“L’Italia deve ridefinire le alleanze in Libia”. Intervista Michela Mercuri

Lo scenario libico torna al centro dell’attenzione internazionale. Cosa si sta muovendo in Libia? E per l’Italia esiste la possibilità di giocare un ruolo importante? Ne parliamo con la Professoressa Michela Mercuri, docente universitario, analista, consulente, autrice, editorialista e opinionista della storia e la geopolitica del Mediterraneo.

Professoressa Mercuri, la LIBIA torna all’attenzione della pubblica opinione internazionale. L’occasione è stata data dalla liberazione pescatori di Mazara del Vallo sequestrati dalle milizie del signore della guerra della Cirenaica: il generale Haftar.. Liberazione avvenuta dopo l’incontro Conte e Di Maio con il leader libico. Una missione che ha fatto discutere il mondo politico italiano, tanto che i due rappresentanti del governo saranno presto sentiti dal Copasir. Di Maio ha smentito ogni tipo di scambio scabroso (scafisti). Da più fonti si parla anche di un intervento di Putin a favore degli ostaggi, come pure degli Usa. Insomma un incrocio di pressioni. FERMO RESTANDO che era doveroso portare a casa i nostri pescatori, alcuni si DOMANDANO qual è la contropartita promessa ad Haftar?


Da quello che ci è dato sapere, il prezzo pagato può essere definito un “prezzo politico” che, nei fatti, è stato l’implicito riconoscimento di Khalifa Haftar quale leader della Cirenaica. Il generale voleva che le massime cariche dello Stato italiano andassero da lui affermandone, de facto, la leadership e ci è riuscito. Un prezzo necessario per portare a casa i nostri pescatori, ma un prezzo che è più caro di quanto possa sembrare. Haftar, infatti, nonostante, sia stato ricevuto in pompa magna nei vari summit internazionali, compreso il vertice di Palermo del 2018, non ha alcun riconoscimento internazionale. E’ un generale che si è messo a capo di un esercito chiamato Esercito nazionale libico (Lna) che nell’aprile del 2019 ha ufficialmente dichiarato guerra al Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, con a capo Fayez al-Sarraj, arrivando quasi a conquistare la capitale. E’ stato fermato solo dall’intervento della Turchia che ha fornito armi e mercenari alle milizie dell’ovest. Tuttavia Haftar, che sembrava oramai sconfitto, è riuscito sia grazie a questa mossa sia grazie all’accordo per la ripresa della produzione di petrolio, realizzato con il vice premier libico Ahmed Maitiq, a resuscitare dalle sue ceneri. Ora “l’araba fenice”, forte del supporto di Russia, Egitto, Francia, Emirati e del formale riconoscimento da parte dell’Italia è di nuovo uno degli attori più influenti dell’est. Per questo è probabile che aspiri a un ruolo politico nei futuri assetti del Paese.

Per quanto riguarda Putin, vicino ad Haftar, è possibile che sia stato uno dei protagonisti delle trattative. Difficile dire se l’intercessione di Mosca sia stata favorita da una telefonata dell’ex premier Silvio Berlusconi, con cui il leader del Cremlino continua a mantenere buoni rapporti personali, o da una richiesta da parte del nostro governo, con cui i rapporti sono meno solidi. Tuttavia ritengo che un ruolo importante sia stato giocato anche da intese intra-libiche mediate attraverso Ahmed Maitiq, l’unico interlocutore dell’ovest con cui Haftar sembra disposto a trattare. Escludo, invece, che vi sia stato lo scambio di prigionieri richiesto dal generale ma è plausibile ipotizzare che durante l’incontro tra Haftar, Conte e di Maio se ne sia parlato, magari in termini di una possibile revisione dei processi. Una vicenda necessariamente fumosa che non è facile da interpretare, ma una cosa è evidente: nonostante le difficoltà i nostri servizi segreti hanno svolto in maniera costante il loro lavoro.

 

Può questa vicenda rappresentare una opportunità per il nostro Paese di rientrare in gioco nella partita libica?


Riallacciando i rapporti con Haftar l’Italia non è rientrata nel teatro libico. O, se lo ha fatto, lo ha fatto da una posizione di netta inferiorità, necessaria, però, a riportare a casa i nostri pescatori, che ritengo sia la cosa più importante. Ci sono attori ben più radicati sul terreno, come Russia, Turchia, Francia ed Egitto che hanno giocato bene la loro partita e ora sono i “player che contano”. Il problema dell’Italia sta nel fatto che, soprattutto negli ultimi anni, ha mantenuto una posizione di “debole equilibrismo” tra Haftar e gli attori dell’ovest, lasciando campo libero ad altri Paesi. Inizialmente abbiamo sostenuto il Governo di accordo nazionale, nato con gli accordi di Skhirat nel 2015, ma nel momento del bisogno, quando Haftar lo ha attaccato, ci siamo tirati indietro, lasciando campo libero alla Turchia che ora controlla l’ovest. Nel frattempo abbiamo anche interrotto il dialogo con Haftar e questo ci è costato caro. Basti ricordare che il primo settembre, proprio quando sono stati sequestrati i pescatori, il ministro degli esteri italiano, Luigi di Maio, si era recato in Libia a incontrare Aquila Saleh (Presidente del parlamento di Tobruk) e Sarraj ma non Haftar. Uno smacco che ha favorito il gesto rabbioso del generale che ha trattenuto per più di 100 giorni i pescatori a Bengasi. Prima di “rimettere mano” al dossier libico e tentare di rientrare in partita è necessario elaborare una strategia politico-diplomatica chiara e lungimirante; decidere che ruolo vogliamo giocare e con chi ma soprattutto “fare pace” con la categoria dell’interesse nazionale e su di esso costruire quel necessario ponte strategico tra politica interna e politica estera.  Senza aver ben chiari questi elementi forse sarebbe meglio fermarsi un attimo a riflettere per non commettere errori che, stavolta, potrebbero essere irreparabili.

Veniamo al quadro generale. La diplomazia sta segnando il passo. E il rischio alto è che si vada sempre più verso una Libia divisa in DUE, egemonizzate da Putin e Erdogan, con buona pace del tentativo ONU di creare un governo unitario. Perché si è dimesso il diplomatico bulgaro, Nicolay Mladenov, inviato speciale ONU? Forse non era credibile?


Una delle partite più complesse attorno a cui ruotano gli equilibri della Libia è quella tra Mosca e Ankara. Tra Turchia e Russia permane uno strano rapporto di competizione/collaborazione che produce una sorta di “pace fredda”. È chiaro che sia la Russia che la Turchia hanno investito un enorme capitale politico, militare e finanziario in Libia ed entrambi vogliono ottenere importanti ritorni geopolitici e materiali. Nessuno dei due può ritirarsi ma nessuno dei due può vincere escludendo l’altro. In Libia, così come in Siria, russi e turchi sono “intrappolati” in una sorta di “competizione anomala” basata sul mantenimento di una linea di comunicazione costante, cercando di escludere colpi bassi o atti eccessivamente ostili. In questo contesto, una spartizione in sfere di influenza turco-russe è uno scenario possibile ma che dovrà tenere conto anche degli altri attori coinvolti nel teatro libico. Se è vero che Mosca e Ankara hanno importanti asset sul terreno, tra cui alcune basi strategiche, ci sono, però, anche altri player interessati alla “ricca fetta” della torta libica. In primis la Francia, che sta rafforzando la partnership con l’Egitto per rientrare in partita. Macron considera al-Sisi un alleato importante in chiave anti-turca, necessario a contrastare le mire espansionistiche di Erdogan in Libia e, più in generale, nel Mediterraneo. Ad aggiungere ancora qualche tassello a questa “lectio magistralis di spietata realpolik” basti ricordare tutti gli altri affari di Macron in Libia. Se da un lato il presidente francese vende armi agli alleati di Haftar, dall’altra non dimentica l’ovest. Di recente l’autorità petrolifera libica (Noc) ha discusso con la Total un aumento della produzione di greggio e lo sviluppo di progetti di cooperazione in vari settori. Questa competizione ha sicuramente influito sulle dimissioni del nuovo inviato speciale dell’Onu in Libia, il bulgaro Mladenov.  Il diplomatico ha parlato di motivi familiari e personali ma, in realtà, quando si parla di “motivi personali” c’è sempre dietro qualcosa di ben più grosso che non può essere detto. E’ probabile che ci siano state pressioni per sostituirlo con un nome gradito a una delle parti in gioco. Probabilmente il diplomatico non era ben voluto dalla Turchia perché considerato troppo vicino agli Emirati arabi uniti. Cosa che sarebbe confermata dal giudizio negativo di Ankara alla sua nomina.

Intanto Le milizie di Haftar hanno occupato la strategica città di Ubari. La città è vicina alle aree petrolifere del Saharara. Li c’è anche un importante aeroporto militare che è strategico per i Russi. Le chiedo c’è da aspettarsi un ennesimo conflitto armato totale, oppure è “solo” un rafforzamento di posizione da Far pesare in una possibile trattativa con Tripoli?

Purtroppo, nonostante gli impegni per una mediazione intra-libica, che si sono svolti anche durante i colloqui di Tunisi dello scorso novembre, temo che in Libia potrebbero tornare a “suonare le armi”. Nel Paese ci sono mosse che stanno passando inosservate dalla più parte dei media ma che non lasciano presagire nulla di buono. Ci sono movimenti di truppe turche vicino a Sirte e Jufra. Se le cose si metteranno male non possiamo escludere che l’Egitto, con la longa manus francese, potrebbe reagire. Il federmaresciallo Haftar, qualche giorno fa, ha fatto appello ai suoi a riprendere le armi per “cacciare l’occupante turco”. Per tutta risposta Ankara ha ribadito che se lo faranno “non avranno un luogo dove scappare”. Inoltre, il parlamento turco ha adottato, di recente, una mozione che proroga di 18 mesi il dispiegamento delle forze in Libia impegnate anche nell’addestramento delle milizie del Gna. Insomma, tutte le pedine del risiko sembrano pronte per un nuovo scontro. Tuttavia, vista l’imprevedibilità del teatro libico è anche plausibile ipotizzare che l’occupazione di Ubari potrebbe non essere il preludio di un’altra guerra ma solo un modo per Haftar di “fare la voce grossa” e di consolidare le sue posizioni nell’est e nel sud del Paese, per avere maggiore potere contrattuale al tavolo negoziale con il governo di Tripoli e per mantenere il controllo delle risorse petrolifere del giacimento di Sharara, uno dei più importanti della Libia. Va detto che i libici non vogliono “impantanarsi” di nuovo in una guerra sanguinosa che li riporterebbe sull’orlo del baratro economico. Chi porta guerra rischia di perdere popolarità nel Paese. E di questo Haftar è ben conscio. Così come ne è ben conscio il presidente egiziano al-Sisi. Pochi giorni fa una delegazione egiziana si è recata a Tripoli. Si mormora anche di una imminente visita di Sarraj in Egitto. Tutti elementi che potrebbero far propendere per nuovi tentativi di trattative.

Un altro fattore di rischio è rappresentato dai fratelli musulmani, che ruolo stanno giocando?

La Libia è il teatro di una guerra che assume anche contorni confessionali. Da un lato la Turchia e i suoi progetti di espansione geopolitica ed egemonica del mondo islamico attraverso lo strumento dell’islam politico e della Fratellanza musulmana, dall’altra il fronte arabo filo-occidentale, guidato dall’Egitto e finanziato, soprattutto, dagli Emirati arabi uniti e dai sauditi che temono l’espansione turca. In questo contesto i Fratelli musulmani sono rimasti molto delusi dal fallimento delle trattive per il nuovo consiglio presidenziale. E’ probabile che credessero che l’attuale ministro dell’interno, Fathi Bashagha, molto vicino alla fratellanza, sarebbe divenuto primo ministro. Questo non è accaduto e ora il loro ruolo appare indebolito soprattutto dopo l’accordo per la ripresa della produzione di petrolio tra Khalifa Haftar e il vicepremier Ahmed Maitiq che ha rinvigorito il ruolo di quest’ultimo. Maitiq è un uomo politico, ma anche uomo di affari, esponente di Misurata ma vicino, tra gli altri, a Usa e Italia e in questo momento anche ad Haftar (a sua volta sostenuto dagli Emirati e dall’Egitto). Insomma, uno che potrebbe mettere tutti d’accordo, ma forse non la Turchia. I giochi per i Fratelli Musulmani sono, dunque, ancora aperti.
Veniamo a al Sarraj. Come sta gestendo l’abbraccio di Erdogan?

In realtà credo che in questo momento Erdogan preferisca “abbracciare” il ministro dell’interno Fathi Bashagha, esponente di Misurata e più vicino ai Fratelli musulmani e questo infastidisce non poco Sarraj che ha assecondato tutti i desiderata di Ankara pur di frenare l’avanzata di Haftar verso Tripoli. La spaccatura tra il leader del Gna e Bashagha è venuta a galla lo scorso 28 agosto quando il ministro dell’interno è stato sospeso dal suo incarico da Sarraj (formalmente) a causa della sua cattiva gestione delle proteste in corso nella capitale. Tuttavia pochi giorni dopo è stato reintegrato. Ordini da Ankara? Probabilmente sì. Dietro lo scontro politico fra il premier onusiano e ministro dell’interno, c’è l’inimicizia fra le milizie tripoline e quelle di Misurata, fedeli al loro concittadino Bashagha. Unite nella lotta al nemico comune, Khalifa Haftar, ora cercano un posto al sole nei futuri equilibri dell’ovest e lo scontro interno è inevitabile. Sullo sfondo c’è la competizione fra Erdogan e alcuni sostenitori di Sarraj, come ad esempio gli Usa. In questa lotta intestina si inserisce anche “l’astro nascente” Maitiq, anch’esso misuratino e ben accetto dagli americani ma anche dagli italiani. Insomma, un gioco a tre, sostenuto da potenze esterne, che sta spaccando il fronte dell’ovest. In questo contesto in ebollizione potrebbe esserci uno spiraglio anche per l’Italia. Basti ricordare che pochi giorni fa Sarraj ha trascorso quattro giorni in visita privata a Roma. Sicuramente non si è trattato di una visita di piacere. Sfruttare questa nuova apertura del leader del Gna restando in buoni rapporti con Maitiq e facendo fruttare quel minimo dialogo riguadagnato con Haftar, seppure in posizione di netta inferiorità, potrebbe fare rientrare l’Italia in partita. Saremo capaci di farlo?
Trump ha lasciato spazio libero A Russia e. Turchia, con effetti devastanti per gli interessi italiani ed europei (a parte quellj francesi). Il nuovo presidente Biden come si muoverà?

Negli ultimi anni Washington ha smesso di essere protagonista nel Mediterraneo, una regione dove un tempo dominava. In questo contesto Biden non paga solo il “disinteresse libico” dell’amministrazione Trump ma anche l’errore dei suoi predecessori. Barack Obama, nel 2011, seppure poco convinto, avallò l’attacco a Gheddafi da parte della coalizione internazionale che portò la Libia nel caos. Poi, nonostante l’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nel 2012, gli Usa decisero di abbandonare ogni intervento nella crisi libica per delegarne il controllo a un’Europa dimostratasi del tutto incapace di gestire la situazione, anche a causa delle divergenze interne. Tuttavia, in politica estera gli spazi vuoti non esistono e vengono sempre riempiti. In Libia ci hanno pensato da un lato la Turchia e il Qatar e dall’altro la Russia, gli Emirati, l’Egitto e la Francia che, pur essendo parte dell’Unione europea, ha sempre prediletto un approccio atto a perseguire i suoi interessi nazionali. Ad aggiungere benzina sul fuoco, il disinteresse americano al Mediterraneo orientale e meridionale, che ha caratterizzato l’amministrazione Trump, ha permesso alla Russia di impiantare una formidabile rete militare in questa area. Oltre alle roccaforti siriane di Latakia e Tartus e alla presenza militare in Cirenaica, Putin è riuscito a sostituirsi agli Usa nel fiorente mercato della vendita di armi all’Egitto e ad altri Paesi. La partita rischia di ridursi a un gioco a due tra Russia e Turchia, con altri attori comprimari tra cui la Francia. La questione non è certamente semplice. Washington non può abbandonare il Mediterraneo, un mare dove sono presenti alleati strategici e dove Mosca e Pechino ambiscono a sfruttare gli spazi lasciati vuoti dal rimodellamento degli impegni americani, ma per evitare che questi vuoti di potere creino ulteriore instabilità o il rafforzamento di “potenze nemiche” l’unica soluzione è quella di bussare alle porte degli alleati. Scelta che rischia, però, di essere particolarmente complessa: chi sono gli alleati su cui fare affidamento? Sarà questa la domanda a cui dovrà rispondere Biden.

Nel dicembre del 2021 sono previste elezioni politiche in Libia.. UTOPIA?

Vista la situazione appena descritta le elezioni del 2021 paiono una chimera. Prima di indire elezioni è necessario rispettare una road map, come quella proposta durante i colloqui di Tunisi, che prevede alcuni step preliminari fondamentali, tra cui il mantenimento del cessate il fuoco, lo smantellamento delle truppe libiche e dei gruppi armati stranieri presenti sul terreno e la creazione di un nuovo consiglio presidenziale formato dai membri delle tre regioni libiche. Se guardiamo a cosa accade nel Paese non possiamo non notare come questi tre “punti fermi”, in realtà sono in bilico. Il cessate il fuoco rischia di precipitare da un momento all’altro, potenze straniere hanno “piantato” basi sul terreno e non sembra abbiano la minima intenzione di andarsene. Non è stato raggiunto nessun accordo sui nomi dei candidati del futuro consiglio presidenziale, in particolare di colui che dovrà ricoprire la carica di primo ministro del Gna, evidenziando tutte le spaccature politiche presenti all’interno del Paese. Pensare che in un anno si possano superare tutti questi ostacoli è quasi illusorio. Tuttavia, ci avviciniamo al nuovo anno e l’augurio per i libici è che questo percorso possa realizzarsi in tempi brevi.

TUTTE LE SCONFITTE DELL’ITALIA IN LIBIA. INTERVISTA A MICHELA MERCURI

Quali saranno i “giochi” strategici militari nel nuovo scenario libico? Ne parliamo con la professoressa Michela Mercuri. Michela Mercuri è  docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali di Roma), insegno Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata . È componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.).

Professoressa, la situazione in Libia è ancora ben lontana dalla stabilizzazione. Comunque un dato emerge : Haftar esce fortemente ridimensionato dal conflitto. Colui che voleva conquistare Tripoli viene respinto dal forte intervento turco a fianco del governo di accordo nazionale (quello di Tripoli). Domanda adesso che faranno Francia e Russia? Secondo una fonte giornalistica, Arab weekly, Parigi e Mosca si stanno accordando per il controllo di Sirte (e anche della base di Al-Qardabìya). L’obiettivo russo è avere basi in Cirenaica. Insomma per il Sultano Erdogan non è una passeggiata per lui la Libia…

La città di Sirte è da sempre considerata strategica sia per la sua collocazione geografica, sia per i giacimenti inesplorati che fanno gola a molte potenze straniere da tempo presenti nel teatro libico, Francia in testa. Inoltre, la base di Al-Qardabìya è da tempo negli obiettivi di Putin che ha preso parte alla guerra per procura in Libia al fianco del generale Khalifa Haftar anche per poter ottenere uno sbocco sul mare e per il posizionamento di basi militari. Per questi motivi, per Mosca e Parigi, la Turchia non deve superare questa sorta di “linea rossa”. Al-Qardabìya, poi, ha un forte valore simbolico anche per Haftar che, nel 2016, chiamò l’offensiva militare contro le forze di Misurata battaglia di “Al-Qardabìya 2”. Nonostante tutto, un accordo tra Turchia e Russia sembrava nell’aria: oAnkara avrebbe lasciato al Cremlino la base aerea di al-Jufra, in cui sono già “piazzati” caccia russi, e magari altri “assets”, e la partita forse si sarebbe chiusa. Tuttavia la Francia per non rimanere esclusa dai giochi ha intensificato notevolmente la propria attività su Sirte, con numerosi sorvoli effettuati con caccia Rafale sui cieli della città, rimescolando le carte. Per non indispettire gli Usa, per ora più vicini alle forze dell’ovest, il Presidente Macron ha telefonato a Trump denunciando il comportamento “inaccettabile” della Turchia, tentando di mettere i bastoni tra le ruote a Erdogan che credeva oramai chiusa la partita libica con un accordo turco-russo. Il futuro, dunque, appare ancora incerto. Molto dipenderà dai futuri negoziati, che inevitabilmente vedranno la “questione Sirte” al centro del dibattito, e da quanto e come gli Usa decideranno di esporsi in favore della Turchia. L’ipotesi più plausibile, al momento, è quella di un congelamento delle posizioni, con la Turchia nell’ovest e la Russia e (molto parzialmente) la Francia nell’est. La domanda è se questa sorta di “instabilità controllata” sarà destinata a durare. Su questo nutro dei dubbi.
Resta comunque che la presenza turca sì è rafforzata ,non solo numericamente (con 1500 uomini e 11 mila mercenari siriani) ma anche con basi logistiche e navali. Sappiamo quanto sia importante per Erdogan rafforzare la presenza navale nello scacchiere centrale del mediterraneo. E le recenti manovre navali lo hanno confermato. Quali sono queste basi?

La Libia sembra essere divenuta “l’hub” per la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo orientale e non solo. L’impegno di Ankara al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna) di al-Serraj non è certo stato dettato da spirito caritatevole ma da una precisa strategia: rafforzare la sua presenza nel mare nostrum in cambio del supporto al Gna. Prova ne sia Erdogan, ancor prima di intervenire in Libia, aveva già siglato con al- Serraj un accordo per una zona economica esclusiva che dalle coste della Turchia si estende a quelle della Libia per sfruttare le risorse di gas offshore in un’area che vede forti interessi di Eni, Total e alcune compagnie americane.  Ma il conto potrebbe essere più salato. Il Sultano potrebbe installare basi militari nel Paese in aree strategiche.  Una potrebbe essere collocata nell’aeroporto di al-Watiya che si trova a circa 120 km a sud-ovest di Tripoli che è stato recentemente sottratto alle forze di Haftar. Si tratterebbe di una base militare in cui collocare caccia, droni e sistemi antimissilistici. Ci sarebbe, poi, la possibilità di una infrastruttura navale nell’area di Misurata utile a controllare gli interessi turchi nel Mediterraneo orientale. Va precisato che un tale “investimento” non sarebbe stato possibile senza il supporto del Qatar, altro alleato del Gna in Libia soprattutto in chiave anti Emirati che armano il generale Haftar. Lo scorso anno Ankara ha realizzato la sua seconda base in Qatar con lo scopo di proiettare la sua influenza anche nel Golfo. Detta in altri termini le ambizioni neo-ottomane del Sultano vanno ben oltre il Mediterraneo orientale.

Gli Usa si affidano Erdogan per tutelare i loro interessi?

Nonostante le tensioni tra Washington e Ankara dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani o le numerose “frizioni” dovute alle diverse posizioni assunte dai due Paesi in Siria (solo per citare alcuni esempi) potremmo dire che la realpolitik tende a produrre “strange bedfellow”. Trump ed Erdogan, dopo il recente arrivo di caccia russi in Libia, sembrano aver capito che, se necessario, è meglio mettere da parte le divergenze per far fronte al nemico comune e hanno concordato di “continuare una stretta collaborazione” in Libia basata su reciproci vantaggi. Il Presidente americano ha nella Turchia sia il partner che fa il “lavoro sporco”, combattendo contro le forze di Haftar e arginando l’azione dei russi, sia un possibile mediatore capace di dialogare con Putin. La Turchia, in cambio, può ritagliarsi un maggior peso in Libia e nel Mediterraneo con il tacito consenso degli americani. D’altra parte la Turchia non è vista di buon occhio nella Nato, di cui pure fa parte, e uno “sdoganamento” da parte americana può essere sicuramente utile. Di converso, gli americani hanno basi strategiche in territorio turco. Meglio mettere da parte le divergenze, magari partendo proprio dalla Libia.

Come si stanno comportando ğli altri “attori”? Mi riferisco in particolare a Egitto, Arabia Saudita e Qatar…
Qatar, Arabia Saudita ed Egitto in Libia hanno fin qui sostenuto fronti opposti. In estrema sintesi Doha è al fianco di al-Serraj mentre Riad e Il Cairo sostengono Haftar. L’Arabia Saudita al momento sembra meno interessata al dossier libico, mentre gli Emirati arabi uniti sono rimasti gli unici veri sponsor di Haftar. Saranno probabilmente loro a cercare in ogni modo di rispondere alla “vittoria turca”, forse non in Libia ma su altri tavoli come, ad esempio, la già martoriata Siria. Nel frattempo cercano di mettere i bastoni tra le ruote ad Ankara nel Mediterraneo orientale intessendo rapporti con molti degli attori interessati al progetto del gasdotto East Med (ostacolato dalla Turchia) tra cui l’Egitto. Per quanto riguarda Il Cairo, al-Sisi sembra voler salire su un gradino più alto, passando da attore attivo del conflitto, grazie al suo sostegno ad Haftar, al ruolo di mediatore. Per questo motivo ora pare molto più vicino ad Aquila Saleh, il Presidente del Parlamento di Tobruk sostenendo la sua “iniziativa di pace” che richiedeva, tra le altre cose un immediato cessate il fuoco, il ritiro delle forze straniere e un ritorno al processo politico. La proposta è stata evidentemente restituita al mittente dal Gna e dalla Turchia. Tuttavia il ruolo egiziano potrebbe essere importante per futuri negoziati che, mi auspico, vi saranno a breve.

Qualcuno ha scritto che la Libia è un

Monumento alla inettitudine della classe politica italiana. Condivide il giudizio?

La Libia è la cartina al tornasole dell’assenza di una strategia di politica estera dell’Italia. Nel 2011 abbiamo preso parte a un intervento internazionale voluto soprattutto dalla Francia, pagando per far fuori Gheddafi, il nostro migliore alleato nel Mediterraneo. Nel tempo siamo riusciti a recuperare alcune postazioni nel Paese, grazie anche all’Eni che ha continuato a lavorare in Libia mantenendo rapporti con gli attori locali. Dal 2016, abbiamo deciso di sostenere il Gna di Serraj per tutelare i nostri interessi nell’ovest ma limitando troppo spesso la nostra “chiave di lettura” della crisi libica al tema migratorio e, dunque, senza quello sguardo strategico d’insieme che una seria politica estera richiederebbe. Quando, però, l’offensiva di Haftar per conquistare Tripoli sembrava volgere a suo favore abbiamo “strizzato l’occhiolino” al generale della Cirenaica, perdendo credibilità nell’ovest. A chiudere questa “parata di errori”, negli ultimi mesi, forse troppo presi dai problemi del Covid, abbiamo abbandonato di nuovo il dossier libico lasciando campo libero alla Turchia che ha rifornito le milizie di Tripoli e dintorni di armi e mercenari permettendo ad al- Serraj di costringere Haftar a una parziale ritirata e ora “le chiavi” dell’ovest sono in mano ad Erdogan. Eppure abbiamo ancora numerosi assets nel Paese. La nostra ambasciata a Tripoli svolge un ottimo lavoro, l’Eni continua ancora ad avere un importante peso anche tra la popolazione. Abbiamo buoni rapporti con gli attori che sostengono le diverse fazioni.  Solo per fare alcuni esempi, il gas egiziano porta il marchio di Eni, il giacimento Zhor, oggi, rappresenta da solo un terzo della produzione totale di gas del Paese. Dall’altra parte l’Italia fa affari anche con il Qatar, alleato di al-Serraj. Detta in altri termini abbiamo ancora delle buone carte per giocare la nostra partita ma non lo stiamo facendo. Possiamo definire “inettitudine” questo atteggiamento, o più semplicemente incapacità di portare avanti una chiara linea di politica estera. Qualunque definizione vogliamo utilizzare i fatti non cambiano: almeno per il momento abbiamo perso la Libia.

Quali sono i rischi che corrono ĺ’Italia e l’Europa da un rafforzamento di Putin e Erdogan in Libia?

L’Italia e l’Europa non rischiano di perdere più di quanto abbiano già perso, visto che oramai sono totalmente escluse dalla partita libica. In termini brutali potremmo dire che chi è sul terreno vince e Russia e Turchia hanno combattuto nel Paese “boots on the ground” e ora chiedono il conto ai rispettivi alleati sul terreno. Quanto sarà “salato” lo scopriremo solo quando i due si siederanno al tavolo delle trattative. In ballo ci sono basi militari, porti, affari miliardari per la ricostruzione e, più in generale, l’influenza geostrategica nel quadrante mediterraneo. Se il buongiorno si vede dal mattino, tra tutti i Paesi europei, l’Italia è la grande sconfitta. Il 18 giugno, in una lettera pubblicata nel quotidiano La Repubblica, il leader del Gna, Fayez al- Serraj, pur chiedendo all’Onu e all’Unione europea un aiuto per una soluzione politica del conflitto e ribadendo il legame con l’Italia, sottolinea più volte l’indispensabile supporto fornitogli dalla Turchia e la validità dell’accordo concluso con Ankara per la già menzionata zona economica esclusiva nel Mediterraneo orientale. Parole che pesano come un macigno sull’Europa ma soprattutto sull’Italia. Non servono altri esempi per spiegare il ruolo oramai marginale che ricopriamo nel Paese. Per il nostro governo non vi sono più scelte: se vorrà tornare a dialogare con gli attori dell’ovest dovrà necessariamente “alzare la cornetta e chiamare Ankara”: è lei che decide, probabilmente anche sulla questione migranti. E a chi eccepisce che la Turchia non sia l’interlocutore migliore con cui parlare non si può che rispondere che l’Italia ha scelto di trovarsi in questa difficile situazione.

Ma in tutta questa vicenda le tribù libiche che ruolo stanno giocando?

 

La Libia è un Paese di notevoli dimensioni fatto di realtà tribali radicate nel territorio e con un forte ascendete sulla popolazione che neppure Gheddafi riusciva a controllare del tutto, specie nella Cirenaica e nel Fezzan. Le tribù, e più in generale gli attori locali come le municipalità, sono player indispensabili che potrebbero avere un ruolo aggregativo o disgregativo nei futuri assetti libici. In Tripolitania, ad esempio, dopo la sconfitta di Haftar è venuto a mancare “il nemico comune” e ora le forze che si erano strumentalmente unite contro di lui potrebbero rispolverare ambizioni egemoniche capaci di portare a scontri interni. Prima dell’avanzata dell’esercito di Haftar, per esempio, c’erano vistose crepe tra al-Serraj e i gruppi di Misurata, la potente città-Stato che con le sue milizie ha battuto lo Stato islamico a Sirte nel 2016 e da lì ha sempre ambito a un ruolo di primo piano nel Paese. I misuratini sono fin qui stati preziosi alleati del Gna nel respingere l’offensiva militare di Haftar, ma ora potrebbero chiedere il conto. Discorso simile può essere fatto per le altre milizie libiche, unite dalla causa comune di “salvare Tripoli” ma che ora potrebbero ingaggiare una guerra intestina. Di questo anche Turchia e Russia dovranno tenere conto quando decideranno come far valere i loro interessi nel Paese. D’altra parte, gli attori locali, o per lo meno alcuni, potrebbero essere alleati della comunità internazionale per un processo di ricomposizione del Paese. Un percorso che richiede una grande conoscenza della complessa realtà territoriale libica e una notevole capacità di dialogo e mediazione che fino ad oggi nessuno si è sforzato di compiere.
Sono ancora possibili negoziati di pace?

Nonostante le evidenti difficoltà di cui abbiamo sin qui parlato, è indispensabile tentare nuovi negoziati. Questa volta, però, sarà necessario lasciare da parte le belle photo opportunity (unico risultato raggiunto nei vari vertici internazionali fin qui realizzati sulla Libia) ed essere molto più pragmatici, intavolando un dialogo inclusivo con le municipalità e con le tribù. La domanda è: chi può farlo e come? E’ evidente che Russia e Turchia saranno i protagonisti indiscussi dei futuri negoziati e che gli Usa, che per il momento hanno scelto Ankara, giocheranno la loro partita dietro le quinte. Per quanto riguarda l’Europa è oramai chiaro che nessuno Stato da solo può fare la differenza e dunque non resta che sperare che le cancellerie europee aprano gli occhi e capiscano, dopo quasi10 anni di instabilità e conflitti, che la guerra, oltre ad essere una catastrofe per la popolazione, viene sempre vinta da chi è più spregiudicato e non ha problemi nell’esporsi e combattere (e questo non è certo nelle corde dell’Europa). A volte, dunque, è più conveniente trovare una soluzione comune tra tutti gli Stati e non per spirito di unità, che in Europa fin qui non è mai esistito, ma per la pragmatica presa di coscienza che una Libia stabile può favorire l’interesse nazionale di tutti i Paesi europei. Se l’Europa ci riuscirà potrà forse ambire a un qualche ruolo nel futuro del Paese.

“Nella guerra in Libia tutti ‘giocano sporco’ “. Intervista a Michela Mercuri.

Libia, milizie governative in un sobborgo della capitale Tripoli (MAHMUD TURKIA / AFP / Getty Images)

Come si svilupperà il conflitto armato in Libia scatenato da Haftar? Quali sono gli interessi in gioco? Di questo parliamo, in questa intervista, con la professoressa Michela Mercuri. La professoressa Mercuri è docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro “Incognita Libia – cronache di un paese sospeso” (2017).

Professoressa, la Libia torna a bruciare. Come si è arrivati a questo punto?
Dopo l’ultimo vertice sulla Libia (la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre) sembravano essere stati realizzati alcuni minimi passi avanti nel dialogo politico per la “stabilizzazione” del Paese: una road map che prevedeva un percorso istituzionale per condurre a elezioni e una maggiore collaborazione tra le parti anche in tema di sicurezza. In quell’occasione, il generale Khalifa Haftar aveva addirittura accettato che al-Serraj potesse essere riconfermato alla guida del consiglio presidenziale almeno fino alle elezioni. Il percorso sembrava ormai tracciato. Eppure la Libia ci insegna che le cose possono mutare con una rapidità spesso sconosciuta alla storia. L’errore, per lo meno dell’Italia, è stato quello di sottovalutare le minacce di avanzata di Haftar di cui, invece, erano a conoscenza i suoi alleati, Francia compresa. Sapevamo da tempo che Haftar era oramai l’uomo forte della Libia, lo avevamo “agganciato” a Palermo, seppure con la probabile intercessione di Putin, ma poi ci siamo arroccati di nuovo sulle nostre posizioni per difendere i nostri interessi a Tripoli da cui l’Eni estrae circa il 70%del greggio e da cui partono (o per lo meno partivano) la più parte dei migranti diretti verso le nostre coste. Non riuscire a tessere la rete diplomatica per fermare l’avanzata di Haftar e aver continuato a guadare solo alla capitale, sono stati gli errori italiani che hanno favorito il caos che al momento regna nel Paese. Forse non avevamo gli strumenti per evitarlo, ma quantomeno avremmo dovuto operare qualche sforzo in più.

Il protagonista, il generale “gheddafiano”, Khalifa Haftar è stato da poco in Arabia Saudita. Ha incontrato il controverso principe ereditario bin Salman. E’ andato a battere cassa. Insomma Haftar ha cercato l’appoggio dell’ Arabia Saudita (ed anche degli Emirati Arabi) per estendere il suo potere. Per qualche osservatore internazionale, però, questo conflitto libico ha tutti i connotati di una guerra per procura…. Per lei? INSOMMA, CHI GIOCA SPORCO IN LIBIA?
In Libia tutti gli attori regionali e internazionali che sponsorizzano le varie fazioni “giocano sporco” fin dal 2011. Dalla caduta del rais, i fili della Libia sono tenuti dai gruppi di potere locale in una serie di alleanze a geometria variabile con vari player internazionali che oramai fanno affari con le singole milizie e a volte con gli stessi signori della guerra, perpetuando la divisione del Paese. Dalla Francia, alla Russia, all’Italia, passando per il Qatar, la Turchia, l’Egitto, gli Emirati arabi e l’Arabia saudita, tutti sembrano più interessati ad assicurarsi l’appoggio di leader locali che a progettare insieme un percorso per la stabilizzazione, parola che oramai è divenuta un mantra vuoto di significato. È una vera e propria guerra per procura che ultimamente sta vedendo come protagonisti soprattutto i cosiddetti attori regionali: sauditi ed emirati finanziano Haftar per estendere il loro potere nel paese e per affermarsi sulla fratellanza musulmana che sostiene alcune fazioni di Tripoli, a loro volta supportate da Qatar e Turchia. È uno scenario poco edificante che, per certi versi, ricorda quello siriano.

Che interesse ha l’Arabia Saudita in Libia? Un interesse politico e “religioso?
C’è un aspetto fin qui poco considerato. Riad è la culla del madkhalismo, una corrente di stampo salafita ultraconservatrice (Salafiyya Madkhaliyya), fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, considerato da molti al soldo della casa reale saudita. Insediatisi in Libia già negli anni Novanta sotto il regime di Muhammar Gheddafi, che li utilizzava strumentalmente in chiave anti fratellanza musulmana, i madkhalisti sono ancora forti e presenti in Libia. La longa manus saudita, attraverso i loro appartenenti, tra cui almeno uno dei figli di Haftar, influenza gli equilibri interni, fornendo ingenti somme di denaro ad alcuni gruppi dell’est e dell’ovest, manipolando gli assetti interni e bypassando le divisioni locali. Attraverso le forze fedeli al generale, i sauditi vogliono allargarsi nel Paese, per indebolire la fratellanza musulmana sostenuta, in particolare, da Qatar e Turchia. Il crescente potere dei madkhalisti in Libia dovrebbe portarci a una riflessione. L’influenza degli Stati del Golfo, e in particolare dei sauditi, negli affari di sicurezza dell’ex Jamahiriya è stata sottovalutata dagli attori internazionali concentrati sulla sconfitta dello Stato islamico e sulla riconciliazione delle divisioni politiche. Tuttavia, anche le crescenti fratture nelle fazioni islamiste meritano attenzione poiché potrebbero essere la causa di questa escalation di violenze.

Altre potenze, come ha detto prima, sono interessate alla Libia: la Russia di Putin, per ragioni geopolitiche, O per altri motivi?
Prima ho illustrato gli interessi del Golfo ma, in realtà, tutte le potenze internazionali e regionali sono interessate in qualche modo alla Libia per motivi diversi. In primis la Russia che ha fin qui sostenuto Haftar per interessi economici e geostrategici. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio dalla Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie ai tanti impianti dell’est libico, ricco di petrolio. Inoltre, Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra contro la fratellanza musulmana e la Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, poi, Haftar è il complemento ideale all’asse con l’Egitto di al-Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la questione dello sbocco sul mare. La Russia, intervenendo militarmente nel conflitto siriano, accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, vitale sbocco sul mare. Perché non approfittare del generale di Haftar per ricavarsi un altro “porto sicuro” nella Cirenaica? In questo momento, però, anche il Cremlino si trova in una fase di impasse. Il recente incontro tra Putin ed Erdogan (che sostiene Tripoli e dunque gli avversari dei russi) potrebbe placare gli animi. In ballo ci sono molti interessi: la fornitura ad Ankara dei missili russi S-400 e il gasdotto South Stream. Per questo Putin, per mettere in salvo gli affari con la Turchia, potrebbe aver chiesto al generale di fermare la sua offensiva. Sono ipotesi ancora tutte da verificare ma che potrebbero far pensare a un minimo passo indietro del Cremlino nel sostegno ad Haftar.

Al Sharrai ha dato del complice a Macron. Lei pensa che la Francia voglia destabilizzare Tripoli per li pozzi di petrolio? Per contrastare l’italiana Eni? Mi sembra una scelta suicida peggio di quella che fece Sarkozy contro Gheddafi.. Come vede il ruolo della Francia.
Oramai sappiamo bene che la Francia ha spinto per l’intervento in Libia nel 2011 per i propri interessi nazionali, soprattutto energetici, cercando di marginalizzare l’Italia ed ha continuato a farlo sostenendo Haftar che poteva garantire il controllo dei giacimenti dell’est e della sirtica. Nella situazione attuale, però, credo che anche la Francia rischi qualcosa. Se da un lato l’Eliseo conosceva senza dubbio i piani di “espansione territoriale “ di Haftar, dall’altro, ora, con una guerra civile in corso, che secondo molti potrebbe protrarsi ancora per un po’ di tempo e assumere le sembianze di una guerra “a bassa intensità”, rischia di perdere il suo alleato di ferro. Haftar, infatti, aveva fin qui giustificato la sua azione presentandosi come il “salvatore della patria” per fare perno su una popolazione stanca del caos e dello strapotere delle milizie e sull’incapacità di Serraj di controllarle e riportare la pace a Tripoli. Portando avanti una avanzata così aggressiva, però, rischia di perdere il consenso di una parte della popolazione e di alcune delle milizie che fin qui lo hanno appoggiato. Se Haftar perdesse parte del potere e parte del controllo del territorio, la Francia, sua alleata, perderebbe posizioni Libia, viceversa accrescerebbe la sua egemonia nell’area. Solo il tempo, dunque, potrà dirci se è una scelta suicida.

In tutto questo caos gli USA se ne lavano le mani, ritirano il piccolo contingente militare. Tutto è coerente la politica neoisolazionista di Trump. È così professoressa?
Gli Usa non hanno mai avuto a cuore la questione libica, specie con l’amministrazione Trump. A ben guardare, però, dietro a questa mossa potrebbe esserci di più. L’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina, ha posizioni divergenti da quelle americane sulle sanzioni alla Russia o sul destino di Maduro e questo infastidisce non poco Trump. Perciò, seppure il presidente americano sia stato uno dei principali alleati dell’Italia per la realizzazione della conferenza sulla Libia – tanto che l’idea era nata in occasione della visita di Conte a Washington nel luglio del 2018 – ora le cose sono cambiate e l’Italia difficilmente potrà contare su Trump. Inoltre, va ricordato anche che il presidente americano è molto più interessato alla partnership con i sauditi che a quella con l’Italia. Riad è tra gli alleati e finanziatori di Haftar e tra quelli che lo hanno aiutato in questa avanzata. Tuttavia, per mantenere le vitali relazioni economiche con Riad Trump potrebbe aver chiuso più di un occhio sulle minacce del generale. Gli americani, oltre al ritiro del contingente di Africom, hanno nominato un ambasciatore straordinario a Tripoli, ma questo non è tanto un segnale di vicinanza all’Italia quanto piuttosto un avvertimento al Cremlino.

L’Italia non sembra all’altezza della situazione. Per il governo italiano, o meglio per questo governo populista, la Libia è solo una diga contro l’immigrazione. Quali sono stati gli errori italiani in Libia?
Il governo italiano, come ho detto all’inizio, dopo il parziale successo della conferenza di Palermo ha preso un po’ “sottogamba” la questione libica. Si è forse accontentato di aver bloccato gli sbarchi senza guardare ciò che accadeva oltre la costa. Secondo alcuni analisti, tuttavia, i nostri servizi erano a conoscenza delle intenzioni del generale e avevano informato il governo. L’Italia, però, potrebbe non essere stata in grado di evitare tale escalation a causa del mancato supporto degli alleati, specie degli Usa fin qui vicini alla posizione del nostro governo in Libia e ora molto più distaccati per i motivi sopra ricordati.

C’è il rischio di una espansione del conflitto?
Credo che il conflitto abbia raggiunto la sua massima e (forse) inaspettata espansione. Nella migliore delle ipotesi si manterrà per un po’ di tempo, perlomeno finché le forze sul campo – le milizie di Misurata e l’esercito di Haftar- potranno giovare degli aiuti esterni. Viceversa, ipotesi forse più remota, si potrebbe giungere a un minimo compromesso, una sorta di “tregua armata”, mediata dagli attori internazionali, capace di portare alcune delle fazioni in lotta a Ghadames per la tanto agognata conferenza che dovrebbe svolgersi dal 14 al 16 aprile. Vorrei però evidenziare che al momento i segnali non sono positivi. Nelle ultime ore si è aperto un nuovo fronte per Haftar a Sirte, dunque da est e non dal sud rispetto a Tripoli, Ci sarebbero stati bombardamenti anche in questa zona, al momento circondata dalle forze del generale. Anche Sirte è difesa da Misurata e dunque potrebbe essere un nuovo “fronte caldo” capace di ostacolare qualunque tentativo di mediazione.

Il ruolo dell’Italia nel caos libico. Intervista a Michela Mercuri

La Libia è ben lontana dall’essere pacificata. Ben due governi si contendono il Paese. Così tra milizie e “signori” della guerra prende campo l’espansionismo russo. Quale ruolo gioca l’Italia? Ne parliamo, in questa intervista, con Michela Mercuri. Mercuri è Professore di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università degli Studi di Macerata. Collabora, come analista di politica estera, con diverse testate.

Professoressa, dobbiamo cominciare questa nostra intervista sulla Libia con una brutta notizia per l’Italia e per l’Europa: è di qualche giorno fa che un tribunale di Tripoli ha sospeso il “memorandum d’intesa” con l’Italia. Perché questa decisione? Quali le conseguenze?
Ci sono almeno due considerazioni da fare. In primo luogo questa “sospensione” testimonia le profonde spaccature che ci sono nella capitale tra il Governo di accordo nazionale e le altre forze presenti sul terreno – milizie, tribù e rappresentanti delle municipalità locali – che spesso disconoscono la leadership di Serraj. In secondo luogo andrebbe ridimensionato il peso della Corte di appello di Tripoli. Nella capitale, così come in molte altre zone del Paese, regna la più totale anarchia e i vari organismi politici e di giustizia hanno un peso specifico molto limitato. Da questo punto di vista, più che della giurisprudenza, dovremmo preoccuparci della pratica. Fare accordi con un governo che non controlla il territorio né le milizie che gestiscono i flussi potrebbe essere un fallimento annunciato. Prima bisogna creare un accordo politico più inclusivo e poi, eventualmente, erogare soldi e “attrezzature”. Altrimenti è il caso di dire “soldi buttati”.

Qual è la condizione dei migranti in Libia?
I migranti, in linea di massima, arrivano dal sud dell’Africa (Mali, Niger, Ciad ecc.) passano attraverso il deserto meridionale libico, santuario di numerose organizzazioni criminali e terroristiche, e arrivano sulle coste libiche. Qui vengono “smistati” in 34 centri di detenzione all’interno dei quali, al momento, sarebbero detenute tra le 4.000 e le 7.000 persone; 24 di queste strutture sarebbero gestite dal Dipartimento del governo libico che si occupa dell’immigrazione illegale, le altre sono in mano a gruppi criminali. Posto che nell’anarchia in cui versa il Paese abbia un senso parlare di “Dipartimento del governo libico”, l’Unicef ha dichiarato di avere accesso a meno della metà dei centri gestiti dal governo e a nessuno di quelli controllati dalle milizie. Le poche testimonianze che abbiamo parlano di condizioni drammatiche di vera e propria detenzione in condizioni inumane. Spesso gli uomini della guardia costiera non si avvicinano nemmeno alle aree dove si trovano i centri controllati dai miliziani perché è troppo pericoloso. Una parte dell’accordo sui migranti si pone l’obiettivo di rendere meno “bestiali” questi lager, fornendo aiuti alla guardia costiera ma, in un contesto come quello appena delineato, siamo sicuri che i nostri soldi verranno davvero utilizzati per questi fini o andranno nelle mani di uomini senza scrupoli che li utilizzeranno per ben altri scopi?

Parliamo della situazione politica libica. Come si sa siamo ancora ben lontani dalla pacificazione. Abbiamo ben due governi , Tripoli e Tobruk. L’Italia e la comunità internazionale (quasi tutta) sostengono il governo di al-Sarraj. Le chiedo: come si sta svolgendo il nostro ruolo di pacificazione? Quali iniziative, se ve ne sono, abbiamo preso con il governo della Cirenaica?
C’è, purtroppo, una deplorevole incongruenza nell’atteggiamento degli attori occidentali, e in particolare di quelli europei, in Libia. Tutti, nei tavoli negoziali, hanno sostenuto il “progetto Onu” per il Governo di accordo nazionale di Serraj. Una volta con i piedi sul terreno, però, molti hanno continuato a finanziare e armare Haftar e, dunque, l’ala di Tobruk. Il governo italiano, in questo momento, è l’unico alleato internazionale di Tripoli. Abbiamo riaperto la nostra ambasciata nella capitale. Abbiamo avviato la missione Ippocrate: 300 uomini tra cui 65 medici e infermieri e un ospedale da campo a supporto delle milizie di Misurata fedeli e Serraj. Infine, addestriamo la guardia costiera libica nell’ambito della missione europea “Sophia”. Si tratta di un impegno notevole ma c’è un solo modo per non renderlo inutile e anacronistico: sfruttare il ruolo di “unico punto di contatto occidentale a Tripoli” per porci come interlocutori per la mediazione di un accordo più inclusivo anche con gli attori della Cirenaica e i loro sponsor, Russia in primis.

Vogliamo chiarire i punti strategici-geopolitici dell’Italia. In questo ambito è determinante il ruolo dell’Eni…
L’Italia è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti, mentre sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. L’intervento in Libia della coalizione internazionale del 2011 è stato voluto da molti attori internazionali, Francia in primis, anche per rivedere le commesse petrolifere a proprio vantaggio. Nonostante ciò l’Eni è l’unica compagnia internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. D’altra parte è nel Paese dal 1959, da molto più tempo rispetto ad altre società petrolifere europee, ed è facile immaginare che si sia creata quei contatti che ora le rendono possibile coesistere con alcune delle milizie libiche. Non è certo una condizione ideale poiché i gruppi armati cambiano casacca con molta facilità e non sono nuovi ad atti di forza che vedono nella conquista dei pozzi petroliferi l’obiettivo più gettonato. Anche in questo caso, dunque, sarebbe necessario un maggiore sforzo politico.

L’Uomo forte, oggi in Libia, appare il generale Haftar. Il quale non ne vuole   sapere del governo  di Tripoli. Forte dell’appoggio di Egitto e Russia. L’Egitto di Al Sissi lo appoggia per ragioni di contrasto all’integralismo islamista. E per la Russia di Putin, quali sono gli obiettivi? Sappiamo che non guarda solo al generale Haftar ma anche ad al-Sarraj…
I motivi del sostegno russo ad Haftar sono di ordine economico, geopolitico e geostrategico. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del greggio libico, ma ha tutto l’interesse a vendere know-how e tecnologie. Inoltre ad Haftar servono armi per proseguire la guerra sia contro gli islamisti sia contro il Governo di unità nazionale. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, la Libia è un tassello della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con al Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la Russia, mira ad ottenere uno sbocco sul mar Mediterraneo nella Cirenaica. Va però detto che Haftar, per quanto forte, non può essere l’unico interlocutore nel Paese. Ci sono altri attori rappresentativi, come ad esempio le milizie di Misurata, con cui è necessario mediare un qualche accordo. La Russia ne è perfettamente cosciente. Per questo sta cercando di assurgere ad un ruolo maggiormente diplomatico nella partita libica, “agganciando” anche gli attori tripolini. Non è un caso se pochi giorni fa Serraj si è recato a Mosca per incontrare il ministro degli esteri russo Lavrov. La vera diplomazia russa in Libia potrebbe cominciare da qui.

L’espansionismo russo può entrare in rotta di collisione con gli interessi dell’Italia e dell’UE. È possibile una collaborazione con la Russia?
Il problema è a monte. Quali sono gli interessi dell’Europa? Le politiche estere degli attori europei procedono in ordine sparso, senza una chiara visione comune, se non sulla carta. Fino a questo momento il minimo comun denominatore è stato il ruolo di “traino degli Stati Uniti”. Ora che Trump ha paventato un maggiore disimpegno, l’Europa ha due opzioni: o saprà costruire una maggiore autonomia nel tradizionale asse atlantico, oppure il suo ruolo verrà marginalizzato. Allo stato attuale è difficile immaginare, però, che le capitali europee decidano di investire in spese militari. Inoltre, per assumere un ruolo di “guida”, l’Europa avrebbe bisogno di una volontà comune e di una chiara leadership. Al momento manca di entrambe. In queste condizioni la Russia ha la possibilità di ritagliarsi il ruolo di attore egemonico indiscusso. Una qualche collaborazione con Putin, stante così le cose, non potrà avvenire a livello europeo. L’Italia ha una sola chance, come già detto, sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca.

Abbiamo, però, alleati che fanno il “gioco sporco” nello scacchiere Libico. Mi riferisco alla Francia. Che ruolo sta giocando?
La Francia, fin dall’inizio della crisi libica ha sempre anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale allo spirito di fedeltà all’alleanza europea. La missione della Nato in Libia è stata voluta dal governo francese di Sarkozy per motivazioni del tutto personali: le elezioni imminenti, la sua popolarità in drastico calo e la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe. Le cose non sono migliorate in seguito. La Francia con una mano ha siglato gli accordi di Skhirat per il Governo unitario di Serraj e con l’altra ha fornito armamenti alle milizie di Haftar, attraverso triangolazioni estere con Egitto ed Emirati. L’obiettivo è accedere alle riserve petrolifere della Cirenaica, riprendendo le attività estrattive e allargando il raggio di quelle esplorative avviate nel 2011. Da questo punto di vista non posso che giudicare negativamente la politica francese.

Gli USA di Trump come si stanno muovendo?
Trump, fedele alla dichiarata politica del “disimpegno Mediterraneo”, pare fin qui poco interessato alla Libia. E’ plausibile ipotizzare, dunque, che sia disposto a lasciare mano libera alla Russia nel tentare di dirimere la spinosa questione. Putin, estromesso dalla partita libica nel 2011 perché contrario ai bombardamenti, coglierebbe volentieri questa occasione per dimostrare di poter riuscire là dove gli Stati Uniti di Obama hanno fallito.

Ultima domanda. L’ISIS è ancora presente?
I combattenti dell’Isis a Sirte – circa tremila prima dell’inizio dell’offensiva – non sono stati tutti uccisi o catturati. Molti sarebbero fuggiti verso il sud del Paese, nel Fezzan. Da qui, grazie anche ai fiorenti traffici della zona, potrebbero riorganizzarsi. Non c’è solo Isis. Nel deserto libico è stabilito anche un nuovo comando di al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi).  Qui i servizi segreti di Algeri hanno localizzato campi e basi logistiche dei qaedisti attivi anche in territorio algerino e nel Sahel e fonti di stampa estera hanno in più occasioni raccontato di incursioni condotte oltreconfine dalle forze speciali di Bouteflika per annientarli. Da ciò risulta evidente che dire di aver espulso l’Isis da Sirte non significa aver risolto il problema del terrorismo nel Paese.

Libia e disinformazione 
le tante montature Isis 
e i creduloni di Stato. Un’analisi di Don Giulio Albanese

 www.wikipedia.it

www.wikipedia.it

Giulio Albanese in questi giorni è in Africa, quella più nera e più profonda della costa Mediterranea, ma non smette di guardarsi attorno. lui, da giornalista-prete che i peccati raccontati li conosce individua al volo le bugie: allarmismi inutili o peggio disinformazione che conta sugli stupidi.

Per gentile concessione del sito: www.remocontro.it

Tutti hanno paura di quanto sta avvenendo in Libia. Ma cosa si può fare per arginare il delirio califfale? È importante rispondere con lucidità e freddezza. Contrariamente a quanto afferma certa informazione, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni tribali, dalla caduta del regime di Gheddafi, continuano ogni giorno a massacrarsi, utilizzando il “brand” del califfato, in franchising, come ha scritto l’amico Lucio Caracciolo.

È il modo migliore per bucare lo schermo, ottenere visibilità, suggestionare le masse e reclutare adepti. La diffusione, nei giorni scorsi, del video in cui era mostrata la decapitazione di 21 egiziani copti è aberrante, ma rientra nel contesto di una strategia eversiva, criminale e massmediale. Personalmente, credo che occorra, innanzitutto, bloccare i flussi di denaro che foraggiano i gruppi armati.

Ma l’intelligence occidentale cosa sta facendo? È possibile che non sappiano chi sono i finanziatori delle bande libiche? Per favore, mettiamoci in testa che se gli aspiranti seguaci di al-Baghdadi in terra africana stanno facendo il bello e il cattivo tempo è perché finora è mancato un meccanismo di supporto internazionale che sia dotato dell’effettiva capacità di individuare e colpire le organizzazioni coinvolte nella lotta armata, al fine di indebolire i centri nevralgici che provocano instabilità e violenza.

In assenza di questo tipo d’intervento, la proliferazione di gruppi e organizzazioni del radicalismo islamico aumenterà esponenzialmente grazie alla facilità di ingresso delle attività illecite. Inoltre, la comunità internazionale deve evitare di cadere nella trappola manichea, quella di parte, cioè di chi spinge il sostegno a favore di una componete, a danno dell’altra.

Al contrario, è necessario favorire in ogni modo l’espansione del tavolo negoziale e dei processi politici che sostengano l’inclusione e la rappresentatività delle più diverse componenti. Ad esempio, riconoscere la legittimità delle forze politiche di ispirazione confessionale non solo è un’urgente necessità, ma anche l’unico vero modo per delegittimare le componenti radicali e jihadiste isolandole dal contesto politico e sociale libico.

Perché ciò sia possibile, però, è indispensabile agire con decisione contro le ingerenze esterne, riconoscendole e denunciandole senza esitazione, evitando così di trasformare la Libia in un terreno di scontro “per conto terzi”. È bene rammentare che Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno le loro responsabilità a questo proposito. Il cammino è certamente tutto in salita. Occorre pertanto non perdere tempo.

Stiamo parlando di un Paese, per favore non dimentichiamolo, che è stato culla di civiltà: il teatro di Sabratha, la magnificenza di Leptis, le pitture rupestri dell’Acacus…

DAL SITO: http://www.remocontro.it/2015/02/21/libia-disinformazione-tante-montature-isis-i-creduloni/