“IL FUTURO DELLA EX ILVA È TARGATO ARCELORMITTAL” INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Dopo l’incontro di venerdì scorso al Ministero dello Sviluppo economico in cui ArcelorMittal, rappresentata dall’ad Lucia Morselli, ha ribadito la volontà del suo disimpegno a far data dal 4 di dicembre, l’annunciata “battaglia del secolo” – parole di Luigi Di Maio – pareva inevitabile. La tensione tra ArcelorMittal e Governo Italiano, esplosa circa due settimane fa quando l’azienda ha presentato il suo recesso dal contratto, era tale da rendere impensabile un riavvicinamento. Si è parlato di nazionalizzazione della ex Ilva, di nuove/vecchie cordate e di nuovi soggetti privati (tipo i cinesi della Jingye, protagonisti del salvataggio di British Steel in UK) interessati a subentrare alla multinazionale franco-indiana. Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, ha sostenuto dall’inizio del caso – anche su queste pagine – che il dialogo si sarebbe riaperto. E così è stato.

Sabella, cosa le ha fatto credere che non ci sarebbe stata rottura tra Governo e ArcelorMittal?

Nonostante il clamoroso incidente – la revoca dello scudo penale – vi sono degli elementi nella vicenda che mi hanno sempre portato a pensare che Mittal non cercava la rottura e che il Governo italiano è consapevole che non ce la possiamo permettere; perché lo Stato Italiano è il primo a essere inadempiente e, quindi, a rischiare un risarcimento danni a favore di Mittal. L’azienda, da par suo, anzitutto da tempo segnalava le difficoltà di proseguire come da intese dello scorso settembre in ragione della contrazione del mercato dell’acciaio; quindi, al di là dello scudo penale, questo è il vero cuore della crisi della ex Ilva. E lo stesso avvicendamento al vertice, Lucia Morselli al posto di Matthieu Jehl, non ha senso nell’ottica di un disimpegno; ce l’ha invece in una prospettiva di vertenza, che è ciò, sin dall’inizio, è nelle intenzioni di Mittal.

In questo senso, la vicenda dello scudo penale ha offerto un grande pretesto all’azienda…

È così. Nell’accordo non vi è espressamente il richiamo allo scudo penale, ma vi è scritto che in caso di mutamenti della normativa ambientale che rendano impossibile l’esecuzione del contratto, dallo stesso si possa recedere. Quindi, facendo leva su questo errore del Governo, l’azienda ha esercitato il suo diritto di recesso; non per scappare ma, appunto, per arrivare a trattare i livelli occupazionali e, più in generale, le condizioni su cui poggia il suo investimento in Italia. In sintesi, possiamo dire che quella dell’azienda è una prova di forza nei confronti di una controparte inaffidabile e impreparata.

E come può finire questa vertenza?

È difficile fare una previsione dettagliata anche in ragione del coinvolgimento diretto della Cassa Depositi e Prestiti. Si sta sempre più delineando la possibilità che CDP faccia da capofila per creare attraverso società a partecipazione pubblica come Fincantieri e Finmeccanica un polo di nuove iniziative produttive legate al consumo di acciaio e localizzate nell’area tarantina. Questo polo potrebbe assorbire lavoratori in esubero da Mittal, sconti sull’affitto e un po’ di ammortizzatori sociali potrebbero fare il resto… ad ogni modo, la cosa importante è che un negoziato tra Mittal e Governo sia iniziato: auguriamoci che sia occasione di rilancio anche per il Sud che ha un bisogno estremo di ritrovare occasioni di ripresa.

Intanto, sia la Procura di Taranto sia quella di Milano stanno mettendo alle strette ArcelorMittal e, proprio ieri, la Guardia di Finanza di Milano è stata nella sede milanese dell’azienda: l’ipotesi al vaglio dei pm è che la crisi della ex Ilva sia stata pilotata. Lei cosa ne pensa?

Vedremo quali accertamenti farà la GdF. È auspicabile che l’azione della magistratura sia contenuta. Voglio appunto pensare che l’iniziativa del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – che ha ricevuto i Segretari Generali di Cgil Cisl Uil – introduca una nuova tregua dentro la vicenda perché questa tensione, anche giudiziaria, non fa bene a nessuno. Mittal ha vinto legittimamente una gara che l’ha portata a prendere possesso della ex Ilva (anche se non ne è ancora proprietaria), la cordata perdente Arvedi-Jindal non fece alcun ricorso. Io direi che è il momento di ragionare su come è andato questo primo anno, in particolare a Taranto, sia da un punto di vista industriale che ambientale. Mittal è player importante, non lasciamolo solo: approfittiamo di questa situazione per rilanciare il cuore dell’industria italiana – la siderurgia – e il recupero del territorio a Taranto.

Pochi giorni fa, si è appreso che ArcelorMittal ha investito 6 miliardi di euro per un’acciaieria in India. Secondo diversi osservatori, questo sarebbe un evidente segnale del suo disimpegno italiano. Lei come ha valutato questa notizia?

Effettivamente si tratta di un’operazione di rilievo e anche con numeri interessanti: si parla di una produzione di 10 milioni di tonnellate di acciaio e 4.000 lavoratori a fronte della produzione italiana di 4,5 milioni di tonnellate e 10 mila lavoratori (considerando quelli attualmente in cassa integrazione). Anzitutto, sull’affare indiano Mittal lavorava da due anni. E poi, Taranto è sito industriale importante anche da un punto di vista strategico per via del porto. In sintesi, credo che l’acciaieria di Taranto continui a essere interessante per Mittal. Il Governo deve però, come prima cosa, reintrodurre lo scudo penale.

E lo farà?

Si, lo scudo penale sarà reintrodotto, al di là delle dichiarazioni di facciata anche di quest’oggi. Non c’è alternativa, anche perché vorrei capire quale investitore sarebbe disposto a lavorare in un contesto devastato e reso pericoloso da chi c’era prima di lui sapendo che se succede qualcosa ne subisce delle conseguenze penali. Aggiungiamo che l’altoforno 2 è sotto sequestro da parte della magistratura perché non a norma ed entro il 13 dicembre, salvo proroghe, rischia lo spegnimento. Spegnere gli altiforni è operazione che ne mette in dubbio la tenuta e la successiva riaccensione. Ma dal 13 dicembre è difficile immaginare che non via sia tutela legale nell’area ex Ilva…

Sempre ieri, secondo fonti sindacali, ArcelorMittal avrebbe esplicitamente parlato della possibilità di fermare le cokerie. Non era stato detto che gli altiforni non saranno spenti? Perché fermare le cokerie?

Ieri i vertici aziendali hanno convocato d’urgenza i sindacati territoriali per via dei disagi che seguono alla protesta delle aziende che vantano pagamenti arretrati, in particolare il blocco della portineria C. Nella stessa riunione sindacale, il capo del personale Ferrucci ha assicurato che le aziende dell’indotto-appalto siderurgico saranno pagate. La sensazione è che ArcelorMittal abbia tirato la corda sentendosi a sua volta danneggiata. E che, nello specifico, la situazione con le aziende si normalizzerà non appena si inizieranno a trovare soluzioni all’intera vicenda. Speriamo che questa sia la lettura giusta perché le imprese dell’indotto e i loro imprenditori, anche piccoli, non meritano di pagare questo pegno.

Il ministro Patuanelli ha di recente parlato di “area a caldo nel breve periodo e poi decarbonizzazione”. Può essere questo il futuro di Taranto?

Può certamente essere impostato un percorso come questo, ma finalmente anche al Governo è chiaro che uno stabilimento a ciclo integrale non può essere decarbonizzato dall’oggi al domani, come da sempre sono andati dicendo diversi esponenti della maggioranza. E, anche in questo caso, serve accordarsi con ArcelorMittal: l’attuale piano industriale non prevede la decarbonizzazione dell’impianto.

Questa vicenda ha dato linfa al sentimento antindustriale che in Italia è ancora vivo. Possiamo permettercelo?

Ovviamente no, come non possiamo permetterci di trattare le multinazionali come dei rapaci predatori. Il punto vero è che con la complessità dell’industria dobbiamo interloquire e non siamo attrezzati: lo dimostrano i 160 tavoli di crisi aperti – oltre a Ilva, Whirlpool, Embraco, IIA, Pernigotti, etc – che da troppo tempo sono senza soluzione. E anche col processo dell’investimento dobbiamo imparare a relazionarci in un modo migliore, nel nostro interesse: il futuro del lavoro ci chiede di essere sempre più attrattivi come sistema Paese.

SABELLA: “IL “CODICE CONTRATTI” E’ UN PRIMO PASSO PER AFFRONTARE SERIAMENTE LA QUESTIONE SALARIALE”

In questi giorni, è stato annunciato in Aula al Senato un disegno di legge del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro per la creazione di un “codice unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro” da realizzare in collaborazione con Inps. Il ddl, presentato ai sensi dell’art. 99 della Costituzione e approvato dall’Assemblea del Cnel nella seduta del 27 marzo 2019, definisce il codice unico di identificazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro nazionali depositati e archiviati, attribuendo una sequenza alfanumerica a ciascun contratto o accordo collettivo. Di questo parliamo, in questa intervista, con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Continua a leggere

Appello all’Europa per il Lavoro. Un documento della Gioc

In occasione della Festa del Primo Maggio, festa del Lavoro, il coordinamento europeo della GIOC (Gioventù Operaia Cristiana) ha diffuso un documento molto critico nei confronti sulla condizione lavorativa dei giovani europei.  Lo pubblichiamo integralmente.

Cos’è la Gioc?

La Jeunesse Ouvrière Chretienne (JOC) è nata in Belgio poco dopo la prima guerra mondiale dalla dolorosa constatazione che il lavoro e l’ambiente di lavoro non solo allontanavano migliaia di giovani lavoratori dalla Chiesa, ma ancor più li disumanizzavano, degradando la loro vita spirituale. Suo fondatore fu un prete, Joseph Cardijn (1882 – 1967).

Prima di lui molti avevano fatto la medesima constatazione e cercato rimedi. Le soluzioni però rimanevano nella linea della pastorale tradizionale del tempo centrata sulle opere per la gioventù come i patronati, le associazioni sportive, gli oratori. L’obiettivo principale di queste iniziative consisteva nel sottrarre i giovani per qualche ora la settimana al loro ambiente, per introdurli in un “bagno spirituale”. 
Il grande merito di Cardijn consiste nell’aver compreso che queste soluzioni erano inadeguate: invece di ritirare i giovani lavoratori dal loro ambiente, Cardijn li invierà in esso come apostoli incaricati di una missione umana e divina.

“Anche quest’anno, i movimenti GIOC si mobilizzano per celebrare il Primo maggio.

 

Abbiamo sempre in mente la lotta dei lavoratori di Chicago del 1886, per ottenere una giornata lavorativa di 8 ore, dalla quale è nata la festa del Primo Maggio.

Anche quest’anno, scendiamo in strada per difendere i nostri diritti, scendiamo in strada per dimostrare che un altro mondo è possibile.

Questo Primo Maggio, come movimenti GIOC dell’Europa abbiamo deciso di evidenziare situazioni che vanno contro la dignità dei giovani.

Denunciamo la situazione di disoccupazione giovanile in Spagna. Le ultime indagini sulla forza lavoro in Spagna, rivelano che il 55,1% dei giovani con meno di 25 anni, è disoccupato. Non sono solo statistiche a preoccupare, ma le reali tragedie vissute dietro i numeri: migliaia e migliaia di giovani che non possono raggiungere i propri obiettivi personali e costruire il proprio progetto di vita. Insieme ai dati sulla disoccupazione, vogliamo inoltre denunciare l’obbligo di lavorare a tempo determinato e occasionale, le tasse sempre più alte, l’aumento delle spese per l’istruzione, la diminuzione del numero di borse di studio, il numero di giovani che è costretto ad emigrare per trovare lavoro, e la scandalosa realtà di coloro che vengono in Spagna per trovare un lavoro e trovano le nostre porte chiuse.

 

Denunciamo le condizioni di vita dei giovani in Portogallo. Infatti, la percentuale di giovani disoccupati under 25 è del 36,1% e molti giovani vivono grazie ai proventi dei cosiddetti “lavoretti”.

 

Alcuni sono disoccupati, altri si trovano forzati a intraprendere una formazione che non è appropriata e che serve solo a far diminuire i numeri relativi alla disoccupazione. Inoltre, denunciamo le precarie condizioni di lavoro di molti giovani che sono “falsi dipendenti” e non possono accedere alla protezione sociale. Questo, insieme alla mancanza di opportunità lavorative, obbliga migliaia di giovani ad emigrare in altri paesi.

Denunciamo la moltitudine di contratti che esistono in Italia e il lavoro nero che ne è spesso conseguenza. In Italia infatti ci sono 3 milioni di persone che non hanno un contratto di lavoro, tra i quali i giovani rappresentano una larga percentuale; non solo questo è illegale, ma non garantisce protezione. Chiediamo che il Governo semplifichi il numero elevato di contratti (46 in totale) e informi i giovani rispetto alle conseguenze del mercato nero e del lavoro non dichiarato.

 

Riaffermiamo inoltre che tutti i lavori, indipendentemente dalla tipologia e dal salario, hanno lo stesso valore e possono permettere a ciascun giovane di vivere con dignità. Crediamo che prima venga la persona, e solo dopo il lavoro. I movimenti europei supportano anche la posizione della GIOC dell’Inghilterra e del Galles, in merito a questo problema.

In Ungheria, i giovani faticano a trovare un lavoro che sia connesso alla propria formazione e che permetta loro di pianificare il proprio futuro. Molti giovani perdono la speranza e vedono come unica soluzione quella dell’emigrazione. La GIOC dell’Ungheria vuole far capire ai giovani che questa non è l’unica risposta al problema.

 

Non siamo d’accordo con il collegamento che esiste a Malta tra educazione e disoccupazione. I giovani, specialmente le ragazze, non possono trovare lavoro inerente al proprio percorso di studi e alle proprie competenze. Così si ritrovano disoccupati o con lavori non inerenti a quanto studiato. La sola alternativa rimane l’emigrazione.

 

La GIOC della Francia non è d’accordo con il sistemico utilizzo dei contratti precari e temporanei. Oggi, il 52% dei giovani sono disoccupati, nelle aree urbane più svantaggiate. Situazioni come queste impediscono di fare piani a lungo termine e di costruire un futuro stabile.

 

Cosa vogliamo dall’Europa:

 

Noi, come movimenti GIOC d’Europa, non siamo d’accordo con le situazioni che vivono i giovani lavoratori a causa del sistema che preferisce il “fare profitti” piuttosto che dare possibilità ai giovani di pianificare il proprio futuro.

Come dice Papa Francesco «La dignità di ogni persona umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale.» EG 203

Noi, come movimenti GIOC d’Europa, vogliamo costruire un’Europa per uomini, donne, giovani, e non per il denaro. Papa Francesco ci ricorda sempre: dobbiamo mettere l’uomo al centro e considerare l’umanità come una risorsa, non come un profitto. Nella sua esortazione, ha detto: «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide.»EG 53 Vogliamo ribadire che la gioventù è una risorsa per l’Europa e un rischio!

 

Noi, come movimenti GIOC d’Europa, vogliamo costruire un’Europa con maggiore equità, nella quale i lavoratori non siano solo considerati consumatori.

 

Vogliamo un’Europa che sia una comunità. Vogliamo che si sviluppi la cooperazione tra paesi e non la competizione.

Vogliamo un’Europa nella quale i lavoratori, indipendentemente dalla tipologia del proprio impiego, siano considerati nello stesso modo, garantendo loro la dignità. Non vogliamo che il lavoro imprenditoriale sia la sola alternativa.

Vogliamo un’Europa sostenibile, nella quale si possa trovare lavoro. Vogliamo costruire un’unione di persone che tenga conto delle differenze culturali. Affermiamo che la condivisione delle nostre culture è una ricchezza e non una minaccia.

Vogliamo un’Europa che garantisca le stesse opportunità a tutti i suoi giovani.

Oggi stiamo sperimentando la competizione tra i giovani, ma vogliamo invece cooperazione tra i paesi europei. Vogliamo costruire un’Europa unita. Sfortunatamente, la sola risposta dell’Unione Europea è quella di sviluppare contratti speciali per i giovani.

Vogliamo una gioventù europea solidale, che abbia un posto reale nel processo decisionale. Vogliamo che la nostra voce sia ascoltata e presa in considerazione. Vogliamo che ogni giovane possa vivere con dignità in Europa. Vogliamo dare a tutti i mezzi per essere coinvolti nella costruzione dell’Europa. E’ importante per noi dare la possibilità ai giovani della classe operaia di conoscere maggiormente l’Europa, e di avere mezzi per intraprendere azioni.

 

Ci auguriamo che quanti sono impegnati nella creazione di politiche nazionali ed europee, pensino ai benefici dei giovani. Come il Papa Francesco dice nella sua esortazione: «Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri! È indispensabile che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini.»EG 205
I movimenti GIOC in Europa si alzeranno e agiranno per questo. Questo schema guiderà il nostro voto il 25 Maggio 2014.”

 

Dal sito: ( http://www.gioc.org/gioc/news/39-messaggio-dai-movimenti-gioc-dell-europa-per-il-primo-maggio-2014 )

La Sfida della Fiom.
Intervista a Maurizio Landini

maurizio-landiniE’ partito il Congresso della Cgil. In questi giorni si sta sviluppando una polemica molto aspra tra Maurizio Landini, Segretario Generale della Fiom, e Susanna Camusso, Segretario Generale della Cgil. Il punto di contrasto tra i due è l’accordo sulla “rappresentanza sindacale” firmato anche dagli altri sindacati confederali (Cisl e Uil). E’ un punto strategico di dissenso fondamentale questo per la Fiom. Così partendo dal suo libro Forza Lavoro, pubblicato dalla Casa Editrice Feltrinelli, prendiamo spunto per una riflessione più generale sul Sindacato.

Landini, il suo libro è un vero proprio atto d’accusa contro un sistema “neoliberista”, ovvero il “pensiero unico” di questi ultimi 20 anni. Un sistema che, lo stiamo sperimentando tutti, ha reso precaria la vita di milioni di persone. Il mondo del lavoro è stato il più colpito. Le chiedo qual è la “ricetta” culturale e “politica” della Fiom per riportare al centro il Lavoro?

Il lavoro in questi ultimi 30 anni è stato ridotto a semplice merce, questa è una delle caratteristiche della “rivoluzione” liberista. Ciò è potuto accadere perché è stata oscurata la sua condizione nello sposare le leggi del mercato e quelle delle imprese, riducendo i lavoratori a voci di bilancio e i cittadini a semplici consumatori; decretata la sua “fine” nell’annunciare un mondo in cui non ce n’era più bisogno; abbandonato il suo ruolo generale nell’allontanarsi della politica dal mondo reale delle persone in carne e ossa. Una deriva costituita da elaborazioni ideologiche, comunicazione e informazioni a senso unico, accordi internazionali e leggi che hanno prodotto l’era della precarietà. Una situazione che va rovesciata ridando al lavoro la dignità culturale affermata dalla nostra Costituzione fin dal suo primo articolo, riconquistando il diritto a un lavoro che non sia solo legato al bisogno ma anche fonte di realizzazione e gratificazione, occasione di emancipazione personale e collettiva. Quindi rimettendolo al centro dell’attenzione e dell’azione politica a partire da scelte economiche incentrate sulla piena occupazione e sulla garanzia di un reddito dignitoso.

Nel suo libro c’è anche una forte critica al comportamento del Sindacato Confederale di questi ultimi anni. Qual è stato il “peccato” più grave commesso dal Sindacato italiano?

Il sindacato confederale, almeno una sua larga parte, ha subito e persino partecipato al processo di svalorizzazione culturale e politica del lavoro dipendente, finendo per considerarne i destini come un semplice derivato delle condizioni delle imprese, accettando la logica delle compatibilità sia a livello aziendale che nazionale e, infine, europeo nel fare dei vincoli di bilancio quasi una religione. E’ stata nella “ritirata” degli anni ’80, di fronte ai processi di ristrutturazione delle imprese che hanno segnato quel decennio, che molti sindacalisti hanno accettato una logica di progressiva riduzione dei diritti e dei redditi dei lavoratori in cambio per rispondere alle esigenze delle imprese. Nel farlo è anche regredita la qualità democratica del sindacato e la partecipazione dei lavoratori, perché le ragioni di carattere generale che andavano perseguite erano sempre più “indiscutibili” e calate dall’alto come una sorta di nuovo stato di natura.

Ci sono due parole che ricorrono spesso nel suo libro: “democrazia” e “partecipazione”. Landini, mi perdoni il luogo comune, vuole “rottamare” la classe dirigente della Cgil?

Rottamazione è una parola orribile e orribile, oltre che sbagliata, è anche l’idea che i problemi si risolvano con le epurazioni, le emarginazioni o magari prepensionando anticipatamente una classe dirigente. Il problema del sindacato – come della politica – non è anagrafico ma di contenuti e pratiche. La democrazia non è una formula astratta o una parolina magica dietro cui celare movimenti di palazzo; la democrazia e la partecipazione si costruiscono nella condivisione dei contenuti e delle azioni: così si costruisce o si rinnova una classe dirigente, le cui principali caratteristiche – soprattutto per un sindacato confederale – sono la capacità d’ascolto e lo spirito di servizio rispetto ai propri rappresentati.

Veniamo alla stretta attualità. Partiamo dall’accordo sulla Rappresentanza sindacale, firmato qualche giorno fa dai Segretari generali di Cgil-Cisl-Uil. La sua organizzazione lo ha criticato duramente affermando: che nell’accordo “compaiono elementi che configurano una concezione proprietaria dei diritti sindacali”. Una affermazione durissima. Insomma la sua organizzazione, in questi anni, ha fatto una battaglia durissima a favore della partecipazione e della rappresentanza nelle fabbriche e adesso che c’è uno strumento che garantisce questo vi tirate fuori. Qual è, per Lei, il punto critico?

Il nostro dissenso rispetto all’accordo del 10 gennaio riguarda il metodo quanto il merito. Il metodo perché mai come in questo caso esso è anche sostanza, visto che è stata sottoscritta un’intesa senza coinvolgere – discutere e decidere, a proposito di democrazia – né i lavoratori né i delegati né i sindacalisti che quell’intesa coinvolge. Parlo dei lavoratori, dei delegati e dei sindacalisti dell’industria. In questo modo il vertice della Cgil ha preso una decisione per conto d’altri, senza nemmeno informarli se non a cose fatte, e violando così lo spirito – ma credo anche lo statuto – confederale (confederale sginifica alla lettera insieme di federazioni…). Nel merito i punti più delicati sono noti quanto importanti, perché non si tratta – a differenza di quanto è stato detto – di un regolamento attuativo ma di un testo unico che cambia radicalmente la pratica sindacale: dal potere di derogare persino sui contratti nazionali che viene offerta al 51% dei una Rsu all’assenza del vincolo del referendum per gli accordi sottoscritti, dalle sanzioni che limitano “in premessa” la libertà dei lavoratori, dei delegati e del sindacato all’arbitrato che cancella l’autonomia delle categorie e cambia la natura stessa della nostra confederazione. Non è un caso che la Cgil ha sempre rifiutato sanzioni e averli accettati costituisce una vera e propria svolta di 180 gradi della sua storia.

La politica italiana non è molto esaltante. Il governo soffre e molto probabilmente si andrà al “rimpasto” o a un “Letta bis” . Per lei la stabilità è un valore oppure, visto l’inconcludenza governativa(frutto di tanti fattori), è meglio tornare, una volta approvata la legge elettorale, al voto?

Per un sindacalista il rapporto con un governo deve essere fondato sul merito. Nella nostra recente storia, ad esempio, la logica del “governo amico” ha prodotto parecchi disastri, producendo subalternità e contribuendo alla crisi della rappresentanza, all’allontanamento dei lavoratori e dei cittadini dalla politica e dallo stesso sindacato. da questo punto di vista attraverso i continui richiami alla stabilità si sostengono scelte legate alle politiche d’austerità, in continuità con le pratiche liberiste dei governi precedenti o si giustificano non scelte che impediscono di affrontare e risolvere le drammatiche crisi occupazionali e sociali di questi mesi – penso all’Electrolux, che è solo l’ultima di una serie – allora è meglio andare a votare al più presto, appena varata una legge elettorale che sostituisca il Porcellum. E mi sembra che questo sia il quadro odierno, anche se devo aggiungere che la riforma elettorale che sta maturando non è proprio un fulgido esempio di rappresentanza democratica.

Il suo rapporto con Matteo Renzi è sicuramente una novità nel panorama politico sindacale italiano. Eppure su molti temi pareri opposti, cosa si aspetta da Renzi?

Io parlo con Matteo Renzi esattamente come parlavo prima con il suo predecessore, è il segretario del principale partito italiano e a lui – coem a tutti gli altri – abbiamo chiesto alcune cose precise contenute nel nostro documento programmatico, da un legge per la democrazia sui posti di lavoro a una nuova politica economica e industriale che creino lavoro, garantiscano un reddito minimo ai cittadini, rilancino l’intervento pubblico sui nodi strategici di un paese, dai servizi alla tutela ambientale. Lo giudicheremo sui fatti, per ora mi aspetto soprattutto che ci ascolti e non abbia paura ad affrontare i nodi che secondo noi sono cruciali. Poi ci potremo confrontare, concordare o litigare: se lo farà in modo trasparente ed esplicito sarà meglio per tutti.

La Cigl è sotto congresso. La sua rottura con Camusso sicuramente avrà un peso nel Congresso, non rischia di marginalizzare la Fiom?

La Fiom si marginalizza se cessa di ascoltare e confrontarsi con chi intende rappresentare; questo deve evitare soprattutto e da questo vengono le nostre prese di posizione, a partire da quella del nostro ultimo Comitato centrale. Non state assistendo a uno scontro personale, né è in discussione l’internità della Fiom alla Cgil. Quello che è in discussione è la natura dell’intera Confederazione, la sua strategia e il suo futuro.