Gli Eurosprechi che alimentano il populismo. Un libro di Roberto Ippolito

“Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di ospedale. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare.” Vanessa Stevenson, cittadina di Hillingdon, ovest di Londra, dopo il referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

“Chi immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi.”
Roberto Ippolito

Come sempre documentatissimo, Roberto Ippolito, nel suo ultimo libro, fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi dell’Unione Europea: autostrade con poche auto nonostante immani investimenti, aeroporti nuovi eppure deserti, tonno pagato sei volte di più, dipendenti gratificati da un’indennità extra anche se malati, la proliferazione di enti perfino con nomi simili, la media di un immobile su cinque al mondo non adoperato. E poi errori che inficiano il 4,4 per cento di tutti i pagamenti. Eurosprechi mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Fa rabbia che la casa comune, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dagli innumerevoli episodi raccontati dettagliatamente emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. Con un paradosso: il deficit di bilancio balza al 4,8 per cento, molto oltre il tetto di Maastricht. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Gli europeisti sono davvero impegnati per togliere pretesti all’azione disgregatrice? L’Unione può superare le resistenze e crescere se, oltre a ritrovare la forza dello slancio ideale e una visione solidale, affronta adeguatamente la questione dei soldi. Gli eurosprechi sono un macigno sulla strada di chi vuole gridare ancora: “Viva l’Europa”.

L’Autore
Roberto Ippolito, scrittore e giornalista, ha pubblicato con Chiarelettere i libri di successo “Ignoranti” (2013) e “Abusivi” (2014). In precedenza ha firmato “Evasori” (Bompiani 2008) e “Il Bel Paese maltrattato” (Bompiani 2010). Ha diretto a Roma “Libri al centro” a Cinecittà, “conPasolini”, “Nel baule” al Maxxi; a Ragusa, il festival letterario “A tutto volume”. È stato editor del “Festival dell’economia” di Trento e ha ideato il “Tour del Brutto dell’Appia Antica”. Dopo aver curato a lungo l’economia per il quotidiano “La Stampa”, è stato direttore comunicazione di Confindustria e direttore relazioni esterne dell’Università Luiss, dove ha anche insegnato “Imprese e concorrenza” alla Scuola superiore di giornalismo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro.

L’Unione Europea non va di moda. Va di moda attaccarla, denigrarla, ritenerla la causa di tutti i mali. Fonte di sventure, di impoverimento, di ingiustizie. Per quello che fa e anche per quello che non fa. Eppure l’Europa è qualcosa di unico al mondo. Ma quale Europa? Questo libro fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi. Mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Già prima della Brexit, l’addio della Gran Bretagna alle istituzioni comuni deciso con il referendum del 23 giugno 2016, l’Unione era malata. Dopo quel giorno incredibile tutto è diventato più incerto. Il domani per l’Europa ci può essere, se l’Europa cambia. Sapere è più prezioso che mai. Fa rabbia che l’Unione, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dov’è la politica che costruisce? Dove sono i progetti che fanno progredire? Dov’è l’attenta valutazione del beneficio di ogni euro impiegato? Episodio per episodio emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. E pensare che il tema dei costi dell’Unione ha già un grande impatto sulla gente, ha pesato nella vittoria del leave, l’abbandono dell’Unione da parte del Regno Unito, e fornisce legna agli incendiari leader populisti e anti-immigrati che infiammano l’Europa. Per rendersene conto potrebbero bastare le opinioni degli abitanti di Hillingdon, il quartiere a ovest di Londra dove il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, l’Ukip di Nigel Farage, ha pilotato il grosso successo della Brexit respinta invece praticamente in tutta la capitale inglese. 1 Con lo scrutinio alle ultime battute, lasciando l’ospedale di Hillingdon all’alba, una votante, Vanessa Stevenson, ha sfoderato in chiave personale tutto il suo rancore anti-Ue: «Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di posto. Sporco, senza infermieri, tenuto come un garage. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare qui». Vanessa Stevenson ha semplificato troppo? Ha mischiato le conseguenze delle politiche locali con quelle europee? Si è sentita appagata dall’aver individuato e messo ko chi ha identificato come il nemico? La sua irritazione sembra la sintesi privata della diffusa avversione per l’Europa. Nove giorni prima del voto, il vendutissimo quotidiano conservatore inglese «The Sun», impegnato a tirare la volata alla Brexit e alle sue motivazioni, ha scritto che, nei «nostri 43 anni nell’Unione Europea», Bruxelles «si è dimostrata sempre più avida, sprecona, tirannica e incredibilmente incompetente in una crisi». 2 I giudizi all’origine della Brexit sul cattivo governo dell’Unione, fondati e non, si ritrovano diffusi nei paesi membri, da est a ovest, da nord a sud, tra paure, arroccamenti e propaganda. Travolgono le istituzioni comuni a prescindere, sovrapponendole alle politiche adottate, anche se le politiche possono essere differenti in rapporto ai risultati delle elezioni per il Parlamento Europeo, agli orientamenti e alla composizione della Commissione europea, al colore e agli atteggiamenti dei governi nazionali. Nei singoli stati c’è chi strilla, chi esagera, chi sbatte la porta e chi vorrebbe sbatterla. Ma i problemi esistono. Gli eurosprechi esistono. E neanche pochi. Infatti nelle pagine che seguono il lettore troverà vicende e importi scaturiti da ricerche, davvero infinite, cioè qualcosa di estremamente concreto ed estremamente negativo. Questo libro rivela quanto e come si sperpera, offendendo perfino il comune senso del pudore (economico). Dilapidare i soldi dell’Unione, facendola funzionare male, mette in pericolo addirittura la sua sopravvivenza. E dunque guardare in faccia lo stato delle cose, passare al setaccio i comportamenti significa essere consapevoli della svolta necessaria, nella lunga stagione di stallo del processo di integrazione. Sono innumerevoli e gravi i casi trovati di sperpero di soldi dei cittadini, soldi spesso buttati via senza logica, senza progetti, senza controlli, senza badare ai risultati ma con gli eccessi della burocrazia. Sciupare montagne di euro mina la fiducia nei confronti delle attuali istituzioni. Riduce la passione e l’interesse della gente anche per il loro rafforzamento. L’uso distorto delle risorse a Bruxelles e nei posti più disparati del continente è uno sgambetto sul cammino dell’unificazione, ostacola le azioni comuni su fronti caldi come la sicurezza o le difficoltà dell’economia e offre argomenti, facili ma forti, agli avversari dell’Unione. I costi dell’Europa sono il carburante dell’avanzata antieuropeista. L’operazione trasparenza dei conti, al contrario, può costituire una carta decisiva da giocare per chi vuole rilanciare la costruzione europea, oggi ferma e con il futuro appannato da pesanti incertezze. Questo libro è stato concepito in seguito a una constatazione elementare: finora nessuno si è preso la briga di studiare i conti dell’Unione e di descrivere che fine fanno veramente piccole e grandi somme. Sempre pronta a rimproverare, bocciare e mettere in castigo, anche giustamente, i governi dei paesi membri (ventisette senza la Gran Bretagna), la Commissione europea, presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker dall’1 novembre 2014 e nei dieci anni precedenti dal portoghese José Barroso, 3 non sembra guardare con uguale severità in casa propria. E pensare che il rigore, il tanto discusso rigore, è la sua bandiera, quella del Partito popolare europeo maggioritario nel Parlamento Europeo e della cancelliera tedesca Angela Merkel. L’esigenza di serietà nelle politiche economiche di ogni stato, per soddisfare l’interesse generale, è stata sostenuta in modo anche oltranzistico. È storia. Nonostante questo, ben altra cosa sono i fatti che avvengono nella casa comune. Nell’orbita dei ventotto commissari, tra direzioni, agenzie e segrete stanze, ne accadono di tutti i colori. Per tutte le scoperte raccontate, ci sono le pezze d’appoggio e sono indicate le fonti. Non si tratta di opinioni. Un grosso lavoro di accertamento e verifica viene compiuto dalla Corte dei conti europea, che ha sede a Lussemburgo. La Corte punta ripetutamente il dito sull’uso anomalo o sbagliato del denaro dei contribuenti. I suoi giudizi sono importanti anche se non vincolanti e dovrebbero pesare visto il compito, affidato dal Trattato di Bruxelles del 1975, di controllare la regolarità delle entrate e delle spese dell’Unione Europea e la correttezza della gestione finanziaria. 4 Invece per le sue relazioni e per i suoi ammonimenti il disinteresse sembra sistematico. Queste pagine sono state realizzate guardando in tutte le direzioni, ma più di cento documenti della Corte spulciati e studiati rappresentano la base fondamentale essendo ufficiali e il frutto dell’analisi delle spese effettuate e delle decisioni prese, dei contratti stipulati e delle pratiche svolte nonché dei sopralluoghi e dei colloqui con valore formale. All’ombra del presidente francese François Hollande o del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi o della Merkel e dei governanti di tutti i paesi membri, miliardi e miliardi di euro vengono dissipati ogni anno. Sì, miliardi. Un bel po’ di miliardi. Se si continua così, il disfacimento di tutta l’Unione è inevitabile. Altro che Brexit. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi sulla questione quattrini, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Chi impiega il denaro dei cittadini ha il dovere di preoccuparsi. Direzione per direzione, ente per ente, ufficio per ufficio, il portafoglio può essere aperto con maggiore oculatezza e maggiori benefici. E il sogno dell’Unione può essere coltivato, per un grande disegno solidale ancora più forte e per il benessere dei suoi abitanti, 450 milioni una volta salutati quelli al di là della Manica. Chi non vuole veder scendere ancora questo numero e immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi. Il viaggio negli sperperi del Vecchio Continente, dunque, ora può cominciare.

Pagamenti bocciati
Alcuni hanno persino tratto vantaggio dallo scompaginamento dell’Europa. L’Ue però non figura tra i beneficiari. Jan Zielonka 20145

Anche lui è preoccupato. Il portoghese Vítor Manuel da Silva Caldeira cammina pensieroso. È per strada a Strasburgo, diretto al Parlamento Europeo. In qualità di presidente della Corte dei conti europea, la mattina di giovedì 26 novembre 2015, non può sottrarsi al suo compito, anche se sgradevole: certificare, numeri alla mano, che l’Unione Europea butta via i soldi con una facilità estrema. E così, nella seduta plenaria del Parlamento, illustrandomla relazione sul bilancio del 2014 dell’Unione 6 presentata al termine dell’analisi dei conti, pronuncia il verdetto che non potrebbe essere più severo: «Troppe spese non sono ancora conformi alle norme finanziarie dell’Ue» sono le sue parole che rimbalzano nell’aula. 7 L’intervento dura pochi minuti, in un clima gelido. Non ci sarebbe da aggiungere altro per descrivere l’inesorabile dissipazione di soldi e quindi di opportunità. Questa è l’Europa. Oggi. Il discorso di Caldeira ai deputati non può che essere una rapida sintesi dei giudizi e dei fatti contenuti nella relazione sul bilancio che occupa 320 pagine della «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea». 8 Più che sufficiente, però, per mostrare il panorama tutt’altro che limpido. Il presidente della Corte dei conti europea sente infatti il bisogno di lanciare un avvertimento: «La gestione finanziaria dell’Ue trarrebbe grande beneficio da una maggiore trasparenza. Ciò è fondamentale per ottenere la fiducia dei cittadini». Caldeira fa suonare l’allarme: «A giudizio della Corte, le risorse di bilancio dell’Ue potrebbero essere investite meglio e più rapidamente per affrontare le molte sfide cui l’Europa è confrontata». Troppe spese non conformi vuol dire troppi soldi spesi male. La Corte dei conti europea calcola errori nei pagamenti del 2014 pari al 4,4 per cento di tutte le uscite. I soli errori incidono per 6,3 miliardi di euro su un bilancio complessivo di 142,5 miliardi. La cifra è enorme dopo le cifre immense già registrate per i due anni precedenti. Il livello di errore stimato, che misura il livello di irregolarità, infatti, è praticamente lo stesso di quello del 2013 e del 2012, quando è stato del 4,5 per cento. Ancora una volta si colloca al di sopra della soglia di rilevanza del 2 per cento nonostante le azioni correttive disposte. Il 4,4 per cento deriva dalle verifiche che sono state compiute su un esteso campione, che copre tutti i settori di spesa. La realtà, però, è anche peggio. All’esito del grosso lavoro di accertamento svolto ad ampio raggio bisogna aggiungere i molti errori che la stessa Corte dichiara di non essere in grado di quantificare, «quali le violazioni minori di norme in materia di appalti, l’inosservanza di norme in materia di pubblicità o il recepimento non corretto di direttive dell’Ue nella legislazione nazionale». Questi altri errori «non sono inclusi nel tasso» stimato dalla Corte che, pertanto, dovrebbe essere più elevato.9

Roberto Ippolito, EUROSPRECHI. Tutti i soldi che l’Unione butta via a nostra insaputa, Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 160, 13 euro

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1Ettore Livini, Chi vince. Tra i «marziani» di Hillingdon. «La Ue era solo per i ricchi», «la Repubblica», 25 giugno 2016.
2BeLeave in Britain, «The Sun», 14 giugno 2016. Editoriale anticipato alle 22.58 del giorno prima sul sito «thesun.co.uk» con il titolo Sun Says. We urge our readers to beLeave in Britain and vote to quit the Eu on June 23.
3In carica dal 22 novembre 2004 al 31 ottobre 2014.
4Trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati che istituiscono le Comunità europee e del trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee, firmato a Bruxelles il 22 luglio 1975 e in vigore dall’1 giugno 1977, «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. L359 20° anno, 31 dicembre 1977.
5Jan Zielonka, docente polacco di Politiche europee all’Università di Oxford, Is the Eu doomed?, Polity Press, Cambridge 2014 (edizione italiana Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015).
6Corte dei conti europea, «Relazione annuale della Corte dei conti sull’esecuzione del bilancio per l’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni relative a questo documento in tutto il libro sono ricavate anche da Corte dei conti europea, «2014 Sintesi dell’audit dell’Ue. Presentazione delle relazioni annuali della Corte dei conti europea sull’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni prive di note in tutte le pagine successive sono relative a questi due documenti.
7Corte dei conti europea, «Discorso di Vítor Caldeira, Presidente della Corte dei conti europea. Presentazione delle relazioni annuali sull’esercizio 2014. Seduta plenaria del Parlamento Europeo», Strasburgo, 26 novembre 2015.
8«Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. C373 58° anno, 10 novembre 2015.
9Corte dei conti europea, «Relazione annuale sull’esercizio 2014 – Risposte alle domande più frequenti», Lussemburgo, 10 novembre 2015.

Un inno alla leggerezza: Lettera sul fanatismo. Un testo di Shaftesbury

lettera-sul-fanatismo_cover-1Tre motivi per leggerlo.

“Le opinioni più ridicole, le mode più assurde possono essere dissipate soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve.” Ashley-Cooper, conte di Shaftesbury). Prezioso questo libretto pubblicato da Chiarelettere. Un classico del pensiero del ‘700. In tempi segnati da fanatismo e integralismo ci farà bene la lettura di questo libretto- Perché è una lettera illuminante scritta da un filosofo più di tre secoli fa e ancora oggi essenziale. Perché è un manifesto contro la malinconia e l’eccesso di serietà. Perché è un inno alla leggerezza che è l’anticamera della libertà.

L’AUTORE (DA WIKIPEDIA)

Shaftesbury nasce a Londra, nipote di Anthony Ashley-Cooper, I conte di Shaftesbury e figlio del secondo Conte. Sua madre è Lady Dorothy Manners, figlia di John, Conte diRutland. Secondo il racconto del III Conte, il matrimonio tra i genitori di Shaftesbury venne combinato grazie all’intercessione di John Locke, fidato amico del I Conte. Il padre di Shaftesbury pare fosse debilitato sia dal punto di vista fisico che psichico, tanto che, all’età di tre anni, il figlio è posto sotto la tutela del I Conte, il nonno. Locke, presente nella casa del Conte grazie alle sue conoscenze mediche, ha già assistito alla nascita del piccolo Shaftesbury, ed è a lui che gliene viene affidata l’educazione, che la condusse sulla base dei principî enunciati nel proprio scritto Pensieri sull’educazione (pubblicato nel 1693); il metodo di insegnamento del latino e greco antico tramite la conversazione fu portato avanti con successo dalla sua istruttrice, Elizabeth Birch, tanto che all’età di undici anni si dice il piccolo Shaftesbury fosse in grado di leggere scorrevolmente entrambe le lingue.

Nel novembre del 1683, alcuni mesi dopo la morte del I Conte, il padre inviò Shaftesbury al College di Winchester, dove trascorse un periodo infelice, a causa del suo carattere timido e perché schernito a causa del nonno. Lasciò Winchester nel 1686, per una serie di viaggi all’estero, che gli permisero di entrare in contatto con associazioni di artisti e classicisti, che ebbero una forte influenza sui suoi carattere e opinioni. Durante i suoi viaggi sembra non cercasse il dialogo con altri giovani inglesi quanto piuttosto coi loro tutori, con cui poteva conversare su tematiche a lui più congeniali.

Nel 1689, l’anno successivo alla Gloriosa Rivoluzione, Shaftesbury tornò in Inghilterra, e sembra che abbia trascorso i successivi cinque anni dedicandosi a una tranquilla vita di studio. Non c’è dubbio che la maggior parte della sua attenzione era rivolta all’analisi degli autori classici, nel tentativo di comprendere il vero spirito dell’antichità classica. Non era sua intenzione, tuttavia, trasformarsi in un “recluso”. Divenne candidato parlamentare nel villaggio di Poole, ottenendo l’elezione il 21 maggio 1695. Si distinse tra l’altro per un intervento in favore della legge per la regolamentazione delle controversie in caso di tradimento, in particolare per quella norma che doveva assicurare agli accusati di tradimento, o di mancata denuncia di un tradimento, l’assistenza di un avvocato. Nonostante appartenesse ai Whig, Shaftesbury fu sempre pronto a supportare le proposte della parte avversaria, se queste gli sembravano promuovere la libertà dei sudditi e l’indipendenza del parlamento. La salute debole lo costrinse a ritirarsi dal parlamento nel 1698. Soffriva d’asma, disturbo aggravato dall’atmosfera inquinata di Londra.

Shaftesbury si ritirò quindi nei Paesi Bassi, dove entrò in contatto con Jean LeclercPierre BayleBenjamin Furly (il mercante inglese quacchero, che aveva ospitato Locke durante la sua permanenza a Rotterdam) e probabilmente con Limborch e il resto del circolo letterario che una diecina di anni prima aveva avuto Locke come suo membro onorato. Probabilmente questo era un ambiente sociale ben più congeniale a Shaftesbury che non quello inglese. In questo periodo erano i Paesi Bassi la nazione dove si potevano tenere, con la maggior libertà e il minor rischio che non nel resto d’Europa, confronti sugli argomenti che più interessavano a Shaftesbury (filosofiapoliticamorale,religione). Sembra si debba riferire a questo periodo la pubblicazione clandestina, in patria, in un’edizione incompleta della Ricerca sulla virtù e il merito, ricavata da una bozza che Shaftesbury aveva schizzato all’età di vent’anni; pubblicazione dovuta a John Toland.

Dopo oltre un anno, Shaftesbury tornò infine in Inghilterra, e dopo poco succedette al padre come Conte. Partecipò attivamente, a fianco dei Whig, alle elezioni generali del bienno 1700-1791, e ancora, ma con minor successo, a quelle dell’autunno 1701. Si dice che in quest’ultima occasione Guglielmo III espresse il suo apprezzamento per i servizî di Shaftesbury, offrendogli la carica di segretario di Stato, che tuttavia Shaftesbury rifiutò, a causa del progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute. Se il Re fosse vissuto più a lungo, probabilmente l’influenza di Shaftesbury a corte sarebbe stata maggiore. Dopo le prime due settimane di regno della regina Anna, Shaftesbury, privato del suo titolo di vice-ammiraglio di Dorset, tornò alla propria vita ritirata, anche se da alcune sue lettere si evince che mantenne un forte interesse per la politica.

Nell’agosto del 1703 si stabilì nuovamente nei Paesi Bassi, nel cui clima sembrava avere, al pari di Locke, grande fiducia. Tornò in Inghilterra nel 1704, fortemente provato nella salute. Nonostante il soggiorno all’estero gli avesse prodotto, sull’immediato, dei benefici, la malattia progredì inesorabilmente fino a diventare cronica. Shaftesbury ridusse quindi le sue attività a mantenere la corrispondenza e a scrivere, completando e rivedendo, i trattati in seguito raccolti nelle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi. Continuò tuttavia ad avere un grande interesse per la politica, sia interna che estera, in particolar modo per la guerra contro la Francia, guerra che sostenne in maniera entusiasta.

All’età di quasi quarant’anni si sposò, e anche in questo caso sembra che si decidesse al passo dietro le insistenti richieste dei suoi amici, principalmente per garantire un successore al suo titolo. Oggetto della sua scelta (o, meglio, della sua seconda scelta, in quanto un primo progetto di matrimonio era già fallito in breve tempo) fu Jane Ewer, la figlia di un gentiluomo di Hertfordshire. Il matrimonio ebbe luogo nell’autunno del 1709, e il 9 febbraio dell’anno successivo l’unico figlio di Shaftesbury nacque a Reigate, nelSurrey; è ai suoi manoscritti che dobbiamo molti dettagli sulla vita di Shaftesbury stesso. L’unione sembrò felice, anche se Shaftesbury si sentiva troppo coinvolto dalla sua vita matrimoniale.

Se si esclude, nel 1698 la prefazione a uno scritto di Whichcote (esponente della scuola di Cambridge), Shaftesbury non pubblicò nulla di proprio sino al 1708. A quel tempo iCamisardi francesi attiravano l’attenzione grazie alle loro folli stravaganze, rispetto alle quali erano stati proposte diverse misure repressive, ma Shaftesbury affermò che non c’era nulla di meglio per combattere il fanatismo, se non la presa in giro e il buon umore. A sostegno di questa sua visione, scrisse Lettera sull’entusiasmo, datata al settembre1707, che venne pubblicata in forma anonima l’anno seguente, provocando numerose risposte. Nel maggio del 1709 tornò sull’argomento dando alle stampe un’ulteriore lettera, titolata Sensus communis, e nello stesso anno pubblicò anche Il moralista, seguito l’anno successivo dal Soliloquio o consiglio a un autore. Pare che nessuno di questi titoli sia stato pubblicato col suo nome o con le sue iniziali. Nel 1711 comparvero i tre volumi delle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni, tempi, anch’esse in forma anonima e prive persino del nome dello stampatore. Questi volumi contenevano, oltre ai quattro trattati già citati, le inedite Riflessioni miscellanee e la Ricerca sulla virtù e il merito, che si segnalava esser già stata pubblicata in forma imperfetta, ora corretta e intera.

A causa dell’aggravarsi della malattia, Shaftesbury fu costretto alla ricerca di un clima più caldo; nel luglio del 1711 partì per l’Italia. A novembre si stabilì a Napoli, dove visse per più di un anno. La sua principale occupazione, in questo periodo, sembra sia consistita nella preparazione di una seconda edizione delle Caratteristiche, che fu pubblicata nel1713, poco dopo la morte. La copia, minuziosamente corretta di suo pugno, è attualmente conservata nel British Museum. Durante il soggiorno a Napoli fu impegnato anche nella stesura di brevi saggi (poi inclusi nelle Caratteristiche), e all’abbozzo di Plastica, o l’origine, il progresso e la potenza delle arti del disegno, che però era appena iniziato quando sopraggiunse la morte (venne pubblicato comunque nel 1914, col titolo Caratteristiche seconde o il linguaggio delle forme).

Gli eventi che precedettero il Trattato di Utrecht, che Shaftesbury vedeva come un segnale dell’abbandono dell’Inghilterra da parte dei suoi alleati, lo preoccupò particolarmente durante gli ultimi mesi di vita. Non visse comunque sino a vederne la ratifica (che avvenne il 31 maggio 1713), in quanto morì il mese precedente, il 4 febbraio 1713. Il suo corpo fu riportato in Inghilterra e sepolto nella residenza di famiglia nel Dorsetshire. Il suo unico figlio gli successe come IV Conte, mentre il suo pronipote, VII Conte, divenne un famoso filantropo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo stralci dell’introduzione del curatore del volume David Bidussa

“Una nuova prospettiva”

Nel Settecento per dire «fanatismo» si diceva «entusiasmo». Il primo a distinguere tra le due parole è Voltaire nel suo Dizionario filosofico. Fanatismo, scrive, è una degenerazione della superstizione. Diverso l’entusiasmo, che «è il frutto della religiosità male intesa», in cui la ragione può essere sopraffatta. Non diversamente Hume: la superstizione è figlia della supremazia del clero, della paura e del panico; l’entusiasmo è quella condizione di spirito, altrettanto fondata sull’intolleranza, ma effetto della liberazione dell’individuo dai poteri forti, soprattutto dal clero. In questo senso, a differenza della superstizione, l’entusiasmo sarebbe amico della libertà civile. Entrambi si nutrono direttamente di ciò che all’inizio del Settecento aveva scritto Shaftesbury nella sua Letter concerning Enthusiasm, che in questa edizione abbiamo scelto di tradurre come Lettera sul fanatismo per il doppio significato che la parola «entusiasmo» contiene nell’opera: fanatismo, appunto, da un lato; resistenza a una condizione di sopruso dall’altro. Un tipo di resistenza che nasce da una visione della politica la cui finalità è quella di «salvare le anime» e il cui portatore si sente in «missione per conto di Dio, in nome di un bene da raggiungere». «Salvare anime – scrive Shaftesbury – è diventata ormai la passione eroica degli spiriti esaltati e, in qualche modo, la principale preoccupazione del magistrato e il vero e proprio fine del governo.» È questa la matrice degenerativa di qualsiasi forma di credo, in religione come in politica.

“Prima della violenza”

Shaftesbury ci spiega che la scelta intransigente che all’inizio del Settecento fonda le correnti del fanatismo religioso, non nasce né è la conseguenza di un pensiero religioso, ma è data dalla rivolta contro un sistema che si ritiene «falso», che promette un «bene falso» e contro il quale non può esserci né tregua né pietà. È la rivolta di coloro che si sentono depositari della verità, testimoni di Dio, e che perciò non pensano che il perdono né la comprensione siano una via di riconciliazione in grado di redimere e «salvare» i reprobi. Ma è anche una rivolta di coloro che scoprono la verità della parola di Dio come arma contro la corruzione, come via per la salvezza. Un modello di comportamento fondato sulla rinuncia e che legge la rinuncia come virtù La violenza non necessariamente è inclusa in questo paradigma. La premessa necessaria infatti più che nella violenza consiste nella natura intransigente e radicale della scelta nei confronti del modello di società (e dei suoi valori) da cui si dichiara di voler fuoriuscire. Su questa caratteristica dobbiamo fissare la nostra attenzione. Questa scelta non è solo contrassegnata dall’orgoglio (che certamente c’è ed è rilevante) ma comunica anche la domanda di dignità che chi si rivolta esprime nei confronti di una società che considera corrotta. L’intransigente presenta se stesso come appartenente a un mondo di liberati, soprattutto di non sottomessi. Questa scena e questa scelta non si sono verificate per la prima volta nelle periferie di Europa, in una delle tante banlieues della rabbia. Esprimono una storia e un sentimento che prima degli ultimi anni hanno avuto almeno altre due occasioni di manifestazione: all’inizio degli anni Ottanta e vent’anni dopo. Nel primo caso la meta era l’Afghanistan, vent’anni dopo l’Iraq. Oggi il fenomeno è numericamente più consistente ma non toglie che risponda anche a una crisi complessiva appunto di promesse non mantenute, al crollo del mito emancipativo in Occidente. Tuttavia questa scena si è svolta in un luogo già definito e compiuto molto tempo fa. Questa storia ci riguarda direttamente.

La scena è un palazzo vescovile; il tempo circa otto secoli fa; il luogo è Assisi. Un giovane benestante decide che la qualità di vita che la sua famiglia gli offre non è fatta per lui, non è quella che desidera. Non solo la rifiuta, ma la ritiene contraria ai principi cui attenersi. Il segno del tradimento. Perciò decide di assumerne un’altra. Per rendere radicale la sua scelta fa un gesto pubblico e plateale in modo da rendere impossibile la revoca. Non vuole essere né solitario né unico, tant’è che chiede che anche altri facciano lo stesso gesto e si uniscano a lui. L’entusiasmo, l’intransigenza, la radicalizzazione non sempre hanno parlato la lingua del darsi e dare morte. Non sempre hanno seguito la strada della violenza e del sangue, ma hanno sempre usato il vocabolario dell’irriducibilità della scelta e dell’impossibilità di mediazione. Tutto questo è la premessa che può tramutarsi nella cultura del dare e darsi morte oppure in quella del rifiuto radicale. Comunque sia, nel suo lessico non è prevista la possibilità di revoca e dunque di compromesso. Anche per questo, inaspettatamente, ma non impropriamente, la storia dell’entusiasmo e le parole di Shaftesbury ci riguardano e, soprattutto, più che a noi, parlano di noi. E delle nostre icone.

Shaftesbury, LETTERA SUL FANATISMO. Introduzione di David Bidussa, Edizioni Chiarelettere Milano 2016, 8 euro.

L’Infiltrato. Il PCI e la lotta alle BR. Intervista a Vindice Lecis

cop.aspxDurante gli anni di piombo il Partito comunista fu in prima linea nella battaglia contro il terrorismo rosso, che minava i principi democratici del paese e la forza stessa del partito, al suo massimo storico di consenso. Oltre al lavoro alla luce del sole, il Pci operò per individuare e denunciare i soldati della lotta armata e i loro fiancheggiatori, svolgendo anche un’azione d’intelligence parallela, in collaborazione con gli organi dello Stato.

In quel periodo Ugo Pecchioli, braccio destro di Berlinguer, concordò con il generale Dalla Chiesa un’importante operazione segreta: l’infiltrazione in un gruppo di fuoco di un militante del partito, che avrebbe dovuto riferire al comandante dell’antiterrorismo. Un episodio accertato e documentato, sebbene ancora coperto per molti aspetti dal necessario riserbo, che non ha avuto un’adeguata considerazione storica.

Alternando fatti reali e finzione narrativa, questo libro ricostruisce l’attività dei comunisti italiani contro il terrorismo nella stagione violenta tra il 1978 e il 1979: le azioni di spionaggio, i documenti interni, le riunioni riservate, il lavoro di controllo e denuncia nelle fabbriche.

Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore Vindice Lecis. Lecis è giornalista al gruppo Espresso. È autore di numerosi romanzi storici e saggi sulla politica italiana del Novecento e sulla storia antica della Sardegna.

Vindice, incominciamo dalla storia  di questo tuo libro davvero interessante. Già ti eri occupato degli anni drammatici della Repubblica. Come nasce il libro?

“Dall’esigenza di raccontare un episodio quasi sconosciuto della lotta al terrorismo, vale a dire l’infiltrazione di un militante del partito comunista italiano nelle Brigate Rosse. Fatto già rivelato in rare occasioni da alcuni studiosi ma mai assunto a paradigma della coraggiosa battaglia del partito più importante della sinistra italiana dell’epoca contro l’eversione armata. Battaglia a viso aperto e senza ambiguità. La documentazione è scarna ma la vicenda mi è stata anche confermata da chi è stato uno dei protagonisti dell’operazione”.

Ti muovi bene tra finzione letteraria e realtà vera (l’infiltrazione di un militante del PCI nelle BR, con l’accordo tra Ugo Pecchioli e il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa). Dalla lettura del libro emerge un quadro devastante dell’Italia di quegli anni. Dall’omicidio Moro a quello di Guido Rossa. Senza dimenticare la violenza di Autonomia Operaia. Emergono anche le gravi colpe dello Stato (la presenza della loggia massonica sovversiva P2). Qual è stato il risultato operativo concreto di questa infiltrazione?

L’infiltrazione fece avviare un lavoro di intelligence che portò, qualche anno dopo, allo smantellamento della colonna romana delle Br. E’ paradossale, se posso aggiungere, che mentre un partito metteva a disposizione un suo uomo, i servizi di informazione e sicurezza fossero infiltrati dalla P2, definita poi come organizzazione criminale ed eversiva dalla Commissione Anselmi e sciolta nel 1982.

Il protagonista quello vero è ancora vivo. Quanto tempo è durata la sua infiltrazione?

Il protagonista è vivo, a quanto ne so. Il suo coraggioso lavoro al servizio della Repubblica durò probabilmente poco meno di sei mesi. Ma la sua attività di infiltrato era cominciata prima, dentro un gruppo violento dal quale spesso le organizzazioni armate reclutavano militanti da utilizzare in attività illegali

Nel libro emerge anche la potente capacità organizzativa del PCI, un partito costruito sulla militanza e su quadri altamente motivati e “professionalizzati”. La figura, letteraria, del quadro Sanna, una sorta di responsabile dell’intelligence, uomo di fiducia di Pecchioli è emblematica. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?

Antonio Sanna è uno di quei tipici quadri comunisti, disciplinati, riservati, rigorosi, impegnati nelle attività classiche del Pci, partito che all’epoca vantava un milione e seicento mila iscritti e che godeva del consenso elettorale di un italiano su tre. Durante gli anni di piombo molti di questi quadri furono utilizzati anche per studiare il fenomeno del terrorismo, dell’eversione. Quando dico studiare intendo proprio lo scandagliare la pletora di organizzazioni armate e gruppi con l’analisi dei documenti, le rivendicazioni, il linguaggio. E dove venivano messi a fuoco gli uomini che fiancheggiavano o aiutavano il terrorismo. Il Pci aveva antenne in ogni luogo, persino negli apparati dello Stato. Molti dirigenti come Antonio Sanna erano presenti negli apparati delle federazioni e nei luoghi di lavoro. Molto del lavoro del Pci fu quello di mantenere viva la mobilitazione del mondo del lavoro contro il terrorismo, di fatto mettendo ai margini qualche settore di ambiguità e collusione con ambienti eversivi, o forse solo di simpatia.

Nel libro c’è la presenza di fonti documentarie  della sezione, diretta da Ugo Pecchioli (il Ministro dell’Interno ombra del PCI),  “Problemi dello Stato”.Questa sezione ha prodotto una documentazione fitta e ricca di analisi sul fenomeno terroristico. Queste informazioni dove sono conservate oggi?

“Sul sito internet del Senato della Repubblica, su concessione dell’’istituto Gramsci che conserva il grande patrimonio documentale del Pci, è consultabile parte delle carte del Fondo Pecchioli. Ugo Pecchioli era il dirigente comunista stretto collaboratore di Enrico Berlinguer e responsabile della sezione problemi dello stato che fu il fulcro dell’antiterrorismo comunista. Nel Fondo ci sono documenti di analisi, alcuni ad uso interno, dove si analizza il fenomeno terroristico con grande accuratezza e si definiscono proposte di lotta all’eversione”.

IL PCI sposò la linea della fermezza dello Stato contro ogni trattativa, per liberare Moro, con le BR. E nel libro la durezza di posizione è esposta chiaramente.  Pensi che non ci fossero altre strade? Qual è il dato politico del libro?

“Il mio parere è che la linea della fermezza fu la necessaria risposta della Repubblica a chi, come le Br, puntavano a costringere lo Stato a scendere a patto e a ottenere un riconoscimento, uno status politico. Altre strade, sinceramente, non ne vedo nemmeno oggi che sono trascorsi decenni. Il terrorismo comunque il riconoscimento lo ebbe ugualmente. Mi spiego: Moro era inviso agli Usa e ai britannici per la sua politica di apertura al Pci. L’agguato di via Fani e la sua morte di Moro fecero deragliare un progetto di intesa politica e costrinsero il Pci ad appoggiare dall’esterno un governicchio, quello di Andreotti, di cui non faceva parte. Un appoggio che portò a un logoramento dei comunisti e una flessione elettorale, sotto un fuoco di fila fortemente polemico della destra Dc e dei socialisti e l’ aperta ostilità degli ambienti atlantici. D’altra parte il progetto brigatista era quello anzitutto di colpire il Pci e la sua strategia di avanzata democratica.

Siamo negli anni bui della nostra Repubblica. Conosciamo tanto ma ci sono molti lati oscuri sulle BR. Quali sono secondo te le cose da chiarire ancora?

La vicenda Moro è chiarita solo in parte. Da tempo emergono oscuri collegamenti con ambienti sia di Gladio che della criminalità organizzata. Come sono da chiarire meglio non pochi e inquietanti aspetti relativi all’individuazione della prigione di Moro e ad alcune bizzarre operazioni brigatiste come il trasporto d’armi in pieno Mediterraneo su barca a vela. Inoltre non comprendo, o forse lo capisco bene, il silenzio brigatista su quelle carte trovate in via Montenevoso a Milano in un covo Br che parlavano di Gladio. Mi riferisco al patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano per usare un’espressione fortunata del senatore Sergio Flamigni che ha dedicato parte della sua vita a scardinare alcuni misteri. Lo scopo è quello di impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro: pensiamo che ancora non conosciamo l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani.

I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia.

“La verità non ha tempo: non è mai troppo tardi per raccontarla. Non è mai troppo tardi per mettere insieme tutti i tasselli di un mistero di Stato.”

IL LIBRO
E’ uscito oggi nelle librerie, per Chiarelettere, questo libro-inchiesta sulla strage di Bologna avvenuta il 2 Agosto 1980. È arrivato il momento, dopo trentasei anni, di spiegare fatti rimasti finora in sospeso. Gli italiani hanno assistito inermi ad attentati di ogni genere: omicidi di militanti politici, poliziotti, magistrati. E stragi crudeli, terribili, come quella alla stazione di Bologna dell’agosto 1980 che causò 85 morti e 200 feriti e che, nonostante la condanna definitiva dei tre autori, continua a essere avvolta nel mistero. Dopo interminabili indagini giudiziarie e rinnovate ipotesi storiografiche, gli autori di questo libro, esaminando i materiali delle commissioni Moro, P2, Stragi, Mitrokhin, gli atti dei processi e degli archivi dell’Est, e documenti “riservatissimi” mai resi pubblici, hanno tracciato una linea interpretativa sinora inedita, restituendo quel tragico evento a una più ampia cornice storica e geopolitica, senza la quale è impossibile arrivare alla verità. La loro inchiesta chiama in causa la “doppia anima” della politica italiana, le contraddizioni generate dalla diplomazia parallela voluta dai nostri governi all’inizio degli anni Settanta e, in particolare, lo sconvolgimento degli equilibri internazionali provocato dall’omicidio di Aldo Moro, vero garante di un patto con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina finalizzato a evitare atti terroristici nel nostro paese. Senza questo viaggio a ritroso nel tempo è impossibile capire la stagione del terrorismo italiano culminata nell’esplosione del 2 agosto 1980.

GLI AUTORI
Rosario Priore è stato uno dei magistrati più impegnati a ricercare la verità sul terrorismo in Italia, soprattutto nelle sue matrici internazionali. Molte le inchieste da lui condotte: Ustica, Moro, l’attentato a papa Giovanni Paolo II, le stragi di stampo mediorientale. Ha fatto parte di commissioni internazionali sul terrorismo e la criminalità organizzata. È autore di libri di successo, tra cui “Intrigo internazionale” (con Giovanni Fasanella, Chiarelettere 2010), “Chi manovrava le Brigate rosse?” (con Silvano De Prospo, Ponte alle Grazie 2011), “La strage dimenticata” (con Gabriele Paradisi, Imprimatur 2015). Valerio Cutonilli, avvocato, da anni è impegnato a ricercare la verità sulla strage di Bologna. è autore di “Acca Larentia. Quello che non è stato mai detto” (con Luca Valentinotti, Trecento 2010) e di “Strage all’italiana” (Trecento 2007).

Per gentile concessione dell’Editore un estratto del libro.

La pista dimenticata di Rosario Priore
La verità non ha tempo: non è mai troppo tardi per raccontarla. Non è mai troppo tardi per mettere insieme tutti i tasselli di un mistero di Stato. Sollevare il velo sulla strage di Bologna è un dovere soprattutto per chi, come me, ha indagato a lungo sulle vicende più torbide della storia dell’Italia repubblicana e conosce bene i limiti della verità giudiziaria. È arrivato il momento, dopo trentasei anni, di spiegare cose che ancora rimangono in sospeso. E per farlo, per tessere il filo sottile ma tenace che collega questo eccidio al contesto nazionale e internazionale dell’epoca, è di vitale importanza che il lettore tenga a mente alcune date e luoghi che spesso torneranno in questo libro. Veniamo ai fatti. Al momento dell’arresto a Roma, la notte del 9 gennaio 1982, il terrorista rosso Giovanni Senzani viene trovato in possesso di un appunto, scritto di suo pugno, che riassume i contenuti di un colloquio avuto a Parigi con Abu Ayad, capo dei servizi segreti dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Quest’ultimo confida al leader brigatista che le recenti azioni terroristiche avvenute in Europa celano la regia dell’Urss, intenzionata a sanzionare la politica dei paesi europei in Medio Oriente. Senzani annota uno dei tre attentati elencati da Ayad con la sigla «Bo», che io – in qualità di giudice titolare dell’inchiesta, che indagava sulle azioni compiute a Roma dalle Brigate rosse a partire dal 1977 –, non senza sorpresa, interpreterò come un evidente riferimento alla strage avvenuta alla stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980. Invio copia del documento ai colleghi emiliani che stanno indagando sul la carneficina. La notizia, tuttavia, non si rivelerà di alcuna utilità. A riconoscerne l’importanza sarà invece Carlo Mastelloni, il magistrato del Tribunale di Venezia che condurrà in modo esemplare l’istrut toria sul traffico di armi tra l’Olp e le Brigate rosse. Altro fatto saliente. Poche settimane dopo, interrogo Roberto Buzzatti. Il brigatista pentito riferisce di aver assistito a un in contro tra Senzani e un certo Santini, un uomo del Kgb vicino ai servizi segreti italiani e legato a una persona che conosce gli indicibili retroscena della strage di Bologna. L’identikit di Santini mi lascia sgomento per l’incredibile somiglianza con Pietro Musumeci, l’ufficiale del Sismi in seguito condannato per il depistaggio dell’inchiesta bolognese. Ma la differenza di altezza tra i due soggetti porta a escludere che Musumeci sia realmente l’uomo descritto da Buzzatti. E anche quella pista si rivela infruttuosa. Sempre nel 1982, all’aeroporto di Fiumicino, viene arrestata Christa-Margot Fröhlich. La terrorista tedesca trasporta una valigia contenente un potente esplosivo e alcuni detonatori. Chiamato a condurre anche quell’inchiesta, appuro i rapporti tra la donna e l’Ori, il gruppo filopalestinese di «Carlos lo Sciacallo», un pericolosissimo terrorista venezuelano legato agli apparati dell’Est, attualmente detenuto in Francia dove sta scontando l’ergastolo. Nessuno però mi avvisa che un dipendente del Jolly Hotel di Bologna, vista la foto della Fröhlich sul giornale, aveva segnalato ai magistrati bolognesi una forte somiglianza con una signora tedesca presente in albergo il giorno della strage. Può sembrare strano, ma apprendo il fatto solo nel 2005, dopo che la commissione parlamentare Mitrokhin acquisisce copia del verbale con le sommarie informazioni testimoniali. I commissari di maggioranza della Mitrokhin, infatti, stanno vagliando un’ipotesi investigativa sulla strage alla stazione, ignorata per venticinque anni, che rende finalmente comprensibili gli indizi emersi nelle mie vecchie istruttorie. La nuova pista nasce dopo una clamorosa scoperta effettuata da Gian Paolo Pelizzaro, giornalista e consulente della stessa commissione. Pelizzaro rinviene presso la Questura di Bologna alcuni documenti da cui risulta la presenza in città, la mattina del 2 agosto 1980, di Thomas Kram, un altro terrorista tedesco sospettato di militare proprio nel gruppo filopalestinese di Carlos lo Sciacallo. Secondo i commissari di maggioranza, la presenza di Kram è correlata all’attentato, concepito e realizzato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), gruppo filosovietico affiliato all’Olp, per punire l’Italia. All’inizio degli anni Settanta, infatti, il nostro governo aveva stipulato un’intesa segreta con le organizzazioni della resistenza palestinese – il cosiddetto «lodo Moro» – che consentiva a queste ultime di trasportare armi nel nostro territorio in cambio dell’impegno a non compiere attentati. Il patto viene violato nel novembre del 1979 con l’arresto, a Bologna, di Abu Anzeh Saleh, esponente dell’Fplp coinvolto nel traffico dei missili terra-aria Strela scoperto dai carabinieri a Ortona nei giorni precedenti. Il libro comincia proprio da questo evento, frutto della situazione tesa tra Usa e Urss, negli anni della Guerra fredda, che non risparmia il nostro paese e, seguendo l’iter di quelle armi, svela l’intrigo internazionale allora in atto. La condanna dell’espo nente palestinese, nonostante gli inviti alla clemenza rivolti dal Sismi ai magistrati di Chieti e il pubblico disconoscimento dell’accordo da parte del premier dell’epoca, Francesco Cossiga, potrebbe aver indotto l’Fplp a formulare reiterate minacce e poi a compiere l’attentato ritorsivo alla stazione di Bologna. Come accade spesso in Italia, purtroppo, il confronto sulle nuove risultanze cede subito il passo a polemiche di natura politica. La pista palestinese viene contestata dai commissari di minoranza della Mitrokhin, che invitano i colleghi a rispettare le sentenze sulla strage. Nel 1995, infatti, i terroristi neri dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro vengono condannati in via definitiva quali autori materiali dell’attentato. Nel 2007 passa in giudicato anche la condanna di un terzo neofascista, Luigi Ciavardini, processato a parte in quanto nell’agosto del 1980 era addirittura minorenne. Sempre nel 2005 la Procura della Repubblica di Bologna riapre l’indagine sulla strage per verificare la pista della ritorsione palestinese. Nel 2011 il pm Enrico Cieri iscrive nel registro degli indagati Kram e Fröhlich, ma l’inchiesta viene archiviata dal gip Bruno Giangiacomo il 9 febbraio 2015. Nella richiesta di archiviazione, motivata dall’insufficienza probatoria, il pm Cieri rileva «la persistente ambiguità di un elemento di fatto, storicamente accertato e non compiutamente giustificato: la presenza a Bologna del terrorista tedesco Thomas Kram, esperto di esplosivi, la mattina del 2 agosto 1980». In quell’esatto momento nasce l’idea del libro, che volutamente abbiamo suddiviso in due parti: una prima in cui vengono illustrati la genesi del lodo Moro tra l’Italia e i palestinesi e il ribollente contesto geopolitico internazionale prima della strage; e una seconda che ha per punto focale la strage con le relative indagini e le eclatanti scoperte. Abbiamo scelto questa formula cosicché il lettore arrivi al 2 agosto 1980 con tutti gli elementi a disposizione per capire e, dunque, giudicare.

Valerio Cutonilli – Rosario Priore, I segreti di Bologna.
La verità sull’atto terroristico più grave della storia d’Italia,
Edizioni Chiarelettere, Milano 2016

Il volto sinistro della globalizzazione. Intervista a Paolo Borgognone

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La Brexit si sta rivelando per quello che è: un inganno populista. E purtroppo l’Europa è attraversata dall’inganno populista. E questo inganno ha il volto di Farage, Orban, Le Pen, Salvini, Grillo (Con le sue specificità). Insomma questa “internazionale” euroscettica si sta facendo largo nel dibattito politico europeo. Per dirla con Bauman l’Europa sta vivendo una “meta crisi”che tocca il suo modo d’essere. In questo scenario s’ inseriscono le forze populiste con il loro “sovranismo”. E’ il loro grimaldello usato per scardinare l’Unione Europea. Un grimaldello deleterio. Per capire cos’è il “sovranismo”, quale radici ha e quali sono le sue “ricette”, abbiamo intervistato un giovane studioso piemontese Paolo Borgognone. Potremmo definirlo uno studioso ad indirizzo “putiniano”(da Vladimir Putin) . L’intervista può essere considerata come documento utile per comprendere certi radicalismi politici.

Borgognone, incominciamo dal titolo del suo libro: “L’immagine sinistra della globalizzazione”. Lei un po’ gioca sulle parole, infatti la sua opera è una critica alla Sinistra che, secondo lei, si è piegata al radicalismo liberale. E’ cosi?

La sinistra, nei Paesi dell’Europa occidentale è, per un definizione, l’apparato duale affidabile di gestione dei processi di modernizzazione capitalistica, a livello culturale, politico ed economico. La sinistra liberaldemocratica o socialdemocratica è il versante dominante di questo apparato, la sinistra che nel libro definisco movimentista e bobo-chic ne costituisce invece il versante dominato e subalterno. Nell’ambito di un capitalismo liberale culturalmente ispirato a una retorica che trae i propri spunti direttamente dalla filosofia della “fine capitalistica della Storia” e dall’antropologia del desiderio illimitato quale surrogato postmoderno della precedente mancata realizzazione delle promesse di emancipazione cosmopolitica vagheggiate dal comunismo storico novecentesco, è del tutto naturale e comprensibile che la sinistra connoti se stessa come la parte politica più propensa a propugnare un surplus di modernizzazione in fatto di “libertà” individuali al consumo e al desiderio vendendo tutto ciò a un’opinione pubblica di ceto medio (peraltro ormai ampiamente addomesticata al Verbo politically correct) quale sorta di nuova palingenesi “democratica” foriera di perpetuo “progresso” e imminente “emancipazione” individuale attraverso il consumo e, soprattutto, il desiderio. La sinistra politically correct è, oggi, il braccio politico della “società radicale dei consumi e dei desideri di massa”, così come il polo berlusconiano lo fu, in larga parte, della “società dello spettacolo” televisivo. E’ ovvio che queste fazioni politiche rappresentino le due facce della stessa medaglia.

 

Veniamo alla sua critica al globalismo (o mondialismo). Chi è dotato di un minimo di senso critico sa perfettamente che la globalizzazione produce diseguaglianze insopportabili (però anche opportunità). Quindi si vede il volto “sinistro” della globalizzazione. Ma il punto fortemente critico, per me assolutamente inaccettabile, è la soluzione che lei propone per contrastare il “mondialismo”: ovvero il così detto “sovranismo” (patriottico, ecc.). In Europa è quello delle destre xenofobe, le destre dei muri contro gli immigrati, le destre che vogliono il ritorno alle monete nazionali… Il sovranismo è il rimedio peggiore della malattia… Insomma applicato all’Europa il sovranismo porterebbe solo disastri…

 

La globalizzazione liberale produce alienazione, nomadismo e fine delle identità tradizionali dei popoli, identità che il capitalismo odierno vuole abbattere in quanto i precedenti retaggi culturali comunitari (dall’idea di patria, alla religione e fino al criterio di organizzazione dell’economia su basi socialiste e non liberali) sono avvertiti come un ostacolo al dispiegarsi inarrestabile dei processi di omogeneizzazione cosmopolitica funzionali alla dittatura dell’economia di “libero mercato”. Anche la famiglia tradizionale è oggi sotto attacco, per motivazioni analoghe. Si vorrebbe una società articolata più sullo stereotipo relazionale veicolato dai serial tv americani che non sui valori cavallereschi che hanno edificato il mito e la realtà dell’antica e originaria civiltà europea. Per quanto riguarda le destre, non bisogna correre il rischio di unificare in un unico discorso di aprioristica condanna forze politiche assai diverse. Per esempio, in Serbia il Partito Radicale Serbo è l’unico movimento che si batte apertamente contro la globalizzazione liberale, la Ue, il Fmi e la Nato. Si tratta di un partito culturalmente di destra che però ha compiuto un percorso di avvicinamento alla sinistra per quel che concerne i temi dell’economia e della battaglia (internazionalista) anticoloniale. Lo stesso ha fatto, più recentemente, in Francia, il Front National. Io, sulla scorta di pensatori di indiscusso spessore, come Jürgen Elsӓsser, credo che i partiti di destra siano, di per sé, espressione di un mito incapacitante e che potranno assumere connotati anticapitalistici e di effettiva originalità antisistemica e autenticamente “sovranista” nel momento in cui abbandoneranno qualsivoglia nostalgismo e tentazione alla retorica grettamente anticomunista (peraltro, dopo il 1989, in totale assenza di comunismo) per intavolare una seria e fattiva ipotesi di collaborazione, in chiave anti-liberale ed eurasiatista, con la parte più consapevole (e intellettualmente non agorafobica) della sinistra politica.  

 

Apriamo una parentesi: ho trovato esagerato il peso che ha dato al Partito Radicale nell’essere tra le cause della crisi della sinistra (PCI) italiana. Non trova che sia più profonda la causa? Insomma per lei Sinistra e diritti umani non devono andare di pari passo?

 

Il Partito Radicale, con l’ideologia che ha sempre propugnato, non fu la causa della crisi della sinistra italiana bensì l’agente catalizzatore che agevolò e accelerò la metamorfosi della sinistra dal comunismo al radicalismo liberale, senza transitare dalla stazione intermedia della socialdemocrazia. La metamorfosi della sinistra in partito radicale di massa fu diagnosticata, in passato, con estrema lungimiranza, da intellettuali ideologicamente eterogenei tra loro ma indubbiamente inscrivibili a livello di vertice nel novero del panorama culturale italiano, come Augusto Del Noce, Costanzo Preve e Maurizio Blondet. Nel mio libro, mi sono limitato a constatare il decesso politico e ideologico della sinistra, gli intellettuali che ho menzionato più sopra invece, con largo anticipo diagnosticarono la malattia che nel tempo avrebbe condotto la sinistra a questa ingloriosa fine, ossia a morire di overdose autoindotta di liberalismo, di “pannellismo” e di “dirittumanismo”. Il decesso della sinistra è altresì riconducibile alla propria totale (e ostinatamente perseguita da un certo frangente in avanti, direi almeno dal Sessantotto, ma sostanzialmente già da prima) nonché congenita assenza di anticorpi spirituali, patriottici e religiosi nel senso tradizionale del termine. Laddove, come in Russia, la sinistra possedeva questi anticorpi e non era corrotta dal liberalismo, dal settarismo e dal soggettivismo anarchico, non solo è sopravvissuta ma si attesta, ancora oggi, attorno al 20 per cento dei voti popolari.

 

Torniamo ancora alla sua analisi: lei critica le mire espansive dell’atlantismo (Nato) e prova a delineare una “alternativa” chiamata “euroasiatismo”. Sulla base di questa ideologia pone come “player” principale Vladimir Putin. Putin, per me, è l’emblema di un “sovranismo estremo” con tutto quello che ne consegue sul piano della concezione dello stato e della democrazia. Se l’Europa deve essere riformata, e deve esserlo pena la sua morte, la strada maestra è quella di Spinelli ovvero il federalismo europeo. Insomma Putin e la sua “democratura” non può essere il futuro dell’Europa… Lei pensa invece di si?

 

Non definirei “democratura”, un termine coniato ad arte dal mainstream liberale a scopo palesemente diffamatorio, il modello politico della Russia odierna. Questo sistema politico è definibile invece come «democrazia sovrana» o «democrazia governante» e si connota, al netto dei limiti che pure contempla, come infinitamente più democratico rispetto alle decrepite liberaldemocrazie occidentali, dove il voto popolare non ha più alcun significato perché, come disse a mo’ di esempio nel 2013 Mario Draghi, l’Italia «ha il pilota automatico» per cui, a prescindere da chi vinca le elezioni, la direzione economica, liberista (e quella politica, liberale), cui il Paese avrebbe dovuto sottostare, sarebbe stata decisa altrove, ossia fuori dal contesto parlamentare elettivo, da parte di una ridda di banchieri e tecnocrati rappresentanti interessi speculativi privati e non la volontà generale dei cittadini. Peraltro, cinquant’anni di retorica cosmopolita e filo-capitalista da parte di pannelliani e sodali di ambo gli schieramenti in gara per l’occupazione delle poltrone parlamentari ha favorito un processo di riconfigurazione neoliberale delle mentalità per cui oggi i banchieri internazionali e tutto il loro circo politico-mediatico di complemento vengono effettivamente percepiti come il “meno peggio” che ci si possa aspettare da parte di un ceto medio di ex baby boomers viziati e totalmente adagiati sulle sponde della cultura della liberalizzazione sociale integrale. Per quanto riguarda la rifondazione dell’Europa sulle spoglie della Ue, al federalismo liberale di Spinelli preferisco, personalmente, il federalismo identitario proposto da Alain de Benoist.  

 

L’“alternativa sovranista” non è credibile nemmeno sul fronte dei diritti umani. Anzi si pone agli antipodi della società aperta. Lei non vede questo?

 

La società aperta è un’utopia liberale divenuta, nel momento in cui si è concretizzata attraverso il consolidamento delle strutture politiche, economiche, sociali e mediatiche che ne costituiscono l’involucro burocratico e amministrativo per il controllo, la colonizzazione e la produzione sociale di massa (Ue, Nato, Fmi, Wto, sistema internazionale di banche e aziende private finanziarizzate, partiti politici liberali sistemici, sindacati collaborazionisti, Generazione Erasmus, ecc.), terrorismo imperialista all’esterno e compressione dei diritti dei popoli a una vita propria all’interno. Per cui, se si vuole salvare l’ecologia e ciò che rimane dell’etica tradizionale delle società umane abitanti il pianeta occorre stabilire un’alternativa politica, economica e culturale alla società aperta. Questa alternativa, ossia un movimento antiglobalista che ripristini la sovranità dei popoli e il primato delle culture di appartenenza di ciascuna nazione nei confronti dell’omologazione cosmopolitica, non può basarsi sulla stanca retorica dei diritti umani, che è poi la retorica a giustificazione, in nome della promozione, su larga scala, dei diritti di “libertà” al consumo, alla mobilità e al desiderio (ovvero, la “libertà” intesa come “liberazione” individuale dalle precedenti appartenenze identitarie collettive) di un individuo tanto astratto quanto, in definitiva, americanocentrico, delle guerre coloniali euro-atlantiche del XXI secolo.

 

Ho trovato sorprendente (ma fino ad un certo punto, date le sue premesse) che in più di mille pagine del suo libro non abbia speso una riga su Papa Francesco. Un critico duro dell’attuale globalizzazione finanziaria, della globalizzazione dell’indifferenza. Un Papa che dialoga con i movimenti popolari dell’America Latina. Un Papa alternativo ed è certamente un Papa antisovranista che vuole abbattere i muri di ogni tipo (dall’economia alla religione). Perché questa dimenticanza?

 

Perché la critica mossa da papa Francesco alla globalizzazione liberale è una critica che definirei buonista e in assoluto compatibile con i postulati culturali, appunto liberali, della globalizzazione e dell’imperialismo. Se penso alle “aperture” nei confronti della moda gay friendly, delle politiche obamiane e addirittura del protestantesimo operate da papa Francesco, arrivo a sostenere che il cittadino Bergoglio sia in qualche modo possessore della “doppia tessera”, di Propaganda Fide e del Partito Radicale, ma che sia quest’ultima a esercitare una sorta di primato nell’orientamento più schiettamente politico del papa… Oggi in Italia da papa Francesco a Bertinotti abbiamo un ventaglio molto ampio di personalità politiche pseudo-antagonistiche in realtà fautrici di una critica talmente compatibile della globalizzazione da risultare, in buona sostanza, un’apologia indiretta dell’esistente e, dunque, una legittimazione dell’esistente. L’elogio sperticato pronunciato da papa Francesco nei confronti della cosiddetta democrazia americana, individualista, edonista e protestante, al Congresso Usa, è lo specchio perfetto dell’abisso di “paura della verità” mascherata da ecumenismo in cui è sprofondato il cattolicesimo progressista. Personalmente, la dissoluzione del cattolicesimo non mi lascia indifferente, sebbene io sia spiritualmente più legato all’Ortodossia e all’Islam sciita rivoluzionario, perché oggi la religione dovrebbe rappresentare un baluardo contro la deriva nichilista della società e un tratto culturale fondante per costruire una prospettiva socialista orientata in chiave non materialistica e non settaria.

 

Ovviamente non condivido  assolutamente questo giudizio su Papa Francesco. Definire “buonista” la critica alla globalizzazione non è corretto anzi è sbagliatissimo. Si legga,  per fare un esempio, l’ultima enciclica del Papa la Laudato si. Una Enciclica assolutamente alternativa alla logica del sistema economico imperante. La invito ad approfondire l’opera rivoluzionaria di Francesco. E qui mi fermo . Cambiamo argomento. Da “sovranista” cosa pensa di Trump?

 

Non ho simpatia politica per Donald Trump e per molto di ciò che la sua cultura rappresenta. Donald Trump è un miliardario liberal-populista americano con fare borioso e spaccone tipico dello sceriffo dell’ultima e insignificante contea del Texas. Tuttavia, la sua avversaria alle presidenziali d’autunno, Hillary Clinton, è assai peggio e mi auguro fortemente che venga sconfitta, senza naturalmente esultare per un’eventuale vittoria di Trump. Una storica di rango, Diana Johnstone, in un suo recente e pregevolissimo libro, ha definito Hillary Clinton «la regina del caos», sottolineando gli aspetti più confacenti all’imperialismo e alla dottrina politica del cambio di regime nei Paesi non allineati al consenso di Washington del candidato “democratico” alla Casa Bianca rispetto agli esponenti repubblicani “paleoconservatori”. Hillary Clinton è la stratega politica delle guerre “umanitarie” e dei colpi di Stato postmoderni attuati con la scusa di «tutelare i diritti umani» nei Paesi renitenti all’ordine di Washington e una simile opzione geopolitica, fondata sulla promozione della dottrina del «caos costruttivo», condurrà inevitabilmente, con Hillary Clinton presidente, allo scontro finale tra l’Occidente a guida Usa e la Russia. Nel libro che ho citato, Hillary Clinton regina del caos, Diana Johnstone scrive apertamente che fu proprio l’allora first lady a convincere, nel 1999, Bill Clinton a bombardare la Serbia e oggi la squadra dei falchi liberali russofobici a guida Hillary Clinton si accinge a preparare, nel Baltico, il terreno per lo scontro frontale con la Russia.

 

Una parola sulla Brexit. Ha scritto, recentemente sul Corriere della Sera, Bernard-Henri Levy: «La “Brexit” non è la vittoria di un’“altra” Europa, ma di una “assoluta mancanza di Europa”. Non è l’alba di una rifondazione, ma il crepuscolo di un progetto di civiltà. Significherà, se non ritorna sé, la consacrazione della grigia internazionale degli eterni nemici dei Lumi e di chi ha sempre avversato la democrazia e i diritti dell’uomo». Penso che il filosofo francese abbia ragione. Alla fine il “sovranismo” diventa l’ideologia della paura dell’altro e dell’integrazione dei popoli. Lei non vede questo pericolo?

 

Una parola, prima, su Bernard-Henri Levy, che non stimo come filosofo ma che reputo un eccellente propagandista dell’imperialismo della Nato sotto copertura ideologica ultraliberale. Ricordo, due anni or sono, Bernard-Henri Levy a Kiev, intento a galvanizzare la folla televisiva dello show di piazza Maidan, uno spettacolo violento foriero di un successivo colpo di Stato anti-russo e anti-ucraino (ma rigorosamente filo-Usa) la cui manovalanza armata venne fornita da milizie indiscutibilmente scioviniste, etnonazionaliste e finanche neonaziste. Bene, laddove si colloca Bernard-Henri Levy, teorico del globalismo imperialista contemporaneo, ogni critico responsabile e radicale, nel senso di profondo, di originario, della mondializzazione, si pone sul versante opposto. Sulla Brexit: personalmente sono favorevole all’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e al ripristino della sovranità nazionale di questo Paese. Mi fa sorridere riscontrare il cambio di paradigma di 180 gradi dei giornalisti che nel 2014 si schierarono fieramente contro il referendum scozzese sulla fuoriuscita dal Regno Unito e oggi si sono invece repentinamente convertiti a strenui sostenitori dell’“indipendenza” della Scozia, ovvero della permanenza di Edimburgo nella Ue. Ci sono secessionismi buoni e secessionismi cattivi, dunque? Perché l’indipendenza della Scozia nel 2014 era avversata dal 100 per cento dei media televisivi e della carta stampata mentre oggi è sostenuta all’unanimità dal circo mediatico? Infine, una nota sui “giovani”, disincantati e privi di coscienza infelice: hanno votato in maggioranza per il Remain, ma ha votato soltanto il 36 per cento dei giovani aventi diritto. Ciò significa che, sostanzialmente, alla maggioranza dei teenagers frega nulla della Gran Bretagna e poco o niente della Ue, a loro interessa soltanto la perpetuazione, a oltranza, della “società del divertimento” illimitato. Fortunatamente, votando Leave, i buoni padri di famiglia britannici hanno salvaguardato il futuro dei loro figli dediti alla sottocultura dello “svago”, banalmente cosmopoliti e politicamente disimpegnati.