Il mondo capovolto dei complottisti. Intervista a Leonardo Bianchi

Militanti Qanon

L’idea generale sulle teorie del complotto è che siano un qualcosa di pericoloso e al tempo stesso di estremamente marginale, mentre i complottisti sarebbero dei pazzoidi che vanno in giro con gli occhi sgranati convinti di essere inseguiti da elicotteri neri. È un assunto, questo, che conforta la maggior parte delle persone: noi non siamo come loro.  Ma la realtà è ben più complessa: le ricerche e gli studi più recenti dimostrano inequivocabilmente  che il complottista può essere più o meno chiunque. Perché chiunque – in una o più fasi della sua vita – ha creduto ad almeno una teoria del complotto: in gergo, è finito «nella tana del Bianconiglio».  Partendo dai Protocolli dei Savi di Sion, passando per QAnon e spingendosi fino alla pandemia e all’assalto al Congresso degli Stati Uniti, Leonardo Bianchi costruisce, in questo saggio, un quadro organico delle teorie del complotto, spiegando come nascono, in che modo e perché si diffondono, e cosa rivelano della società in cui viviamo. Il tutto senza mai rinunciare a quel rigore dell’analisi e del giudizio che ne fanno una delle voci più credibili del giornalismo italiano. Un libro che merita attenzione . Con l’autore approfondiamo alcuni punti interessanti del suo saggio. Leonardo Bianchi è giornalista e blogger, è news editor di VICE Italia. Ha collaborato, tra gli altri, con Valigia Blu e Internazionale. Dal 2008 scrive di politica, attualità Cultura anche sul suo blog satirico La Privata Repubblica.

Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto

Il Libro: Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto, Ed.Minimum fax, 2021, pagg. 323. 18 €

Leonardo, inizierei questa nostra conversazione con alcuni dati, presi dal Censis. Il 12,7% degli italiani pensa che la scienza provochi più danni che benefici. Questo è uno dei dati più sconcertanti del rapporto sull’Italia del 2021. Ve ne sono anche altri, ancora più drammatici. Ma questo sintetizza una mentalità. Ti chiedo come ti spieghi, in una pandemia, questa sfiducia nella scienza (sicuramente minoritaria)?

Come ha fatto in tanti altri aspetti della società, la pandemia ha accelerato una tendenza che esisteva già da tempo.

Un esempio su tutti: l’opposizione vaccinale non nasce certo con i vaccini anti-Covid, ma fin dall’invenzione dei vaccini. E non a caso, le argomentazioni antivacciniste contemporanee non hanno nulla di nuovo; anzi, sono delle versioni rivedute e aggiornate di teorie (come quella secondo cui la vaccinazione di massa è un metodo per ridurre la popolazione), che già circolavano da anni, riferite però ad altri vaccini.

A grandi linee, questo succede perché la mentalità complottista si nutre dei vuoti di conoscenza, che del resto sono fisiologici in certi ambiti. La scienza non ha risposte per tutti gli aspetti della vita umana, e questo vale a maggior ragione di fronte all’emersione di un virus sconosciuto che ha avuto un impatto devastante sulle vite di ciascuno di noi.

Infine, c’è un aspetto squisitamente politico: già prima della pandemia, diversi partiti e leader avevano fatto ampio ricorso a teorie antiscientifiche che avevano contribuito a erodere la fiducia di una parte dell’opinione pubblica nei confronti della scienza.

La pandemia si è inserita in quadro di incertezza e fragilità, e l’ha fatto saltare in aria. In questo senso, è stata davvero la tempesta perfetta.

Veniamo al tuo libro. Il saggio ci offre una analisi davvero interessante del fenomeno complottista. Un fenomeno tutt’altro che banale. Incominciamo con un dato storico. Sappiamo che le teorie complottiste sono sempre esistite (esempio: i protocolli dei savi di Sion). Però tu fai partire la tua narrazione da un, guarda che caso, dispaccio abbastanza famoso della Cia che riguarda l’omicidio di JF Kennedy. Perché?
Ho deciso di far partire il primo capitolo dal dispaccio numero 1035-960 della Cia (inviato il primo aprile del 1967) perché è all’origine di una, chiamiamola così, meta teoria cospirativa: ossia una teoria del complotto sul termine “teoria del complotto”, che sarebbe stato inventato dalla Cia per screditare chi aveva dubbi sulla versione ufficiale dell’omicidio JFK.

In sostanza, il cablogramma era una sorta di vademecum per – cito testualmente – “contrastare e screditare le affermazioni dei complottisti, nonché limitare la circolazione di certe teorie in altri paesi”. Il dispaccio è venuto fuori solo dieci anni dopo, nel 1977, e le teorie su di esso hanno iniziato a circolare dagli anni Ottanta a oggi.

A oggi ne esistono due versioni: la prima sostiene che la Cia abbia inventato il termine “teoria del complotto” da zero; l’altra riconosce la previa esistenza del termine (che risale alla fine dell’Ottocento), ma afferma che la Cia gli abbia dato una connotazione negativa.

Naturalmente non è così, visto che chi ha redatto quel testo dava per scontato il termine “complottista”, al punto tale da non doverlo nemmeno definire. E la connotazione negativa era un diretto risultato della Seconda Guerra Mondiale, in cui testi complottisti come i Protocolli dei Savi di Sion erano serviti da “licenza per un genocidio” (come li ha definiti lo storico Norman Cohn).

Tra l’altro, se l’obiettivo della Cia era arginare le teorie sull’omicidio di JFK, be’, è uno dei fallimenti più clamorosi di sempre: ancora adesso oltre la metà dei cittadini statunitensi non crede alla versione ufficiale.

Cosa è esattamente una “teoria complottista”?
Di definizioni ne sono state proposte molte, ma ormai penso che il campo sia sufficientemente delimitato e privo di equivoci. Una di quelle che mi convince di più è quella dei politologi Joseph Uscinski e Joseph Parent, che nel saggio American Conspiracy Theories descrivono le teorie del complotto come delle “spiegazioni di eventi storici, presenti o futuri, in cui il principale agente è un gruppo ristretto di persone che trama in segreto contro il bene pubblico”.

Usando un’analogia efficace, i due aggiungono che le teorie del complotto sono come un liquido che si adatta sempre al recipiente che le contiene, prendendo così la sua forma. E infatti, non esiste un singolo aspetto della vita umana che non sia suscettibile di diventare una teoria cospirativa.

A quale “logica” (tra molte virgolette) risponde?
Grosso modo, la logica complottista si basa su tre assunti: nulla è come sembra; niente accade per caso; tutto è connesso.

La pandemia, per restare sull’attualità, non è una vera pandemia; è una pandemia, cioè un evento pianificato a tavolino da malvagi cospiratori (che poi sono sempre i soliti: Bill Gates, George Soros, ecc.) per schiavizzare l’umanità e instaurare una “dittatura sanitaria” globale.

È interessante notare poi che il complottismo è un sistema di pensiero chiuso e autoreferenziale: le teorie si confermano reciprocamente tra loro, e una volta che si crede in una teoria del complotto si finisce a credere in tutte le altre.

Chi sono i complottisti? È possibile fare un profilo del complottista?
L’idea generale è che i complottisti siano dei mattoidi che vivono da reclusi in uno scantinato, e comunque ai margini della società.

Ecco: questo è un facile stereotipo, perché la faccenda è molto più sfumata e complessa di così. Anche perché, come giustamente rileva lo psicologo Jan-Willem van Prooijen in The Psychology of Conspiracy Theories, se credere in una teoria del complotto fosse l’indicatore di una patologia mentale, allora “vivremmo in una società altamente patologica”.

Diversi studi recenti, che cito nel libro, mostrano come le teorie del complotto permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di genere, culturale e ideologico.

Per come funziona il nostro cervello, inoltre, la propensione a credere in una teoria del complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella “tana del Bianconiglio” – o siamo suscettibili a credere nell’esistenza di qualche cospirazione fittizia.

Facciamo qualche nome. Quali sono le organizzazioni complottiste più famose?
È raro che da una teoria del complotto nasca una vera e propria organizzazione; più spesso, sono le organizzazioni a sfruttare le teorie del complotto.

A volte, però, da una specifica teoria possono nascere dei veri e propri movimenti: è il caso dei cosiddetti Truther, ossia le persone convinte che l’attentato alle Torri Gemelle sia un inside job del governo americano, e più recentemente di QAnon – che è senza dubbio il movimento complottista più famoso e partecipato negli Stati Uniti, in Australia e in alcuni paesi europei.

Non sto qui a riassumerne l’intera storia (per farlo servirebbe un altro libro), ma a grandi linee si tratta di una teoria nata nel 2017 sull’imageboard 4chan dai post di un fantomatico “Q”, che sostiene di essere una talpa con accesso a informazioni riservate sulla guerra tra Donald Trump e la sua amministrazione e una presunta “cricca” di pedofili satanisti annidata dentro le istituzioni Usa.

Per quanto le premesse di tale teoria siano assurde, col tempo QAnon è riuscita a inglobare praticamente ogni altra teoria del complotto, fino ad esplodere definitivamente con la pandemia – attraverso la quale ha poi attecchito in altri paesi, su tutti il Regno Unito e la Germania.

Anche se le “profezie” di Q hanno sempre fallito, attorno a QAnon si è sviluppata una comunità di credenti, al punto tale che qualche studioso l’ha definita una “iper-religione” moderna. Come movimento politico ha infine mostrato la sua pericolosità più e più volte: uno dei primi assalitori a entrare fisicamente nel Congresso americano il 6 gennaio del 2021, tanto per fare un esempio, indossava una maglietta con la lettera Q.

Sappiamo che il complottismo può essere usato come arma non convenzionale nei conflitti politici e nei rapporti tra Stati. Un esempio è Trump. Come ha usato il complottismo l’ex presidente USA?
Trump ha costruito la sua intera carriera politica sul complottismo: non dimentichiamo che il suo vero ingresso in campo c’è stato con la diffusione della teoria razziste sul luogo di nascita di Barack Obama (il cosiddetto “birtherism”)

Da lì in poi ha sempre rilanciato ogni tipo di teoria del complotto, specialmente quelle che gli facevano comodo per mobilitare la sua base, dominare l’agenda mediatica o che – molto banalmente – lo vedevano come protagonista. Come QAnon: Trump ha più volte flirtato con i seguaci del movimento, e alla fine della sua presidenza li ha apertamente elogiati definendoli dei “patrioti”.

Dopo le elezioni del novembre del 2020, Trump e il suo entourage hanno abbracciato in toto le teorie del complotto sulle elezioni “rubate” da Joe Biden, portandole alle estreme conseguenze.

Vladimir Putin ha fatto uso di teorie complottiste?
Ogni leader politico autoritario ricorrere alle teorie cospirative, perché fondamentalmente sono un dispositivo del potere. Putin, i media del Cremlino e i servizi di sicurezza russi hanno sempre usato il complottismo come arma di repressione del dissenso interno, e come strumento per seminare caos all’estero sfruttando le divisioni già esistenti nelle società americane ed europee – e il caso delle interferenze nelle elezioni americane del 2016 ne è probabilmente la riprova più lampante.

In Europa e in Italia chi ha usato e continua ad usare il complottismo come arma politica?
Per quanto riguarda l’Italia, fino a non troppo tempo fa il Movimento Cinque Stelle è stato il partito che più di ogni altro ha incorporato il complottismo nella sua propaganda. Penso che ci ricordiamo fin troppo bene i microchip e le scie chimiche dell’ex deputato Paolo Bernini, il “falso allunaggio” dell’attuale sottosegretario all’interno Carlo Sibilia, o il tweet del senatore Elio Lannutti che rilancia con nonchalance i Protocolli dei Savi di Sion.

Anche Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno sempre utilizzato teorie cospirative, su tutte quella della “sostituzione etnica” – l’idea secondo cui l’immigrazione non sarebbe il frutto di complesse dinamiche geopolitiche, climatiche e sociali, ma un piano di presunte “élite globaliste” per rimpiazzare le popolazioni europee autoctone (cioè bianche e cristiane).

Meloni e Salvini sono ovviamente in ottima compagnia in Europa, e negli ultimi anni sempre più partiti della destra radicale europea hanno sdoganato e normalizzato il complottismo – specialmente con lo scoppio della pandemia.

Esempi davvero estremi in tal senso sono il leader olandese del Forum per la Democrazia (FvD) Thierry Baudet, e il candidato francese di estrema destra Eric Zemmour, che è il più vocale propagandista della teoria della “sostituzione etnica”.

Da chi è usato il “Great Reset”?
Poco sopra ho citato Baudet, e non è una coincidenza: il deputato del FvD ha più volte rilanciato questa teoria, secondo la quale la pandemia – ancora una volta – sarebbe un evento pianificato per far scattare questo fantomatico “Grande Reset” delle società occidentali e arrivare a una specie di “socialismo globale”, paradossalmente sotto l’egida del World Economic Forum, ossia l’incarnazione del neoliberismo capitalista.

Questo per dire che il “Grande Reset” è soprattutto farina nel sacco delle destre più o meno estreme, dal momento che – in ossequio al principio secondo cui nessuna teoria del complotto nasce da zero – è una versione modernizzata di quella del Nuovo Ordine Mondiale (New World Order), nata intorno all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, che a sua volta è una teoria che aveva riportato in auge la paranoia anticomunista del periodo maccartista.

Che rilevanza hanno per i servizi di informazione nella loro operatività le teorie complottiste?
Direi che hanno una grossa rilevanza, e l’hanno sempre avuta. I Protocolli dei Savi di Sion sono stati diffusi – o addirittura creati ad hoc – dall’Ochrana, la polizia segreta russa zarista, per fomentare l’antisemitismo e causare pogrom contro gli ebrei.
Più in generale, anche i servizi segreti hanno sempre usato le teorie del complotto; dopotutto, come ha scritto lo storico Aldo Giannuli, “i servizi non sono solo antenne riceventi di informazioni, ma anche emittenti, e a pari merito”. E le teorie del complotto sono uno strumento formidabile per condizionare il mondo dell’informazione.
La loro è comunque una posizione decisamente ambigua, perché ogni teoria sui servizi – essendo la loro attività, per l’appunto, segreta – è plausibile. I servizi sono del resto dei produttori di complotti veri e propri, e la storia del nostro paese è lì a dimostrarlo.

La rete è uno strumento potente di diffusione. Ci fai un esempio?
L’esempio più indicativo del rapporto tra Internet e complottismo è ancora una volta QAnon. Anche se incorpora elementi antichi, su tutti l’accusa del sangue contro gli ebrei, la teoria è il frutto di una cultura specifica – quella di 4chan, e in particolare della board (una sottosezione) /pol/, che sta per “politicamente scorretto”.

Tuttavia, QAnon sarebbe rimasto confinato su 4chan se non fossero intervenuti tre amministratori di altre board di 4chan e una youtuber complottista di estrema destra: è grazie a loro che il verbo si è diffuso al di fuori di quel recinto, trasmigrando su Reddit e poi sfondando in social network più grossi come Reddit e Facebook.

C’è comunque da dire, come hanno fatto molti commentatori, che le piattaforme hanno avuto una grossa responsabilità nella crescita impetuosa di QAnon; Facebook ha iniziato a cancellare le pagine e gli account QAnonisti solo nel 2020, quando ormai era troppo tardi.

Mi preme sottolineare un’ultima cosa, a tal proposito: quando QAnon ha raggiunto una certa massa critica sui social, e poi nella realtà, a quel punto i mass media hannodovuto parlarne. E spesso e volentieri non l’hanno fatto nella maniera appropriata, finendo per amplificare i suoi messaggi.

In altre parole: QAnon è nato su Internet, ma non sarebbe esploso senza i media – e ovviamente senza il ruolo attivo della politica.

Siamo giunti così alla fine del nostro dialogo. Ti chiedo: c’è una via per confutare le teorie complottiste?
È consolante pensare che i complottisti e le complottiste siano dei reietti della società, dominati dall’illogicità o vittime del “pensiero magico”, e che basti evidenziare i loro errori e le loro storture per sbarazzarsi delle teorie cospirative. Peccato che non sia così facile.

Le teorie del complotto sono totalmente immuni da ogni confutazione. Come ha scritto Rob Brotherton, autore di Menti sospettose, “se sembra un complotto, significa che era un complotto. Se non sembra un complotto, era sicuramente un complotto. Le prove contro la teoria del complotto diventano prove del complotto”.

La verità è che non esiste una bacchetta magica che valga per tutti – non c’è nessuna “pillola rossa”, per usare il gergo complottista mutuato da Matrix, che ti faccia uscire dalla cosiddetta “tana del Bianconiglio”. Per farlo bisogna intraprendere un difficile percorso personale, che non ha alcuna garanzia di successo. E non sarà di certo un articolo di debunking, oppure una persona che ti dà del pazzo o del cretino, a metterti su questa strada.

“L’anima nerissima di Verona”. Intervista a Paolo Berizzi

Paolo Berizzi (Wikipedia)

Paolo Berizzi (Wikipedia)

Nel cuore del ricco Nordest, Verona è il laboratorio italiano dell’estrema destra di potere. Qui ex skinhead e animatori di festival nazirock, capi ultrà che allo stadio inneggiano a Hitler ed esaltano “una squadra a forma di svastica”, tradizionalisti cattolici nemici giurati dell’illuminismo, dello Stato unitario e del “dilagante progressismo ecclesiale”, avvocati dal saluto romano fin troppo facile, promotori di cene e gite in cui “è gradita la camicia nera” entrano in consiglio comunale nella lista del sindaco, organizzano manifestazioni finanziate dal Comune, diventano presidenti di società partecipate o della commissione sicurezza, finiscono a capo dell’Istituto per la storia della Resistenza… In questo libro, Paolo Berizzi racconta le vicende e le contraddizioni di una città unica. Riavvolge il filo che risale non solo ai tempi della repubblica di Salò, di cui Verona fu una delle capitali, ma addirittura agli albori del movimento fascista, visto che quello di Verona fu, nel 1919, il “fascio terzogenito”, nato appena due giorni dopo la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano. Mostra il fertile terreno di coltura che ha alimentato l’eversione nera, da Ordine Nuovo alla Rosa dei venti al Fronte Nazionale di Franco Freda, o i deliri dei due serial killer che, firmandosi Ludwig, intendevano ripulire il mondo dalla “feccia morale e sociale”, sterminando prostitute, omosessuali, senzatetto, tossicodipendenti, presunti viziosi, preti scomodi. Fotografa un presente in cui la destra radicale monopolizza il tifo calcistico, le proteste ai tempi della pandemia, eventi come il Congresso mondiale delle famiglie. Verona è oggi l’immagine di un possibile futuro per l’Italia e per l’Europa, e questo libro è un invito a non distogliere lo sguardo. Con Paolo Berizzi, giornalista d’inchiesta di Repubblica, in questa intervista mettiamo a fuoco alcuni elementi della sua coraggiosa inchiesta.

Paolo, il tuo libro è una grande inchiesta su Verona che è diventata una “città laboratorio” della estrema destra nazifascista. Riprenderemo fra poco il concetto di “città laboratorio”, ora vorrei soffermarmi su un punto che ti riguarda. Tu sei l’unico giornalista europeo ad essere sotto scorta per le minacce ricevute dall’estrema destra. Questo per le tue coraggiose inchieste giornalistiche di denuncia del fenomeno neofascista. Hai ricevuto minacce per questo libro? Riuscirai a presentarlo a Verona?
“Lo presenterò a Verona il 15 dicembre (20:30) al teatro Santissima Trinità. Con me ci saranno Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, e Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Anpi. Li ringrazio già da ora. Come autore, non potevo e non potrei chiedere di meglio. Sono due ospiti sensibilissimi al tema della denuncia e del contrasto dei gruppi neofascisti e dell’applicazione piena della Costituzione repubblicana antifascista e antirazzista . La loro presenza al mio fianco a Verona è un segnale importante, che mi fa sentire meno solo. Ricordo che il sindacato di Landini due mesi fa è stato vittima di un attacco squadrista ed eversivo da parte di Forza Nuova, un attacco che qualcuno sembra avere già dimenticato e che invece, nella sua gravità, ci ha riportato a più di 100 anni fa, all’inizio del fascismo. L’assalto alla Cgil è’ stato un attacco frontale alla democrazia, come un attacco alla democrazia è ogni qual volta i neofascisti intimidiscono e mettono nel mirino chi fa informazione e fa inchieste sui loro gruppi. Da anni sono sotto attacco dell’estrema destra neofascista e neonazista e il fatto che l’unico cronista europeo sotto scorta per minacce di questo tipo sia italiano e lavori in Italia  è un triste primato e una spia, credo, del clima che si respira nel nostro Paese. Non sopportano il mio lavoro e siccome l’informazione e la cultura sono un terreno sconosciuto ai fascisti, non sapendo come muoversi e come rispondere, fanno l’unica cosa che sanno fare: intimidire, minacciare, usare la violenza. Due anni fa i gruppi neofascisti veronesi – Forza Nuova in testa – mi minacciarono anche di morte e con una mobilitazione tentarono di impedire anche fisicamente la presentazione di NazItalia in città. Fui costretto – nel silenzio delle istituzioni, sindaco in primis – a presentare in una sala e in un quartiere blindato da centinaia di poliziotti e carabinieri. Ma la risposta della Verona antifascista fu straordinaria. Due anni dopo – siamo a oggi – non si trovava una sala disponibile a ospitare “E’ gradita la camicia nera” . L’intervento di Cgil e Anpi ha sbloccato la situazione. Penso che se un libro di inchiesta diventa un problema di ordine pubblico, in quella città c’è qualcosa che non va. Infatti ho deciso di fare un libro”.

Veniamo al libro. Perché definisci Verona una città laboratorio per l’estrema destra italiana? Cosa rende Verona così particolare e permeabile a questa ideologia di morte?
Si parla di un “rito veronese”… “Verona è da anni il vero laboratorio privilegiato dell’estrema destra. In quella città i gruppi neofascisti e neonazisti vanno a braccetto con la destra istituzionale, sovranista, in doppiopetto, e con gli ultracattolici integralisti, reazionari, oscurantisti, antiabortisti e omofobi. C’è una saldatura e una sinergia di sistema tra questi tre pezzi di società, una specie di osmosi che fa di Verona e del “rito veronese” – un mix di identitarismo, conservatorismo, chiusura, razzismo e orgoglio spinto all’ennesima potenza – un caso unico in Italia. Verona è l’archetipo, è il luogo dove è nato l’asse tra ultradestra e partiti sovranisti. Qui la camicia nera non è gradita solo ai neofascisti dichiarati ma anche a Lega e FdI”. Ci sono anche elementi di satanismo nell’estrema destra? “In passato ce ne sono stati, penso alle organizzazioni eversive e sanguinarie degli anni 70-80 e 90”. Come è stato possibile, in una città bianca democristiana, che una ideologia così sia diventata “senso comune”, o, per usare un termine un pò abusato, sia diventata egemonica? “C’è un filo che parte dal passato, dal fascismo storico e dalla Rsi. Verona era un luogo centrale, uno snodo. Della Rsi è stata teatro e capitale. Poi quel filo – passando dall’eversione nera – è arrivato a oggi. La Verona nera è una minoranza che però, sdoganata dalla politica e dal palazzo, diventa maggioranza ombra: l’estrema destra a Verona non è marginale, è al centro della scena e dentro le istituzioni locali. La città bianca democristiana ha lasciato il posto a una città dove un’ampia zona grigia tiene in pancia la zona nera, le fa da scudo. Quando va male la tollera, quando va bene – quasi sempre – ci va a braccetto”.

Facciamo qualche nome. Chi sono i maggiori “attori” di questa galassia di estrema destra nazifascista?
“Ci sono i leader storici del Veneto Fronte Skinhead e i capi e capetti di Forza Nuova e di Fortezza Europa, quest’ultima, di ispirazione neonazista, è l’ultima formazione nata. Ci sono i capi ultrà della curva dell’Hellas Verona e consiglieri comunali dal saluto romano facile. Molti di questi personaggi fanno parte de cerchio nero del sindaco di FdI Federico Sboarina. L’uomo più vicino al sindaco, suo assistente a palazzo Barbieri, è Umberto Formosa detto “il picchiatore”, già daspato: estrema destra, stadio, l’ambiente è sempre quello. Altri due nomi che ricorrono sono Luca Castellini – tra i denunciati per l’assalto alla Cgil del 9 ottobre a Roma, e Andrea Bacciga, oggi leghista, vicinissimo al sindaco”.

Quali sono gli agenti incubatori che favoriscono il reclutamento in queste formazioni?
“Centrale è L’idea che le mura di Verona vadano difese dai “diversi”. Shakespeare scriveva “non c’è mondo al di fuori delle mura di Verona”. Ecco: il buon butèl veronese – ultrà dell’Hellas, ultracattolico, di estrema destra – si erge a guardiano, a difensore della città, in particolare del centro storico. I ‘diversi’ sono mal sopportati o attaccati: in primis,  immigrati e comunità Lgbtq. Dio patria famiglia sono un motto attuale, come sangue e onore, e così spesso la città dell’amore si fonde con la città dell’odio”.  Nel libro parli, tra l’altro, dell’omicidio del giovane Tommasoli. Ammazzato di botte per una “sigaretta negata”.

Da chi è stato compiuto e cosa ha significato per la città?
“La sigaretta era solo un pretesto. Tommasoli è stato ucciso perchè portava i capelli lunghi legati in un codino: agli occhi dei cinque che l’hanno ucciso a calci e pugni era un diverso. Un diverso che con la sua presenza macchiava il centro storico dove passeggiava con gli amici. I cinque giovani che hanno ucciso Nicola – tutti condannati – erano tutti ultrà dell’Hellas Verona, due erano iscritti a Forza Nuova e uno al Blocco studentesco (l’organizzazione giovanile di CasaPound). L’omiciio Tommasoli è stato un omicidio a sfondo razzista, con una matrice, di fatto, ideologica. E’ stato un abisso di violenza, di odio per l’odio. Troppi l’hanno dimenticato. Ho dedicato il libro a Tommasoli per tenere accesa la memoria”.

Stiamo parlando di organizzazioni violente, quali sono stati gli episodi più gravi che hanno compiuti dagli estremisti di destra?
“Ne parlo nel libro, ce ne sono a decine, molti dei quali finiti in inchieste giudiziarie e sentenze. Pestaggi, pestaggi politici, razzismo e disordini da stadio. Alla base, l’ideologia nazifascista. Non celata ma, anzi, esibita, in piazza come allo stadio. Con la politica  istituzionale che ha strizzato l occhio”.
La destra istituzionale, in particolare il Sindaco Sboarina, come si pone di fronte a questi gruppi? 
“Strizza l’occhio, va a braccetto, coccola, offre spazi e sponde. Ne raccoglie le istanze e condivide iniziative, slogan, manifestazioni e convegni. Ci sono collegamenti, in molti casi i rapporti sono stretti”.

L’altra Verona, quella democratica della solidarietà come sta reagendo a tutto questo?
“Prova a farsi sentire, ma purtroppo resta schiacciata nell’angolo: è oscurata dalla Verona nera e dalla zona grigia che la protegge. C’è una Verona straordinaria, accogliente, solidale, democratica, progressista, anti razzista, attenta ai diritti di tutti soprattutto di chi ne ha meno. Ma non emerge, non emerge perché certa politica ha cucito addosso alla città l’abito e l’immagine che la Verona virtuosa cerca di contrastare. L’abito è la camicia nera”. Ultima domanda : come giudichi la percezione dell’opinione pubblica italiana nei confronti di questi gruppi?  “C’è stata e continua a esserci troppa tolleranza. Sia nel discorso pubblico, sia da parte della politica e della magistratura. All’estero non sono così tolleranti, i gruppi neonazifascsti all’estero li chiudono. Qui no, si tollera, si prende tempo, si decide di non decidere. I fascisti sono tornati sulla scena perchè li abbiamo sottovalutati, e sottovalutandoli li abbiamo normalizzati. Ci sono sempre stati, ma prima avevano vergogna a uscire allo scoperto, adesso non ne hanno più. Trovano terreno fertile. L’indifferenza apre spazi e loro ci si infilano. l’indifferenza diventa complicità. Con il mio lavoro cerco di contrastare i neofascismi e anche l’indifferenza che li favorisce”.

“L’uomo che camminava sui pezzi di vetro”. Memorie di vita sindacale friulana . Un testo di Gianni Alioti.

La copertina del libro di Roberto Muradore (realizzata dal fotografo/musicista Flaviano Miani) e il titolo scelto “L’uomo che camminava sui pezzi di vetro” – a prima vista – richiamano più un romanzo noir che a un libro in cui si racconta di sindacato. Anche la quarta di copertina non svela del tutto il contenuto: “[…] C’è un sentire inadeguato e malato. Prevale l’indifferenza al disastro ambientale e alle povertà crescenti. Ci si disinteressa dell’altro e addirittura del proprio futuro. L’educazione sentimentale è importante. Sì, ci vogliono buoni sentimenti per fermare la barbarie culturale e sociale, per evitare di perderci nell’individualismo […]. In giro ci sono troppi cinici che, per dirla con Oscar Wilde, «conoscono il prezzo di tutto e il valore di niente»”.

Solo aprendolo e iniziandone l’impegnativa lettura, si scopre il valore intrinseco di questo ricco volume per quanti continuano a manifestare interesse e curiosità sulle vicende sindacali dagli anni ’70 ad oggi. Non solo per le 343 pagine che raccolgono numerose testimonianze sull’autore, alcuni saggi e una vasta selezione di articoli e interventi scritti da Roberto Muradore negli ultimi decenni. Ma perché, come scrive Angelo Floramo (storico e scrittore nato a Udine) nella postfazione: “Abbiamo bisogno di testimoni. Oggi più che mai, in questa nostra società liquida, che riscrive il passato adattandolo ogni volta alla convenienza del presente, la memoria è uno strumento rivoluzionario”.

E se la memoria è uno strumento rivoluzionario, oltre che un “fondamentale e insostituibile elemento costitutivo delle singole persone, delle comunità e pure delle organizzazioni” come scrive Roberto Muradore, diventa imprescindibile in uno o più libri “fissare per non perdere” situazioni, fatti, riflessioni e proposte che attraversano l’esperienza sindacale. Nel caso dell’autore, un lungo percorso vissuto da operaio a sindacalista nella Fim e Cisl di Udine (dal 1976 al 1999), la parentesi alla Fim di Gorizia (dal 1999 al 2004) il ritorno alla Cisl di Udine (nel 2004) di cui sarà leader autorevole dal 2007 al 2017 e, infine, gli ultimi anni vissuti nella segreteria confederale regionale a Trieste e da semplice pensionato (a partire dagli ultimi mesi del 2019).

La struttura del libro risulta, a questo scopo, alquanto complessa. Dopo la prefazione di Piero Ragazzini (attuale segretario generale della Fnp Cisl) e l’introduzione, c’è il primo capitolo cheraccoglie le testimonianze su Roberto Muradore come persona e come sindacalista. Il secondo contiene, invece, un breve saggio di contesto scritto da Bruno Tellia sulle trasformazioni economiche e politiche degli ultimi 40 anni. Per il docente di sociologia industriale nelle università
di Trieste, Trento e Udine il lavoro e le dinamiche socio-culturali ed economiche del Friuli Venezia Giulia hanno costituito uno dei temi costanti di studio e di ricerca, oltre che di proficua cooperazione con la Cisl udinese.

Il quinto capitolo contiene, invece, un altro saggio: «Il tempo di “ecopolis” dopo il crollo di “cosmopolis”», scritto da Sandro Fabbro, capace e affermato professore universitario in materia di pianificazione territoriale, di politiche urbane e territoriali, di tecnica urbanistica nei corsi di laurea in Ingegneria dell’Ambiente e in Scienze dell’Architettura all’Università di Udine.

Nel terzo e quarto capitolo del libro, come nel sesto, settimo e ottavo sono, invece, raccolti gli articoli e gli interventi di Roberto Muradore riorganizzati in base ad altrettanti temi, che ne preservano l’interesse anche a distanza di tempo:
Valori, contenuti e formula organizzativa dell’azione sindacale
Unità sindacale, ma di diversi e uguali
La multiforme centralità della realtà locale
Il confronto continuo con la realtà produttiva locale
La lotta continua.

Infine, prima della postfazione già citata di Angelo Floramo, un capitolo 9 che contiene una lunga e interessante intervista di Roberto Muradore rilasciata, nell’aprile del 2021, a Giuseppe Liani, giornalista della redazione di Udine della RAI.

La lettura del libro, per come è strutturato, può non seguire necessariamente l’ordine delle pagine, ma procedere “disordinatamente” seguendo le proprie curiosità. Personalmente ho letto per prima cosa, divorandole piacevolmente, le tante testimonianze raccolte. E nel farlo mi sono divertito a contare alcune parole chiave e/o valutazioni ricorrenti. Ebbene, la parola usata di più per definire Roberto Muradore è quella di “sindacalista eretico”. E conoscendo Roberto, penso che a lui la cosa non dispiaccia per nulla… Anzi!

Riferendosi alle relazioni e alle dinamiche interne alle organizzazioni, tra cui i sindacati, è solito affermare “[…] che sono più utili gli eretici costruttori che gli yes men. Le sollecitazioni, le inquietudini e i contributi degli uni aiutano la propria organizzazione a progredire, migliorandola […]. L’accondiscendenza dei secondi la frena, addormentandola in senso conservativo”.

La società, non solo le organizzazioni come i sindacati, ha bisogno sempre e costantemente di eretici. Pena l’immobilismo, l’apatia, l’impoverimento sociale, culturale, economico… L’eretico quasi sempre sta fuori dai grandi movimenti, ma in diversi casi vi sta dentro in modo critico e stimolante.

E Roberto sia nella sua esperienza nel sindacato metalmeccanici, sia nella Cisl non sempre era allineato, specie su tanti temi delicati e controversi come l’ambiente, la precarietà del lavoro, la globalizzazione, la democrazia, le istituzioni europee, la sussidiarietà, il neoliberismo ecc. Diverse testimonianze, proprio per questo, gli riconoscono una libertà di pensiero e di animo, oltre che la serietà, la passione e l’impegno che metteva nel suo lavoro. Caratteristiche che, giunte alla capacità di analisi e alla coerenza, gli fecero conquistare rispetto e credibilità, oltre che tra i lavoratori e in ambito sindacale, anche nelle controparti imprenditoriali e nei diversi interlocutori istituzionali e universitari.

A questo punto inserisco una mia personale testimonianza, una chiave interpretativa. D’altronde con Roberto, tre anni più giovane di me, ho molte cose in comune. Entrambi, siamo entrati in fabbrica come operai, condividendo le tensioni ideali e l’utopia proprie dei movimenti libertari figli del “maggio francese” del ’68. E, per molti aspetti esistenziali, influenzati dalle idee, dalle letture, dalla musica e dalle inquietudini legate alla cultura underground di quegli anni di ribellione…

Si può dire, in altro modo, che in gioventù ci siamo innamorati di un’idea “esagerata” di libertà. E a questa idea abbiamo cercato di restare fedeli nella nostra traiettoria sindacale, non senza contraddizioni, imperfezioni e inevitabili compromessi. La libertà come valore supremo della persona, la forma stessa dell’agire etico. Nell’anarchismo – per definizione un’ideologia sincretica – la libertà, l’uguaglianza, la diversità, la solidarietà sono valori inscindibili, a differenza del liberalismo e del socialismo che interpretano i valori della libertà e dell’uguaglianza in modo indipendente e separato.

Il pensiero di un mondo senza dominio e senza privilegio ha sicuramente permeato il nostro modo di essere anche negli anni a venire. Specie nel nostro lavoro sindacale che, per sua natura, deve saper mediare – con una dose sufficiente di pragmatismo – tra utopia e realtà, tra obiettivi e risultati. Senza rinunciare, però, a vivere la politica in chiave etica, attraverso l’esercizio pratico della coerenza tra mezzi e fini. Nel caso specifico dell’azione sindacale l’impronta anarchica (come quella cristiana) si traduce, al di là dell’ideologia o della fede religiosa, in un forte sentimento di giustizia sociale.

Eravamo appena ventenni quando abbiamo iniziato da operai l’impegno sindacale unitario nella FLM. Io avevo solo vent’anni quando nel 1972 sono stato eletto – su scheda bianca – delegato di gruppo omogeneo nel Consiglio di Fabbrica della Galante di Genova Isoverde. Roberto ne aveva 23 quando è stato eletto nel 1978 nel Consiglio di Fabbrica della Safau di Udine. E, più tardi, nello stesso anno il 1986, ci siamo ritrovati per la prima volta a ricoprire il ruolo di segretari generali. Io in Fim Cisl Liguria, lui in Fim Cisl Udine. Percorsi di vita paralleli, ma per tanti versi convergenti, usando il paradosso delle “convergenze parallele” attribuito ad Aldo Moro… in realtà inventato da Eugenio Scalfari in un articolo sul settimanale L’Espresso.

Ci siamo ritrovati a fare delle cose insieme solo dalla seconda metà degli anni ’90, quando lui era in segreteria della Cisl di Udine con delega all’industria e io, dopo l’esperienza in Brasile e nel cono-sud dell’America Latina – rientrato in Italia – collaboravo a tempo parziale con la Fim Cisl nazionale sui temi dell’ambiente e della salute-sicurezza sul lavoro… Temi molto cari a Roberto

Muradore, sin dalla sua esperienza in fabbrica alla Safau. In quegli anni fui invitato spesso a Udine come relatore a diversi convegni, seminari e attività di formazione promossi dalla Fim e Cisl. Con Roberto, come con la struttura sindacale della Fim di Udine guidata da Paolo Mason, si creò un buon rapporto e si avviò nei metalmeccanici un proficuo lavoro di coordinamento degli Rls, anche grazie a Pietro Moos delegato storico della Fim Cisl nel gruppo Pozzo (ora gruppo Bosch). Conobbi anche Bruzio Bisignano (storico delegato del Consiglio di Fabbrica della Safau e della FLM) e il suo spettacolo “Ocjo”, veicolo straordinario di sensibilizzazione delle persone in piazza sui temi della salute e sicurezza sul lavoro… Spettacolo utilizzato, poi, anche nei corsi nazionali Fim Cisl ad Amelia e in eventi pubblici in altre città.

Il rapporto di reciproca stima e amicizia con Roberto è proseguito con il suo rientro in Fim a Gorizia e Monfalcone (dove abbiamo gestito insieme la problematica dell’esposizione dei lavoratori all’amianto) e non si è mai interrotto negli anni a venire con il suo ritorno nella Cisl a Udine e neppure con la pensione. Tra noi c’è stato sempre un comune sentire. Non ci sentivamo spesso e, ancora meno, sono state le occasioni per incontrarci di persona. Ma, quando succedeva, qualsiasi fosse il motivo della telefonata o la circostanza dell’incontro, ci trovavamo quasi sempre in perfetta sintonia. Anche per questo ho letto con molta curiosità e qualche nostalgia il suo libro, prestando molta attenzione alle testimonianze, ma anche alle cose da lui sostenute negli articoli e negli interventi raccolti. Quando si conosce l’autore e/o si sono vissuti molti dei fatti di cui si parla, è naturale che nella lettura si cerchino conferme o smentite sull’idea che uno si è fatto.

E non nascondo il piacere di aver ritrovato nel libro un riconoscimento a Roberto Muradore e alla “sua” Cisl di Udine di essersi sempre mostrata curiosa e attenta verso la realtà locale e la specificità regionale friulana… Investendo, con ostinazione e continuità, energie e risorse per produrre conoscenza, partecipazione, dibattito. Un’impostazione cislina attenta al bene comune, al principio di sussidiarietà e all’autogestione. Senza sudditanze di pensiero e azione.

Valorizzazione della dimensione locale e “comunitaria”, ma in una società aperta e accogliente… Autonomismo, come migliore strumento per prendersi cura della propria terra e dei giovani friulani costretti a emigrare, ma riconoscendo l’apporto economico e culturale degli immigrati al benessere della comunità… Centralità del lavoro, come fondamento della dignità della persona, ma mai a scapito dell’ambiente e degli eco-sistemi. Come nella lotta contro l’elettrodotto Udine-Redipuglia, nella difesa dei beni comuni come l’acqua e nel contrasto al consumo di suolo, alla cementificazione del territorio, alle grandi opere inutili.

Fuori dagli schematismi e dalle soluzioni “facili”, diffidando dei nuovi “demagoghi” e della personalizzazione della politica. Smascherando l’“egocentrismo” di leader indifferenti a ciò che li circonda, che non si mettono mai in discussione e non si pongono domande. Un “leaderismo” che fa breccia anche in un movimento per sua natura collettivo come il sindacalismo.

Il contrario di come Roberto Muradore ha esercitato il suo ruolo di dirigente sindacale. Coltivando la virtù del dubbio, ascoltando sempre gli altri pur avendo le proprie convinzioni, usando l’autoironia come antidoto al potere di natura gerarchica insita nella parola “capo”… Lo ha fatto sì anche con tratti d’intransigenza e rigore morale, ma prima di tutto verso se stesso.

In quest’ottica, nel concludere queste righe, penso che l’amico Roberto sia stato un sindacalista all’antica. Non certo nella sua accezione negativa, riferita a quanti non sanno cogliere i cambiamenti e interpretare la “modernità”. Ma, al contrario, nel suo significato profondo e positivo, rivolto a coloro che, affondando le radici nel passato più autentico ed etico dell’organizzazione operaia, attraversano le generazioni e sanno riproporsi – senza mai desistere – nel presente. Senza subire un processo di snaturamento e deformazione dei valori fondativi. E il merito del libro è un pò questo. Non riproporre un “antico” superato. Ma al contrario, offrire al lettore attento e appassionato una potente narrazione, utile per il futuro.

La “setta divina”. Un libro inchiesta sul Movimento dei Focolari. Intervista a Ferruccio Pinotti

Misticismo e abusi sessuali, opere di carità e sottrazione di beni personali, donazione totale di sé e fanatismo dei metodi, culto della leader carismatica e asservimento delle donne; il sorriso costante indossato come una divisa ma unito a un malessere diffuso. È lungo l’elenco delle contraddizioni che emergono da questa  inchiesta sul Movimento dei Focolari, una realtà ecclesiale per molti aspetti sconosciuta, nonostante conti due milioni di aderenti in tutto il mondo. Fondato nel 1943 da Chiara Lubich, una figura controversa ma avviata verso la canonizzazione, il Movimento è attivo oggi, a livello internazionale, negli ambiti della formazione, della cultura e della politica – con scuole, gruppi editoriali, istituti di ricerca – e soprattutto opera in campo economico con le attività delle cittadelle, veri centri produttivi, e attraverso migliaia di cooperative e imprese collegate alla rete dell’Economia di Comunione. Un’organizzazione laicale potente, che ha validi sostegni nella Chiesa. Ma che, da qualche anno, è oggetto di severe contestazioni: un folto gruppo di ex appartenenti, in Italia e in altri Paesi, denuncia fenomeni di manipolazione psicologica, sfruttamento del lavoro, censure. Ferruccio Pinotti, che ha studiato a lungo le derive integraliste delle associazioni cattoliche internazionali, ha raccolto in questo libro una ricchissima documentazione sul mondo dei Focolari e una serie di interviste esclusive di testimoni, ex focolarini abusati, teologi ed esperti: il risultato è un reportage vibrante, arricchito da un dossier inedito, che dà voce a drammatiche esperienze esistenziali e osserva dall’interno l’ambiente del Movimento, facendone emergere le problematiche e illuminandone i punti oscuri. In questa intervista con Ferruccio Pinotti focalizziamo l’attenzione su alcuni punti della sua indagine.

Ferruccio Pinotti è giornalista e autore di libri di inchiesta. Lavora al “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri “Poteri Forti” sulla morte del banchiere Roberto Calvi, “Opus Dei segreta”, l’inchiesta sulla massoneria “Fratelli d’Italia”, “Colletti sporchi” (col magistrato Luca Tescaroli), e i bestseller “La lobby di Dio” su Comunione e Liberazione e “Wojtyla segreto” (con Giacomo Galeazzi). Da segnalare anche la seconda grande inchiesta sulla massoneria: “Potere Massonico” (ed. Chiarelettere).

Ferruccio, forse questo tuo ultimo libro è quello più delicato. Confesso che sono rimasto impressionato dalle storie raccolte. Storie di ex appartenenti al movimento dei focolari che hanno subito abusi sessuali, manipolazioni e un uso distorto delle autorità. Però prima di parlare dei focolarini, ti chiedo un giudizio sulle dimissioni di Carron leader di Comunione e Liberazione: che interpretazione dai? 

Credo che le dimissioni di don Julian Carron non abbiano solamente il significato di adempiere a quello che è il dettato del decreto emanato per volontà del Papa dal dicastero dei Laici relativamente alla necessità di porre fine ai mandati a vita e al culto della personalità dei fondatori, successori e leader carismatici vari. Si tratta a mio parere di un commissariamento di Comunione e Liberazione, che mette a nudo tutti i problemi che travagliano anche questa realtà ecclesiale alla quale ho dedicato un libro di inchiesta già nel 2010, “La Lobby di Dio”, che documentava puntualmente gli scandali che l’hanno attraversata.

Veniamo al libro. Il titolo, “La Setta Divina”, sintetizza e dà una chiave di lettura del libro. Però diamo qualche numero sui Focolarini, anche per comprendere la realtà. Quanti aderenti hanno e che tipo di attività svolgono? 

Il movimento dei Focolari, nato nel 1943 su iniziativa della fondatrice Chiara Lubich, è diffuso in 182 Paesi, vanta circa 120.000 membri “interni“ (ovvero consacrati che prestano il triplice voto di castità povertà e obbedienza, volontari e altre persone che partecipano attivamente alla vita del movimento) e circa 2 milioni di fedeli in tutto il mondo, alcune migliaia dei quali anche non di religione cattolica. Le attività spaziano in tutti gli ambiti: dalla presenza in contesti disagiati alla formazione scolastica, dal dialogo interreligioso al supporto di chi soffre in zone travagliate da guerre. Non c’è settore nel quale il movimento dei Focolari non abbia una propria realtà specifica e sul quale non esprima un pensiero.

Abbiamo visto i numeri, ma anche il loro patrimonio è da “multinazionale”. È così? 

Sì il movimento dei Focolari è certamente dotato di un patrimonio estremamente consistente, in quanto nei suoi ottant’anni di vita ha fruito di costanti lasciti da parte dei propri membri consacrati, i quali donano i beni propri e spesso anche quelli ricevuti in eredità dalla famiglia, ma anche il frutto del loro lavoro quotidiano nel mondo. Inoltre il movimento dei Focolari vanta un’attività di “fund raising” raffinatissima in quanto i moltissimi organismi nazionali e internazionali di cui il movimento si è dotato per svolgere la propria attività sono attivi nel raccogliere fondi e donazioni non solo da privati, ma da istituzioni ed enti pubblici e privati. Nel corso dei decenni il movimento dei focolarini ha accumulato quindi un patrimonio ingente, di cui tuttavia non ritiene di dover dare conto attraverso bilanci ufficiali, resoconti di entrate e uscite, trasparenza riguardo all’impiego delle consistenti entrate.

All’interno della Chiesa sono una autentica potenza. Che rapporti hanno avuto con i pontefici? C’è stato qualcuno che ha espresso perplessità sul carisma? Come sono i rapporti con Papa Francesco? 

I Focolari hanno avuto in primo luogo l’appoggio forte e incondizionato di Papa Paolo VI il quale era legato da legami di parentela a Giulia Eli Folonari che è stata non solo la migliore amica e la compagna della prima ora della fondatrice, ma anche la sua assistente personale per tutta la vita. Un’altra grande spinta all’affermazione dei focolari è venuta da Giovanni Paolo II che conosceva e stimava Chiara Lubich sin dal dopoguerra e che ha utilizzato il movimento anche per un sottile e costante lavoro in chiave anticomunista nei paesi dell’Est. Certamente anche Benedetto XVI avuto rapporti cordiali con il movimento dei focolari.

Molto più critica la posizione di Papa Francesco che già nel febbraio di quest’anno ha rivolto un durissimo discorso all’assemblea dei focolarini, ammonendoli ad evitare il ripetersi di abusi di potere e di ogni tipo, richiamandoli alla sinodalità, evitando il culto della personalità ed altre distorsioni. Su questi temi Francesco è tornato Il 16 settembre incontrando i vertici dei movimenti laicali e ribadendo la necessità che se si adeguino al dettato del suo magistero evitando di essere a tutti gli effetti delle “chiese nella Chiesa”. Recentemente si è tenuto in Vaticano un incontro con oltre 180 vescovi amici del Movimento; molti anche i cardinali che lo appoggiano a partire dal cardinale Becciu recentemente dimessosi. Va poi detto, aldilà del Vaticano, che il movimento dei Focolari gode di consistentissimi appoggi anche in ambito politico: basti pensare che uno dei suoi più ferventi ammiratori e sostenitori è il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha reso più di una volta visita al movimento e che ha firmato la prefazione di una biografia del cofondatore Igino Giordani

Chiara Lubich e Igino Giordani (fondatrice e cofondatore) che figure sono? Come sono state vissute all’interno del Movimento? 

La figura di Chiara era e resta certamente di altissima complessità: una giovanissima ragazza trentina carica di una fede fortissima, una persona dotata di un carisma indiscutibile e magnetico, di una capacità di trascinare gli altri in imprese eroiche. Ma anche una donna travagliata da forti crisi e sofferenze personali, da periodici ricoveri in strutture specializzate, ossessionata dal controllo della realtà da lei creata e dal tema dell’Unità da lei espresso nel suo famoso testo detto Paradiso del “49 nel quale chiede ai focolarini di “essere nulla”, di rinunciare alla propria personalità, di “tagliarsi la testa”, in pratica di obbedire ciecamente al suo dettato e alla sua missione, fine al punto di autoelidersi come persone umane. Tutto questo ha prodotto depressioni enormi, sofferenze, fenomeni di autolesionismo e persino dei suicidi. La figura di Igino Giordani é anch’essa complessa: si tratta di un deputato della Dc e della Costituente sposato e con figli che però ebbe un fortissimo rapporto umano e spirituale con Chiara Lubich, tanto che sono sepolti insieme nella stessa cripta presso la sede centrale del Movimento a Rocca di Papa. Fu il primo laico sposato a consacrarsi al Movimento ma anche l’uomo che custodì in una cassetta di sicurezza i segreti del famoso Paradiso 49 sui quali il Sant’Uffizio aveva puntato la sua attenzione e che spingevano la attuale Congregazione per la dottrina della fede a negare la propria approvazione al movimento creato dalla Lubich. Ostacoli superati solo per il costante appoggio del cardinal Montini, poco dopo diventato Paolo VI.

Veniamo alle parti dolorose, profondamente dolorose. Come si è manifestata la deriva settaria del movimento? 

La deriva settaria del Movimento si è manifestata poco a poco, in maniera progressiva, mano a mano che la complessificazione e la crescita del movimento, in particolare sotto il pontificato di Wojtyla, facevano crescere il culto della personalità della fondatrice e l’idea che chiunque faceva parte il movimento dovesse sottoporsi a una disciplina rigidissima e consegnarsi a dei superiori che potevano disporre di loro come meglio ritenevano.

Tutto questo lentamente ha generato abusi psicologici, umani, purtroppo anche sessuali, appropriazione di destini, repressione della personalità, infantilizzazione, suicidi. Drammi che intelligentemente la nuova presidentessa del movimento Margaret Karram, insieme al copresidente Don Jesus Moran, hanno ammesso pubblicamente chiedendo scusa alle vittime e promettendo misure mirate al cambiamento, alla pacificazione e al risarcimento del dolore delle vittime.

Quali sono stati gli abusi più gravi? 

Certamente tra gli abusi più gravi vanno annoverati i casi di pedofilia che si sono verificati in Francia, in Italia e anche in altre realtà e che sono ora indagati da una commissione interna del movimento dei focolari ma anche da una società esterna inglese, la GCPS Consulting.

Vi sono stati, anche, abusi psicologici e umani. Quelli fisici sono un fenomeno purtroppo diffuso in tutta la Chiesa come dimostra il recente rapporto della Ciase la commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa francese che ha portato all’emersione di centinaia di migliaia di vittime, 216.000, dal 1950 a oggi.

Quanti sono state le  vittime nei Focolari?

È difficile dare dei numeri e delle stime, certo è che le molte testimonianze riportate nel mio libro hanno tutte delle sorprendenti somiglianze indipendentemente che siano situate in Inghilterra, in Uruguay, in Olanda, in Italia, in Pakistan o in Argentina. Sfortunatamente le modalità che emergono sono sempre le stesse, quindi è presumibile che i numeri siano estremamente consistenti anche se le denunce aperte sono finora numericamente limitate anche perché molte persone hanno timore di parlare. Non a caso diverse persone che hanno testimoniato per la mia inchiesta hanno preferito celarsi dietro degli pseudonimi, mentre altre hanno coraggiosamente e meritoriamente scelto di comparire con la loro identità. In questi giorni sono stato contattato da molte ex vittime che non conoscevo e che ora desiderano dare voce al loro dolore.

Quali storie drammatiche ti hanno colpito di più? 

Tutte le storie mi hanno colpito per qualche risvolto particolarmente drammatico, certamente è molto forte la storia di una signora, Monique, ma anche la storia di Maria è molto forte, così come quelle di Martina e Guido e di tanti altri. Persone spesso strappate alle loro famiglie di appartenenza, maltrattate, usate, gettate via come stracci vecchi e inutili quando non servivano più o stavano male. Straziante è stato per me anche il racconto delle persone che si sono suicidate dopo lunghe sofferenze colpevolmente ignorate. Ciò che più mi ha commosso in certi momenti e anche affranto è stato vedere come delle persone meravigliose, dotate di una fede incredibile e di una volontà di fare del bene quasi sovrumana, abbiano potuto essere stare “usate” da un movimento che – perlomeno in una certa fase – cercava solo l’espansione e il potere e la gloria. Tutto questo mi ha commosso profondamente, ma mi ha anche spinto a raccontare pubblicamente queste vicende affinché questi fenomeni non si ripetano mai più, cosa che mi pare che i vertici del movimento abbiano compreso.

Si parla nel libro di processo di “infatilizzazione” degli aderenti. Perché? 

Bisogna innanzitutto dire che molti focolarini sono stati captati in età giovanissima, persino a 10-11 anni, cosa che secondo il mio parere dovrebbe essere vietata e che è inaccettabile, a meno che non sia sottoposta a vagli precisi da parte della Chiesa stessa.

Questo loro stato infantile viene mantenuto a vita, tanto che i focolarini vengono chiamati popi e pope con un’espressione trentina che riflette una visione poco rispettosa ed infantilizzante della persona. La compressione delle persone è esasperata dalla fortissima repressione sessuale, che viene portata avanti per tutta la vita e che genera disturbi molto importanti: sofferenza, autolesionismo ma anche fenomeni di sadismo all’interno di questa stessa realtà

Che visione hanno della donna i Focolari? Il fatto che la fondatrice sia stata una donna, Chiara Lubich, cosa ha significato per le aderenti al Movimento? 

Questo è un punto di grande importanza perché di per sé il fatto che la fondatrice fosse una donna e che per statuto il movimento dei focolari possa prevedere solo e soltanto una presidenza femminile di per sé era ed è un fatto innovativo che va salutato positivamente. Interessanti sono anche alcuni passaggi del Paradiso del 49 in cui Chiara Lubich e don Foresi denunciano apertamente il maschilismo imperante nella Chiesa, allora come oggi, spingendosi a porre sotto critica persino il fatto che la trinità stessa sia composta da tre figure maschili.

Queste intuizioni di per sé feconde purtroppo non si sono tradotte in una valorizzazione del ruolo della donna, ma in una schiavizzazione della componente femminile del movimento che è stata caricata di compiti e aspettative immani, molto di più di quella maschile, nella quale infatti i problemi sono leggermente minori. Si assiste così al paradosso di un movimento che è l’unico a guida femminile nella Chiesa, ma che ha portato avanti una vessazione  sistematica della donna, compressa e conculcata in ogni sua dimensione a partire da quella intellettuale. Uno dei motti più celebri di Chiara Lubich era che bisogna “gettare i libri in soffitta“ cioè rinunciare a studiare, a prepararsi e a formarsi una professionalità adeguata. Bisognava essere tutte delle fotocopie della fondatrice, a partire dalla pettinatura. Questo ha generato e genera in molte persone un progressivo svuotamento dell’interiorità che anche se non sfocia in denunce aperte provoca depressioni profondissime o, per sopravvivere, genera forme di cinismo che si traducono talvolta in atteggiamenti persecutori di persone giovani e innocenti.

Come sta procedendo l’opera di contrasto all’abuso? 

La presidentessa Margaret Karram  e il copresidente Jesus Moran nell’intervista che ho fatto loro per il Corriere della Sera e, nella versione più ampia, per il mio libro hanno promesso di farsi carico di tutte le situazioni di sofferenza e di abuso, rispondendo singolarmente alle persone e accettando di analizzare le singole richieste di aiuto o di risarcimento, promuovendo il lavoro della Commissione interna per il benessere e la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, la Cobetu, e collaborando con quelli che saranno i risultati del rapporto stilato da GCPS Consulting che sarà reso noti a fine anno. Bisogna augurarsi che questo tipo di risposte non siano formali ma sostanziali. Gli stessi vertici ritengono inoltre necessari cambiamenti profondi negli Statuti del movimento, che tuttora non sono pubblici. Non è ad esempio accettabile che una persona se ne vada dopo 40 o 50 anni di lavoro gratuito per il movimento ritrovandosi senza nulla, senza una pensione, senza un aiuto o una casa.

Come si sta comportando il Movimento nei confronti delle vittime? Cosa è stato fatto.? 

Finora il movimento si è limitato ad intrattenere delle corrispondenze con singole vittime accettando in alcuni casi e non senza fatica di corrispondere dei risarcimenti spesso contenuti in ragione dei moltissimi anni di lavoro spesi per il movimento e delle consistenti cifre versate attraverso redditi personali e beni familiari. Tutto questo chiaramente non basta: le vittime si aspettano dei gesti concreti di buona volontà. Diversamente c’è il rischio – come è accaduto nel caso di molte diocesi americane fallite e attualmente per la chiesa di Francia che ha iniziato a vendere immobili per risarcire delle vittime –  che anche chi ha subito degli abusi nel movimento dei focolari si organizzi attraverso “class action” e azioni civili che sono faticose per i singoli ma che credo non convengano neanche al Movimento.

Come ha reagito il Movimento all’uscita del tuo libro?

Il Movimento, attraverso i suoi vertici e i responsabili della comunicazione, ha avuto una reazione estremamente intelligente, composta e matura, nel senso che ha accolto le criticità emerse dalla mia inchiesta come uno stimolo al miglioramento e ha riconosciuto il fatto che il dolore delle vittime è incontestabile. Certamente al libro sono state mosse delle critiche anche giuste e corrette, in quanto è stato osservato che l’inchiesta non racconta la vita e l’operato delle migliaia di persone che cercano di fare il bene insieme al Movimento in tutto il mondo e che con il Movimento hanno vissuto delle esperienze positive. Questa è un’osservazione certamente corretta e doverosa, tuttavia il libro partiva dalla necessità di dare voce alle vittime che finora non hanno avuto modo di esprimersi. E nasceva anche dalle sollecitazioni personali che sono state rivolte al mio lavoro di inchiesta. Devo comunque dire che è stata una reazione estremamente matura, che testimonia la volontà di cambiare e di migliorare.

Hai avuto segnali dal Vaticano? 

So che il libro è stato è stato segnalato ad alte autorità ecclesiastiche; e che talune figure vicine all’entourage di Papa Francesco cercheranno di farglielo leggere. D’altra parte, anche se non è cosa nota, anche personalità di alto spessore come il cardinale Martini avevano dedicato una attenzione preoccupata al movimento dei focolari, intravedendo già molti anni fa dei rischi di deriva settaria che il presule aveva avuto modo di segnalare a persone qualificate. Inoltre va detto che il cardinale Kevin Farrell responsabile del dicastero dei Laici già nel 2020 ha vietato ai focolari l’uso dei cosiddetti “schemetti”, interrogatori scritti ai quali venivano sottoposti i membri consacrati e che rappresentavano una pesante violazione della privacy. È indiscutibile il fatto che Papa Francesco abbia aperto nel 2021 un faro Importante su tutti questi movimenti, ma cosa deciderà di fare con i Focolari resta ancora un mistero aperto e ci sono vari scenari possibili analizzati nel mio lavoro di ricerca che, mi preme sottolinearlo, non parte da premesse pregiudiziali ma dall’esclusivo interesse alla verità e da sentimenti di profonda compassione verso chi ha sofferto.

 

“Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol”. Intervista a Marco Ferrari

Un giovane Sívori in azione al River Plate a metà degli anni 1950 (WikipediaCommons)

È in libreria il nuovo libro di Marco Ferrari “Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol” nella collana “I Robinson/Storie di questo mondo” di Laterza. Il volume racconta l’emigrazione italiana in Sud America. Marco Ferrari, scrittore spezzino con alle spalle un lungo curriculum in giro per il mondo (da “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli” a “L’incredibile storia di Antonio Salazar: il dittatore che morì due volte) ci racconta il perché di questo libro dedicato al ruolo degli italiani nel mondo latino-americano.

Quanto dura la fase migratoria italiana verso il Sudamerica?

“Quella numericamente più importante dura un secolo, dall’unità italiana al boom industriale degli anni Sessanta, che la conciude, spostando l’emigrazione dal sud al nord della penisola. Gli italiani che si trasferirono nelle Americhe ammontano a 26 milioni. All’inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un’unica città separata da un oceano di mare. Nel 1890 venne inaugurata dal Genio Civile genovese la Stazione Marittima.  Ampliata nel 1914, venne completata nel 1930. Il nuovo edificio, composto da tre corpi di fabbrica con passerelle di collegamento tra le varie sale, divise in prima e seconda classe nel piano primo e di terza classe nel piano calata, è quello che vediamo oggi. Il gemello argentino della Stazione Marittima si chiama Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di diecimila metri quadrati, circondato da un parco verde, appena discosto dalle rive dal fiume, in Avenida Atlantica Argentina. È il luogo che simboleggia l’approdo di milioni di italiani sul Rio de la Plata. Oggi, vedendolo, pare dominato dal silenzio della storia. Eppure, siamo a due passi dal chiassoso centro di Buenos Aires e molto vicini al moderno Porto Madero che ha subito le stesse trasformazioni del Porto Antico di Genova con ristoranti, locali, multisale cinematografiche e centri di divertimento”.

Che ruolo hanno avuto gli italiano in Sud America?

“Già negli anni Trenta a Buenos Aires e Montevideo gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. E’ il tempo in cui “un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese”. Per arricchire le nascenti metropoli furono invitati, a diversi riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali come Palazzo Barolo a Buenos Aires. Montevideo, poi, è stata forgiata dagli italiani: Carlo Zucchi e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’Ospedale Italiano Umberto I° del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d’identità di tanti emigrati italiani. Poi i controlli della polizia di frontiera che non erano così severi come a Ellis Island. Quindi il primo respiro vero, a pieni polmoni, l’impatto con un mondo sconosciuto e diverso ma in fin dei conti non opposto al luogo di partenza.
 
E poi gli italiani diventano protagonisti del nuovo sport: il
football. Cosa creano?

“Nascono squadre mitiche, dagli Xenienses del Boca Juniors ai millionarios del River Plate, senza dimenticare il Club Màrtires de Chicago, anarchico e socialista, e l’Indipendiente, ovvero “Indipendientes de la patronal”. E dall’altra parte, come in un romanzo di Guareschi, il salesiano Lorenzo Massa faceva scendere in campo il San Lorenzo, la squadra oggi tifata anche da papa Francesco. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, da Asunción a Montevideo, dove nasce il Peñarol, fondato da emigranti di Pinerolo”.

In un’Italia autarchica i figli degli oriundi furono i primi a
tornare grazie al pallone?

“In tutte queste squadre presto cominciano a crescere gli “oriundi”, ovvero tutti coloro che scelsero il pallone come metodo più sicuro per percorrere a ritroso la strada verso l’Europa. Un fenomeno che dura dall’autarchico fascismo alla riapertura delle frontiere calcistiche negli anni ottanta del secolo scorso. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal capitano del Bologna Badini al trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo Antonio Stabile, el filtrador. Così tra i tangueros della Juventus, da Cesarini a Sivori, il Bologna uruguaiano voluto da Mussolini e i romanisti, “traditori della patria”, in fuga dal regime fascista, ci sorprendiamo e ci commuoviamo di fronte alle vicende di questi figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come scriveva Jorge Luis Borges. Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, la pulga, può scoprire di avere qualcosa in comune con Giacomo Leopardi.

Tra le tante storie che hai raccontato a quale sei più legata?
Certamente la vicenda del primo allenatore italiano che vinse un campionato in Sudamerica: si chiamava Vessillo Bartoli, era nato a Vado Ligure nel 1908 e faceva parte della rosa di quella squadretta operaia di provincia che passò alla storia per essersi aggiudicata la prima Coppa Italia del 1922 battendo in finale l’Udinese. La sua modesta carriera da mediano si svolse tutta nel ponente ligure, toccando come massima quota la serie C, poiché dopo il Vado approdò al Savona e quindi all’Imperia. Appese le scarpe al chiodo, Vessillo si mette a studiare il “metodo” e quindi si fa avvincere dal “sistema” di Chapman. Qualche amico emigrato lo avvisa che il calcio sta esplodendo anche sulle sponde del Paraguay, andò laggiù, nel maggio 1950 venne assunto dallo Sportivo Luqueño. I giornali gli storpiano il nome in “Vessilio Bártoli”, confondendolo spesso con l’omonimo Vito Andrés Sabino Bártoli, allenatore argentino di nascita e italiano d’origine. Nel novembre del 1951 la compagine gialloblù conquista il suo primo campionato nazionale totalizzando 29 punti, quattro in più del secondo classificato, il Cerro Porteño, campione in carica.
 
Un’influenza italiana sul calcio latinoamericano che è giunta
sino ai giorni nostri, come testimonia il caso Parmalat….

“Nel 1948 nacque a Caracas il Deportivo Italia rimasto in vita con quel nome sino al 2010. Era il 18 agosto ’48 quando un gruppo di emigrati prese la decisione di dedicarsi al calcio: quelle persone erano Carlo Pescifeltri, Lorenzo Tommasi, Bruno Bianchi, Giordano Valentini, Samuel Rovatti, Angelo Bragaglia, Giovanni Di Stefano, Giuseppe Pane, Luca Molinas e Alfredo Sacchi. Gli anni d’oro degli “Azules”, dai colori della maglia, identici alla nazionale italiana, furono quelli dell’era dei fratelli Mino e Pompeo D’Ambrosio, originari di San Marco Evangelista, provincia di Caserta, che durò dal 1958 al 1978. In venti anni arrivano grandi successi: quattro campionati nazionali, cinque secondi posti; tre Copa de Venezuela; sei partecipazioni alla Copa Libertadores. Nell'agosto 1998 il Deportivo Italia – passato sotto il controllo della multinazionale italiana Parmalat – divenne “Deportivo Italchacao Fútbol Club, S.A.”, mantenendo i colori, il logo e la storia della squadra degli “Azules” della comunità italiana nel Venezuela. L’Italchacao vinse il Campionato di calcio venezuelano nel 1999 e fu secondo l’anno successivo. Con il crack Parmalat del 2003 l'Italchacao sprofondò in Seconda Divisione venezuelana e rinvigorì i suoi trascorsi solo nel 2006 riacquistando il nome originario di Deportivo Italia, sotto la direzione tecnica di Raul Cavalieri e la presidenza dell'Italo-venezuelano Eligio Restifo. Dal 2010 di nuovo il cambio di nome a favore di Deportivo Petare Fútbol Club, voluto dall’azionista maggioritario della squadra capitolina, l’ingegnere Mario Hernández. Una decisione illegale secondo l’allora presidente Restifo”.