RIFLESSIONI SULL’AFGHANISTAN. INTERVISTA A PASQUALE PUGLIESE

A poco più di un mese dalla presa di Kabul da parte dei talebani, facciamo, in questa intervista, con Pasquale Pugliese, attivista del Movimento Nonviolento, e studioso delle questioni legate alla non violenza, una riflessione su quello che significa per l’Occidente l’esito di questi venti anni di guerra.

Pasquale Pugliese, tu sei un attivista del Movimento Nonviolento e studioso di questioni legate alla Nonviolenza (ricordiamo il tuo ultimo libro ha un titolo significativo “Disarmare il virus della violenza”), in questa intervista, per quanto è possibile, cercheremo di proporre una lettura complessa degli avvenimenti di questi ultimi giorni che riguardano l’Afghanistan e cosa significano per l’occidente . In questa ottica ti chiedo: Venti anni dopo la guerra sono tornati di nuovo al potere i Talebani, cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto in tutto questo tempo?

Abbiamo fatto l’unica cosa che non dovevamo e non potevamo fare: la guerra. Dopo l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001, invece di capire le ragioni di quanto successo e rispondere in maniera intelligente e complessa, cioè all’altezza della situazione, come invitavano a fare le voci più lucide dell’Occidente, dalla newyorkese  Susan Sontag negli USA – “Dov’è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all’«umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l’America continua ancora a bombardare l’Iraq?” (The New Yorker, 24 settembre 2001) – a agli italiani Tiziano Terzani  – “Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza, ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui” (Corriere della Sera, 4 ottobre 2001) – e Gino Strada- “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei lati ni. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra” (intervista a la Repubblica, 7 ottobre 2001, da Kabul sotto le bombe che iniziavano a cadere) – ecco, invece di scoltare i consigli più saggi, abbiamo seguito pedissequamente il presidente Gerorge Bush jr che già la sera dell’11 settembre, prima ancora di capire chi fossero gli attentatori e quale fosse il movente ti tale attacco aveva già deciso, rispondendo così a chi gli faceva notare che il Diritto internazionale non prevede la guerra come strumento di vendetta: “non mi frega niente degli avvocati internazionali, andremo lì a prenderli a calci nel culo” (riportato da Richard Clarke, coordinatore delle operazioni  contro il terrorismo della Casa Bianca nel libro Against all enemies). Impelagandoci così in vent’anni di “guerra infinita”, prima in Afghanistan, poi in Iraq, poi in Libia, che ci riconsegna – centinaia di migliaia di morti dopo – un mondo complessivamente ancora più instabile e violento di prima. Lo ha scritto lucidamente il centenario Edgar Morin pochi giorni fa: “la guerra testimonia dell’incapacità di risolvere i problemi fondamentali in modalità complessa”.
È evidente, Nell’opinione pubblica, il fallimento della strategia bellica dell’occidente. Alcuni dicono: “la democrazia non si esporta con la guerra”. E guardando i devastanti risultati delle guerre in Iraq, Afghanistan, e Libia sicuramente è vero. Ma altrettanto vero che, nella storia, ci sono stati momenti cui la forza ha consentito, vedi la nostra lotta di liberazione, la vittoria della democrazia. Insomma la vicenda è complessa. Come ti poni di fronte a questa complessità?

Il fallimento di questo ciclo di guerre è rappresentato anche dalla loro contro-produttività, non solo rispetto alla retorica della “esportazione della democrazia”, come abbiamo visto a Kabul – che, in verità, come ha ribadito il presidente John Biden il 17 agosto, “non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia” –  ma anche rispetto agli obiettivi dichiarati. Se voleva essere un’azione di “vendetta” (i “calci in culo” di Bush), a fronte di quasi 3.000 vittime delle Torrri gemelle queste guerre hanno prodotto invece altre 30.000 e passa vittime statunitensi ed occidentali tra soldati e contractors ed altrettanti veterani suicidi, vittime della sindrome post traumatica. Ossia le vittime dell’11 settembre sono state moltiplicate per 20 tra i soli occidentali. Che si sommano alle 360.000 vittime civili afghane e irakene. Se, inoltre, voleva essere un’azione di contrasto del terrorismo, la violenza bellica, che si è fatta a sua volta terrorismo (pensa ai tantissimi civili sterminati con i droni – cioè giocando con un joystick a migliaia di chilometri di distanza – come i bambini in risposta all’attentato all’areoporto di Kabul nei giorni della fuga) non ha fermato ma ha generato ed alimentato la violenza fondamentalista, che in questi vent’anni si è moltiplicata, radicalizzata ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index. La guerra è dunque una disfatta su tutti i piani, per (quasi) tutti, sempre.

Questo era perfettamente chiaro anche ai nostri Costituenti, i quali – uscendo dalla tragedia immane della seconda guerra mondiale e dalla lotta di Liberazione – sapevano che la guerra è il peggiore degli strumenti, da “ripudiare” (verbo non casuale) non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Cioè chiedevano alle generazioni successive di cercare altri mezzi per affrontare e risolvere anche i conflitti internazionali, per eliminare la guerra dalla storia: ma i nostri governi hanno ripudiato la Costituzione, invece della guerra. Per costruire una difesa civile non armata e nonviolenta avremmo potuto attingere, per esempio, agli straordinari esempi di resistenza non armata e nonviolenta avvenuti in tutta Europa contro il nazifascismo – raccontati da storici come Jaques Semelin (Senz’armi di fronte ad Hitler), Anna Bravo (La conta dei salvati), Ercole Ongaro (Resistenza nonviolenta 1943-45) – eppure non sufficientemente conosciuti e studiati, al contrario di quanto scriveva Hannah Arendt in La banalità del male a proposito della resistenza danese: “su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università per dare un’idea della potenza enorme della non violenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.” E’ questa forza complessa che dovremmo finalmente studiare, promuovere, organizzare, finanziare, diffondere, non il mezzo banale, antiquato e devastante della guerra, che risucchia immani risorse per preparare strumenti di morte, sottratte alla promozione della vita.
Un’altra sfida che ci viene è che la minaccia del terrorismo, di matrice jihadista, è ancora vivo. La risposta bellica non è sufficiente, dal tuo punto di vista, quale via è efficace?

Il punto è che quella bellica non è stata solo la risposta sbagliata a questa minaccia, ma ne è stata anche la causa – come ricordavano Susan Sontang e molti altri dopo l’11 settembre 2001 – in un rispecchiamento reciproco in cui il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo. Questo vale tanto per la componente talebana, che è stata considerata “resistenza” quando si batteva contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni ‘80, finanziata e sostenuta militarmente dagli USA, ed è diventata “terrorismo” quando si è battuta contro l’invasione occidentale. Così come il cosidetto “Stato islamico” che nasce come reazione radicalizzata all’invasione pretestuosa dell’Iraq – fondata sulle prove inventate delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein – ed ha rappresentato un richiamo alla lotta santa per la liberazione contro i nuovi “crociati” occidentali. Quindi il primo passo da fare è il disarmo militare, la fine della logica imperialistica che ha portato ad una nuova corsa agli armamenti, l’uscita da quella che Edgar Morin ha chiamato “l’età del ferro planetaria, nella quale siamo ancora” (Terra Patria) e la ricerca del dialogo e dell’alleanza con il più grande islam nonviolento, che è vittima sia del terrorismo che della guerra. Esistente, per esempio, proprio tra il Pakistan e l’Afganistan fin dai tempi di Badshah Kan detto “il Gandhi musulmano”. Invece, tenere viva la paura della minaccia del fondamentalismo musulmano, alimentandola con le guerre di religione, significa consentire al complesso militare-industriale – sul quale metteva in guardia già il presidente USA Eisenhower nel discorso di addio alla nazione (che in quanto ex comandante in capo delle forze Alleate nel Mediterraneo ed in Europa durante la seconda guerra mondiale era uno che di eserciti ed armamenti se ne intendeva)  –  di sviluppare la propria potenza fondata su armi sempre più costose. Distraendo, in questo modo, enormi risorse dalla difesa dalle vere minacce: il disastro ambientale, il cambiamento climatico, le nuove pandemie (che ne sono anche effetti), le stesse guerre e le armi nucleari che, invece, proliferano e si ammodernano. Insomma, come provo a spiegare nel mio libro, bisogna ridefinire dalle fondamenta il rapporto tra minacce e difese, cambiandone il paradigma e la relativa allocazione delle risorse.

Tu hai scritto che il vero vincitore, in Afghanistan, è stato il “complesso militare industriale”. L’occupazione militare, agli USA, è costata 2300 miliardi. La cifra è una follia. Anche qui si pongono interrogativi non da poco per l’occidente e il resto del mondo che stanno vivendo una pandemia terribile. Anche questa follia dovrebbe portare l’occidente ad una svolta, cioè ad un radicale cambio di passo. Quale potrebbe essere? La intravedi?

Se c’è una cosa che ci ha  insegnato questa pandemia è che non serve erigere muri, alzare barriere, tracciare confini, chiudere i porti, perché il pianeta è naturalmente e strutturalmente interconnesso. Irriducibilmente aperto, nonostante le nostre chiusure mentali. Che siamo tutti sulla stessa barca e nessuno può salvarsi da solo, indipendentemente dalla ricchezza, dalla religione, dalla nazionalità e dal potere personali. La vita di ciascuno dipende anche dal comportamento responsabile degli altri. Che abitiamo un sistema fragile, delicato, in equilibrio instabile e precario ed è più saggio investire le risorse di tutti per la difesa della vita, dell’umanità e dell’ecosistema, anziché per la preparazione delle guerre. Che la società esiste – non solo l’individuo – e resiste e con essa la solidarietà, l’empatia, il prendersi cura reciproco, la responsabilità nei confronti degli altri, nonostante decenni in cui ci viene stoltamente insegnato il contrario. E invece anche la risposta alla pandemia non ha trovato altra rappresentazione che una metafora bellica, che poi ha generato l’affidamento ai militari della stessa gestione dell’emergenza. Senza nessuna autocritica sul fatto che, per esempio, nel nostro Paese la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Anche per coprire la ventennale presenza armata italiana in Afghanistan. Il nostro è un paese che ha circa trecento aziende che producono armi – di cui quelle “legalmente detenute” da privati cittadini, come ricorda spesso Giorgio Beretta, fanno ormai più vittime delle mafie – ed una sola che produce ventilatori polmonari… Ossia siamo armati fino ai denti, ma disarmati di fronte alle minacce reali.

Ciò che è necessario dunque non è solo un “cambio di passo”, ma un vero e proprio salto di civiltà, che rimetta in ordine le priorità. Ma questo non è solo un problema politico, riguarda anche la cultura e l’informazione, necessita di un processo di “coscientizzazione”, come avrebbe detto il pedagogista Paulo Freire. Per questo credo che ormai solo l’educazione ci possa davvero salvare

L’opinione pubblica è rimasta colpita dalle donne di Kabul. Che sono scese in piazza per i loro diritti. La reazione dei Talebani è stata violenta. Come difenderle con quale strategia efficace?

Prima di rispondere è necessario fare un paio di premesse. L’opinione pubblica rimane colpita da ciò che l’informazione decide di mettere sotto l’obiettivo: in questo momento c’è sotto la lente – giustamente – la situazione delle donne afghane, ma non c’è altrettanta attenzione, per esempio, la situazione delle donne della monarchia assoluta dell’Arabia Saudita, i cui diritti sono ugualmente calpestati da sempre, oppure su quella delle donne turche, il cui governo ha ritirato perfino la propria adesione anche dalla Convenzione di Istambul contro la violenza sulle donne. Eppure non solo non abbiamo fatto nessuna guerra contro questi paese, ma anzi sono partner politici e commerciali di primo piano, nostri e degli USA, anche sul piano militare. La seconda premessa è di carattere storico: quando negli anni ’80 del secolo scorso il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afganistan, in funzione anti sovietica, della fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, che ne sarebbe direttamente conseguita, non importava assolutamente a nessuno. Quel che accade oggi è frutto, anche, di quelle scelte scellerate: tutte le guerre passano sempre sui corpi delle donne.

Oggi non rimane che fare l’unica cosa sensata che si dovrebbe fare ovunque nel mondo: sostenere economicamente e dare visibilità alle organizzazioni delle donne locali che lottano per i propri diritti. Su questo la stampa internazionale ha un grande potere e, dunque, una grande responsabilità. In Afghanistan, per esempio, segnalo l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane RAWA, attiva tanto contro il fondamentalismo religioso e politico dei talebani che contro l’aggressione militare occidentale. Qui il loro ultimo comunicato: http://www.rawa.org/rawa/2021/08/21/rawa-responds-to-the-taliban-takeover.html

I Talebani non sono cambiati, il governo ha ministri che sono dei terroristi. Come comportarsi? Quale condizionamento esercitare?

Credo che, a questo punto, si tratti finalmente di far tacere le armi e far scendere in campo la diplomazia, che debbano tornare in primo piano le Nazioni Unite – da troppo tempo esautorate e ignorate – che bisogna fare attenzione al rispetto dei diritti umani, in Afghanistan e ovunque nel mondo, perché non ci sono dittature buone e oscurantismi amici (o addirittura “rinascimentali”). Che bisogna sostenere le azioni della società civile afghana, come per le organizzazioni delle donne, con la quale avviare percorsi di cooperazione internazionale. Bisogna inoltre fare attenzione ai traffici di armi ed a quelli di oppio, perché non solo la fuga statunitense ha lasciato sul terreno ingenti quantitativi di armamenti destinate al liquefatto esercito afghano, ma ha lasciato un paese che, in questo ventennio, è anche diventato il principale produttore di oppio al mondo. Insomma, bisogna prendere atto che la strategia bellica è fallita e cambiare decisamente pagina. Imparando qualcosa da questa lezione.

Tocchiamo il tema della “non víolenza” Ed allarghiamo l’orizzonte. Alla luce degli avvenimenti ultimi, compresa la pandemia, come sviluppare in modo complesso e nuovo questa via? Vedi segnali di speranza? 

Questo è il tema di fondo del libro Disarmare il virus della violenza, nel quale riprendo l’analisi di Johan Galtung in relazione al sistema che definisce “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove la prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Violenza strutturale è, per esempio, il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia. Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, appunto “ovvio per tutti”, come scrive Hannah Arendt (Sulla violenza) – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.

Per questo la nonviolenza – al di là del mero “pacifismo” – non può che occuparsi di de-costruire l’intero sistema di violenza, perché non è sufficiente opporsi alle espressioni più superficiali se non si aggrediscono (dal latino ad-gredior, andare verso) quelle più profonde che sostengono, preparano e danno legittimità alle prime. E, a mio avviso, non c’è che un mezzo per disarmare il virus della violenza sistemica in tutte le sue dimensioni – diretta, strutturale e culturale – e non è quello direttamente politico, perché la politica, almeno nel suo momento culminante, cioè quello elettorale, non apre più futuri di cambiamento, ma raccoglie quanto già disseminato dal passato nelle pieghe della società e della cultura esistenti. È piuttosto il mezzo educativo che ha una vision politica, una prospettiva di cambiamento che passa dalla costruzione di nuova cultura. La necessità di intervenire radicalmente per decostruire gli impliciti culturali che legittimano la violenza, prima che la violenza decostruisca l’umanità, costruendone le alternative nonviolente, ci consegna il mezzo educativo nel quale si realizza il fine di costruire la “realtà nuova”, come diceva Aldo Capitini – il filosofo fondatore del Movimento Nonviolento ed ideatore della Marcia della pace da Perugia ad Assisi, di cui proprio in questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario – che si libera, man mano, dalla violenza sempre ritornante sotto una forma o un altra. Ma per aprire davvero questo capitolo, forse, dovremmo fare prima o poi un’altra intervista…

Quali sono le sfide in Israele aperte dalla guerra con Hamas? Intervista ad Ariel David

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Ariel David

Ariel David

Fonti internazionali affermano che la tregua sia imminente. Intanto  continuano i lanci di razzi e i bombardamenti. Con Ariel David, giornalista italo-israeliano, che vive a Tel Aviv e collabora col quotidiano Haaretz, facciamo il punto della situazione.  

Ariel, anche ieri sono andati avanti bombardamenti e lanci di razzi (anche dal confine con il Libano). Una catena di violenza fatta di reazioni e contro reazioni che produce distruzione e dolore. Gaza è allo stremo. L’obiettivo è dare una “lezione dura ad Hamas”, Netanyahu è andato oltre? Cosa vuole ancora?
Non dimentichiamo che ci sono due attori principali in questa tragedia, Hamas e il governo Netanyahu, ed entrambi hanno degli obiettivi e agiscono per raggiungerli – spesso ad un costo molto pesante per la propria gente. Hamas è entrata prepotentemente nell’escalation inizialmente focalizzata su Gerusalemme per riproporsi come leader della causa palestinese rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto dopo l’ennesima cancellazione delle elezioni da parte del presidente Abu Mazen. In altre parole, non potendo prendere il potere con il voto, Hamas usa le armi per presentarsi come l’unica vera forza capace di portare avanti la lotta palestinese e guidare la “resistenza” contro Israele. In questi giorni, Hamas sta raggiungendo questo obiettivo strategico, dimostrando di poter continuare a lanciare razzi, colpire civili e soldati israeliani e paralizzare buona parte dello Stato ebraico malgrado gli intensi bombardamenti israeliani. Se si capisce questo, si capisce specularmente anche che cosa “vuole ancora” Netanyahu e perché non sia particolarmente pronto a un cessate il fuoco. Il premier israeliano cerca una qualche vittoria che possa spendere politicamente, soprattutto in vista dell’ormai probabile ritorno alle urne in Israele (per la quinta volta in due anni). Come in passato, gli obiettivi israeliani in questi conflitti con Gaza sono piuttosto limitati e confinati al piano tattico: ristabilire la deterrenza nei confronti di Hamas, limitare la sua capacità offensiva, colpire i suoi vertici, militanti e scorte di missili. Si potrebbe parlare a lungo della mancanza da parte di Israele di una visione strategica e di lungo periodo sul problema di Gaza, ma sta di fatto che Netanyahu non può nemmeno vantare di aver raggiunto questi obiettivi tattici limitati, dal momento che Hamas continua a lanciare centinaia di razzi al giorno contro la popolazione civile israeliana. Netanyahu quindi spinge l’esercito a colpire Hamas ancora più duramente e ad allargare il suo raggio d’azione, il che però ovviamente aumenta il numero dei morti tra i civili palestinesi – o per errore o perché si vanno a colpire obiettivi che Hamas ha profondamente integrato nel tessuto urbano di Gaza. Alcune fonti governative riferiscono che Netanyahu vorrebbe legare il cessate il fuoco alla restituzione di due cittadini israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dei resti di due soldati catturati e uccisi durante il conflitto del 2014. Se riuscisse in questo intento, sarebbe una vittoria politica significativa per il premier agli occhi del suo elettorato.

Ma è vero che Netanyahu sta pensando a una nuova annessione di Gaza? Propaganda? 
Probabilmente si tratta di pura retorica. Hamas non vede l’ora di avere a portata di mano soldati israeliani da rapire o uccidere, e rioccupare Gaza avrebbe un costo enorme in termini di vite da entrambe le parti. Netanyahu lo sa e sa anche che la società israeliana non è disposta a pagare questo prezzo in termine di vite di soldati, soprattutto quando, come dicevo prima, non c’è alcun orizzonte di lungo periodo per una soluzione della questione di Gaza – e men che meno del conflitto più ampio con i palestinesi. Al contrario che in passato, anche tra gli esponenti della destra israeliana non ho sentito inviti particolarmente forti alla rioccupazione di Gaza, e non credo ci sia la volontà di condurre una simile operazione anche da parte dei vertici dell’esercito.

Sul quadro politico israeliano che ricaduta avrà?
Dipenderà dagli esiti dello scontro. Nell’immediato Netanyahu sta beneficiando della situazione, perché l’escalation di violenza ha messo fine ai negoziati per la formazione di un governo da parte dell’opposizione che avrebbe dovuto includere anche uno dei partiti che rappresentano la minoranza arabo-israeliana. Allo stesso tempo, Netanyahu sta ora intessendo nuovi contatti con parti dell’opposizione, soprattutto i suoi ex alleati di destra Gideon Saar e Naftali Bennett, sperando di convincerli a formare un governo in nome dell’emergenza nazionale. Resta da vedere se riuscirà nel suo intento, o se nelle more di un cessate il fuoco l’opposizione guidata dal moderato Yair Lapid avrà un’altra chance per ricompatterei il fronte anti-Netanyahu o se lo stallo politico che attanaglia Israele da due anni proseguirà e il Paese andrà di nuovo alle urne.

La comunità internazionale si è mossa colpevolmente in ritardo. Si parla di una tregua imminente. Cosa deve accadere per arrivare ad una tregua si spera stabile?
Come hai detto, la comunità internazionale si è mossa lentamente, complice forse il crescente disinteresse per questione israelo-palestinese e la sfida globale posta dalla pandemia di Covid 19. Per raggiungere una tregua saranno ora decisive le pressioni degli Stati Uniti su Israele e di Egitto e Qatar su Hamas (ricordiamo che il Qatar, con il consenso di Israele, trasferisce a Gaza milioni di dollari ogni anno per il pagamento degli stipendi agli impiegati del regime di Hamas nella Striscia).

Parliamo degli effetti sociali  di questo conflitto. Sappiamo che dopo i fatti del quartiere di Gerusalemme est, sono scoppiate violenze tra ebrei israeliani e arabi israeliani. In particolare  nelle città di Lod, Akko, Haifa, Giaffa e TEL Aviv. Per non dire della situazione di Gerusalemme Est. Insomma la società Israeliana rischia di pagare a caro prezzo questo conflitto?
La violenza inter-etnica all’interno di Israele è l’elemento di grande novità di questo round del conflitto. La maggior parte degli israeliani con cui ho parlato sono molto più preoccupati da questo sviluppo che dall’intensità senza precedenti dei bombardamenti di Hamas. La sorpresa è dovuta in parte al fatto che negli ultimi anni i palestinesi con cittadinanza israeliana (cioè quelli che vivono all’interno di Israele e non in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e che costituiscono circa il 20 percento della popolazione del Paese) hanno dato segnali di una volontà di integrazione nella società israeliana, partecipando maggiormente alle elezioni, alla politica e ad altri aspetti della vita democratica del Paese, e con diversi sondaggi che hanno mostrato come più della metà degli arabi-israeliani si dice “fiero di essere israeliano”. Pertanto in molti si sono sorpresi quando le tensioni a Gerusalemme (non certo le prime nell’ambito conflitto israelo- palestiniese) hanno scatenato dei veri e proprio “pogrom” nelle città e nei quartieri a popolazione mista. Luoghi dove c’era una convivenza magari difficile ma comunque possibile hanno visto sinagoghe bruciate, cimiteri profanati, attività economiche distrutte e linciaggi di ebrei per le strade. L’estrema destra israeliana, per parte sua, non ha mancato di gettare benzina sul fuoco, attuando gli stessi metodi nei confronti di cittadini arabi, le loro attività e luoghi di culto. Ci vorrà molto tempo per riparare le ferite sociali di questi scontri e molti qui si interrogano sulle cause di questa impennata di violenza. Forse l’integrazione di questa minoranza, spesso discriminata ed economicamente svantaggiata, non è stata abbastanza rapida. Forse ci sono elementi all’interno della comunità arabo- israeliana, tutt’altro che monolitica, che non vedono di buon occhio proprio questa tendenza verso l’integrazione. Si pensi per esempio al fatto che Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita (uno dei partiti che doveva entrare nel nuovo governo anti- Netanyahu) ha visitato le sinagoghe distrutte di Lod e ha condannato i disordini che sono avvenuti nella cittadina e nel resto del Paese. Per tutta risposta, Abbas è stato attaccato da una folta ala del suo stesso partito, che lo ha invitato alle dimissioni. Insomma, anche fra gli arabi-israeliani ci sono forti divisioni, e la vera sfida per Israele è ora quella di recuperare il rapporto con la maggioranza silenziosa di questa comunità che è favore della convivenza.

Ci sono tentativi di pacificazione sociale? Gli uomini del dialogo (intellettuali) cosa stanno facendo?
Parto dall’editoriale di mercoledì su Haaretz, giornale per cui scrivo, che titola semplicemente “Enough” – Basta. È un invito esplicito ad addivenire a un cessate il fuoco prima che l’operazione militare “causi ancora più morti e distruzione. La sua prosecuzione non offrirà alcun vantaggio, sicuramente non per Israele, ma alimenterà solo la paura, l’odio, l’umiliazione e la sete di vendetta.” Simili appelli sono arrivati da intellettuali e gente comune, e sono state numerose le manifestazioni congiunte di ebrei e arabi a Gerusalemme, Jaffa e nelle altre città miste particolarmente colpite dagli scontri etnici. Solitamente, in Israele, nei momenti di guerra cala il sipario sul dibattito politico e il Paese si unisce per appoggiare gli sforzi dell’esercito. Ciò è in parte avvenuto anche in questa crisi, ma ho sentito anche tante voci di israeliani che criticano l’operazione militare e considerano l’ultimo round di violenza come uno scontro che avvantaggia solo Hamas e Netanyahu.

Un tempo, in Israele, c’era un forte movimento pacifista. Che fine ha fatto?
Esiste ancora, ma il Paese si è spostato inesorabilmente a destra, soprattutto tra i giovani. È la generazione che è cresciuta dopo gli Accordi di Oslo o durante la Seconda Intifada, quando gli autobus con cui andavano a scuola venivano fatti saltare in aria dai terroristi suicidi palestinesi, o che ha visto il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ricambiato, anno dopo anno, con le piogge di razzi di Hamas. Il resto lo ha fatto lo strapotere politico e ideologico della destra e di Netanyahu, che ha saputo utilizzare e alimentare l’immagine del processo di pace come foriero di morte e terrorismo. Complici anche le divisioni palestinesi tra ANP e Hamas, Netanyahu ha potuto “congelare” il conflitto in uno status-quo che non offre una soluzione definitiva alla questione israelo palestinese ma che, dal punto di vista degli israeliani, ha il vantaggio di mantenere relativamente basso il livello di violenza – se si escludono ovviamente le periodiche fiammate come quella delle ultime settimane. La maggioranza degli israeliani sembra preferire questo stallo precario perché teme che se dovesse ritirarsi dalla Cisgiordania – unilateralmente o a seguito di un accordo di pace – anche questo territorio cadrebbe in mano ad Hamas e diventerebbe una nuova Gaza, solo molto più grande e a pochi chilometri dal cuore del Paese. La sinistra e i moderati sono divisi, hanno perso consensi e non hanno mai veramente trovato una soluzione convincente a questo dilemma scaturito dal fallimento del processo di pace e dalla presa del potere di Hamas a Gaza. Per quanto vi siano ancora forti voci per la pace, buona parte di ciò che rimane del centro-sinistra preferisce focalizzarsi su questioni sociali interne, come il crescente divario tra ricchi e poveri o le accuse di corruzione a Netanyahu, piuttosto che spingere per una ripresa seria dei negoziati con i palestinesi.

Parliamo dei Palestinesi. La loro leadership è debolissima. A chi guardano i palestinesi?
I palestinesi hanno vissuto un processo simile a quello descritto per Israele. Dal loro punto di vista, le vessazioni dell’occupazione militare in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank, l’isolamento di Gaza e i periodici attacchi israeliani nella Striscia sanciscono il fallimento della politica relativamente moderata dell’ANP e trasformano Hamas sempre di più in un punto di riferimento della causa palestinese. La mancanza di progressi nei negoziati e le mosse israeliane per delegittimare l’ANP (a cui si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump) non fanno che contribuire all’indebolimento di Abu Mazen e del suo partito Al Fatah. L’annullamento delle elezioni legislative palestinesi, che dovevano tenersi questo mese per la prima volta dal 2006, ha mostrato ancora una volta la debolezza di un’amministrazione già ampiamente percepita come corrotta e inefficace. Oggi i palestinesi, oltre che ad Hamas e alle sue organizzazione alleate, come la Jihad Islamica, guardano a leader di Fatah più giovani. Fra i più popolari ci sono Marwan Barghouti, condannato a diversi ergastoli per il suo coinvolgimento in alcuni attentati suicidi durante la Seconda Intifada, che dal carcere in Israele continuaad esercitare una forte influenza sulla politica palestinese; e Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza ora in esilio per i suoi contrasti col presidente Abu Mazen. Probabilmente solo l’uscita di scena dell’84enne presidente palestinese creerà un vuoto politico che potrà essere colmato da una nuova leadership.

In che modo le componenti moderate potranno riprendere l’egemonia?
La soluzione dei due stati, malgrado sia oggi molto snobbata da diverse parti politiche a destra e a sinistra (per ragioni diametralmente opposte), rimane l’unica praticabile, ma al momento la sfiducia reciproca tra le parti in conflitto è ai massimi livelli. È anche molto difficile immaginare una risoluzione del conflitto senza prima affrontare quelle forze più ampie in Medio Oriente che su questo conflitto soffiano per i propri interessi: l’Iran, la Siria, l’Hezbollah libanese e la Turchia. Internamente, per Israele sarà molto importante lavorare sul rapporto con gli arabi israeliani, il cui riavvicinamento in anni recenti (salvo gli avvenimenti delle ultime settimane) rappresenta forse l’unica novità positiva nel panorama del conflitto, e questa comunità potrebbe in futuro fungere da modello di convivenza e da ponte fra gli ebrei e i palestinesi.

Gli “accordi di Abramo” sono superati?
Il mondo arabo, e in particolare i Paesi del Golfo, hanno reagito all’attuale round di violenza con la stessa lentezza del resto del mondo. A meno che la crisi non si allarghi drammaticamente o che il ventilato cessate il fuoco tardi particolarmente a materializzarsi non credo che i rapporti tra Israele e i firmatari degli “accordi di Abramo” subiranno danni irreparabili. D’altronde questi accordi non hanno fatto molto altro che formalizzare rapporti ufficiosi che in realtà esistevano già da anni e che avevano già superato simili crisi. Questi accordi sono stati ampiamente, forse anche giustamente, criticati, per la loro natura prettamente economica e la quasi totale mancanza di una  dimensione politica che includesse una risoluzione della questione palestinese. Però,  nel complesso scenario mediorientale, forse si può anche leggere questi accordi come un segnale positivo di un crescente desiderio da parte del mondo arabo di convivere con Israele – un segnale simile e parallelo a quello lanciato internamente dagli arabi israeliani: una rara fonte di speranza in un quadro altrimenti piuttosto desolante.

“Qualsiasi sia il calcolo politico non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza”. INTERVISTA A PAOLA CARIDI

attacco aereo israeliano su Gaza City (Ansa)

Continua l’operazione militare “Il guardiano delle mura”. L’esercito
israeliano ha lanciato lunedì notte un’altra forte ondata di attacchi aerei
sulla Striscia di Gaza: secondo il bollettino militare sono stati distrutti
altri dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto e le case di
nove comandanti di Hamas. Intanto continuano i tardivi sforzi della
diplomazia internazionale per porre fine alla guerra che dura già da una
settimana e ha ucciso centinaia di persone: ma finora i progressi sono
limitati. Ma stando agli ambienti diplomatici statunitensi, nelle prossime
ore, si dovrebbe raggiungere una tregua. Lo speriamo davvero. Per
approfondire questa ennesima guerra mediorientale abbiamo intervistato
la giornalista Paola Caridi, grande esperta di Medioriente. Tra le sue
opere ricordiamo : Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città
crudele (Ed. Feltrinelli).

Paola, come sappiamo le radici di questa guerra tra Hamas e il governo di Israele
sono ben più antiche della scellerata decisione, Israeliana, di cacciare i residenti
palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, per insediare,
usando uno escamotage giuridico, cittadini ebrei. Una colonizzazione del territorio.
Tu affermi: “per capire questo conflitto bisogna capire quello che è successo in
questi ultimi anni a Gerusalemme”. Cosa è successo in questi anni a
Gerusalemme?

Quando tempo abbiamo? Difficile riassumerlo in poche battute. Eppure, le
cancellerie lo sanno, le organizzazioni internazionali lo sanno. Gerusalemme è una
realtà urbana estremamente complessa, almeno dal 1948 in poi. Negli ultimi anni, la
presenza dei coloni israeliani dell’estrema destra religiosa ha reso ancora più
complicata la situazione. Il loro obiettivo dichiarato è di “redimere la terra”, e cioè di
rendere sempre più israeliani i quartieri palestinesi della parte occupata di
Gerusalemme. La parte orientale, che comprende anche la Città Vecchia e i luoghi
santi. La tensione c’è da molti anni, acuita – stavolta – dalla decisione della polizia
israeliana di transennare il cuore della Gerusalemme palestinese, la Porta di
Damasco, durante il ramadan e poi di intervenire con violenza sulla Spianata delle
Moschee. I lacrimogeni e i gas assordanti sparati dalla polizia dentro la Moschea di
Al Aqsa, terzo luogo santo per l’islam globale, hanno fatto il giro del mondo. Alzando
alle stelle la tensione.

Per un attimo vorrei chiederti dell’aspetto simbolico o religioso. Sappiamo quanto
sia importante, in quella terra, il simbolismo religioso. In particolare questo vale per
Gerusalemme. Una città che si basa su un equilibrio simbolico tra le grandi religioni
monoteiste. Non c’è il rischio che questo conflitto metta in discussione questo
equilibrio simbolico?

Per essere precisi, si tratta di un conflitto politico che usa i simboli religiosi. Li abusa
e li dissacra nello stesso tempo. Per essere più precisi, non sono affatto convinta
che sia giusto utilizzare un termine come “conflitto”, che sottende uno scontro tra due soggetti su un piano di parità. Gerusalemme est, per la legalità internazionale e
le risoluzioni ONU, è occupata.

Torniamo al conflitto odierno. Israele continua a rispondere ai lanci missilistici di
Hamas con continui attacchi aerei (bombardamenti). Dietro questa scia di sangue c’è
un calcolo politico ben preciso sia per Hamas che per Israele (o per meglio dire
Benjamin Netanyahu). Qual è secondo te questo calcolo?

Possiamo fare solo delle ipotesi, al limite della dietrologia, sui calcoli politici. I fatti
certi sono: le telecamere si sono spostate da Gerusalemme, dove le dinamiche
umani sociali e politiche molto diverse, verso Gaza e Tel Aviv, riproponendo il
confronto armato che abbiamo visto nel 2008, nel 2012, nel 2014, e ora nel 2021.
Razzi sparati da Gaza. Bombardamenti massicci da parte dell’aviazione e
dell’artiglieria israeliana. L’ennesima guerra asimmetrica. In mezzo, i civili, dall’una e
dall’altra parte. Il risultato? Una fiammata di violenza, con un numero di morti a Gaza
che è già impossibile da sopportare per qualsiasi persona che abbia a cuore
l’umanità, la dignità, il rispetto della vita umana. Qualsiasi sia il calcolo politico, per
me, non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza.

La rete dei sostenitori di Hamas, per  Israele si tratta terroristi, si estende dal Qatar
alla Turchia, passando per l’Iran. Erdogan fomenta il conflitto. Quale obiettivo si
pone? Ai palestinesi conviene questo appoggio di Erdogan?

Sono molti gli attori regionali che provano a capitalizzare, ad aver un guadagno
politico da quello che succede in Israele/Palestina.

La polarizzazione Hamas – Israele mette in crisi l’Olp. Perché questa debolezza della Olp? Come può rientrare in gioco?

La debolezza dell’OLP è figlia della divisione interna palestinese, non certo della
polarizzazione Israele-Hamas. Cosa rappresenta l’OLP? Questa è la vera domanda.
Per molti palestinesi, l’OLP è ormai il retaggio di una storia che non ha più un
legame con la realtà sul terreno.

Questo conflitto ha fatto da detonatore drammatico contro la convivenza tra cittadini
ebrei israeliani e cittadini arabi israeliani. Pensi che la democrazia israeliana riuscirà
a sanare la ferita?

Non credo, a meno che non faccia una seria e profonda riflessione sulle ragioni che
hanno condotto agli scontri e alle violenze di queste ultime settimane. La
convivenza, dappertutto, si regge sulla difesa dei diritti di ciascuno e di tutti. Laddove
non succede, il vulnus è profondo, la ferita è difficilissima da ricucire. È una
riflessione che va alle origini, soprattutto al 1948: i cittadini israeliani riconoscono il
legame con la stessa terra dei palestinesi con cittadinanza israeliana? Ne
riconoscono la storia?

Che fine faranno i così detti accordi di Abramo? Quali sono i limiti? Per Biden sono ancora validi?

Lo capiremo solo tra un po’ di tempo. Di certo, gli accordi di Abramo rispondono a
una logica verticistica, che nessun rapporto ha con una delle parti in causa. I
palestinesi. In più, alcuni dei paesi, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che
hanno firmato gli accordi di Abramo, non rispettano i diritti civili e la libertà di
espressione dei propri cittadini. Per non parlare del coinvolgimento degli EAU nella
guerra in Yemen.

Per la comunità internazionale, un tempo, l’obiettivo era : “due popoli e due Stati”. Tu dici, invece, che l’obiettivo deve essere uno stato confederale. In che senso? Ma è davvero più realistico della prima opzione?

Il problema non è il realismo. Anche la soluzione dei due Stati, proposta dal
processo di Oslo, sembrava essere un compromesso possibile perché pragmatico,
pur nelle estreme difficoltà di mettere insieme le due parti. È fallito. L’ipotesi di una
confederazione, allo studio da anni soprattutto da figure che vivono in Israele e
Palestina, parte non solo dal fallimento di Oslo. Parte dalla necessità di condividere
la terra a cui tutti appartengono, israeliani e palestinesi. Due Stati sì, due Stati
indipendenti, ma intrecciati, come ora sono intrecciati ma in modo asimmetrico.
Occupante e occupato. Chi detiene il monopolio della forza e chi no. Non è possibile
reggere una situazione che oramai tutti, comprese le associazioni di difesa dei diritti
umani e civili, considerano di apartheid.

Ultima domanda: un tempo vi erano grandi leader (Rabin, Arafat). Oggi chi c’è?

Rispondo con un’altra domanda: dove? In quale parte della Palestina? Se si parla,
per esempio, di Gerusalemme est, la protesta delle ultime settimane non ha avuto
leadership, né sentito il bisogno di averne. La maggior parte dei giovani palestinesi
di Gerusalemme est è lontana e distaccata dalla leadership dell’Autorità Nazionale a
Ramallah. Altrettanto lontana e distaccata è da Gaza.

 

 

 

 

 

 

 

Il “made in Italy” della guerra e le possibili alternative di disarmo. Intervista a Francesco Vignarca

Guerra in Siria (GettyImages)

La folle guerra di Erdogan contro i curdi è fatta anche, purtroppo, con armi “made in Italy”. Quello siriano non è l’unico teatro di guerra dove sono “protagoniste” le armi italiane. Ne parliamo, in questa intervista, con Francesco Vignarca Coordinatore della Rete Disarmo.

Siamo nel pieno della folle offensiva di Erdogan contro i curdi. Il tradimento di Trump, l’ipocrisia dell’occidente sono vergognosi. E questa guerra si fa anche con il “made in in Italy”. E così Vignarca?

Assolutamente. Per anni il Governo di Ankara è stato uno dei maggiori destinatari delle produzioni militari italiane, basti pensare che negli ultimi quattro anni sono state rilasciate autorizzazioni per armamenti del controvalore di 890 milioni di euro, mentre 463 milioni sono state quelle consegnate. E solo nel 2018 le 70 autorizzazioni rilasciate ammontano a oltre 360 milioni di euro di vendite. Purtroppo la continua erosione della trasparenza nei dati della legge 185/90 (che regola l’export di armi) non ci permettono di conoscere i dettagli specifici, ma almeno sappiamo la categoria di queste armi: armi o sistemi d’arma di calibro superiore ai 19.7mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro, aeromobili e software.

Continua a leggere

Un nazionalismo aggressivo generò la guerra

 

“Celebrare insieme la fine della guerra e onorare congiuntamente i caduti – tutti i caduti – significa ribadire con forza, tutti insieme, che alla strada della guerra si preferisce sviluppare amicizia e collaborazione. Che hanno trovato la più alta espressione nella storica scelta di condividere il futuro nell’Unione Europea”. Un testo di Sergio Mattarella

(foto Ansa)

Pubblichiamo il testo dell’Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia, che si è tenuta oggi a Trieste, in occasione del centenario della fine della Grande Guerra e Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate


Trieste 4/11/2018

Sono particolarmente lieto di celebrare a Trieste, in questa magnifica piazza, così ricca di storia e di cultura, la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze armate, che quest’anno coincide con il centenario della conclusione vittoriosa della Prima Guerra Mondiale. Trieste, profondamente italiana ed europea, città di confine e di cerniera, città cara a tutta Italia.

Trieste, capitale di più mondi, storia di tante storie è – insieme – un simbolo e una metafora della complessità e delle contraddizioni del Novecento. Saluto con affetto i triestini e, con loro, tutti gli Italiani.

Lo facciamo con orgoglio legittimo e con passione, senza trascurare la sofferenza e il dolore che hanno segnato quella pagina di storia.

Lo facciamo in autentico spirito di amicizia e di collaborazione con i popoli e i governi di quei Paesi i cui eserciti combatterono, con eguale valore e sacrificio, accanto o contro il nostro. Saluto i loro rappresentanti che sono qui con noi, oggi, in Piazza Unità ed esprimo riconoscenza per la loro significativa presenza. Celebrare insieme la fine della guerra e onorare congiuntamente i caduti – tutti i caduti – significa ribadire con forza, tutti insieme, che alla strada della guerra si preferisce sviluppare amicizia e collaborazione. Che hanno trovato la più alta espressione nella storica scelta di condividere il futuro nell’Unione Europea.
La guerra, le guerre, sono sempre tragiche, anche se combattute – come fu per tanti italiani – con lo storico obiettivo di completare il percorso avviato durante il Risorgimento per l’Unità Nazionale.
Lo scoppio della guerra nel 1914 sancì, in misura fallimentare, l’incapacità delle classi dirigenti europee dell’epoca di comporre le aspirazioni e gli interessi nazionali in modo pacifico e collaborativo, anziché cedere – come invece avvenne – alle lusinghe di un nazionalismo aggressivo che si traduceva nella volontà di potenza, nei cosiddetti sacri egoismi e nella retorica espansionistica.

Come ha scritto Claudio Magris, «Ogni paese pensava di dare una piccola bella lezione al nemico più vicino, ricavandone vantaggi territoriali o d’altro genere …. Nessuno riusciva ad immaginare che la guerra potesse essere così tremenda, specialmente per le truppe al fronte, e avere una tale durata».
La Grande Guerra, che comportò il sacrificio di più di dieci milioni di soldati, e un numero altissimo – rimasto imprecisato – di caduti civili, non diede all’Europa quel nuovo ordine fondato sulla pace, sulla concordia e sulla libertà che molti, con sincere intenzioni, avevano auspicato o vagheggiato. La guerra non produsse, neppure per i vincitori, ricchezza e benessere ma dolore, miseria e sofferenze, nonché la perdita della primaria rilevanza dell’Europa in ambito internazionale.

La guerra non risolse le antiche controversie tra gli Stati, ma ne creò di nuove e ancor più gravi, facendo sprofondare antiche e civili nazioni europee nella barbarie dei totalitarismi e ponendo le basi per un altro, ancor più distruttivo, disumano ed esacerbato conflitto globale.

Gli errori, gravi ed evitabili, delle classi dirigenti del secondo decennio del Novecento, e una conduzione della guerra dura e spietata degli Alti Comandi, non debbono e non possono mettere in ombra comportamenti eroici dei soldati e il loro sacrificio, compiuto in nome degli ideali di Patria. Un’esperienza di valore, di mobilitazione, di solidarietà, di adempimento del dovere.

Non lontano da qui, sulla terribile petraia del Carso, così come su tutte le zone del fronte, dai monti fino al mare, si scrissero pagine indimenticabili di valore, di coraggio, di sofferenza, di morte e di desolazione.

Nel buio delle trincee, nel fango, al gelo, micidiali e sempre più perfezionati armamenti, uniti alla fame e a terribili epidemie, mietevano ogni giorno migliaia e migliaia di vittime, specialmente tra i più giovani. Tra i soldati italiani uno su dieci perì in battaglia o negli ospedali. Stesse percentuali, se non maggiori, si calcolarono negli altri eserciti, alleati o nemici. E non si contarono i mutilati, gli invalidi, i dispersi, i prigionieri.

Uomini di ogni età, provenienti da ogni parte d’Italia, di differente estrazione sociale e livello culturale, si trovarono – per volontaria decisione o per obbedienza – uniti nelle trincee, nei terribili assalti, nelle retrovie, sotto le minacce dei bombardamenti, dei gas, dei cecchini. I soldati italiani trovarono, ciascuno a suo modo, dentro di sé, la forza di resistere e di sostenere, con coraggio e dedizione, prove durissime, spesso ben oltre il limite dell’umana sopportazione.

Desidero citare anche i molti italiani, abitanti delle terre allora irredente, che furono inviati nella lontana Galizia, dove combatterono e tanti perirono con la divisa austroungarica.
Dobbiamo ricordare oggi tutti i soldati e i marinai, tutti e ciascuno. I più intrepidi, certamente, animati dallo sprezzo del pericolo e dalla forza della volontà. I tanti eroi, quelli riconosciuti e quelli sconosciuti. Ma anche i rassegnati, gli afflitti, quelli pieni di timore. La morte e il sacrificio sono la cifra della guerra, che unisce tutti i soldati facendo gravare su di essi le sofferenze che provoca.

Come si volle scrivere, nell’immediato dopoguerra, conferendo la medaglia d’oro al Milite ignoto, anche oggi vogliamo onorare “Lo sconosciuto, il combattente di tutti gli assalti, l’eroe di tutte le ore che, ovunque passò o sostò, prima di morire, confuse insieme il valore e la pietà. Soldato senza nome e senza storia, Egli è la storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”. Così quella motivazione.
Desidero richiamare il ricordo di un soldato semplice, Vittorio Calderoni. Era nato in Argentina, nel 1901, da genitori italiani emigrati. A soli 17 anni s’imbarcò per l’Italia, per arruolarsi e combattere nell’Esercito italiano. Morì per le ferite ricevute, a guerra ormai finita, nel novembre di cento anni fa.

Ritengo doveroso ricordarlo qui, in questa stessa piazza, dove ottanta anni addietro fu pronunciato da Mussolini un discorso che inaugurò la cupa e tragica fase della persecuzione razziale in Italia, perché Vittorio Calderoni era ebreo, il più giovane tra i circa 400 italiani di origine ebraica caduti nella Grande Guerra.

Vittorio Veneto fu l’atto finale di una guerra combattuta con coraggio e determinazione da un esercito dimostratosi forte e coeso, nel sapersi riprendere dopo la terribile disfatta di Caporetto, dovuta anche a gravi errori nella catena di comando. E non, certo, attribuibile a viltà dei nostri soldati. Nel momento cruciale, nei soldati, prevalse il desiderio di riscatto, di unità, l’amore di patria. E il contributo del valoroso Esercito italiano fu determinante per gli esiti vittoriosi della coalizione alleata. Il fronte orientale fu il primo a cedere sotto la spinta italiana e a indurre gli Imperi centrali a sollecitare l’armistizio. Seguì, una settimana dopo, il fronte occidentale.

Prima di venire qui a Trieste sono andato a rendere omaggio ai caduti raccolti nel Sacrario di Redipuglia.

In quel luogo, accanto alle centomila e più tombe di soldati italiani, uomini di ogni età e provenienza, ce n’è una – una sola – dove riposa il corpo di una donna.

E’ la tomba di Margherita Kaiser Parodi Orlando. Era una crocerossina, di famiglia borghese, partita per il fronte quando aveva appena 18 anni. Morì tre anni dopo, di spagnola, dopo aver assistito e curato centinaia di feriti.

Accanto al suo, ricordo un altro nome, quello di Maria Plozner Mentir, di umili origini, medaglia d’oro al valor militare, madre di quattro figli, uccisa da un cecchino nel 1916. Era una delle tante “portatrici” della Carnia, donne che, liberamente e coraggiosamente, raggiungevano le prime linee, per portare ai nostri soldati cibo, vestiario, munizioni.

Desidero citare un’altra donna: la regina di allora, Elena, che durante la guerra si prodigò come infermiera, ospitando nel palazzo del Quirinale un ospedale da campo, per ricoverare e curare feriti e mutilati.

Una borghese, una donna del popolo, la regina. Desidero ricordarle come rappresentative di tutte le donne italiane che lottarono al fronte o nelle fabbriche, che crebbero da sole i propri figli, che si prodigarono per cucire abiti, procurare cibo o assistere feriti e moribondi. Senza le donne quella vittoria non sarebbe stata possibile.
Le donne, gli anziani, i bambini, i disabili, combatterono un’altra guerra, meno cruenta forse, ma non per questo meno coraggiosa o meno carica di lutti e di sofferenze. E anche oggi, del resto, donne, anziani e bambini sono le vittime più fragili di ogni guerra e di ogni conflitto. La Grande Guerra non riguardò soltanto i soldati: distruzioni, patimenti e fame si abbatterono anche sulla popolazione civile, in particolare nelle zone del Veneto e del Friùli occupate dopo la ritirata di Caporetto.

Nel Giorno dell’Unità Nazionale tutto il popolo italiano si stringe con riconoscenza attorno alle Forze Armate. Unitamente a loro, così come accadde nel corso della Grande Guerra, è presente la Guardia di Finanza. La loro storia, costellata da tantissimi episodi di eroismo, prosegue fino ai giorni nostri nel solco delle più nobili tradizioni ed è proiettata nel futuro con i medesimi caratteri: dedizione, altruismo e passione.
La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, privilegia la pace, la collaborazione internazionale, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Le nostre Forze Armate sono parte fondamentale di questo disegno e sono impegnate per garantire la sicurezza e la pace in ambito internazionale, rafforzando il prestigio dell’Italia nel mondo.
Mentre celebriamo questo importante anniversario, 5.600 militari italiani sono impiegati all’estero in missioni di pace delle Nazioni Unite, dell’Alleanza Atlantica, dell’Unione Europea, con grandi o piccoli contingenti. Ad essi si aggiungono quasi ottomila militari impegnati, sul territorio nazionale, per l’operazione “Strade Sicure” e, nel mar Mediterraneo, per “Mare Sicuro”.

A tutti loro esprimo la più ampia riconoscenza e la vicinanza del Paese. Grazie per quello che fate, e grazie alle vostre famiglie che sono giustamente orgogliose di voi e vi sostengono anche nei momenti più difficili.

In queste ore tanti nostri militari – che ringrazio particolarmente – sono impegnati, insieme a tanti volontari, nelle operazioni di soccorso e di emergenza nei territori che, nelle nostre montagne, in Friuli, in Veneto, in Trentino, sino alla provincia di Palermo, e in altre regioni, sono state investite da un’ondata di maltempo con drammatiche conseguenze di lutti e devastazioni. Ai familiari delle vittime va tutta la vicinanza dell’Italia, a tutte le popolazioni delle zone colpite la solidarietà piena e completa.

Da questa terra che ha vissuto tragedie immani – come quella delle foibe – desidero rivolgere, per concludere, un saluto speciale alle ragazze e ai ragazzi italiani, incoraggiandoli a tenere viva la memoria dei caduti e delle sofferenze della popolazione civile di allora, come antidoto al rischio di nuove guerre.

Quei momenti oscuri, il tempo e le sofferenze delle due guerre mondiali, a voi ragazzi – coetanei di tanti caduti di allora – sembrano molto lontani; remoti. Ma rammentate sempre che soltanto il vostro impegno per una memoria, attiva e vigile, del dolore e delle vittime di quei conflitti può consolidare e rendere sempre più irreversibili le scelte di pace, di libertà, di serena e rispettosa convivenza tra le persone e tra i popoli.
Viva l’Italia Unita, Viva le Forze Armate, Viva la Repubblica, Viva la Pace!

Dal sito: https://www.quirinale.it/elementi/18659