Francesco di Roma e Francesco d’Assisi: la fraternità universale secondo Leonardo Boff. Un testo di Andrea Grillo

Pubblichiamo, per gentile concessione, questa bella recensione del libro di Leonardo Boff , uscito recentemente per Castelvecchi,   “Abitare  la terra. Quale via per la fraternità universale?”. Andrea Grillo è docente di teologia al Pontificio Ateneo S.Anselmo di Roma.

 Un gustoso libretto, introdotto da una ricca Prefazione di Pierluigi Mele – L. Boff, Abitare la terra. Quale via per la fraternità universale? Roma, Castelvecchi, 2021, pp.76 – offre una rilettura appassionata del “magistero fraterno” di papa Francesco, in una forte sintonia con la tradizione francescana. E lo fa collocandolo nell’ambito delle reazioni contro la crisi ecologica e culturale, economica e politica, che sta minacciando la vita umana e il sistema complessivo di esistenza del nostro pianeta.

Di fronte alle gravi minacce che vengono elencate nelle prime pagine del volume, le grandi reazioni “pubbliche” sono state soprattutto tre: la Carta della Terra (2003) e poi le due encicliche Laudato sì (2016) e Fratelli tutti (2020) di papa Francesco. Di fronte a questo allarme, che gli ultimi venti anni hanno potentemente sollevato alla attenzione comune, la reazione è stata spesso quella che Boff trova bene rappresentata da un apologo di Kierkegaard, ripreso da J. Ratzinger all’inizio del suo libro forse più famoso, Introduzione al cristianesimo: le grida di allarme vengono spesso interpretate come il trucco di un clown, come uno scherzo, e così il circo brucia! La radice di questa indifferenza, simile a quella dei tempi di Noé, è il capitalismo liberista e neo-liberista: la aggressione alla natura e all’uomo, in nome di una libertà-dominio, determina progressivamente una ingiustizia ecologica e una ingiustizia sociale che arriva a giustificare l’assassinio. In tal modo “la razionalità analitico strumentale si è rivelata assolutamente irrazionale” e votata alla autodistruzione.

Al cospetto di questa situazione, l’enciclica Fratelli tutti propone una rilettura della tradizione fondata sul concetto di “fraternità”, come condizione per incidere davvero sulla questione ecologica. Si tratta, in sostanza, di passare, nella comprensione dell’uomo, dalla figura del dominus alla figura del frater. Questo è il sogno e il progetto di Fratelli tutti, come proposta di un “nuovo paradigma per la società mondiale”. Per arrivare a questo nuovo paradigma, occorre anzitutto mettere in questione il modello attuale di sviluppo, basato su quattro pilastri assai fragili, ossia quelli del mercato, del neoliberismo, dell’individualismo e della devastazione della natura: il profilo economico, politico, culturale ed ecologico sono strettamente connessi e devono essere discussi in modo unitario.

Come si risponde a questa deriva, che anche la pandemia globale rischia solo di accentuare, con una concentrazione ancora più forte di tutto il potere effettivo nelle mani di pochissimi? La risposta viene da ciò che di più tipico c’è nell’uomo e nella donna: l’amore, un amore liberato dalla sua dimensione solo individuale, e che si fa amicizia, fraternità, istituzione di cura, principio di assistenza, cooperazione. Si tratta di “generalizzare e universalizzare ciò che era soggettivo e individuale”: questa è la novità proposta da papa Francesco. Qui L. Boff trova la radice di un “nuovo paradigma”, quello del frater, per illustrare il quale procede ad un confronto con il modello classico, quello del dominus.

Il modello dell’uomo-dominus appare autocentrato e indifferente agli altri e all’ambiente. Al di là delle radici a cui attinge – che secondo Boff vanno sorprendentemente da Descartes alla Scuola di Francoforte – può essere rappresentato da un “pugno chiuso che sottomette”, mentre il modello dell’ uomo-frater si lascia intendere come una “mano che accarezza e che si intreccia con le altre”. Va detto, tuttavia, che il primo modello ha strutturato moltissime esperienze politiche e sociali, non solo in Europa, mentre il secondo resta in larga parte una utopia, un sogno, con poche realizzazioni confinate o in regioni isolate del mondo o in forme limitate di esperienza religiosa.

Che fare, allora? Con una serie di virtù – tenerezza, gentilezza, solidarietà – che hanno nella parabola del Buon Samaritano la loro figura narrativa, si tratta di “partire dal basso”. Dimensione locale, regionale, nazionale e mondiale si susseguono in questo ordine. Ma la ispirazione di questo “nuovo paradigma”, che esige forme concrete assai innovative, riposa comunque sul contributo che le grandi religiosi potranno dare a questa rivoluzione. Universalità di Dio e particolarità degli ultimi sono l’orizzonte di senso primario della fratellanza, che solo può sorreggere questo impegno. Francesco papa, ispirato da Francesco poverello, ci indica la strada e ci dà speranza.

Per comprendere questo testo intenso di L. Boff, come interprete di papa Francesco, occorre rammentare che l’uno, come l’altro, sono figli dell’america latina. Dove la storia moderna inizia, in qualche modo, con una “shoah anticipata”. Il terribile dato che si legge a p. 47 – in 70 anni la popolazione del Messico, all’inizio della conquista, passò da 20 milioni a 1,7 milioni! – fa comprendere come il “sogni di fraternità” venga dal primo papa americano. Ma questo conferma anche la tendenza intrinseca, nell’uomo, alla “volontà di potenza”, che annulla l’amore. Un discorso “ecologico” e un discorso “antropologico” sono così strettamente legati.

Per frenare in un modo efficace questa inclinazione distruttiva e autodistruttiva, Boff indica la via offerta da Francesco di Assisi: “umiltà radicale e pura semplicità” (52). L’ultima parte del testo è una meditazione accorata, segnata anche da una componente autobiografica, in cui l’autore medita a lungo sulle svolte nella vita di Francesco di Assisi, per comprendere a fondo come la possibilità di una “fraternità universale” passi per una conversione dello sguardo dell’uomo, per una singolare sintonia con tutto il creato. Già in lui la tensione tra carisma e potere non tardò ad emergere. Francesco accettò questa come una necessità. Ma gli sviluppi della sua esperienza furono in larga parte di carattere personale, non sociale. La condizione per un tale sviluppo – che sarebbe appunto il nuovo paradigma di Fratelli tutti – è “ che ogni persona si metta in una posizione di umiltà, di prossimità con l’altro e la natura, superando le disuguaglianze e vedendo in ciascuno un fratello e una sorella con i quali condividiamo lo stesso humus, la terra delle nostre comuni origini” (58).

Occorre allora “scommettere sulla fraternità”. Questo si può fare solo a certe condizioni, ossia riconoscendo che:

  1. a) la “condizione umana” è di essere in equilibrio tra sapiens e demens, tra ordine e caos.
  2. b) la rinuncia al potere-dominio è il solo spazio per l’incontro fraterno
  3. c) occorre amare il prossimo non solo “come”, ma “più” di se stessi.

La sintesi che Francesco di Assisi ha offerto come un grande profeta nel cuore del Medioevo diventa oggi di una nuova ed esigente attualità, soprattutto dopo la crisi pandemica, che ha mostrato in modo nuovo e sorprendente la correlazione radicale in cui vivono tutti gli uomini e le donne anche oggi: di fronte ad essa la parola del Francesco medievale e quella del Francesco contemporaneo risuonano non anzitutto come proposta ascetica, ma come ispirazione ad un nuovo ordine mondiale, che ha condizioni istituzionali e personali. Questo è il sogno che Boff presenta nel suo “picciol libro”, ad un tempo libro spirituale e libro politico, che non solo da Pierluigi Mele è introdotto con accurata dedizione, ma a Pierluigi Mele è anche dedicato con fraterna amicizia.

Dal sito: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/francesco-di-roma-e-francesco-dassisi-la-fraternita-universale-secondo-leonardo-boff/

“Salvare Assange è salvare la democrazia”. Intervista a Stefania Maurizi

A fine luglio del 2009, Julian Assange e la sua organizzazione contattarono Stefania Maurizi per la prima volta: avevano un documento sullItalia e volevano laiuto di un giornalista per verificarne lautenticità e linteresse pubblico. Da quel momento hanno lavorato fianco a fianco, loro per WikiLeaks, Stefania per il suo giornale – LEspresso e La Repubblica prima, oggi Il Fatto Quotidiano – alla pubblicazione di uninfinità di documenti segreti.
Dopo il terremoto WikiLeaks il prezzo da pagare per il giornalista e hacker è stato altissimo: Assange non ha mai più conosciuto la libertà. Chiuso in una cella di una delle più famigerate prigioni di massima sicurezza del Regno Unito, la Belmarsh Prison di Londra, lotta contro le più potenti istituzioni della Terra che da oltre un decennio lo vogliono fare a pezzi. Per il potere meno visibile e più pervasivo, Julian Assange è tra i peggiori criminali che esistano e, come tale, va punito nella maniera più brutale. Addirittura c’è chi chiede la pena di morte, per aver violato una legge del 1917, lEspionage Act, che vietava la diffusione di notizie riservate durante la Prima guerra mondiale. Il processo attualmente in corso a Londra (e che vede la partecipazione della stessa Maurizi nella veste di testimone) è accompagnato da una grande mobilitazione dellopinione pubblica: in sua difesa si sono pronunciati alcuni dei più importanti giornalisti dinchiesta internazionali, svariate organizzazioni per i diritti umani, lo stesso Consiglio dEuropa e lOnu che hanno espresso preoccupazione e sdegno richiamando il reato di tortura. Tutta la storia di Assange, dallesplosione di WikiLeaks in avanti, è un giallo incredibile che questo libro racconta con lo stile avvincente di un romanzo, uscito per Chiarelettere due settimane prima del ventesimo anniversario dellattentato alle Torri Gemelle di New York, evento a proposito del quale Assange portò alla luce una serie di documenti scottanti tramite Wikileaks.

Una vicenda lunga 10 anni che è un forte atto di denuncia nei confronti del potere segreto che governa le nostre democrazie.  In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro.  Stefania Maurizi scrive per Il Fatto Quotidiano è una delle giornaliste più vicine a Julian Assange da sempre: in Italia è stata la persona che ha diffuso i documenti di WikiLeaks. Partecipa come testimone al processo in corso a Londra per lestradizione di Assange negli Stati Uniti. È stata anche lei vittima dellattività di spionaggio presumibilmente per conto dei servizi segreti americani allinterno dellambasciata dellEcuador che ha ospitato per anni Assange accogliendo la sua richiesta di asilo politico. 

Stefania, il tuo libro è davvero un libro forte. È un atto di accusa ben documentato al “potere segreto” (ovvero a quelle entità statuali   che si sottraggono al controllo democratico). Partiamo dalla fondazione di Wikileaks. Come nasce e qual è la sua “filosofia”?

“Il Potere Segreto, che dà il titolo al mio libro e che ricostruisco con i documenti segreti rivelati da Wikileaks, è qualcosa di molto preciso: è il potere dello Stato schermato dal segreto di Stato, usato non per proteggere la sicurezza dei cittadini, ma per nascondere la criminalità di Stato ai più alti livelli e garantire l’impunità agli uomini delle istituzioni che commettono questi crimini. Quando parlo di criminalità di Stato ai più alti livelli intendo reati eccezionalmente gravi, come la falsificazione dell’intelligence che permise all’amministrazione Bush di trascinare gli Stati Uniti in una guerra devastante come quella dell’Iraq, in cui il nostro Paese ha avuto un ruolo sciagurato, perché ha concesso agli Stati Uniti tutto quello che Washington ha chiesto: basi, aeroporti, ferrovie per spostare truppe e armamenti, come rivelano i cablo della diplomazia USA pubblicati da WikiLeaks. E anche crimini tipo l’extraordinary rendition di Abu Omar: un uomo rapito a mezzogiorno a Milano, come fosse nel Cile di Pinochet. I nostri bravissimi magistrati, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, riuscirono a individuare i responsabili, 26 cittadini americani, quasi tutti agenti della Cia, riuscirono a ottenere per loro condanne definitive, eppure nessuno dei 26 ha fatto un solo giorno di galera: impunità assoluta. Mentre nei regimi, questo Potere Segreto è percepito anche dal cittadino comune, che si sente sotto controllo, oppresso da esso, nelle nostre democrazie, questo potere non è percepito dalla gente ordinaria. Nelle democrazie, i cittadini si interessano soprattutto al potere visibile, quello che decide delle loro pensioni, della loro sanità, del loro lavoro, e non pensano che questo Potere Segreto sia rilevante per le loro vite di persone comuni. E invece non è così. E’ un potere che decide eccome le loro vite e su cui loro non hanno alcun controllo, perché non hanno accesso alle informazioni su come opera, in quanto sono blindate dal segreto di Stato. Ma per la prima volta nella Storia, WikiLeaks ha aperto un profondo squarcio in questo Potere Segreto e ha permesso a miliardi di cittadini di tutto il mondo di avere accesso sistematico e senza restrizioni a milioni di documenti coperti da segreto che rivelano come opera. E’ per questo che Julian Assange ha fondato WikiLeaks il 4 ottobre 2006: è una creatura frutto della sua visione, anche se chiaramente non ha fatto tutto da solo, gli altri giornalisti di WikiLeaks hanno grandemente contribuito a renderlo possibile, e così avvocati, tecnici che hanno dato il loro contributo. Ed è per questo lavoro che dal 2010 in poi, quando ha rivelato i documenti segreti del governo americano, che Julian Assange non ha più conosciuto la libertà e rischia di finire per sempre in prigione negli Stati Uniti. La sua vita è appesa a un filo”.

Perché bisogna ritenere credibile Wikileaks? A quali criteri giornalistici risponde?

“E’ credibile perché, come tutte le organizzazioni giornalistiche, prima di pubblicare i documenti li verifica con un processo che, almeno fin dal 2010 e nella maggior parte dei casi, è stato portato avanti con noi media partner, ovvero noi giornalisti di media tradizionali che abbiamo accesso ai file in modo esclusivo per un periodo limitato. Noi facciamo le nostre verifiche sull’autenticità dei documenti, in parallelo a quelle fatte da WikiLeaks, e, una volta stabilito che sono autentici, noi pubblichiamo le nostre inchieste e i nostri articoli sui nostri giornali, mentre WikiLeaks pubblica i documenti originali, in modo che chiunque possa leggerli. Rendendoli accessibili a chiunque, WikiLeaks fa una cruciale opera di democratizzazione dell’informazione e della conoscenza, perché permette a chiunque di usarli per capire la realtà e anche per incidere su di essa. Per esempio, un cittadino tedesco di nome Khaled el-Masri, che è stato una vittima innocente delle extraordinary rendition della Cia ed è stato torturato e stuprato, ha potuto non solo scoprire informazioni cruciali sul suo caso nei cablo della diplomazia Usa rivelati da WikiLeaks – informazioni che non avrebbe potuto ottenere in nessun altro modo, perché coperte da segreto – ma ha anche potuto usare i cablo per cercare giustizia alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. E anche un gruppo di cittadini che lottano per tornare a vivere nel loro arcipelago, le Chagos Islands –  un paradiso a sud delle isole Maldive, che tra gli anni ’60 e ’70 il Regno Unito ha evacuato, costringendo gli abitanti all’esilio per trasformarle in una base militare degli Stati Uniti – hanno trovato un aiuto cruciale nei cablo per la loro lotta davanti alla giustizia britannica. Infine, rendendo i documenti accessibili a tutti, WikiLeaks contribuisce a dare potere ai lettori, riducendo l’asimmetria tra i giornalisti, che hanno accesso alle fonti primarie delle informazioni, e i lettori che invece non ce l’hanno. Quando un lettore ha accesso alle fonti primarie, può usarle per approfondire e anche per verificare come il giornalista ha lavorato sui materiali: ha nascosto qualcosa? Ha manipolato i documenti oppure ha fatto un buon servizio alla verità?”

Parliamo del suo leader, Julian Assange. Il capitolo in cui ricostruisci la sua personalità lo intitoli “Cypherpunk”. Perché?

“Non parlerei di ‘leader’ di WikiLeaks, ma di fondatore e direttore, come per tutte le altre organizzazioni giornalistiche. Oggi il direttore di WikiLeaks è il giornalista investigativo islandese Kristinn Hrafnsson, e Julian Assange rimane il fondatore, ma ovviamente non può dirigere l’organizzazione, essendo in prigione. Julian Assange è un Cypherpunk: da giovanissimo, negli anni ’90, era un assiduo collaboratore di questa mailing list, che erano appunto i Cypherpunk, un formidabile collettivo  di appassionati di privacy e crittografia, le cui idee hanno contribuito enormemente a trasformare la realtà. I Cypherpunk erano visionari e libertari. Includevano matematici come Eric Hughes dell’università della California, Berkeley, che aveva scritto il Manifesto del Cypherpunk e anche il fisico Timothy May, che aveva lavorato per il gigante dei microprocessori Intel e ne aveva tratto profitti così ingenti che, a trentaquattro anni, si era potuto permettere di andare in pensione, dopo aver calcolato che non avrebbe dovuto lavorare mai più nella sua vita. Politicamente avevano idee molto diverse tra loro, ma erano accomunati da un profondissimo interesse: ragionare sull’impatto della sorveglianza e sviluppare strumenti a difesa della privacy e dell’anonimato, e sistemi di pagamento anonimi per difendere l’individuo dal controllo assoluto dello Stato. Erano avanti di decenni, ed è grazie alle loro riflessioni e ossessioni che sono emersi strumenti che hanno cambiato il mondo, come WikiLeaks, nel caso di Julian Assange, o come l’uso di massa della crittografia, in chat come Signal, e anche le criptovalute, come il bitcoin. Senza Bitcoin, difficilmente WikiLeaks sarebbe sopravvissuta al blocco delle donazioni bancarie. Nel 2010, infatti, appena iniziò a pubblicare i cablo della diplomazia, i giganti del credito, da Visa e Mastercard a PayPal e Bank of America, tagliarono dal giorno alla notte la possibilità di donare a WikiLeaks, che vive esclusivamente delle donazioni dei suoi sostenitori. Senza uno straccio di provvedimento giudiziario alla base di questo provvedimento, l’organizzazione si ritrovò con i rubinetti dei soldi completamente chiusi. Immagini se dalla sera alla mattina, i giganti del credito avessero tagliato i conti del New York Times o del Guardian: sarebbe stato uno scandalo internazionale e tutti i media del mondo avrebbero espresso solidarietà. Ma con WikiLeaks questo non è successo”.

Per alcuni, anche per qualche giornalista, Assange è una persona “controversa”. Tu contesti radicalmente questa affermazione. Perché?

“Personalmente, credo che l’osservazione delle persone sul lungo periodo sia uno dei pochissimi criteri per capire con chi si ha a che fare. Come giornalista, ho conosciuto da vicino e per oltre 10 anni il fondatore di WikiLeaks, penso quindi di avere molte informazioni fattuali per capire che tipo di essere umano è. Non dico di aver condiviso qualunque cosa abbia detto o fatto da quando lo conosco e sono la prima a dire che è un individuo complicato, ma è profondamente diverso da come viene dipinto dai media. Julian Assange è una persona di grandissima intelligenza, uno che, come scrisse il settimanale tedesco Der Spiegel, poteva fondare la sua azienda di software nella Silicon Valley e fare i soldi, e invece ha usato il suo talento intellettuale per rivelare i crimini di guerra e le torture in Afghanistan e in Iraq, pagando un prezzo mostruosamente alto a livello personale, perché da quel momento in poi non ha più conosciuto la libertà. Sono 11 anni che non può camminare per la strada da uomo libero, godersi un po’ di sole, correre, sdraiarsi sull’erba di un prato, e rischia di non poterlo fare mai più, perché sul suo capo pende una condanna a 175 anni di galera esclusivamente per aver rivelato quei crimini. E’ anche una persona che sa essere dolce, affettuosa e molto divertente: Julian Assange non è affatto il personaggio truce e con quell’aura di mistero e minaccia, che gli viene spesso attribuita. E’ divertente, ha un umorismo tagliente. Come scrivo nel mio libro, non sono l’unica a descriverlo così. Anche altri colleghi che lo conoscono bene, la pensano come me. Se l’opinione pubblica ne ha un’idea completamente distorta è perché lui ha certamente difficoltà nelle interazioni sociali, molto probabilmente collegate alla sua sindrome di Asperger, come racconto nel libro, ma il fattore che più ha contribuito a deformare la percezione dell’opinione pubblica è stata la lunga campagna di demonizzazione del personaggio. Invece di sottoporre a un minuzioso scrutinio agenzie potentissime, come il Pentagono e la Cia, responsabili di atroci violazioni dei diritti umani, tipo la distruzione dell’Iraq o le torture nelle prigioni segrete e a Guantanamo, tutta la forza critica dei media si è concentrata sulla persona di Julian Assange. Dal 2010 in poi è stato accusato di tutto, in particolare di aver messo a rischio vite umane, quando invece 11 anni dopo la pubblicazione dei documenti, non risulta un solo morto, una sola persona ferita o imprigionata a causa di quelle rivelazioni. Dieci anni di demonizzazione avrebbero alienato la simpatia e il sostegno dell’opinione pubblica anche a un santo. Di fatto hanno completamente alienato l’empatia dell’opinione pubblica verso Julian Assange. E non dimentichiamoci che questa empatia è l’unico scudo che può proteggerlo, visto che non ha alcuna speranza di opporsi alla sua distruzione da parte delle autorità inglesi e americane confidando nelle corti del Regno Unito o degli Stati Uniti”.

Ritorneremo sulla figura di Assange.
Parliamo delle rivelazioni clamorose di Wikileaks. Quali sono state le più importanti?

“Il video Collateral Murder, in cui si vede un elicottero americano Apache sparare su civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio ride di gran gusto, è uno dei documenti che rimarranno per sempre. Così come i documenti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, che hanno permesso di guardare alla realtà di quelle due guerre, al di là della micidiale macchina della propaganda bellica. I cablo della diplomazia americana rimangono di eccezionale importanza: 11 anni dopo la loro pubblicazione, ci permettono ancora di capire il mondo. In questi ultimi 11 anni, non ho mai smesso di consultarli. Quando è emerso che l’Italia armerà i suoi droni militari, la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a consultare i cablo per avere informazioni fattuali sulla guerra dei droni. E così le schede dei detenuti di Guantanamo. E’ per questi documenti che Julian Assange rischia 175 anni di galera. Ma in aggiunta a questi file segreti del governo americano, ci sono altri documenti di grande importanza. Le email dell’azienda italian Hacking Team, per esempio, ci hanno permesso di entrare nel mondo oscuro delle aziende private del cyberspionaggio e dei loro affari con le dittature e i servizi segreti di regimi famigerati per le loro violazioni dei diritti umani. Quando l’opinionista del Washington Post, Jamal Khashoggi è stato ucciso barbaramente dalle autorità saudite, il Washington Post ha consultato le email della Hacking Team, pubblicate da WikiLeaks anni prima, alla ricerca di informazioni sulle cyberarmi che i sauditi avevano acquistato da varie aziende, tra cui appunto l’italiana Hacking Team, per sorvegliare i dissidenti. Le rivelazioni sullo spionaggio della NSA contro i leader mondiali, tra cui Berlusconi e i suoi più stretti alleati, sono molto importanti, come anche importantissime le rivelazioni sulle cyberarmi della Cia, perché permettono per la prima volta di scoprire l’arsenale di armi fatte di software – da qui il nome ‘cyberarmi’ –  con cui l’agenzia penetra nei computer, nei telefoni, nei dispositivi elettronici, nelle televisioni smart, per sorvegliare un obiettivo e rubare informazioni. Si tratta di armamenti invisibili, proprio perché fatti di software, la cui proliferazione crea rischi immensi, anche perché è molto più difficile da monitorare, in quanto queste armi non si vedono, non vengono caricate su navi o treni nei porti”.

Approfondiamo la vicenda dell’Afghanistan. Cosa hanno svelato i documenti pubblicati da Wikileaks di quella missione occidentale? 

“I documenti sulla guerra in Afghanistan, che WikiLeaks rivelò nel luglio del 2010, furono un grande colpo giornalistico: permettevano di aprire quella che il New York Times chiamò ‘una straordinaria finestra sul conflitto’. Si trattava di 91.910 report segreti, compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Per la prima volta dal lontano 1971, quando Daniel Ellsberg aveva rivelato i 7mila documenti top secret sulla guerra in Vietnam, passati alla storia come Pentagon Papers, era possibile avere decine di migliaia di documenti segreti su una guerra, non 30-40 anni dopo la sua fine – quando ormai interessavano giusto agli storici di professione – ma proprio mentre i combattimenti erano in corso. La documentazione permetteva di ricostruire quanto poco avessero ottenuto le truppe americane e quelle della coalizione internazionale dopo 9 anni di guerra. Per esempio, nella regione di Herat, controllata dagli italiani, dopo quasi un decennio di addestramento condotto dai nostri soldati, gli americani scrivevano nei loro report che la polizia afghana abbandonava la divisa per arruolarsi nei talebani, perché gli agenti non venivano pagati e non era chiaro dove andassero a finire i soldi degli stipendi. Addittura arrotondavano con i sequestri di persona, mettendosi d’accordo con i rapitori. I denari stanziati per costruire infrastrutture decisive, come le strade, per lo sviluppo di un paese i cui abitanti, non dimentichiamolo, hanno un’aspettativa di vita media di circa 54 anni, sparivano nel nulla. Anche la guerra segreta, condotta con unità speciali, come la Task Force 373 – di cui non si era mai saputo niente prima delle rivelazioni di WikiLeaks – non era esattamente un successo: a volte, la Task Force non aveva letteralmente idea di chi ammazzava e quindi colpiva civili innocenti o perfino le stesse forze afghane. Queste stragi creavano un forte risentimento nella popolazione locale contro le truppe occidentali. I documenti sulla guerra in Afghanistan fotografavano già il fallimento che 11 anni dopo abbiamo visto tutti: 20 anni di una guerra senza senso, dove alla fine l’esercito più potente del mondo, il più tecnologicamente avanzato, è stato sconfitto da una forza medievale come i talebani”.

Qual è stata la ricaduta, in Italia, delle rivelazioni di Wikileaks? Negli Usa lo sappiamo, nel nostro paese?

“Ricordo come fosse ieri quando nell’ottobre del 2010 pubblicai, con quello che era allora il mio caporedattore a l’Espresso, Gianluca Di Feo, le rivelazioni sull’Italia, che emergevano dai 91.910 file segreti di WikiLeaks: gli Afghan War Logs. Mentre la retorica nazionale si fermava alla storia dei ‘nostri ragazzi’ che andavano in Afghanistan per aiutare le popolazioni locali, i file raccontavano un’altra storia: la guerra vera e propria che, dal 2004 al 2009, i soldati italiani combattevano ogni giorno con centinaia di guerriglieri uccisi, raid dal cielo, i micidiali improvised explosive devices (IED), le imboscate, i kamikaze, decine di soldati feriti, chi in modo grave e chi meno, di cui in Italia non si era mai saputo nulla. Con il mio caporedattore facemmo un grande lavoro sui documenti, leggendone migliaia, e pubblicando una lunga inchiesta su quello che era allora il mio giornale, l’Espresso. Come scrivo nel mio libro, con quell’inchiesta avevamo fornito per la prima volta dati e informazioni fattuali alla politica, ai media e all’opinione pubblica italiana, che potevano finalmente guardare a quel conflitto al di là della nebbia della guerra e della propaganda dei ‘ nostri ragazzi’. Ma non ci fu nessun dibattito: il silenzio della politica e l’incapacità o la mancanza di volontà dei media italiani di fare squadra, contribuendo a esercitare pressione sulle istituzioni, furono patetici. Con i documenti successivi, come per esempio i cablo, le reazioni non mancarono, ma tutto è sempre stato gestito all’insegna del troncare e sopire. Per esempio, nel caso delle rivelazioni dello spionaggio della NSA contro Berlusconi e i suoi più stretti collaboratori, che pubblicai in partnership con WikiLeaks nel febbraio 2016, la procura di Roma aprì un’inchiesta, io ero in attesa di essere interrogata come persona informata dei fatti, visto che avevo rivelato quelle intercettazioni insieme a WikiLeaks. Beh, ancora aspetto la procura di Roma: nessuno mi ha mai interrogato e l’indagine non è mai pervenuta… Il nostro Paese è diventato la piattaforma di lancio delle guerre USA – dall’Iraq fino alla guerra segreta dei droni – nella complicità della politica e nel silenzio complice o comunque colpevole dei mezzi di informazione”.

Torniamo ad Assange. Tu lo conosci bene, ti chiedo cosa ti ha insegnato, perdonami il verbo, sul piano giornalistico?

“Mi ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a usare la crittografia per proteggere le mie fonti giornalistiche. Poi, è grazie a lui e ai giornalisti di WikiLeaks che ho acquisito una solida capacità di verificare l’autenticità di documenti segreti di cui non conoscevo con certezza la provenienza e su cui non potevo andare in giro a fare domande, perché quando un giornalista ha in mano file segreti della Cia o della Nsa o del Pentagono, non può andare a chiedere a questo o a quello se ti dà una mano a scoprire se la documentazione è vera o falsa. Se il giornalista lo fa, si espone a un grave rischio personale ed espone le sue fonti a enormi rischi. Infine, Julian Assange mi ha dato la lezione più importante: la battaglia contro il segreto può essere vinta. Prima di WikiLeaks, per me era inconcepibile pensare di riuscire a esporre sistematicamente i crimini di quello che io chiamo il Potere Segreto. Sì, ero consapevole di quanto aveva fatto Daniel Ellsberg con i Pentagon Papers, ma mi appariva un episodio isolato, di difficile riproducibilità. E invece Julian Assange e WikiLeaks mi hanno fatto capire che l’impossibile era diventato possibile. Se guardo al nostro Paese alla luce di questa lezione, io sono convinta che in Italia le istituzioni sono riuscite a coprire gli stragisti e a nascondere la verità sui cosiddetti ‘misteri italiani’ per quasi 60 anni, ma le cose potrebbero cambiare profondamente in futuro. WikiLeaks ci ha fatto capire che né il Pentagono, né la Cia, né la NSA riescono più ad avere il controllo totale dei loro sporchi segreti, tanto da aver perso il controllo di centinaia di migliaia di file classificati, pubblicati da WikiLeaks e da cui emergono crimini di guerra, torture e gravissime violazioni dei diritti umani. Credo che sarà solo questione di tempo e anche gli apparati dello Stato italiano subiranno la stessa sorte e finalmente potremo scoprire come agiscono quando sono completamente al riparo dagli sguardi dell’opinione pubblica e dei media. Non esiste democrazia se i giornalisti non hanno la libertà di rivelare gli angoli più oscuri del potere e se i cittadini non hanno la possibilità di scoprirli, grazie ai giornalisti e alle loro fonti. E’ esattamente questa la differenza più profonda tra le democrazie e regimi: nelle dittature, i giornalisti non sono liberi di rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e se lo fanno, finiscono ammazzati o in galera per sempre. Nelle democrazie, invece, deve essere possibile. Ecco perché ho investito così tanto su questo caso. Perché voglio contribuire, con il mio giornalismo, a creare una società in cui un giornalista può rivelare la criminalità di Stato ai più alti livelli e farlo in assoluta sicurezza. Per questo, Julian Assange e i giornalisti e collaboratori di WikiLeaks devono essere salvati e protetti”. 

Il tuo libro è una battaglia contro il potere segreto (di qualsivoglia colore). Per concludere, con un messaggio di speranza, qual è l’arma più potente per sconfiggerlo?  Il giornalismo?

“Il mio libro è il frutto di un lavoro di giornalismo investigativo durato 13 anni sia sui documenti segreti di WikiLeaks sia sul caso Julian Assange e WikiLeaks: 13 anni che ne includono 6 di battaglia legale con il Freedom of Information Act (Foia) in ben 4 giurisdizioni – Inghilterra, Stati Uniti, Australia e Svezia – per ottenere i documenti del caso, visto che nessun giornalista al mondo ha mai provato a richiederli per ricostruire il caso in modo fattuale. Perché ho investito tutti questi anni e questo enorme lavoro su questo caso? Perché se il complesso militare-industriale degli Stati Uniti riesce a estradare e chiudere per sempre in prigione Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks, quello che io chiamo ‘il Potere Segreto’ avrà vinto e nelle nostre democrazie i giornalisti non saranno liberi di rivelare i crimini di guerra e le torture, senza perdere la libertà. E senza la luce di quel giornalismo, la nostra democrazia muore”.

IL LIBRO:

Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks (Prefazione di Ken Loach ), Ed. Chiarelettere, Milano, 2021, pagg. 400. € 19,00

“Cossiga interprete drammatico di Aldo Moro. A modo suo”. Intervista a Giampiero Guadagni

Quirinale, il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga

Su Francesco Cossiga, come si sa, ci sono luci e ombre (per qualcuno, forse, sono di più le ombre). Eppure la figura di Cossiga, come afferma, in questa intervista, il giornalista Giampiero Guadagni, “è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte”. Questo libro, dal titolo curioso, cerca di offrire una possibile chiave di lettura della vicenda politica di Francesco Cossiga. Il Libro ha suscitato, tra i cronisti politici, molto interesse. Con l’autore, in questa intervista, approfondiamo alcuni punti del libro. Giampiero Guadagni è caporedattore di “Conquiste del Lavoro”.

 

Intanto, perché un libro su Cossiga?

Perché Francesco Cossiga è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte. È stato il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane Presidente del Consiglio, il più giovane Presidente del Senato, il più giovane Presidente della Repubblica. Un uomo di vastissima cultura, capace al tempo stesso di altissimi confronti e di polemiche molto ruvide con personalità di Stato così come con personaggi dello spettacolo. Senso delle istituzioni e istinto per la trasgressione: aspetti diversi della propria personalità tenuti assieme sempre con grande fatica. Anche in questo senso la sua non è solo la storia di un uomo ma la biografia di un Paese che non ha mai del tutto chiuso i conti col proprio passato. Peraltro, sia da vivo sia da morto Cossiga è stato trasversalmente ammirato e detestato. E proprio questo a mio giudizio ci permette di valutare la sua vicenda e tutta una stagione politica senza il filtro dell’ideologia: un esercizio di libertà che ci obbliga a nuove domande più di quante risposte siamo in grado di dare.

 

Perché questo titolo?

Tre minuti 31 secondi è il tempo della durata dell’ultimo messaggio di fine anno di Cossiga Presidente della Repubblica. Il più breve nella storia di questi messaggi.

Siamo nel 1991, anno molto aspro per lui. A giugno manda un messaggio alle Camere sulla necessità delle riforme istituzionale, messaggio che rimane inascoltato. Il 6 dicembre viene presentata in Parlamento la richiesta di impeachment con addirittura 29 capi di accusa: che riguardano ad esempio lo scontro con la magistratura e la legittimità della struttura Gladio; e più in generale toni e contenuti delle sue picconate. Ecco quel 31 dicembre 1991 Cossiga parla agli italiani e sostanzialmente non dice nulla. Spera che quel suo silenzio faccia più rumore ottenendo più risultati delle sue esternazioni. Non sarà così. Riprenderà a picconare. E si dimetterà con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del Settennato.

 

 

 

Il libro parte da un tuo articolo su Conquiste del Lavoro per gli 80 anni di Cossiga in cui esponi una tesi che lo stesso Cossiga, nella sua breve risposta, definisce “oggettiva”: una rielaborazione del rapporto politico e umano con Aldo Moro. Ci riassumi questa tesi?

Io mi sono fatto l’idea che le picconate sono state il tributo dell’allievo al Maestro. Cossiga ha cioè detto con forza, spesso in modo esasperato, quello che secondo lui avrebbe detto Aldo Moro se fosse uscito vivo dalla prigione delle Brigate Rosse. Cossiga ha vissuto con tormento interiore e anche fisico quella vicenda, quei 55 giorni tra marzo e maggio del 1978, spartiacque della storia italiana. Nel tempo, forse anche per metabolizzare il dolore, ha reso esplicita una sorta di sentimento di correità, arrivando a dire: io sono responsabile almeno quanto le Brigate rosse della morte di Moro. “Tra Moro e lo Stato io scelsi lo Stato”, scriverà Cossiga su Repubblica nel ventennale della morte del Presidente Dc. Secondo la mia ricostruzione – sulla quale nel libro mi confronto con autorevoli giornalisti e politici – in qualche modo e in più momenti Cossiga interpreta Moro per restituirgli la vita che da ministro dell’Interno non era stato in grado di salvare. “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa”, scrive Moro prigioniero delle Br nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile, quella nella quale chiede che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. “Io ci sarò ancora” sembra essere la frase bandiera che Cossiga ha voluto raccogliere.

 

In particolare, quando e in che modo Cossiga ha “interpretato” Moro?

Penso, intanto, al Messaggio alle Camere sulla necessità per i partiti politici di riformare sé stessi e le regole istituzionali. Ma quel Messaggio arriva troppo tardi, quando ormai i rapporti con il Parlamento erano deteriorati. E comunque è un messaggio dal contenuto importante. Per Cossiga bisognava andare oltre il bipolarismo imperfetto che assegnava alla Dc la cura del governo e al Pci il monopolio dell’opposizione Cossiga si riallaccia al pensiero di Moro, che sempre dalla prigione delle Br aveva scritto: “Un partito che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere”. Parole rivolte alla Dc ma che evidentemente valevano per tutti.

 

I fatti che citi riguardano l’ultimo scorcio del Settennato. Cossiga ha dunque maturato nel tempo questa “rielaborazione” del rapporto con Moro?

Certamente le picconate sono diventate il marchio di fabbrica di Cossiga una volta finita la stagione politica legata ai blocchi contrapposti e alla logica di Yalta. Però io mi sono fatto l’idea che Cossiga abbia iniziato ad interpretare Moro anche prima della caduta del Muro di Berlino. Emblematico quanto accade nel marzo 1986. Sono i primi mesi di Cossiga al Quirinale. In quei giorni gli Usa hanno affondato una nave libica in reazione a un lancio di missili verso aerei statunitensi sul Golfo della Sirte. Cossiga, critico rispetto alla pretesa dei libici di estendere la propria sovranità su una zona di acque internazionali, sostiene però anche che il dittatore libico Gheddafi non va “vittimizzato”, obbligando gli arabi moderati a difenderlo; e che la Marina americana non deve mostrare i muscoli verso Tripoli su navi partite da basi in Italia. Il 28 marzo Cossiga riceve al Quirinale il Segretario di Stato americano George Schulz. Un incontro descritto dal capo ufficio stampa di Cossiga Presidente, Ludovico Ortona nel suo “Diario del Settennato”. Cossiga “giunge volutamente tardi al colloquio, già irritando Schulz”.  Spiega per tre quarti d’ora le sue ragioni a Schulz senza dare spazio a repliche
in un clima che Ortona definisce “assolutamente agghiacciante”.
E attenzione: Cossiga era un politico molto accreditato a Washington, soprattutto perché nel 1979 da Presidente del Consiglio aveva autorizzato gli euromissili. Al contrario, è nota la diffidenza americana nei confronti di Aldo Moro a causa delle sue posizioni giudicate troppo filoarabe. È nelle cronache politiche l’incontro del 25 settembre 1974 a Washington con il Segretario di Stato di allora, Henry Kissinger, che con toni diciamo perentori chiede allo statista italiano di cambiare linea. Ecco: in quel marzo 1986, Moro avrebbe con tutta probabilità rivendicato uno spazio d’azione autonoma nella gestione dei rapporti con la Libia.

 

Abbiamo parlato delle picconate di Cossiga. Nel sottotitolo, accanto al fragore metti i silenzi: perché al plurale?

Silenzi al plurale, perché c’è il Cossiga degli omissis legati alla ragione di Stato. Per molti ha detto solo alcune cose di quello che sapeva, lui ha sempre assicurato che nella tomba non si sarebbe portato segreti. C’è un silenzio dove l’aspetto politico si intreccia alla sofferenza personale: in tutti i 55 giorni del sequestro Moro, come ricorda nel
libro Marco Damilano, Cossiga non rilascia un’intervista televisiva, nemmeno semplici dichiarazioni. Una cosa inimmaginabile pensando ai politici di oggi; ma pensando anche
allo stesso Cossiga, insaziabile comunicatore a tutto campo, radioamatore e fruitore dei social. Poi però ci sono anche i silenzi dell’allontanamento volontario dalla vita pubblica, quelli legati alla riflessione, agli spazi interiori della preghiera, agli spazi verdi d’Irlanda, suo luogo dell’anima. Dove Cossiga, uomo di fede salda, ha tempo per dedicarsi ai
“suoi” santi: Newman, Rosmini e Thomas More. Figure che hanno in comune il concetto del primato della coscienza. Tema molto sentito e sofferto dal laico cristiano Cossiga, che da Presidente della Repubblica aveva condiviso la decisione del governo italiano di partecipare alla coalizione che intervenne contro l’Iraq, conoscendo la ferma contrarietà di Papa Giovanni Paolo II.

 

Tra i tanti aneddoti che racconti, quale ritieni quello più
significativo?

Ce n’è uno in particolare che rende l’idea del senso anche esasperato di Cossiga per lo Stato. Me lo ha raccontato Francesco Bongarrà, giornalista dell’Ansa, che ha seguito da vicino gli ultimi anni del Picconatore. Cossiga nel marzo 2006 restituisce il ‘Collare della Giarrettiera’ alla Regina Elisabetta per una questione di principio”. Due elementi per intendere la portata del fatto. Il primo: il Collare della Giarrettiera è la massima onorificenza che il regno concede, rende cugini della Regina. Il secondo: Cossiga era un malato di onorificenze. Cosa accade allora? Cossiga vuole andare in Inghilterra per partecipare al Consiglio mondiale della Società per il dialogo tra cristiani e musulmani, e notifica che partirà con la scorta armata come ex Presidente della Repubblica. Le competenti autorità britanniche, diplomatiche e di polizia, oppongono un rifiuto. In Inghilterra la scorta non ce l’ha nessuno, tranne la Regina, il primo ministro, il ministro dell’interno, forse ai tempi lo scrittore Salman Rushdie. Cossiga annulla la partecipazione all’evento. Prende una scatola in cui mette il Collare e la affida al capo scorta perché restituisca il regale contenuto. “La scorta non era per la mia persona, ma era per il rispetto che si deve allo Stato italiano”.

Il libro: Giampiero Guadagni, Tre minuti trentuno secondi.
Francesco Cossiga: il silenzio e il fragore, Marcianum Press,
2020, pagg. 176. € 17,20.

“PERCHE’ L’EUROPA CI SALVERA’ “. IL LIBRO POSTUMO DI PADRE BARTOLOMEO SORGE

Esce postumo per Edizioni Terra Santa l’ultimo libro di padre Bartolomeo Sorge, Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia, scritto con Chiara Tintori. L’autore, uno dei più noti gesuiti italiani, già direttore di La Civiltà Cattolica e Aggiornamenti Sociali, è mancato lo scorso 2 novembre. «La scomparsa improvvisa di padre Sorge durante la lavorazione del libro ha reso impossibile l’aggiornamento di alcune informazioni legate a eventi di stringente attualità – afferma una nota della Casa editrice –. Nel rispetto di quello che, a conti fatti, è ormai un testo postumo, si è scelto di non intervenire in alcun modo sulle sue parole che, sebbene prive di importanti elementi dell’“ultim’ora”, conservano tutto il loro valore di lucida lettura dei nostri tempi». Il volume sarà presentato oggi alle ore 16.00 sulle pagine Facebook e YouTube di Edizioni Terra Santa, in un dialogo tra Enrico Letta, presidente dell’Istituto Delors di Parigi, e la politologa Chiara Tintori, introdotto dal direttore di Edizioni Terra Santa, Giuseppe Caffulli. La pandemia ha smascherato l’inganno dell’individualismo e ha clamorosamente smentito le diverse forme di populismo e di sovranismo. Allo stesso tempo, nei mesi dell’emergenza, l’Unione Europea ha fatto passi da gigante sulla strada di una visione comune del continente fondata sui valori di un nuovo umanesimo. Nessuno può salvarsi da solo: ecco perché sarà l’Europa a salvarci. È questo il nucleo della riflessione di padre Sorge, accompagnata dalle domande di Chiara Tintori. Per ricostruire un’Italia che abbia a cuore il bene comune – e non solo il benessere o la salute di molti – non possiamo che guardare a una Unione Europea dove l’ispirazione etica, la solidarietà e la fraternità divengano fondamenta del nostro vivere insieme. Di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto del libro.

LE TRE EUROPE

L’Europa non è nata oggi, ha una vita molto lunga. Possiamo distinguere come tre tappe della sua storia, tre Europe. La prima nacque nel Medioevo sulle rovine dell’impero romano. Essa fu – prima d’ogni altra cosa – un’“idea”, un progetto ideale, una sintesi tra cultura e fede cristiana. Le università e le cattedrali, che dall’“età media” costellano il nostro continente, sono ancora lì ad attestare che la prima unità europea fu soprattutto culturale e spirituale, ben più profonda di una mera unità geografica, mercantile o politica. La possiamo raffigurare come una fortezza chiusa, con i ponti levatoi alzati, isolata dal resto del mondo, all’interno della quale avevano diritto di cittadinanza solo i cristiani. Tant’è vero che i giudei, i musulmani, i popoli “barbari” del Nord, pur appartenendo al medesimo spazio geografico, si sentirono e rimasero estranei al primo nucleo dell’Europa.

La seconda Europa – quella moderna – nasce dalla rottura dell’unità tra fede e cultura, fra trono e altare. Umanesimo, Rinascimento, Illuminismo, Rivoluzione francese sono altrettanti momenti di un processo di divaricazione, che avrebbe condotto alla secolarizzazione e alla frammentazione del continente. Con l’avvento della modernità, infatti, la ragione prende le distanze dalla religione, rivendica la sua autonomia da Dio, si autoproclama essa stessa “dea”. La cultura moderna nega che scienza e religione si possano incontrare. La politica rifiuta ogni rapporto con l’etica (vedi Machiavelli). Col nascere degli Stati nazionali assoluti e con l’acquisizione di una nuova coscienza dei diritti inalienabili dell’uomo, la seconda Europa pone al centro della vita sociale e politica non più il “cristiano”, ma “l’uomo” e il “cittadino”. Essa non è più una fortezza chiusa, ma assomiglia piuttosto alla torre di Babele: frantumata, lacerata, divisa all’interno, scompaginata dalla rottura della Riforma protestante, dalle ideologie nascenti, dalle guerre, da incomprensioni e incomunicabilità.

La terza Europa – la nostra, quella del XX secolo – nasce dopo la Seconda guerra mondiale con la mira di costruire una “casa comune”, capace di garantire la pace nel Vecchio Continente. Tuttavia, si commise l’“errore” di cominciare a costruirla dall’economia, pensandola come comunità economica del carbone e dell’acciaio. Infatti i suoi fondatori, Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, erano convinti che, unificando la produzione e l’impiego delle materie prime necessarie alla fabbricazione di armi, bombe e cannoni, si sarebbero evitate in futuro altre guerre terribili tra i popoli fratelli europei. Si iniziò, dunque, dall’unità economica. Fu, questo, un limite, una sorta di “peccato originale”. Certo, nessuno nega che il progresso economico, sostenuto dallo sviluppo straordinario dell’industria, della scienza, della tecnica e dalle vivaci correnti del pensiero moderno, abbiano consentito alla Terza Europa di raggiungere traguardi di civiltà e di benessere prima impensabili. Tuttavia, il prezzo umano pagato è stato altissimo. In seguito all’obnubilamento di valori umani fondamentali, l’“avere” ha compromesso l’“essere”. La tecnica ha espropriato la cultura, con il grave rischio di compromettere la sopravvivenza dell’Europa, la cui identità fu, fin dall’inizio, soprattutto di natura spirituale e culturale.

Infatti, la crescita economica disgiunta da quella politica e culturale, qual è stata fin qui quella della Terza Europa, si è rivelata contraddittoria: da un lato, sono stati creati importanti organismi internazionali di giustizia, di pace e di tutela dei diritti umani, dall’altro però si sono moltiplicati – nonostante tutto – i focolai di guerra, ha ripreso fiato la corsa agli armamenti, sono aumentati le divisioni, i nazionalismi e le disuguaglianze. Da una parte, si sono raggiunti successi straordinari nei campi più diversi, dalle scienze fisiche alla tecnica, alla biologia, alla genetica, alla comunicazione sociale; nello stesso tempo, però, è entrata in crisi l’antropologia, la concezione stessa della vita umana, con l’introduzione negli Stati europei dell’aborto, del divorzio, dell’eutanasia. In sintesi, l’“avere” – non ci manca nulla! – ha compromesso l’“essere”; abbiamo tutto, abbiamo di più, ma siamo stati contagiati dall’ideologia dell’individualismo, che ci ha fatto dimenticare che la solidarietà è il fondamento e il principio da cui è nata e su cui poggia l’idea stessa di Unione Europea. Finché finalmente il coronavirus, contro il quale stiamo ancora combattendo, giunto imprevisto e all’improvviso, ha risvegliato insperatamente le nostre coscienze assopite. (…)

La rapida diffusione del coronavirus ha obbligato l’Europa e il mondo intero a una dura e lunga quarantena. Tuttavia, nello stesso tempo, ha prodotto un risveglio delle coscienze che è destinato – se sapremo cogliere l’occasione propizia – ad aprire una stagione nuova della Terza Europa, consentendoci finalmente di realizzare quella “casa comune” che finora non siamo riusciti a costruire. (…)

L’emergenza sanitaria ci ha fatto toccare con mano che l’Europa è ricca di potenzialità e può finalmente realizzarsi come “casa comune”. La sua, infatti, non è un’identità statica, ma dinamica. Così come non sono statici e fermi, ma in evoluzione continua, il mondo e la storia. A 70 anni dalla sua nascita, la Terza Europa non è più minorenne! Perciò l’unità politica, l’esercito comune, una politica fiscale condivisa sono traguardi che non si possono più rinviare. Come fare? Per imparare a crescere uniti rispettandoci diversi, occorre ripartire dai valori culturali e spirituali della nostra millenaria civiltà: il rispetto della dignità della persona, la libertà solidale, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri, la sussidiarietà responsabile. I processi di globalizzazione, inoltre, hanno ampliato l’orizzonte ben oltre i confini geografici dell’Unione e ci ricordano ogni giorno che il cammino della storia si può e si deve orientare, ma non si può fermare.

 

Bartolomeo Sorge, Chiara Tintori, Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia. Edizioni Terra Santa, Milano 2020. €14,00 Pagg.128

“Giudizio Universale”, l’ultimo libro di Gianluigi Nuzzi sui guai finanziari della Chiesa

Giudizio Universale

 

Nel cuore della Santa sede, allinterno del palazzo apostolico, i cardinali sono impegnati da mesi in unoperazione di salvataggio che sembra impossibile. Un piano segreto di emergenza da realizzare assolutamente entro cinque anni, prima che sia troppo tardi. I clamorosi dossier riservati che compongono la nuova inchiesta di Gianluigi Nuzzi tracciano uno scenario impensabile: la Chiesa è prossima al default finanziario. Mancano i soldi per pagare i dipendenti, sono sospese le ristrutturazioni dei palazzi, è minacciata la sopravvivenza delle parrocchie in Italia e nel mondo.

 

Giudizio universale (ED. CHIARELETTERE, Pagg. 368, € 19,00) ,il libro è da stamattina nelle librerie, è un viaggio esclusivo nelle stanze più inviolabili dei sacri palazzi, tra riunioni a porte chiuse dov’è stato possibile ascoltare a viva voce i moniti e le parole allarmate di Francesco. Un racconto in presa diretta realizzato grazie a oltre tremila documenti top secret, che arrivano fino allestate del 2019.

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