A poco più di un mese dalla presa di Kabul da parte dei talebani, facciamo, in questa intervista, con Pasquale Pugliese, attivista del Movimento Nonviolento, e studioso delle questioni legate alla non violenza, una riflessione su quello che significa per l’Occidente l’esito di questi venti anni di guerra.
Pasquale Pugliese, tu sei un attivista del Movimento Nonviolento e studioso di questioni legate alla Nonviolenza (ricordiamo il tuo ultimo libro ha un titolo significativo “Disarmare il virus della violenza”), in questa intervista, per quanto è possibile, cercheremo di proporre una lettura complessa degli avvenimenti di questi ultimi giorni che riguardano l’Afghanistan e cosa significano per l’occidente . In questa ottica ti chiedo: Venti anni dopo la guerra sono tornati di nuovo al potere i Talebani, cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto in tutto questo tempo?
Abbiamo fatto l’unica cosa che non dovevamo e non potevamo fare: la guerra. Dopo l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001, invece di capire le ragioni di quanto successo e rispondere in maniera intelligente e complessa, cioè all’altezza della situazione, come invitavano a fare le voci più lucide dell’Occidente, dalla newyorkese Susan Sontag negli USA – “Dov’è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all’«umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l’America continua ancora a bombardare l’Iraq?” (The New Yorker, 24 settembre 2001) – a agli italiani Tiziano Terzani – “Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza, ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui” (Corriere della Sera, 4 ottobre 2001) – e Gino Strada- “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei lati ni. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra” (intervista a la Repubblica, 7 ottobre 2001, da Kabul sotto le bombe che iniziavano a cadere) – ecco, invece di scoltare i consigli più saggi, abbiamo seguito pedissequamente il presidente Gerorge Bush jr che già la sera dell’11 settembre, prima ancora di capire chi fossero gli attentatori e quale fosse il movente ti tale attacco aveva già deciso, rispondendo così a chi gli faceva notare che il Diritto internazionale non prevede la guerra come strumento di vendetta: “non mi frega niente degli avvocati internazionali, andremo lì a prenderli a calci nel culo” (riportato da Richard Clarke, coordinatore delle operazioni contro il terrorismo della Casa Bianca nel libro Against all enemies). Impelagandoci così in vent’anni di “guerra infinita”, prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi in Libia, che ci riconsegna – centinaia di migliaia di morti dopo – un mondo complessivamente ancora più instabile e violento di prima. Lo ha scritto lucidamente il centenario Edgar Morin pochi giorni fa: “la guerra testimonia dell’incapacità di risolvere i problemi fondamentali in modalità complessa”.
È evidente, Nell’opinione pubblica, il fallimento della strategia bellica dell’occidente. Alcuni dicono: “la democrazia non si esporta con la guerra”. E guardando i devastanti risultati delle guerre in Iraq, Afghanistan, e Libia sicuramente è vero. Ma altrettanto vero che, nella storia, ci sono stati momenti cui la forza ha consentito, vedi la nostra lotta di liberazione, la vittoria della democrazia. Insomma la vicenda è complessa. Come ti poni di fronte a questa complessità?
Il fallimento di questo ciclo di guerre è rappresentato anche dalla loro contro-produttività, non solo rispetto alla retorica della “esportazione della democrazia”, come abbiamo visto a Kabul – che, in verità, come ha ribadito il presidente John Biden il 17 agosto, “non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia” – ma anche rispetto agli obiettivi dichiarati. Se voleva essere un’azione di “vendetta” (i “calci in culo” di Bush), a fronte di quasi 3.000 vittime delle Torrri gemelle queste guerre hanno prodotto invece altre 30.000 e passa vittime statunitensi ed occidentali tra soldati e contractors ed altrettanti veterani suicidi, vittime della sindrome post traumatica. Ossia le vittime dell’11 settembre sono state moltiplicate per 20 tra i soli occidentali. Che si sommano alle 360.000 vittime civili afghane e irakene. Se, inoltre, voleva essere un’azione di contrasto del terrorismo, la violenza bellica, che si è fatta a sua volta terrorismo (pensa ai tantissimi civili sterminati con i droni – cioè giocando con un joystick a migliaia di chilometri di distanza – come i bambini in risposta all’attentato all’areoporto di Kabul nei giorni della fuga) non ha fermato ma ha generato ed alimentato la violenza fondamentalista, che in questi vent’anni si è moltiplicata, radicalizzata ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index. La guerra è dunque una disfatta su tutti i piani, per (quasi) tutti, sempre.
Questo era perfettamente chiaro anche ai nostri Costituenti, i quali – uscendo dalla tragedia immane della seconda guerra mondiale e dalla lotta di Liberazione – sapevano che la guerra è il peggiore degli strumenti, da “ripudiare” (verbo non casuale) non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Cioè chiedevano alle generazioni successive di cercare altri mezzi per affrontare e risolvere anche i conflitti internazionali, per eliminare la guerra dalla storia: ma i nostri governi hanno ripudiato la Costituzione, invece della guerra. Per costruire una difesa civile non armata e nonviolenta avremmo potuto attingere, per esempio, agli straordinari esempi di resistenza non armata e nonviolenta avvenuti in tutta Europa contro il nazifascismo – raccontati da storici come Jaques Semelin (Senz’armi di fronte ad Hitler), Anna Bravo (La conta dei salvati), Ercole Ongaro (Resistenza nonviolenta 1943-45) – eppure non sufficientemente conosciuti e studiati, al contrario di quanto scriveva Hannah Arendt in La banalità del male a proposito della resistenza danese: “su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università per dare un’idea della potenza enorme della non violenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.” E’ questa forza complessa che dovremmo finalmente studiare, promuovere, organizzare, finanziare, diffondere, non il mezzo banale, antiquato e devastante della guerra, che risucchia immani risorse per preparare strumenti di morte, sottratte alla promozione della vita.
Un’altra sfida che ci viene è che la minaccia del terrorismo, di matrice jihadista, è ancora vivo. La risposta bellica non è sufficiente, dal tuo punto di vista, quale via è efficace?
Il punto è che quella bellica non è stata solo la risposta sbagliata a questa minaccia, ma ne è stata anche la causa – come ricordavano Susan Sontang e molti altri dopo l’11 settembre 2001 – in un rispecchiamento reciproco in cui il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo. Questo vale tanto per la componente talebana, che è stata considerata “resistenza” quando si batteva contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ‘80, finanziata e sostenuta militarmente dagli USA, ed è diventata “terrorismo” quando si è battuta contro l’invasione occidentale. Così come il cosidetto “Stato islamico” che nasce come reazione radicalizzata all’invasione pretestuosa dell’Iraq – fondata sulle prove inventate delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein – ed ha rappresentato un richiamo alla lotta santa per la liberazione contro i nuovi “crociati” occidentali. Quindi il primo passo da fare è il disarmo militare, la fine della logica imperialistica che ha portato ad una nuova corsa agli armamenti, l’uscita da quella che Edgar Morin ha chiamato “l’età del ferro planetaria, nella quale siamo ancora” (Terra Patria) e la ricerca del dialogo e dell’alleanza con il più grande islam nonviolento, che è vittima sia del terrorismo che della guerra. Esistente, per esempio, proprio tra il Pakistan e l’Afganistan fin dai tempi di Badshah Kan detto “il Gandhi musulmano”. Invece, tenere viva la paura della minaccia del fondamentalismo musulmano, alimentandola con le guerre di religione, significa consentire al complesso militare-industriale – sul quale metteva in guardia già il presidente USA Eisenhower nel discorso di addio alla nazione (che in quanto ex comandante in capo delle forze Alleate nel Mediterraneo ed in Europa durante la seconda guerra mondiale era uno che di eserciti ed armamenti se ne intendeva) – di sviluppare la propria potenza fondata su armi sempre più costose. Distraendo, in questo modo, enormi risorse dalla difesa dalle vere minacce: il disastro ambientale, il cambiamento climatico, le nuove pandemie (che ne sono anche effetti), le stesse guerre e le armi nucleari che, invece, proliferano e si ammodernano. Insomma, come provo a spiegare nel mio libro, bisogna ridefinire dalle fondamenta il rapporto tra minacce e difese, cambiandone il paradigma e la relativa allocazione delle risorse.
Tu hai scritto che il vero vincitore, in Afghanistan, è stato il “complesso militare industriale”. L’occupazione militare, agli USA, è costata 2300 miliardi. La cifra è una follia. Anche qui si pongono interrogativi non da poco per l’occidente e il resto del mondo che stanno vivendo una pandemia terribile. Anche questa follia dovrebbe portare l’occidente ad una svolta, cioè ad un radicale cambio di passo. Quale potrebbe essere? La intravedi?
Se c’è una cosa che ci ha insegnato questa pandemia è che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali. Che siamo tutti sulla stessa barca e nessuno può salvarsi da solo, indipendentemente dalla ricchezza, dalla religione, dalla nazionalità e dal potere personali. La vita di ciascuno dipende anche dal comportamento responsabile degli altri. Che abitiamo un sistema fragile, delicato, in equilibrio instabile e precario ed è più saggio investire le risorse di tutti per la difesa della vita, dell’umanità e dell’ecosistema, anziché per la preparazione delle guerre. Che la società esiste – non solo l’individuo – e resiste e con essa la solidarietà, l’empatia, il prendersi cura reciproco, la responsabilità nei confronti degli altri, nonostante decenni in cui ci viene stoltamente insegnato il contrario. E invece anche la risposta alla pandemia non ha trovato altra rappresentazione che una metafora bellica, che poi ha generato l’affidamento ai militari della stessa gestione dell’emergenza. Senza nessuna autocritica sul fatto che, per esempio, nel nostro Paese la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Anche per coprire la ventennale presenza armata italiana in Afghanistan. Il nostro è un paese che ha circa trecento aziende che producono armi – di cui quelle “legalmente detenute” da privati cittadini, come ricorda spesso Giorgio Beretta, fanno ormai più vittime delle mafie – ed una sola che produce ventilatori polmonari… Ossia siamo armati fino ai denti, ma disarmati di fronte alle minacce reali.
Ciò che è necessario dunque non è solo un “cambio di passo”, ma un vero e proprio salto di civiltà, che rimetta in ordine le priorità. Ma questo non è solo un problema politico, riguarda anche la cultura e l’informazione, necessita di un processo di “coscientizzazione”, come avrebbe detto il pedagogista Paulo Freire. Per questo credo che ormai solo l’educazione ci possa davvero salvare
L’opinione pubblica è rimasta colpita dalle donne di Kabul. Che sono scese in piazza per i loro diritti. La reazione dei Talebani è stata violenta. Come difenderle con quale strategia efficace?
Prima di rispondere è necessario fare un paio di premesse. L’opinione pubblica rimane colpita da ciò che l’informazione decide di mettere sotto l’obiettivo: in questo momento c’è sotto la lente – giustamente – la situazione delle donne afghane, ma non c’è altrettanta attenzione, per esempio, la situazione delle donne della monarchia assoluta dell’Arabia Saudita, i cui diritti sono ugualmente calpestati da sempre, oppure su quella delle donne turche, il cui governo ha ritirato perfino la propria adesione anche dalla Convenzione di Istambul contro la violenza sulle donne. Eppure non solo non abbiamo fatto nessuna guerra contro questi paese, ma anzi sono partner politici e commerciali di primo piano, nostri e degli USA, anche sul piano militare. La seconda premessa è di carattere storico: quando negli anni ’80 del secolo scorso il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica, della fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, che ne sarebbe direttamente conseguita, non importava assolutamente a nessuno. Quel che accade oggi è frutto, anche, di quelle scelte scellerate: tutte le guerre passano sempre sui corpi delle donne.
Oggi non rimane che fare l’unica cosa sensata che si dovrebbe fare ovunque nel mondo: sostenere economicamente e dare visibilità alle organizzazioni delle donne locali che lottano per i propri diritti. Su questo la stampa internazionale ha un grande potere e, dunque, una grande responsabilità. In Afghanistan, per esempio, segnalo l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane RAWA, attiva tanto contro il fondamentalismo religioso e politico dei talebani che contro l’aggressione militare occidentale. Qui il loro ultimo comunicato: http://www.rawa.org/rawa/2021/
I Talebani non sono cambiati, il governo ha ministri che sono dei terroristi. Come comportarsi? Quale condizionamento esercitare?
Credo che, a questo punto, si tratti finalmente di far tacere le armi e far scendere in campo la diplomazia, che debbano tornare in primo piano le Nazioni Unite – da troppo tempo esautorate e ignorate – che bisogna fare attenzione al rispetto dei diritti umani, in Afghanistan e ovunque nel mondo, perché non ci sono dittature buone e oscurantismi amici (o addirittura “rinascimentali”). Che bisogna sostenere le azioni della società civile afghana, come per le organizzazioni delle donne, con la quale avviare percorsi di cooperazione internazionale. Bisogna inoltre fare attenzione ai traffici di armi ed a quelli di oppio, perché non solo la fuga statunitense ha lasciato sul terreno ingenti quantitativi di armamenti destinate al liquefatto esercito afghano, ma ha lasciato un paese che, in questo ventennio, è anche diventato il principale produttore di oppio al mondo. Insomma, bisogna prendere atto che la strategia bellica è fallita e cambiare decisamente pagina. Imparando qualcosa da questa lezione.
Tocchiamo il tema della “non víolenza” Ed allarghiamo l’orizzonte. Alla luce degli avvenimenti ultimi, compresa la pandemia, come sviluppare in modo complesso e nuovo questa via? Vedi segnali di speranza?
Questo è il tema di fondo del libro Disarmare il virus della violenza, nel quale riprendo l’analisi di Johan Galtung in relazione al sistema che definisce “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove la prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Violenza strutturale è, per esempio, il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti”, come scrive Hannah Arendt (Sulla violenza) – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.
Per questo la nonviolenza – al di là del mero “pacifismo” – non può che occuparsi di de-costruire l’intero sistema di violenza, perché non è sufficiente opporsi alle espressioni più superficiali se non si aggrediscono (dal latino ad-gredior, andare verso) quelle più profonde che sostengono, preparano e danno legittimità alle prime. E, a mio avviso, non c’è che un mezzo per disarmare il virus della violenza sistemica in tutte le sue dimensioni – diretta, strutturale e culturale – e non è quello direttamente politico, perché la politica, almeno nel suo momento culminante, cioè quello elettorale, non apre più futuri di cambiamento, ma raccoglie quanto già disseminato dal passato nelle pieghe della società e della cultura esistenti. È piuttosto il mezzo educativo che ha una vision politica, una prospettiva di cambiamento che passa dalla costruzione di nuova cultura. La necessità di intervenire radicalmente per decostruire gli impliciti culturali che legittimano la violenza, prima che la violenza decostruisca l’umanità, costruendone le alternative nonviolente, ci consegna il mezzo educativo nel quale si realizza il fine di costruire la “realtà nuova”, come diceva Aldo Capitini – il filosofo fondatore del Movimento Nonviolento ed ideatore della Marcia della pace da Perugia ad Assisi, di cui proprio in questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario – che si libera, man mano, dalla violenza sempre ritornante sotto una forma o un altra. Ma per aprire davvero questo capitolo, forse, dovremmo fare prima o poi un’altra intervista…