Dopo l’incontro di venerdì scorso al Ministero dello Sviluppo economico in cui ArcelorMittal, rappresentata dall’ad Lucia Morselli, ha ribadito la volontà del suo disimpegno a far data dal 4 di dicembre, l’annunciata “battaglia del secolo” – parole di Luigi Di Maio – pareva inevitabile. La tensione tra ArcelorMittal e Governo Italiano, esplosa circa due settimane fa quando l’azienda ha presentato il suo recesso dal contratto, era tale da rendere impensabile un riavvicinamento. Si è parlato di nazionalizzazione della ex Ilva, di nuove/vecchie cordate e di nuovi soggetti privati (tipo i cinesi della Jingye, protagonisti del salvataggio di British Steel in UK) interessati a subentrare alla multinazionale franco-indiana. Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, ha sostenuto dall’inizio del caso – anche su queste pagine – che il dialogo si sarebbe riaperto. E così è stato.
Sabella, cosa le ha fatto credere che non ci sarebbe stata rottura tra Governo e ArcelorMittal?
Nonostante il clamoroso incidente – la revoca dello scudo penale – vi sono degli elementi nella vicenda che mi hanno sempre portato a pensare che Mittal non cercava la rottura e che il Governo italiano è consapevole che non ce la possiamo permettere; perché lo Stato Italiano è il primo a essere inadempiente e, quindi, a rischiare un risarcimento danni a favore di Mittal. L’azienda, da par suo, anzitutto da tempo segnalava le difficoltà di proseguire come da intese dello scorso settembre in ragione della contrazione del mercato dell’acciaio; quindi, al di là dello scudo penale, questo è il vero cuore della crisi della ex Ilva. E lo stesso avvicendamento al vertice, Lucia Morselli al posto di Matthieu Jehl, non ha senso nell’ottica di un disimpegno; ce l’ha invece in una prospettiva di vertenza, che è ciò, sin dall’inizio, è nelle intenzioni di Mittal.
In questo senso, la vicenda dello scudo penale ha offerto un grande pretesto all’azienda…
È così. Nell’accordo non vi è espressamente il richiamo allo scudo penale, ma vi è scritto che in caso di mutamenti della normativa ambientale che rendano impossibile l’esecuzione del contratto, dallo stesso si possa recedere. Quindi, facendo leva su questo errore del Governo, l’azienda ha esercitato il suo diritto di recesso; non per scappare ma, appunto, per arrivare a trattare i livelli occupazionali e, più in generale, le condizioni su cui poggia il suo investimento in Italia. In sintesi, possiamo dire che quella dell’azienda è una prova di forza nei confronti di una controparte inaffidabile e impreparata.
E come può finire questa vertenza?
È difficile fare una previsione dettagliata anche in ragione del coinvolgimento diretto della Cassa Depositi e Prestiti. Si sta sempre più delineando la possibilità che CDP faccia da capofila per creare attraverso società a partecipazione pubblica come Fincantieri e Finmeccanica un polo di nuove iniziative produttive legate al consumo di acciaio e localizzate nell’area tarantina. Questo polo potrebbe assorbire lavoratori in esubero da Mittal, sconti sull’affitto e un po’ di ammortizzatori sociali potrebbero fare il resto… ad ogni modo, la cosa importante è che un negoziato tra Mittal e Governo sia iniziato: auguriamoci che sia occasione di rilancio anche per il Sud che ha un bisogno estremo di ritrovare occasioni di ripresa.
Intanto, sia la Procura di Taranto sia quella di Milano stanno mettendo alle strette ArcelorMittal e, proprio ieri, la Guardia di Finanza di Milano è stata nella sede milanese dell’azienda: l’ipotesi al vaglio dei pm è che la crisi della ex Ilva sia stata pilotata. Lei cosa ne pensa?
Vedremo quali accertamenti farà la GdF. È auspicabile che l’azione della magistratura sia contenuta. Voglio appunto pensare che l’iniziativa del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – che ha ricevuto i Segretari Generali di Cgil Cisl Uil – introduca una nuova tregua dentro la vicenda perché questa tensione, anche giudiziaria, non fa bene a nessuno. Mittal ha vinto legittimamente una gara che l’ha portata a prendere possesso della ex Ilva (anche se non ne è ancora proprietaria), la cordata perdente Arvedi-Jindal non fece alcun ricorso. Io direi che è il momento di ragionare su come è andato questo primo anno, in particolare a Taranto, sia da un punto di vista industriale che ambientale. Mittal è player importante, non lasciamolo solo: approfittiamo di questa situazione per rilanciare il cuore dell’industria italiana – la siderurgia – e il recupero del territorio a Taranto.
Pochi giorni fa, si è appreso che ArcelorMittal ha investito 6 miliardi di euro per un’acciaieria in India. Secondo diversi osservatori, questo sarebbe un evidente segnale del suo disimpegno italiano. Lei come ha valutato questa notizia?
Effettivamente si tratta di un’operazione di rilievo e anche con numeri interessanti: si parla di una produzione di 10 milioni di tonnellate di acciaio e 4.000 lavoratori a fronte della produzione italiana di 4,5 milioni di tonnellate e 10 mila lavoratori (considerando quelli attualmente in cassa integrazione). Anzitutto, sull’affare indiano Mittal lavorava da due anni. E poi, Taranto è sito industriale importante anche da un punto di vista strategico per via del porto. In sintesi, credo che l’acciaieria di Taranto continui a essere interessante per Mittal. Il Governo deve però, come prima cosa, reintrodurre lo scudo penale.
E lo farà?
Si, lo scudo penale sarà reintrodotto, al di là delle dichiarazioni di facciata anche di quest’oggi. Non c’è alternativa, anche perché vorrei capire quale investitore sarebbe disposto a lavorare in un contesto devastato e reso pericoloso da chi c’era prima di lui sapendo che se succede qualcosa ne subisce delle conseguenze penali. Aggiungiamo che l’altoforno 2 è sotto sequestro da parte della magistratura perché non a norma ed entro il 13 dicembre, salvo proroghe, rischia lo spegnimento. Spegnere gli altiforni è operazione che ne mette in dubbio la tenuta e la successiva riaccensione. Ma dal 13 dicembre è difficile immaginare che non via sia tutela legale nell’area ex Ilva…
Sempre ieri, secondo fonti sindacali, ArcelorMittal avrebbe esplicitamente parlato della possibilità di fermare le cokerie. Non era stato detto che gli altiforni non saranno spenti? Perché fermare le cokerie?
Ieri i vertici aziendali hanno convocato d’urgenza i sindacati territoriali per via dei disagi che seguono alla protesta delle aziende che vantano pagamenti arretrati, in particolare il blocco della portineria C. Nella stessa riunione sindacale, il capo del personale Ferrucci ha assicurato che le aziende dell’indotto-appalto siderurgico saranno pagate. La sensazione è che ArcelorMittal abbia tirato la corda sentendosi a sua volta danneggiata. E che, nello specifico, la situazione con le aziende si normalizzerà non appena si inizieranno a trovare soluzioni all’intera vicenda. Speriamo che questa sia la lettura giusta perché le imprese dell’indotto e i loro imprenditori, anche piccoli, non meritano di pagare questo pegno.
Il ministro Patuanelli ha di recente parlato di “area a caldo nel breve periodo e poi decarbonizzazione”. Può essere questo il futuro di Taranto?
Può certamente essere impostato un percorso come questo, ma finalmente anche al Governo è chiaro che uno stabilimento a ciclo integrale non può essere decarbonizzato dall’oggi al domani, come da sempre sono andati dicendo diversi esponenti della maggioranza. E, anche in questo caso, serve accordarsi con ArcelorMittal: l’attuale piano industriale non prevede la decarbonizzazione dell’impianto.
Questa vicenda ha dato linfa al sentimento antindustriale che in Italia è ancora vivo. Possiamo permettercelo?
Ovviamente no, come non possiamo permetterci di trattare le multinazionali come dei rapaci predatori. Il punto vero è che con la complessità dell’industria dobbiamo interloquire e non siamo attrezzati: lo dimostrano i 160 tavoli di crisi aperti – oltre a Ilva, Whirlpool, Embraco, IIA, Pernigotti, etc – che da troppo tempo sono senza soluzione. E anche col processo dell’investimento dobbiamo imparare a relazionarci in un modo migliore, nel nostro interesse: il futuro del lavoro ci chiede di essere sempre più attrattivi come sistema Paese.