Berselli). Per il cucciolo se vorrà saperlo: trattasi di due intellettuali, finissimo il primo, randelloso il secondo, scomparsi all’inizio del terzo Millennio, eccellenti descrittori dell’Italia di allora e di sempre. È un modo di fargli gli auguri, di offrirgli istruzioni per l’uso che dovrà ovviamente come tutti forgiarsi da sé, alla faccia dell’esperienza trasmessagli da chi lo ha preceduto. È il disegno di una passerella interiore affacciata sul vuoto, che ballonzoli tra lui e il suo duende in embrione. Il duende che non è necessario sapere bene che cosa sia ma che confligge, simpatizza e antipatizza con lui, nel suo spirito, un Dna ballerino come lui che cammina sulle punte, imprescindibile se avrà qualcosa dell’artista. È un machete per la mente laddove il groviglio sembra più fitto e sempre meno naturale. È un espediente personale, credo umanissimo, per ricominciare a pensare e a pensarsi nel futuro, a farsi domande e non solo a darsi risposte estemporanee e ingannevolmente risolutrici, a tracciare linee guida esistenziali che si sporgano dalla finestra di un presente cupo e, se ci riescono, inducano al sorriso. Non è forse questa la capacità che ci distingue dagli animali nel libro della giungla di sempre, preverbale? E, d’altro canto, non è proprio questa difficoltà a sorridere che ci sta avvelenando la vita nella nostra giungla quotidiana, secolare e per certi versi ultramondana? E tale mancanza del sorriso e dell’allegria di un popolo che ha sempre cantato, sotto qualunque vessazione, e ora non canta più, che altro è in realtà se non una paura a vivere davvero, senza recitare per forza una parte ma rischiando di essere se stessi come è umanissimo che sia? Questa mancanza, fanciullino, che dopo aver gattonato in modo strambo, insieme unico e universale, finalmente scorrazzi per casa barrendo parole che aprono al mondo, questa davvero non la posso concepire né permettere: qui siamo ben oltre le colpe dei padri o dei nonni che ricadono su figli e nipoti, qui abbiamo fatto crescere una giungla malsana dove poteva esserci un ambiente ordinato e consapevole. Qui la natura è stata sostituita da qualcosa che è stato fatto passare per cultura, e di certo non lo era nel suo significato migliore. Una vegetazione che ti può soffocare e che ripropone un homo homini lupus aggiornato al nucleare e ai mercati finanziari del denaro e del potere, da Hobbes al plutocrate Soros per chi ha una vaga idea di chi siano. Come premessa dunque intanto perdonami, nipote, cioè perdonaci. P.S. E non sei neppure nato ad Aleppo, dove la tragedia ininterrotta dei tuoi coetanei è diventata mostruosa, una pioggia di bombe terrificante anche solo a immaginarla da lontano. Sai, M., non è solo un «incidente» bellico che accade in Siria, ma è diventato un genocidio voluto da qualcuno ben identificato e collegato ahimè a tutto il resto. Barbarie all’ennesima potenza in questa giungla, adesso anche tua.

Oliviero Beha, MIO NIPOTE NELLA GIUNGLA. Tutto ciò che lo attende (nel caso fosse onesto), Editrice Chiarelettere, Milano 2016, pp. 176 , 15 €

La “mia” Repubblica tradita. Intervista a Giovanni Valentini

 

9788899784089_0_190_0_80Giovanni Valentini, storico Direttore dell’ Espresso ed ex vice direttore di Repubblica, ha appena pubblicato per “Paper First” (la casa editrice del Fatto Quotidiano) un libro sulla mega fusione editoriale tra due grandi quotidiani italiani: Repubblica e La Stampa. Già dal titolo, La Repubblica tradita, si intende che il libro è una testimonianza personale e inedita degli avvenimenti che hanno portato alla fusione di questi giornali. Una mega-concentrazione che Valentini giudica una minaccia per il pluralismo dell’informazione del nostro Paese. In questa intervista approfondiamo le ragioni che l’hanno spinto a scrivere il libro.

Il tuo libro, davvero interessante e al tempo stesso inquietante, apre uno squarcio sul velo di ipocrisia che riguarda il più prestigioso quotidiano italiano: la Repubblica. Il titolo non lascia dubbio alcuno la Repubblica tradita. Diversi sono stati i protagonisti di questo tradimento, ne parleremo più avanti. Adesso fissiamo un punto. Perché scrivi che l’attuale Repubblica tradisce il progetto originale e i suoi valori? Dove si compie il tradimento? Sui valori di sinistra riformista?
Parlo di “tradimento”, all’indomani della mega-fusione con La Stampa e con Il Secolo XIX, perché quarant’anni fa Repubblica è stata fondata da un “editore puro”, come allora usava dire: nacque infatti dal matrimonio fra il gruppo L’Espresso e la Mondadori. Un soggetto cioè che non aveva altri interessi, estranei all’attività editoriale. A 27 anni, lasciai Il Giorno di Milano, che era il terzo quotidiano italiano ed era di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare con Eugenio Scalfari. Ora la maxi-concentrazione di “Stampubblica” trasforma quel giornale in uno strumento di potere, in mano a un gruppo economico-finanziario, costituito da De Benedetti e dalla Fiat. Non è Repubblica che tradisce il progetto originario, è il nuovo soggetto editoriale che tradisce il progetto originario del giornale.

Repubblica nasce nel 1976. Siamo nel periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Il fatto di chiamare un quotidiano “Repubblica” è già una scelta di campo. Eugenio Scalfari, anche recentemente, ne ha descritto la carta d’identità: siamo liberaldemocratici. Ti chiedo quale è stato il contributo maggiore dato dal quotidiano alla storia civile italiana?
Direi, per riassumere, il contributo alla modernizzazione del Paese: sul piano politico, innanzitutto, ma anche civile e culturale. Scalfari ha sempre usato la definizione di “liberali di sinistra”. Non mi risulta che la Fiat o gli Agnelli possano essere considerati tali. Né tantomeno Marchionne e John Elkann.

Nel tuo libro analizzi, sulla base della tua esperienza davvero straordinaria all’interno del gruppo “Espresso-Repubblica, le varie fasi del quotidiano. Parliamo, quindi, degli ultimi vent’anni. Che coincidono praticamente con la direzione di Ezio Mauro e con la gestione padronale di De Benedetti. Il “tradimento” incomincia con la direzione di Mauro. Francamente una cosa difficile da comprendere…. Se penso alle battaglie di Repubblica contro il berlusconismo imperante. Perché Mauro è diverso, qual è il suo “peccato” d’origine?
No, il “tradimento” non comincia con l’arrivo di Ezio Mauro alla direzione: quello, semmai, fu un primo “strappo”, una discontinuità accettata e condivisa da Caracciolo e da Scalfari. Carlo, finché ha vissuto, ne è stato il garante editoriale; Eugenio ne è stato il garante politico, la guida e il tutore. Se vogliamo parlare di “peccato originale”, quello di Ezio era la provenienza dalla direzione del giornale targato Fiat: basti pensare alla politica economica e sindacale, a quella dei trasporti o dell’ambiente, per farsene un’idea. Quanto all’anti-berlusconismo, per me è cominciato a metà degli anni Ottanta, quando andai a dirigere L’Espresso e lanciai una campagna contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi che consideravo una minaccia per il pluralismo e la libertà d’informazione. Poi, è diventato un orientamento politico, ideologico e antropologico. Ma è stato anche un alibi per non vedere, o fingere di non vedere, i ritardi e le responsabilità della sinistra.

Veniamo alla vera “anima nera” del tradimento, Carlo De Benedetti. Su sul suo conto usi parole dure, ne denunci il conflitto d’interessi su molteplici piani. Alla fine ne esce un quadro disperante sul personaggio: viene spontaneo domandarti qual è la differenza, se mai esiste, tra lui e Berlusconi?
Non confondiamo i personaggi e le rispettive estrazioni. La differenza sostanziale è che Berlusconi era un imprenditore, un concessionario pubblico ed è diventato un uomo politico, con un macroscopico conflitto d’interessi; mentre De Benedetti è sempre stato un finanziere, un uomo d’affari, ma non ha mai avuto cariche pubbliche. Fino a quando Caracciolo e Scalfari hanno garantito l’autonomia del gruppo e dei giornali, erano loro che incarnavano la figura dell’editore. Ma ora, con la complicità della crisi, gli interessi economici purtroppo hanno preso il sopravvento…

E veniamo all’ultima fase quella della fusione con la Stampa di Torino, ironicamente definita da te “Stampubblica”, cui emblema diventa Mario Calabresi (il gigante nano). Eppure Calabresi nasce, giornalisticamente parlando, a Repubblica. Sul piano dello spessore, Calabresi sicuramente è inferiore a Ezio Mauro. Però, consentimi, Repubblica ha ancora fior di giornalisti (vedi Giannini) che reggono la deriva “minimalista” di Calabresi. Perché definisci la fusione con La Stampa un pericolo per la democrazia? E perché Scalfari continua a scrivere?
Calabresi, professionalmente parlando, non nasce a Repubblica ma all’Ansa. E con tutto il rispetto per il giornalismo d’agenzia, c’è una bella differenza con quello d’opinione e d’intervento. Lui è il testimonial di questa mega-concentrazione. Non sono stato io a definirlo “un gigante nano”, bensì la perfidia dei suoi redattori, in contrapposizione al “nano gigante” Ezio Mauro. Dico che la maxi-fusione è un pericolo per la democrazia perché è destinata fatalmente a ridurre il pluralismo e la concorrenza, oltre che gli organici dei giornali interessati. Anche per questo mi auguro che Scalfari continui a scrivere su Repubblica fino a quando ne avrà la forza e la voglia.

Ultima domanda: Sei pessimista sulla stampa italiana?
Qui bisognerebbe fare un discorso molto lungo sulla crisi dei giornali e della pubblicità, sull’avvento della televisione e di Internet, sul “giornalismo diffuso” alimentato dai social network. Non c’è dubbio che l’unica prospettiva per il futuro può essere quella della “multimedialità”, cioè dell’integrazione fra i vari mezzi e i vari codici della comunicazione. Ma, a parte Cairo e lo stesso Berlusconi, non vedo in Italia molti editori che abbiano le capacità e le possibilità di proseguire su questa strada. Mi conforta, però, registrare che – nonostante tutto – testate d’opinione come Il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio o La Verità, riescano a trovare uno spazio per sopravvivere e magari per crescere. Nel campo editoriale, c’è sempre tempo per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione.

L'immagine è tratta da Prima Comunicazione

L’immagine è tratta da Prima Comunicazione

ORFANI BIANCHI. Un libro di Chiarelettere

Volevo misurarmi con un personaggio femminile. Una donna unica con una vita difficile che per trovare un angolo di serenità è pronta a sacrifici immensi. Mia nonna stava morendo, io guardavo Maria che le faceva compagnia e veniva da un paesino della Romania. E mi domandavo: quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?”

(Antonio Manzini)

Antonio Manzini Orfani bianchiIL LIBRO

Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio, poi la signora Mazzanti, “che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all’albero, ai regali e al panettone”, poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall’esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirli c’è lei, Mirta, che non li conosce ma li accompagna alla morte condividendo con loro un’intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane.

Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo, che verrà presentato oggi pomeriggio a Roma alla Libreria Feltrinelli nella Galleria Alberto Sordi, sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato, il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. “Nella disperazione siamo uguali” dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell’ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi.

Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza. Una storia contemporanea, commovente e vera, comune a tante famiglie italiane raccontata da Manzini con sapienza narrativa non senza una vena di grottesco e di ironia, quella che già conosciamo, e che riesce a strapparci, anche questa volta, il sorriso.

L’AUTORE

Antonio Manzini ha lavorato come attore in teatro, al cinema e in televisione, e ha curato la sceneggiatura dei film Il siero della vanità (regia di Alex Infascelli del 2004) e Come Dio comanda (regia di Gabriele Salvatores del 2008). Con Sellerio ha pubblicato racconti e romanzi gialli con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, poliziotto fuori dagli schemi, poco attento al potere e alle forme: Pista Nera (2013), La costola di Adamo (2014), Non è Stagione (2015), Era di maggio (2015) e il recente 7.7.2007 (2016), per settimane in testa alle classifiche dei libri più venduti. Sempre nel 2016 ha pubblicato l’antologia Cinque indagini romane per Rocco Schiavone e il racconto satirico Sull’orlo del precipizio (Sellerio). Suoi racconti sono presenti nelle antologie poliziesche Turisti in giallo, Il calcio in giallo, Capodanno in giallo, Ferragosto in gialloRegalo di Natale, Carnevale in giallo e la Crisi in giallo, tutte pubblicate da Sellerio.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

«Ciao Mirta…» le sorrise il prete. Poi si chinò a raccogliere un ceppo di legno che gettò nel fuoco. «Ti piacciono i fagioli nel minestrone?» Mirta annuì sapendo che Ilie li detestava. Si sedette sul letto. Guardò l’ora: le sei e mezza. Accese il cellulare ed entrò in chat.

Il nome di Nina Cassian era già verde, segno che l’amica era in linea.

Eccomi Nina… – Come ti senti Mirta? – Uno schifo. – Sei a casa? – Non c’è più la casa, Nina. Non c’è più nulla. È tutto bruciato. C’è rimasto qualche muro e una finestra. – Hai parlato con padre Boris? – Sono qui con lui e Ilie. Ilie non parla. Mi guarda e non dice niente. Ha gli occhi spenti e l’ho trovato magro, Nina. Magro come un gatto randagio. – Io ho chiesto in giro. Per Ilie. Dovresti fare come Marisha e come ha fatto Lyudmilla. – … – Mirta? Mirta ci sei? – … – Mirta? – L’internat? – Sì. Altra soluzione non c’è. – Come faccio a mettere Ilie in un internat? Ti rendi conto Nina? – Lyudmilla ha i suoi a Chi¸sina˘u, all’internat numero 1 da tre anni. Stanno bene. Studiano, mangiano, fanno i compiti, giocano e hanno un sacco di amici. – Non mangiano, Nina. Studiano poco. E stanno in otto in una stanza! – Hanno una casa. – È un orfanotrofio. – Li ospitano e gli vogliono bene. – Ti sei accorta che io sono ancora viva?

Per favore, stammi a sentire. Tu eri fortunata, avevi mamma. Ma ora devi pensare a come fare. Puoi portare Ilie in Italia? – No. – E allora? Sarà solo per poco tempo. Uno, al massimo due anni. Poi si aggiusta. Chiedi a Lyudmilla. Ce l’hai l’indirizzo? – L’internat no! – Chiedi a Lyudmilla. Non fare sciocchezze Mirta. Chiedi a Lyudmilla!

Mirta alzò gli occhi. La madre di padre Boris s’era addormentata con la bocca aperta. Il sacerdote girava il cucchiaio di legno nella pentola. «Che succede?» le chiese, ma Mirta non rispose. «Hai avuto una brutta notizia?» Mirta fece sì col capo. Poi guardò il cellulare che teneva fra le mani. «La vuoi condividere con me?» «No padre Boris. No…»

Passò la notte a guardare il soffitto basso della casetta. Da dietro la tenda si sentiva il russare del prete e di sua madre. Mirta teneva una mano di suo figlio che le dormiva accanto. Che faccio, pensava, che faccio? Fuori era ricominciato a piovere. L’acqua tamburellava il tetto sottile e i vetri della finestra, nel camino erano rimaste solo le braci. Mirta si tirò la coperta fin sotto il mento. Inutile girarci intorno. Nina aveva ragione, altre soluzioni non ce n’erano. L’internat. Solo la parola le faceva venire un brivido nella spina dorsale e le chiudeva la gola. Che razza di madre sei se sei costretta a mettere tuo figlio in un orfanotrofio? Che razza di madre sei?

Non lo sapeva. Era una madre sola, e il mondo era un masso, un enorme masso che rotolava per una discesa e lei poteva solo scappare e cercare un posto dove nascondersi. Perché quello acquistava velocità, giorno per giorno, e se non fosse riuscita a evitarlo, a farlo rotolare via, l’avrebbe schiacciata sotto il suo peso. L’alba la sorprese con gli occhi ancora aperti. Si alzò lentamente per preparare la colazione. Non voleva svegliare Ilie. In quei giorni la scuola poteva anche aspettare. Riempì il pentolino dal rubinetto che sputava un filo di acqua. Poi lo mise a bollire per il tè. La tenda di padre Boris si spalancò e apparve il sacerdote, già vestito con la tonaca. «Buongiorno Mirta.»

Antonio Manzini, ORFANI BIANCHI, Ed.ni Chiarelettere, Milano 2016, Collana Narrazioni _ euro 16,00, pp. 256

SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata ai cittadini

COPSilenzi.inddVogliamo assumerci la piena responsabilità dei nostri errori e auspichiamo che voi li indichiate quando manchiamo noi di farlo. Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna repubblica può sopravvivere.”

John Fitzgerald Kennedy

In caso di dubbio, la trasparenza deve sempre prevalere. L’amministrazione non dovrebbe mantenere informazioni riservate solo perché i funzionari pubblici potrebbero essere messi in imbarazzo dalla loro pubblicazione.”

Barack Obama

IL LIBRO

Dieci casi esemplari di trasparenza negata. Uno più stupefacente e vergognoso dell’altro… Un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…” (Dalla prefazione di Gian Antonio Stella)

Quanto ha speso il sindaco in viaggi e con chi è andato a cena? Quanto è sicura la mia scuola? Quanto è inquinata l’aria del mio quartiere? Come sono fatte le graduatorie dei concorsi pubblici? L’amianto uccide ancora, ma dove? Quanti sono i “derivati” acquistati dal ministero e dalle amministrazioni?

Tutte informazioni non coperte dal segreto di Stato, ma il cui accesso, fino a oggi, è stato negato a cittadini, associazioni e giornalisti. A dispetto delle sbandierate riforme sulla trasparenza e delle promesse elettorali. Un atteggiamento che, oltre a essere ingiusto, è dannoso perché il prezzo che gli italiani pagano in vite umane e in reddito pro capite è altissimo.

Finalmente ora la situazione dovrebbe cambiare perché è stato varato anche da noi, dopo anni di pressioni e di lotte, il Freedom of Information Act (Foia), cioè una legge che consente libero accesso ai documenti pubblici. Un ritardo grave rispetto agli altri paesi europei, che ha alimentato la sfiducia nelle istituzioni ed è stato causa di inefficienze e corruzione. Certamente l’applicazione della legge non sarà facile anche perché, come dimostra questo libro, i cassetti dello Stato sono sempre stati tenuti rigorosamente chiusi.

Le battaglie qui raccontate non hanno tutte un lieto fine ma rappresentano il segnale che la democrazia può essere praticata a partire dal basso e che la palude burocratica può essere combattuta.

GLI AUTORI

Ernesto Belisario, avvocato, si occupa di diritto amministrativo, accesso all’informazione e diritto delle tecnologie, ed è autore dei libri “La nuova Pubblica Amministrazione digitale” e “Diritto tra le nuvole: profili giuridici del cloud computing”. È docente in numerosi corsi e master sui temi della digitalizzazione e della trasparenza e collabora con CheFuturo, IlFattoQuotidiano.it e Agendadigitale.eu.

Su Twitter è @diritto2punto0

Guido Romeo, giornalista, scrive di innovazione per “Il Sole 24 Ore” e “Vogue”, ed è stato caposervizio per il data-journalism e l’economia a “Wired”. È cofondatore di Diritto Di Sapere, la prima ong italiana dedicata all’espansione e alla difesa del diritto di accesso all’informazione.

Su Twitter è @guidoromeo

Entrambi gli autori hanno promosso la campagna Foia4Italy (www.foia4italy.it) per l’approvazione della legge sulla trasparenza e l’accesso all’informazione.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la Prefazione di Gian Antonio Stella

Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico. (Max Weber)

Tryckfrihetsförordningen è impronunciabile? Provate con «l’art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito…». Qual è la differenza? Chi parla lo svedese la parola Tryckfrihetsförordningen la capisce benissimo: è il diritto alla libertà di stampa e alla trasparenza. Chi parla l’italiano davanti ai nostri codicilli stramazza: quel linguaggio iniziatico è una barriera che impedisce l’accesso. Come diceva tre secoli fa Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». È passato un quarto di millennio da quando la Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini l’accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica. Mancavano tre anni alla nascita di Napoleone, dieci alla Dichiarazione d’indipendenza americana, ventitré alla presa della Bastiglia e alla Rivoluzione francese. Eppure duecentocinquant’anni dopo, come dimostrano Ernesto Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato, l’Italia fatica a adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni in tutti quei paesi che credono nelle ragioni di John F. Kennedy. E cioè che «come disse un saggio: “un errore non diventa madornale finché non rifiuti di correggerlo”» e che proprio la denuncia degli errori può aiutare chi comanda a governare meglio. «Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna Repubblica può sopravvivere.» Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi anni. Perfino dopo il decreto legislativo 33 del 2013 (il «decreto trasparenza» voluto da Mario Monti) che ordina alle amministrazioni di mettere a disposizione dei cittadini (salvo rare eccezioni) una quantità senza precedenti di documenti e informazioni in loro possesso nell’intento di favorire «un controllo diffuso da parte del cittadino sull’operato delle istituzioni e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Se «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo», l’occhio del cittadino può sgrassare il bilancio più obeso. E scorgere storture, clientelismi, sprechi, privilegi, reati e malversazioni altrimenti invisibili. Abbiamo visto la Calabria negli anni del governatore Giuseppe Scopelliti pubblicare sul Bollettino ufficiale della Regione decine e decine di delibere di spesa con i nomi degli oscuri destinatari dei soldi per questo o quell’incarico coperti da ancora più oscuri omissis. Come nel caso della concessione del vitalizio, che solo successivamente sarebbe stato revocato, a Mimmo Crea, per anni consigliere e assessore regionale, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per l’«onorata sanità». «Il dirigente delle risorse umane – diceva l’incredibile delibera – determina, per quanto in premessa evidenziato, che qui si intende integralmente riportato e accolto: di liquidare all’on. omissis l’assegno mensile dell’importo di euro 6647,67 al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio maturato per il mandato di consigliere regionale.» Abbiamo letto, a dimostrazione di come il problema riguardi tutto il paese da Lampedusa a Vipiteno, interviste come quella del capogruppo regionale dell’unione per il trentino, Giorgio Lunelli, che per giustificare il rifiuto di rendere pubbliche le ricevute per le quali chiedeva i rimborsi disse: «Io sono per la massima trasparenza ma dobbiamo stare attenti all’eccesso di trasparenza, che può mettere in difficoltà chi svolge attività politica. Se io ho un incontro riservato e vado a pranzo con una persona può rappresentare un problema dover pubblicare la spesa con il nome della persona con cui sono andato a pranzo». Stupefacente. È l’esatto motivo per cui nei paesi seri è obbligatorio denunciare tutto ma proprio tutto. Scrive divertita Caterina Soffici in Italia yes Italia no, dove ci mette a confronto con l’Inghilterra: «Perfino Buckingham Palace è trasparente. La regina pubblica ogni anno un rapporto di oltre cento pagine con il rendiconto di tutte le spese della monarchia, comprese le più piccole, come la sostituzione di un vetro o di un water nella tenuta di Balmoral. Ci sono gli stipendi dello staff, i costi e i consumi volumetrici di gas, elettricità, combustibile per scaldare le residenze reali. Anche ogni volo o treno preso dalla regina, dal suo staff e dai membri della famiglia reale per viaggi dentro e fuori dall’isola è rendicontato nel dettaglio».i In certi casi, aggiunge, si rasenta il ridicolo come in «quello di tal Sir Campbell: ha registrato un pagamento di 15 sterline per un discorso tenuto il 18 agosto 2010 al Probus Club di Auchtermuchty. L’importo del gettone di presenza, si specifica, è stato donato in beneficenza». tutti candidi come angioletti? Il conto a Panama di David Cameron, per fare un esempio, dice che non è così. I furbi fanno i furbi anche là. Sanno però di rischiare molto di più. La trasparenza ha imposto allo stesso Cameron, infatti, di scrivere nella sua scheda di aver ricevuto in dono dal personal trainer Matt Roberts venticinque sedute di ginnastica che sarebbero costate 130 sterline l’una. Somma girata in beneficenza alla onlus suggerita dall’allenatore. Al di là dell’Atlantico funziona allo stesso modo. Dice tutto il caso dell’ex segretario al tesoro americano Henry Paulson, costretto nel 2009 a dimettersi per aver fatto delle telefonate (vietatissime perché lì il conflitto di interessi è una cosa seria) alla Goldman Sachs, l’azienda della quale in precedenza era stato il numero uno. Vi chiederete: e come fu scoperto? Sulla base del Freedom of Information Act, la legge sulla libertà d’informazione, il «New York times» aveva chiesto l’elenco di tutte le chiamate fatte dall’ufficio dell’allora potentissimo segretario. Le aveva esaminate una a una et voilà: smascherato. E qualcosa di simile era già successo ad Al Gore, beccato e messo alla gogna dagli avversari per aver negato di aver fatto dal suo ufficio un po’ di telefonate elettorali quando correva contro George W. Bush: non si fa. Questa è la trasparenza. Che non può essere concessa a capriccio, un po’ sì e un po’ no, in dosi omeopatiche. o c’è o non c’è. Da noi, invece, i trinariciuti guardiani della riservatezza sono andati avanti per anni a invocare la privacy. L’hanno invocata in Sicilia, quando opposizioni e giornali diedero battaglia per avere la lista dei 397 giovani assunti senza concorso in certe municipalizzate e società miste palermitane: «C’è la privacy, quei nomi non li possiamo dare» spiegava il vicesindaco Giampiero Cannella, braccio destro di Diego Cammarata. «Io li renderei pubblici, ma si rischia la gogna mediatica, un clima da unione Sovietica, mi sembra una violenza ingiusta verso chi era disoccupato e ora ha finalmente un posto di lavoro.» Il difensore civico Antonino tito, invitato a dire la sua, sospirò: «Non ho il potere di fare questa richiesta». Finché saltò fuori che tra i fortunati assunti, per pura coincidenza, c’erano anche i suoi figli Giuseppe e tania. Hanno invocato la privacy a tolentino, nelle Marche, dove i dirigenti della municipalizzata Assm Spa si sono sì rassegnati a mettere on line, come dice la legge, le loro retribuzioni, ma erano convinti che nessuno se ne sarebbe accorto. Così, quando una rivista locale distribuita ogni mese in ottomila famiglie, «Mpn» («Multiradio Press News»), ha osato pubblicare le cifre «per permettere anche a chi non ha tempo o dimestichezza coi mezzi informatici di leggere i dettagli delle varie spese», hanno fatto il finimondo. «La condotta da voi tenuta con la pubblicazione del periodico “Press News” – si leggeva in una lettera alla rivista che minacciava sfracelli – è assolutamente contraria alla normativa vigente in materia di protezione e riutilizzo dei dati personali e, più in generale, ai principi di diligenza e buona fede. La censura si basa sulla totale assenza di una preventiva richiesta scritta per il riutilizzo dei dati personali pubblicati nel sito web di Assm Spa e dell’estratto della delibera del consiglio di amministrazione.» Infatti, proseguivano gli avvocati, «l’obbligo previsto dalla normativa in materia di trasparenza on line della Pa di pubblicare dati in “formato aperto” non comporta che tali dati siano anche “dati aperti”, cioè liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque scopo». Hanno invocato la privacy nel maggio del 2014 in Sardegna per non consegnare ad Anthony Muroni, il direttore de «L’unione Sarda» che lo chiedeva da settimane, l’elenco dei consiglieri regionali appena decaduti ma già in pensione. Elenco indispensabile dopo la scoperta che la presidente del consiglio uscente Claudia Lombardo, perso il seggio, era già in pensione a quarantun anni con 5100 euro netti al mese pur essendo più giovane di Nicole Kidman o Cameron Diaz. E l’hanno invocata nelle regioni autonome del Nord. Come in Friuli-Venezia Giulia dove la governatrice Debora Serracchiani sbalordì i partecipanti a un convegno raccontando di avere un «problemino» coi dirigenti dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari: «Ho chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’aeroporto, posso sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». E anche dopo essersi rassegnati a mettere on line le buste dei sergenti, dei caporali e dei soldati semplici, i vertici aeroportuali si sono rifiutati di rivelare lo stipendio del più pagato di tutti, il direttore generale. Nota nella casella: «Compenso deliberato: dati non trasmessi». Perché? Perché trattandosi comunque di una Spa, pur avendo un unico azionista… l’Avvocatura dello Stato dice che anche gli stipendi più alti devono essere pubblici? Loro, i vertici, dissentono. Quanto al trentino-Alto Adige, le autorità locali hanno avuto per la trasparenza (non è mai stata data la lista neppure di chi ha la tessera gratis dell’autostrada del Brennero, totalmente pubblica) una vera allergia. ogni volta che scoppiava uno scandalo per le retribuzioni stratosferiche (si pensi che l’assessore provinciale alla Sanità sudtirolese, Richard theiner, nel 2008 prendeva 22.900 euro e cioè 6600 più di ursula Schmidt, ministro della Sanità in Germania) o per i trattamenti pensionistici, si alzavano barricate. Privacy! Privacy! un alibi penoso: il garante per la privacy ha infatti chiarito da anni che la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e in seguito il «codice privacy» non hanno «inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa». Pertanto «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti». In testa ai guardiani della privacy sempre lui: Franz Pahl, un «duro e puro» autonomista, prima presidente del consiglio provinciale e poi dell’Associazione ex consiglieri del trentino-Alto Adige. Così roccioso nella difesa dei segreti e dei privilegi che quando i neopensionati che avevano esagerato furono chiamati a rendere, nel 2014, una parte dei mega anticipi sui vitalizi (calcolati come se tutti dovessero vivere ottantacinque anni!) rispose: «Non restituisco neanche un euro!». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Napoletan-tirolese. Per farla corta, a duecentocinquant’anni dalla prima legge mondiale sulla trasparenza, migliaia di burocrati italiani, arroccati nei palazzi del potere centrale e in quelli del potere periferico, sembrano in trincea con l’elmetto e la baionetta a difendere l’indifendibile: la segretezza dei dati. Scriveva Max Weber: «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». È passato un secolo. Siamo sempre inchiodati lì. Ernesto Belisario e Guido Romeo, in questo libro, raccontano dieci casi esemplari di trasparenza negata. uno più stupefacente e vergognoso dell’altro. Dalle cortine fumogene sollevate sui soldi della politica a quelle che impediscono ai cittadini di saperne di più sugli edifici scolastici a rischio, sui centri di accoglienza per i profughi troppo spesso in mano a furbetti e delinquenti, sui siti che ancora traboccano di amianto assassino… un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…

i Caterina Soffici, Italia yes Italia no: che cosa capisci del nostro paese quando vai a vivere a Londra, Feltrinelli, Milano 2014.

Ernesto Belisario e Guido Romeo, SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata e di cittadini che non si arrendono, (Prefazione di Gian Antonio Stella), Ed.Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 192, 14 euro