Alla ricerca dell’Europa perduta. Intervista a Franco Cardini

Dopo l’accordo tra Ue e Grecia della scorsa settimana, nell’opinione pubblica europea si è sviluppato un dibattito molto serrato sull’Europa. Ovvero se ha ancora un senso l’Europa . Un dibattito che ha come protagonista la Germania di Angela Merkell e del suo potentissimo ministro delle Finanze Wolfang Schauble (il “falco” rigorista).
Per Jurgen Habermas, intellettuale di punta tedesco, in una intervista al quotidiano inglese “The Guardian”, uscita ieri su Repubblica, ha affermato che “l’egemonia di Berlino è contro l’anima dell’Europa” . Anche nel nostro Paese si sta sviluppando questo dibattito sull’Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con lo storico Franco Cardini.

Professor Cardini, molti osservatori, dopo l’accordo, giudicato “punitivo”, tra UE e Grecia, hanno scritto che è “finita l’Europa” o meglio una certa idea di Europa (vista come un progetto politico). Per Lei è così?

È difficile rispondere, io temo che un progetto politico dell’Europa non ci sia mai stato, debbo dire che mi sento ingannato. Mi sentivo anche ingannato fin dall’inizio perché ho visto che l’Europa che stava nascendo era in realtà lo sviluppo della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio che poi è diventata Comunità Economica Europea e che poi si è trasformata, ulteriormente, in Unione Europea senza però quei requisiti politici, giuridici, militari, che crea uno stato o un unione di stati su un modello che poteva essere l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti d’America o la Confederazione Elvetica. Una minoranza della mia generazione ha persino pensato che si potesse persino creare una Nazione Europea. Poi ci siamo resi conto che, per le differenze storiche e linguistiche, era impossibile. Io credo che la forma istituzionale più consona all’Europa sia quella di una Confederazione con il rispetto di tutte le nazioni. Invece questa Europa è stata , ed è, un accordo di governi intorno a questioni economiche e finanziarie. Realtà politiche che erano a loro volta in declino. La politica stava diventando sempre di più asservita all’economia e alla finanza. È vero che Marx ci ha insegnato che i politici stavano diventando un comitato di affari di finanzieri ma non ci abbiamo proprio creduto. Bisogna dire oggi che un difetto di Marx è stato quello di avere anticipato i tempi sbagliandoli, nel senso che al suo tempo non era vero, adesso è purtroppo vero: la politica è diventata un comitato di affari. Questo ha principalmente fatto fallire l’Europa. A questo punto mi sento tradito, anche come storico, per non aver capito che questo era un inganno. Però buttare a mare l’Euro sarebbe non solo un errore, ma anche un grave passo indietro. A questo punto bisogna accettare l’idea che abbiamo sbagliato, abbia costruito un’Europa dal tetto, invece che dalle fondamenta: le fondamenta, come già detto, sono politiche, diplomatiche, giuridiche, militari (ovvero un comune esercito europeo). A questo punto si dovrebbe ricominciare daccapo: ricostruire le fondamenta giuridiche dell’Europa cercando però di salvare in qualche modo, con una serie di puntelli provvisori un tetto già fatto, che è l’Euro, che purtroppo comincia a fare acqua perché la crisi greca ha rischiato di compromettere lo stesso euro. A tutto questo si aggiunge che siamo in preda di impulsi che sono xenofobi, anti islam. Anche questo non fa bene all’Europa.

Andando più in profondità: lei è uno storico, un uomo della “lunga durata” direbbero quelli delle “Annales”, qual è la malattia, spirituale e culturale, che impedisce all’Europa di essere vissuta dai cittadini come un “destino” positivo?

Non avere mai creduto fino in fondo nella possibilità di un percorso, di un destino. In Europa c’era un destino implicito di unione, ma l’Europa non è mai veramente nata: nel mondo antico era un continente, in quello medioevale era il mondo della cristianità, nel mondo moderno il concetto di Europa si è fatto strada, ed è emerso quando i popoli d’Europa si sono resi conto che non potevano farsi guerra tra loro. A quel punto quello era il primo esplicito vagito dell’Europa. Bisogna guardare al mondo moderno, in cui ci imbattiamo in un processo di secolarizzazione. Le democrazie liberali non sono mai riuscite ad elaborare un concetto simile, hanno invece elaborato un concetto di Occidente. La nascita dell’Europa era condizionata dal fatto che le due grandi potenze non europee (Usa e Urss) nel trattato di Yalta avevano stabilito che l’Europa non doveva nascere. Oggi bisogna dire che questa visione era errata, e che si trattava di un’ idea precisa: quella di non far mai nascere un’Europa politica e avevano stabilito che non si doveva far nascere una realtà che sarebbe potuta diventare un’altra grande potenza, che avrebbe potuto fare loro ombra. E questo è stato un errore, perché un’Europa unita sarebbe stata una potenza che sarebbe riuscita a mediare tra le due super potenze questo avrebbe potuto impedire la “terza” guerra mondiale, ossia la Guerra Fredda. Oggi, forse, siamo in una “quarta” guerra mondiale, che è caratterizzata in altri modi.

Non c’è solo l’economia a dividere gli europei c’è, come accennava prima Lei, anche l’atteggiamento nei confronti dell’altro, lo straniero, il diverso da noi. Emblematico, in questo, è il muro ungherese. Anche questa è sconfitta dell’Europa. Come arginare i nazionalismi che stanno riaffiorando in Europa?

Bisognerebbe combatterli, intanto con il buon senso. La storia ci insegna che i nazionalismi hanno portato alla distruzione degli stati sovranazionali, che sembravano sorpassati, invece stavano già antivenendo il futuro, noi oggi avremmo bisogno di quegli stati, sarebbero stati preziosi, una molteplicità di stati che si regge con una molteplicità di tradizioni, ma che si regge sotto le stesse leggi, che permette loro di vivere in una moderata libertà, non era certo la libertà personale assoluta che abbiamo tanto desiderato, ma non ci ha fatto per niente bene, ci ha portato a questa condizione di disorganizzazione, di corruzione, non dimentichiamo che la corruzione è funzionale probabilmente alla politica. La corruzione di oggi è uno degli aspetti della democrazia parlamentare ed anche della realtà degli stati nazionali. Ormai in un mondo di economia globale, se vogliamo rispondere adeguatamente all’economia globale bisogna metterci insieme e per questo ci siamo messi insieme dal punto di vista economico noi europei, però abbiamo fatto l’errore di non capire, o di fingere di non sapere, che un’unione economica non si regge, se non ci sono altri tipi di unione (come ho già detto prima). Per fare un’unione economica basta avere dei soldi, metterli in comune e gestirli attraverso le banche, gli istituti di credito, le borse e quant’altro, però per fare un’unione di altro genere bisogna avere altri valori: valori di tipo morale, storico, politico (quando due persone decidono di mettersi insieme per fare una famiglia mettono insieme i loro beni, ma non fanno la famiglia per fare un’alleanza economica, ma perché hanno dei valori che sono morali, religiosi). Questi valori l’Europa dove doveva trovarli? In due realtà che aveva a sua disposizione: le radici cristiane e la storia comune. Si doveva valorizzare questa storia comune e cercare insieme gli errori reciproci e conoscersi come europei. Non l’abbiamo fatto. Mi ricordo di essere rimasto stupito per il fatto che si costituiva un parlamento europeo e uno dei primi atti avrebbe dovuto essere pensare ad una scuola europea, ad una scuola in cui si sarebbe dovuto insegnare non più soltanto una storia delle scienze a livello europeo e mondiale, questo va da sé, però si doveva studiare una storia europea, mentre ciascuno di noi ha imposto una storia nazionale. Tanto è vero che studiamo ancora l’ottocento come un seguito di guerre di Indipendenza italiane. Poi naturalmente coltivare un’idea comune anche di difesa, però questo non ci fu permesso. Ad oriente l’Unione Sovietica impose la sua egemonia e noi la criticammo, dicendo che era un paese totalitario ecc.. Però ad occidente gli Stati Uniti d’America, usando uno strumento che purtroppo esiste ancora, cioè la NATO, ci imposero una loro egemonia, più liberale magari, ma era lo stesso un’egemonia. Noi europei siamo militarmente occupati dagli Stati Uniti, ancora oggi soprattutto proprio l’Italia e spesso contro la volontà dei cittadini. Quando facemmo queste cose si profilò l’idea di un esercito europeo, che avrebbe potuto essere indipendente: quello sarebbe potuto essere uno straordinario strumento d’integrazione europea, con una leva europea, ci avrebbe aiutato a superare le differenze linguistiche che c’erano. Noi ci siamo nascosti dietro alla difficoltà linguistica, come se fosse insuperabile, per mettere in giro dei cittadini europei che non sanno nulla della cultura degli altri. Un cittadino europeo esce dall’Università e può non aver letto una riga di Shakespeare, una riga di Goethe. Non si possono fare gli europei in questo modo. Gli stati nazionali europei hanno avuto il torto di tenere alla loro sovranità ma poi di perdere la loro sovranità per una potenza non europea come gli Stati Uniti d’America. Questo è stato un errore madornale, una colpa che i padri fondatori d’Europa non avrebbero voluto. Schumann uscì dalla politica quando fu bocciato il progetto di un esercito comune europeo e se ne andò dicendo che era stato ingannato. Aveva perfettamente ragione. I singoli stati debbono rinunciare ad una parte di sovranità che deve essere demandata ad un governo centrale, se vogliamo costruire una realtà sovranazionale.

La costruzione dell’Europa contemporanea è stata fatta da grandi leader, appartenenti alle due grandi famiglie europee (democristiana e socialista). Eppure queste “famiglie”, da tempo, hanno perso il “sapore” della politica. Come rianimare queste famiglie, con quali riferimenti?


Una dritta la sta dando proprio il papa attuale, l’ultima enciclica è bellissima! E’ stata anche fraintesa, io credo che non sia stata nemmeno letta, perché è stata presa come un’enciclica che è stata fatta per tutelare solo i valori ecologici. Non è stata letta assolutamente, è un’enciclica che denunzia i guasti economici, sociali e morali che ci sono nel mondo perché l’uomo ha seminato l’ingiustizia sociale. Se l’avessero letta avrebbero reagito con un altro modo. Invece c’è chi ha sottolineato che anche il cristianesimo è una religione che rispetta la natura, ma l’abbiamo sempre saputo, c’è chi ha accusato il Papa di andare a pensare all’estinzione delle balene piuttosto che ai cristiani che muoiono nel mondo. Tutto questo è aberrante, perché il Papa ai cristiani perseguitati nel mondo ci pensa eccome e poi perché ci sono dei temi che devono essere affrontati, il Papa ha una sua agenda che non può essere sindacata dal primo giornalista che arriva e che dice che l’enciclica si doveva fare per i cristiani nel mondo. Il Papa sta dicendo che distruggiamo la natura per guadagnarci e che questo guadagno non è distribuito equamente, se la gente scappa dall’Africa è perché è diventato un continente invivibile a seguito del super sfruttamento a cui lo sottopongono le lobbies delle multinazionali. Al tempo del colonialismo c’era sopraffazione, violenza, lo sfruttamento, ma c’erano anche elementi che cercavano di tutelare le popolazioni, di costruire scuole, ospedali. All’epoca si diceva di “civilizzarli”, che era una parola antipatica, perché la loro civiltà ce l’avevano eccome, però quanto meno c’erano dei valori positivi. Il neocolonialismo è stato soprattutto sfruttamento economico, ammesso dalla comunità internazionale per fare i nostri comodi. Tutto questo è denunciato nell’enciclica e credo che proprio partendo da questa enciclica, gli attuali cristiano democratici e quello che resta dei socialisti dovrebbero cominciare proprio da lì. C’è una realtà gravissima oggi, che è quella della sparizione dell’autorità pubblica, ma bisognerebbe sostituirla con un’adeguata autorità federale che ci tenesse insieme e questo sarebbe il momento di agire in questa maniera, invece no. Distruggiamo quello che resta degli stati nazionali perché stiamo privatizzando le risorse degli enti pubblici e le diamo alle lobbies dei privati. Bisogna pensare al bene comune, che è una realtà su cui cattolici e socialisti potrebbero convergere, lottando contro i piccoli nazionalismi. I movimenti xenofobi attuali sono movimenti che non riescono ad articolare un discorso politico. Però per fare il salto di qualità all’Europa, mi ripeto, bisogna rivedere profondamente le nostre istituzioni, perché non sono rappresentative di una realtà europea. Gli stati devono fornire di poteri effettivi un governo centrale, perché la Commissione europea agisce da delegata dei singoli governi europei. Nessuno dei cittadini europei si sente europeo. Se ci fosse un governo europeo, oggi alcuni cittadini veneti non penserebbero alla Lega.

Un’Europa da ricostruire. un testo di Giacomo Vaciago

Giacomo VaciagoGrazie agli sforzi di tante persone di buona volontà (non solo Mario Draghi, ma anche tanti altri del Governo nostro e degli altri Paesi dell’Eurozona), sta lentamente cambiando l’atteggiamento di Bruxelles nei confronti della crisi che – iniziata nel 2009 – è ancora tra noi. E’ una crisi non solo di debito, ma anche economica e sociale. E’ soprattutto una crisi di fiducia: tra cittadini; di cittadini nei confronti dei loro Governi; e (ancor peggio) è sfiducia reciproca tra Paesi che hanno già da molti anni una comune sovranità monetaria. Non sarà facile uscirne, anche perché una diagnosi condivisa della crisi stenta a emergere.
    Mi limito ad alcune osservazioni sulle cause e sulle conseguenze della crisi; per poi concentrarmi sui rimedi già decisi e in corso di realizzazione.
 
Una crisi imprevista, ma prevedibile
    Come Jacques Delors – un cattolico socialista che è stato Presidente della Commissione UE negli anni in cui l’Euro fu deciso – non si stanca di ripetere, la forza dell’Unione economica e monetaria dipende dal mercato che seleziona, ma anche dalla solidarietà che accomuna, e dalla cooperazione cha rafforza. E’ questa triplice dimensione che consente al progetto Euro di riuscire a produrre sia integrazione economica (ciascun Paese si specializza nelle sue virtù) sia integrazione politica. Senza accontentarsi di ciò che dall’altro lato dell’Atlantico chiamano “Stati Uniti”: il progetto della nostra Unione è molto più ambizioso, e tiene conto di un passato che per più di 2000 anni ha già visto noi europei capaci di lavorare assieme, e di imparare ciascuno dall’altrui meglio.
    Una crisi di fiducia di cui tanti cercano altrove un qualche “capro espiatorio”, che eviti di dover dire la verità: iniziata l’unione economica e monetaria, il 1° gennaio  1999, ci siamo dimenticati che quello era solo l’inizio di un progetto politico – senza precedenti nella storia dell’umanità – molto ambizioso, che richiedeva lungimiranza e dedizione al bene comune. Una lunga “luna di miele”, durata 10 anni, è terminata in un disastro. Non solo perché adesso siamo pieni di debiti (privati e/o pubblici) inutili – e quindi, per definizione, eccessivi – ma perché abbiamo: meno capacità di crescita; meno reddito; e meno occupazione di 10 anni fa. Si sono aggravati i passati divari e si dubita che si possa presto recuperare il benessere che già avevamo conseguito in passato.
 
Le novità del 2015
    Merita considerare una serie di fattori positivi, che certo non bastano a ridurre subito la sofferenza dei tanti che hanno perso lavoro e/o reddito, ma che possono già nei prossimi mesi ridare un po’ di speranza. Tre in particolare vanno sottolineati.
1) Il progetto della Commissione Juncker
    E’ un progetto di investimenti pubblici (cofinanziati con fondi privati) esclusi dai limiti del “Patto di stabilità”, in grado di rilanciare infrastrutture anche di interesse comune. L’idea e il metodo proposti sono buoni, le dimensioni sono finora modeste. Ma se il progetto decollasse presto, non sarebbe poi difficile aumentarne le dimensioni, e far evolvere lo strumento in un modo intelligente per gestire – a livello comune, anche politiche di stabilizzazione, di cui l’Unione è per ora priva. Non saranno subito gli eurobonds di cui si parla da anni, né avremo presto un ufficio di grado non solo di predicare austerità, ma anche di praticare (quando serve) il suo contrario.
A volte, un “nuovo inizio” può anche essere di dimensioni modeste, se poi la cosa si dimostra utile ed entra nelle consuetudini della “macchina di Bruxelles”.
2) La “monetizzazione” del debito
    Si preferisce copiare l’America e parlare di Quantitative Easing (QE) con riferimento ai 1000 e più miliardi di euro di titoli (privati e pubblici) che nel giro di un anno e mezzo la BCE (in proprio, e tramite le Banche centrali nazionali) ha deciso di immettere nel sistema monetario e finanziario europeo. Che fine faranno tutti questi soldi? Una parte si investirà nel resto del mondo e questa uscita di fondi farà scendere il cambio dell’Euro: un cambio più favorevole sosterrà le esportazioni (e la profittabilità) delle nostre imprese migliori, e quindi produzione e occupazione anche in Italia. Un’altra parte di quella nuova liquidità si investirà in titoli (privati e pubblici) italiani: arricchendo i loro possessori e tenendo bassi i tassi pagati sul nuovo debito. Una terza parte infine alimenterà nuovo credito alle nostre imprese, riducendo il passato razionamento e favorendo così nuovi investimenti. Anche qui con un effetto positivo su reddito e occupazione. 60 miliardi di euro di nuova liquidità creata ogni mese dalla BCE e poi lasciata nel sistema finanziario per qualche anno (fino a quando i titoli comprati non scadono e non vengono più rinnovati) fa la differenza rispetto alla situazione prevalsa negli ultimi anni, quando il bilancio della BCE si era man mano ridotto perché le banche rimborsavano la liquidità prima ottenuta da Francoforte, senza chiederne di nuova.
3) Le tante riforme del Governo Renzi
    Un primo anno di vita del Governo è terminato, e si incominciano a tracciare più o meno esaurienti bilanci dei risultati ottenuti. Alcune osservazioni sono abbastanza condivisibili. La quantità di riforme avviate, più o meno prossime all’arrivo sulla Gazzetta Ufficiale, è semplicemente enorme. Ogni aspetto significativo del chi-decide-come e del chi-fa-cosa è in corso di revisione. L’elenco è noto: si va dal ridimensionamento (politico) del Senato e delle Province, alla riforma del Titolo V della Costituzione, alla nuova legge elettorale volta a garantire – più che in passato – la governabilità. Ma si riformano, anche in modo radicale, le regole di funzionamento del mercato del lavoro, la giustizia, il fisco, la scuola, la pubblica amministrazione, le banche, e così via. Disegni di legge, o se appena possibile decreti legge oppure leggi delega con successivi decreti attuativi: ogni strumento disponibile è utilizzato per accelerare i tempi di approvazione dei provvedimenti elaborati e/o proposti dal Governo.
    L’anomalia – da più punti di vista – di questa situazione è evidente: anzitutto, il programma del Governo non è fondato sui programmi elettorali dei partiti che si sono presentati alle elezioni politiche del febbraio 2013. Ne risulta un Parlamento spesso forzato ad approvare leggi che non aveva affatto ritenuto prioritarie o in cui non sempre si riconosce. E’ peraltro anche vero l’argomento spesso usato dal Governo che è da tempo elevato il consenso, nell’opinione pubblica prima ancora che nella classe politica, che quelle riforme fossero in qualche modo indispensabili, se non altro perché se ne discute da molti (troppi!!) anni.
 
Manca ancora l’Europa
    Le riforme che “modernizzano” l’Italia, la rendono più europea?
Qui il giudizio è meno condiviso. Per alcuni aspetti, la conclusione è di certo positiva. Dal ridimensionamento del Senato (per il quale è stato citato, come modello di riferimento, il Bundesrat tedesco) alla riforma del mercato del lavoro (anche qui, si sono citate molte analogie con regole e istituti prevalenti in altri paesi dell’Europa). Per altre cose pure importanti (dalla scuola al disegno di legge sulla concorrenza) non sembra invece che la logica adottata sia stata quella di ispirarsi a standard comuni con il resto d’Europa, o di guardare alle altrui “migliori esperienze”.
In altre parole, la crisi dell’Euro che ci ha rivelato quanta “poca Europa” abbia fatto seguito all’ambiziosa condivisione della stessa moneta, rimane ancora un problema, anzitutto politico, irrisolto.
    Bisognerebbe riuscire a progredire da almeno due punti di vista: 
1) anzitutto, cercare di dire la verità. Cosa non facile e che spesso non ispira i nostri dibattiti, dove c’è ancora tanta ipocrisia. Mi limito ad un esempio eclatante. La Grecia, oggi in crisi grave, entra nell’Unione europea nel 1981 e vent’anni dopo (nel 2001) entra nell’euro. Non c’è traccia di alcun beneficio che l’economia greca abbia ricevuto dal partecipare all’integrazione europea (vedi Baldwin-Wyplosz, The economics of European Integration, 2009). Perché ha insistito – falsificando i bilanci pubblici – per entrare nell’unione monetaria, se già “non era mai entrata” nell’unione economica?  Una buona economia di mercato –  che quindi gode dei benefici della maggior integrazione prodotta dalla moneta comune – deve essere anzitutto caratterizzata dal rispetto del principio di legalità (law and order); da una ridotta evasione fiscale, da poca corruzione (come tale combattuta); da una amministrazione pubblica efficiente. Insomma, se non hai una buona economia di mercato, solo imbrogliando il prossimo potrai avere benefici dall’avere una moneta in comune con altri Paesi che invece le leggi le rispettano, le tasse le pagano e i corrotti li mettono in galera. E’ quanto più volte, negli anni scorsi, il Fondo Monetario Internazionale ha ricordato ad Atene: stupisce che oggi gli uomini (e le donne) del FMI non siano più graditi in Grecia? Se uno studia con cura le analisi sulla Grecia, scaricabili dal sito EU di Bruxelles, deve onestamente porsi la domanda: non sarebbe meglio per tutti (a cominciare dai greci) se Atene riconoscesse l’errore fatto, e uscisse dall’unione economica e monetaria?
2) il secondo aspetto riguarda la strategia con cui ogni Paese membro sta facendo le “sue” riforme. Poiché queste sarebbero le riforme necessarie per avere i benefici, e non solo i costi, dell’UEM, non sarebbe preferibile una strategia unitaria in base alla quale si converge verso il meglio in ciascun campo?
    Nello scorso mese di febbraio, Italia e Francia hanno ambedue approvato una legge (in realtà, quella francese è già legge; mentre la nostra è solo un disegno di legge) sulla concorrenza. Ma se guardate con cura i due testi, notate che non è affatto comune il punto di arrivo né simile il percorso previsto. Ciascuno fa un po’ di riforme auspicabilmente al fine di migliorare il benessere dei suoi cittadini. Però, l’impegno era che una volta fatto l’euro avremmo poi fatto anche l’Europa: quando incominciamo?

Il Professor Giacomo Vaciago è Ordinario di Economia Monetaria all’Università Cattolica di Milano

Dal sito: http://www.nuovi-lavori.it/index.php/sezioni/545-un-europa-da-ricostruire