Foto-grafie della notte della Repubblica: Il caso Moro e il 1978. Intervista a Sara Cordella

La ricca bibliografia sul “caso Moro”, ma non tutta è di qualità, si amplia con questo saggio, in uscita questa settimana nelle librerie, di Sara Cordella dal titolo emblematico: Foto-grafie del 1978. La grafologia racconta il sequestro di Aldo Moro, Il papato di Giovanni Paolo II, la presidenza Pertini (Prefazione di Fiore De Rienzo e Paolo Di Giannantonio-Ed.Associazione Artisti & Autori Italiani ed Europei, Vicenza 2018, pagg. 100). Un libro che ci offre, tra l’altro, una particolare prospettiva di lettura del Caso Moro. Ne parliamo, in questa intervista con l’autrice. Sara Cordella, veneziana, laureata in lettere è grafologo forense specializzata in Grafologia criminologica. Nella sua attività si è occupata di molti casi di cronaca “nera”.

Il tuo libro, su quell’anno drammatico, il 1978, può essere considerato come un panorama foto-grafico sulla notte della Repubblica. Una notte cupa…La tua scienza grafologica ci fa rivivere i personaggi dentro la loro interiorità. Parliamo in particolare della vicenda Moro, che occupa grande rilievo, come è giusto che sia, nel tuo libro . Partiamo, quindi, dal caso Moro. Tu analizzi alcune lettere di Moro, che sono tra le più importanti, e ci consegni anche un Moro, per certi versi, poco conosciuto. Un uomo lucidissimo, vigile, che sa usare la parola. Eppure di fronte alla parola di Moro il potere è afono…. è così?

I 55 giorni della prigionia vedono una produzione ricchissima di lettere, un caso unico in Italia. Questo ci permette di seguire passo passo il percorso che lo porta alla morte e di comprendere come in più modi e con diversi registri cerchi di offrire soluzioni per la sua liberazione. Aldo Moro cerca diversi interlocutori, anche lontani dal suo mondo di valori e dal suo pensiero, li invita a riflettere, li sprona, li implora di non far andare a termine questa ingiustizia che per lui è inaccettabile. Eppure trova totalmente stravolti tutti i rapporti e le distanze. Chi nel campo politico sarebbe dovuto stare al suo fianco e lottare per lui, fa cadere inascoltate le sue richieste, chi era prima lontano sembra appoggiare le sue proposte. Moro non riceverà mai risposta alle sue lettere ma è evidente che, anche nei silenzi, anche totalmente isolato, comprende tutto ciò che accade al di fuori di quei pochi metri quadri che sono la sua prigione. E comprende che non è una realtà che lo può né lo vuole aiutare nelle modalità in cui sperava.

Attraverso la grafia ricostruisci, con efficacia, le personalità di alcuni grandi protagonisti di quella vicenda: Andreotti, Cossiga, Craxi, Paolo VI.Fa impressione vedere la calibrazione della scrittura di Moro quando invia le lettere ai due uomini politici più importanti per il suo destino (Andreotti e Cossiga)…Anche in questo si nota la lucidità dello statista pugliese. Ce ne puoi parlare?

Moro era un politico nel vero senso della parola, come non ne esistono oggi. Quando scrive è esattamente come parlasse di fronte al destinatario e ne immaginasse risposte e reazioni. La scrittura si modifica in lui esattamente come si modificasse il tono di voce e quindi nelle lettere c’è un racconto nel racconto. Ne vediamo la concretezza, la volontà di non aggiungere fronzoli ma di arrivare subito al dunque quando scrive a Cossiga, il volere mantenere cautela e distanze con Craxi, il valorizzare il detto ma soprattutto il non detto ad Andreotti. E’ come se in ogni lettera riuscisse a creare un tutt’uno tra mittente e destinatario e le due anime convivessero in quelle righe.

La tua analisi della grafia consente di cogliere alcuni momenti della prigionia Moro. Ci sono stati momenti di speranza e di rabbia?

La rabbia in Moro è in quasi tutte le lettere percorsa dalla speranza. L’impotenza dell’uomo privato della sua libertà non annienta mai l’uomo propositivo e arrabbiato soprattutto con i “suoi”. Moro resta in tutte le lettere un uomo di fede… questo fino quasi alla fine, fino a quando comprende che nulla si può fare e che la sua storia è scritta.

Nella tua analisi della lettera di Moro a Craxi affermi che Moro non nutre molta fiducia in Bettino Craxi, eppure lo cerca…

Le grafie di Moro e Craxi non potrebbero essere più diverse. Craxi con una grafia ampia, quasi gonfiata, ci parla di una personalità straripante e abilissima nella comunicazione mediatica. Moro invece ha una grafia molto più piccola, controllata, parca. Eppure Moro non sbaglia a rivolgersi a quello che politicamente poteva essere il suo opposto. Certo, ne mantiene le debite distanze ma un uomo come lui sa procedere in punta di piedi. Anche cercando il sostegno di un partito considerato spregiudicato e di un rappresentante che, scopriremo negli anni successivi, ha saputo far del decisionismo la sua bandiera.

Ma è nelle lettere alla famiglia che esce fuori il Moro “nudo”,stiamo parlando degli ultimi giorni di vita. “Nella scrittura, piccola, ammorbidita, sembra quasi di sentire il suo tono di voce, sommesso, commosso, a tratti spezzato dall’immagine dei ricordi. Parla di futuro, lui che futuro non ne ha più. E tutto, in Moro, diventa piccolo e fragile: le mani di Noretta che condurranno la sua tenerezza, i suoi occhi che chissà come vedranno dopo”. Così scrivi nel libro sulle lettere alla famiglia. L’impressione che si ha, in particolare nell’ultima lettera è di trovarsi di fronte ad una “crocifissione”…anche la firma di Moro cambia…una spoliazione perfino estetica . E’ così?

Sì. L’immagine rende bene l’idea. Moro di fronte alla morte e alla consapevolezza della sua fine resta nudo e così la sua grafia. Nudo ma sempre un uomo vestito di dignità. Solo con i familiari riesce a parlare della sua fine e solo a loro affida i suoi ricordi e le sue immagini più intime. Il Moro che si sente abbandonato volge dapprima lo sguardo amorevole alla moglie e poi, cattolico fino alla fine, lo volge al cielo. “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

Come sappiamo nella vicenda Moro sono stati commessi tanto errori, troppi direi, di impreparazione strategica. Tra questi vi è la valutazione delle lettere. Qual è il tuo parere? 

Raccogliendo e studiando il materiale ho notato che una prima perizia grafologica fu disposta praticamente subito dopo  l’arrivo delle prime lettere. Mi sono chiesta come mai fosse così importante essere a conoscenza dello stato emotivo, di salute, di lucidità di Moro e ho compreso che lo strumento grafologico nel 1978 fu considerato uno strumento, l’unico utilizzabile, davvero potente. Questa urgenza, anche alla luce delle perizie disposte successivamente, io credo fosse correlata più al dopo che al durante. Credo che ai tempi ci fosse grandissima preoccupazione per come sarebbe uscito Moro, qualora fosse uscito vivo. E questo è stato un errore fondamentale perché non ci si è soffermati, come poi dirà Sciascia, sul vero significato delle lettere che, forse, oltre a offrire soluzioni per la liberazione, contenevano molto di più, forse anche la chiave per trovarlo.

Ultima   domanda: Il tuo libro, come detto all’inizio, è un libro sul 78. L’anno dell’omicidio Moro, di quello di Peppino Impastato, della morte di Paolo VI, e della vicenda dei due Papi. Un anno di svolta della storia italiana e non solo. Se tu dovessi analizzare, da grafologa, un segno grafico che caratterizza quell’ anno cosa scriveresti?

Il 78 è stato anno di grandissimi personaggi che hanno fatto della fermezza di carattere il loro stile di vita. E’ stato ancora un anno di martiri, un anno in cui storie drammaticamente buie hanno portato a luci che ancora oggi brillano. Se chiudo gli occhi posso immaginare il 78 come una grafia a tratti rigida e controllata, ben piantata sul rigo, con forti angoli di resistenza ma arricchiti di bellissimi chiaroscuri che hanno reso questo anno in bianco e nero, una nitida fotografia a colori. Ancora oggi attuale.

Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica. Intervista a Marco Damilano

 

“Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande”. Con queste parole Marco Damilano, giornalista parlamentare e Direttore del settimanale “L’Epresso”, inizia l’ intervista. Il suo libro ,pubblicato da Feltrinelli appena uscito nelle librerie, “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia” (pagg. 272, € 18,00) ci offre una memoria viva di quel giorno fulminato, come lo definisce Martinazzzoli, per la democrazia italiana. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro? Ecco le sue risposte.

Marco, il tuo libro è suggestivo, ricordi personali e la drammatica storia di quei giorni si incrociano. Ad un certo punto scrivi: “i ricordi dei bambini sono emotivi, non si muovono restano fissati lì, incastrati nella memoria. ” Ci offri appunto un libro in cui consegni al lettore una memoria viva di quella ferita indelebile nella storia Italiana. Via Fani sanguina ancora per la nostra democrazia, e forse non smetterà mai di sanguinare. E’ così?
Ti ringrazio per aver sottolineato quella frase perché è stato il punto di partenza della mia scrittura. Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino
e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande. Ho provato a rivivere l’emozione e lo sconvolgimento di quel giorno di guerra e i quarant’anni successivi, con la chiave del racconto. Credo così di aver dato voce agli italiani normali che non dimenticano quel giorno, quel momento. E anche, al tempo stesso, provare a uscire dalla
rimozione collettiva di quel periodo: i ragazzi di oggi non sanno niente degli anni di piombo, del terrorismo, delle vittime inermi come Moro o come – fammelo citare perché anche per lui è un anniversario, Roberto Ruffilli – e certo non è colpa loro. Noi siamo diventanti grandi come persone, ma la democrazia non è diventata più adulta, come immaginava Moro: al contrario,
ha camminato all’indietro.

Il tuo itinerario si sviluppa, lungo tutto libro, da via Fani a Torrita Tiberina, si conclude, infatti, nel piccolo cimitero di quel paesino sulla Tomba di Aldo Moro. Sembra un cammino per capire il nostro presente. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro?
Si, hai ragione, il viaggio comincia da via Mario Fani e si ferma di fronte a quella piccola tomba di Torrita Tiberina. Si è perso con Moro l’idea della politica come intelligenza degli avvenimenti e capacità di persuasione, la democrazia che è una tensione e non una conquista una volta per tutte. Dopo di lui, la politica è stata sempre di più affidata esclusivamente ai rapporti di
forza. Fammi dire: non voglio fare un santino, Moro è stato un uomo di potere, ha conosciuto il potere in tutti i suoi aspetti, anche il più crudo e il più oscuro. Nessuno come lui sapeva cosa si muove nel fondale occulto della politica e della società italiana. Ma proprio per questo immaginava la costruzione di percorsi complessi, di tempi lunghi, di non esaurire un progetto
politico nello spazio di un istante. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico e avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo. La sua morte ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata Pietro Scoppola, di auto-rinnovarsi. Dopo sono arrivati Mani Pulite, Tangentopoli, la fine di Dc, Pci, Psi, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte che spiega anche l’oggi. L’anniversario di Moro cade nel dopo 4 marzo, con gli elettori in rivolta e il buio pesto sulle prossime settimane. È un caso, “un’enigmatica correlazione”, avrebbe detto Sciascia.

Riecheggiano spesso nel libro le parole di Moro sull’Italia: “Un paese dalla passionalità intensa e dalla   struttura fragile”.  Dopo la morte di Moro è finita la prima repubblica, dopo  di lui è stato, come hai ricordato tu, il trionfo della visione corta della politica. E quelli che si autodefiniscono “eredi” oggi sono relegati all’opposizione. …  Eppure la voce di Moro ci parla ancora : “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”… Parole terribili alla DC, ma valide anche per l’oggi…

C’è una frase in un articolo giovanile di Moro che voglio citare: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». Aveva ventotto anni, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società». Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. Mi colpisce che lui usasse così spesso la parola cristallizzazione. Ora abbiamo una politica che si percepisce in movimento, vuole dare questa sensazione, e invece è immobile e paralizzata.

Un altro punto che tocchi è quello dell’indagini alla ricerca della verità, con il lavoro dell’ultima Commissione di Inchiesta siamo arrivati a buoni risultati. Perché definisci la verità su Via Fani “parziale e ambigua”?
Moro va strappato alla riduzione di questi quarant’anni, va liberato dal “caso Moro” in cui è stato sequestrato per la seconda volta. Per questo mi soffermo poco sui misteri dei 55 giorni. Faccio solo notare che alcune conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni sono importanti. E che, una volta di più, le presunte rivelazioni delle Br dei decenni scorsi appaiono una colossale montagna di omissioni e di manipolazioni. Per questo, e per principio, non ho voluto sentire nel mio lavoro neppure uno degli ex terroristi: non sopporto il loro narcisismo, le loro lamentazioni, le loro bugie. Non metto in dubbio che siano stati i brigatisti a rapire Moro e che la vicenda sia tutta italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra estremista che odiava il presidente della Dc e lo considerava il simbolo del regime democristiano. Ma c’era l’altra parte, la destra profonda, che voleva eliminarlo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di tradire la democrazia e di allearsi con la destra. Nel sequestro queste forze interne e internazionali hanno trovato un’occasione insperata. Questo si può dire, anche se certo in modo parziale.

“Datemi da una parte milioni di voti toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente”. E’ la frase di Moro che chiude il tuo libro … Ed è quello che manca oggi alla politica. E’ così?
Verità, in politica, è una parola perfino pericolosa. In nome della verità si sono compiuti i crimini orrendi dei totalitarismi novecenteschi. Tuttavia la politica non può prescindere da un rapporto con la verità: su se stessa e sul Paese cui si rivolge. La frase di Moro mi sembra straordinariamente attuale in questa settimana post-elettorale: puoi prendere milioni di voti e poi perdere lo stesso perché non hai verità, cioè una visione, un progetto. Questo vale per gli sconfitti del 4 marzo e ancora di più per i vincitori.

Che cos’è la normalità? Il mistero e il fascino di una parola

È appena uscito nelle librerie il secondo numero, del 2017, della rivista dell’Arel, l’agenzia di studi economici e legislativi fondata da Beniamino Andreatta. Il tema di questo numero è dedicato alla “Normalità”. Un tema affascinante, come spiega, nella sua presentazione, La Direttrice della Rivista Mariantonietta Colimberti. Il numero verrà presentato, nella tarda mattinata di domani nella sede dell’Arel, da Enrico Letta, Segretario Generale dell’Arel, e da Marco Minniti, Ministro degli interni.

PRESENTAZIONE
Chiedersi cosa sia la normalità e come essa si definisca nel nostro tempo significa porsi un interrogativo smisurato e forse senza risposta. Ma proprio la difficoltà di arrivare a una descrizione nitida della normalità è anche ciò che ne costituisce il fascino e la modernità. Perché se il concetto di normalità, come si sa, muta col mutare delle epoche, delle culture e persino delle latitudini – nelle due sezioni di questa rivista “Lontani da noi” e “Vicini a noi” se ne trovano documentati esempi – ci sono ambiti in cui la contemporaneità mette a durissima prova il tentativo di guardare e comprendere la “normalità”.
L’intervista di apertura al Presidente emerito Giorgio Napolitano è, in un certo senso, il racconto di una “non normalità”: quella di un’amicizia importante tra due giganti della politica, entrambi eccentrici nei rispettivi partiti – PCI e DC – pur nell’assoluta lealtà che sempre mantennero. Una stima profonda nata oltre dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, diventata amicizia nel Primo Governo Prodi, quando Andreatta fu ministro della Difesa e Napolitano degli Interni, prima volta per un ex comunista. Napolitano ripercorre vicende significative della storia italiana e degli anni in cui nel nostro paese non era possibile l’alternanza a causa della conventio ad excludendum, ed esprime il suo pensiero sul futuro dell’Europa e della sinistra.
“Il mondo non è normale” è il titolo che provocatoriamente abbiamo dato alla prima sezione. Principale protagonista della “non normalità” è la tecnologia, che ha rivoluzionato le nostre vite e, insieme ad esse, la politica, l’economia, le istituzioni, la finanza. Bene ce lo spiegano, ciascuno per il proprio campo – che alla fine risultano contigui – Enrico Letta e Alessandro Pansa, mentre Ferdinando Salleo pone il problema ineludibile di cercare la strada per una nuova stabilità dopo la fine irreversibile di un “ordine” mondiale noto. Ma accanto a un panorama internazionale così problematico c’è anche una realtà che si è costruita attraverso progressive conquiste, che hanno inciso e incidono positivamente nella nostra quotidianità: le tante piccole e grandi “normalità” dell’Europa, il nostro comune paese, come ci rammenta Raffaella Cascioli. Chiude la sezione un ampio intervento di Marco Giudici sulla crisi della televisione, condannata anch’essa a una “non normalità”, a cercare cioè format estremi per reagire all’indebolimento dei suoi tradizionali punti di forza e, in definitiva, al pericolo del suo stesso declino.
Strettamente legata alla precedente è la seconda sezione, “La politica non è normale”, in cui studiosi della sinistra (Carlo Trigilia), della destra (Giovanni Orsina) e dei Cinquestelle (Marco Laudonio) approfondiscono rispettivamente le difficoltà di dare rappresentanza ai gruppi sociali più deboli, i mutamenti intervenuti nella/nelle identità della/delle destra/e, la comunicazione semplificata del M5S volta a costruire un’apparenza di “normalità”.
“Lontani da noi”, fisicamente e culturalmente, sono la Corea, anzi, le Coree e la comunità coreana che vive in Giappone (Pio d’Emilia), la Cina (Romeo Orlandi), l’India (Sauro Mezzetti), ma anche la Turchia, sebbene alle porte dell’Europa e alla ricerca di una nuova “normalità” (Elena Baracani). Lontana da noi è anche la vita difficile seppur ricca e piena di motivazione di un operatore umanitario in Iraq (Stefano Nanni).
“Vicini a noi” sono i nostri concittadini musulmani, spesso alle prese con una difficile normalità, sebbene il presidente dell’UCOII Izzedin Elzir abbia parole di apprezzamento per la “laicità” italiana; vicina a noi è una rifugiata curda (Hevi Dilara), da vent’anni nel nostro paese dopo essere sfuggita a persecuzioni e violenze in Turchia. Curiosa e particolare – in questa epoca in cui la corsa alla “visibilità” sembra inarrestabile – la “legge di Jante” dei Paesi Scandinavi, una sorta di inno alla normalità e all’understatement. Chiudono la sezione due analisi su un tema ormai centrale nelle nostre società, al di là del suo peso reale in termini quantitativi: il terrorismo (Francesco Raschi e Lorenzo Zambernardi), esaminato anche nei suoi effetti potenziali sulla legislazione di uno Stato di diritto (Carla Bassu).
L’intervista a Edoardo Boncinelli apre la sezione “Noi”: lo scienziato parla del mistero della vita e della normalità della morte, della sua convinzione che non ci sia sopravvivenza in alcuna forma, della solitudine e dell’infelicità esistenziale, così connaturate all’essere umano. Nella stessa sezione le riflessioni sulla normalità da due punti di vista forti e diversi: quello di un sacerdote e teologo (don Bruno Bignami) e quelle di un filosofo (Ezio Di Nucci).
“Gli spazi molteplici (e difformi) della normalità” iniziano con l’intervista impossibile di Federico Smidile a Erasmo da Rotterdam, un padre dell’idea di Europa (non a caso a lui si richiama il “Progetto Erasmus”), modernissimo con il suo Elogio della Follia. Emanuele Caroppo indaga sugli effetti che la presenza di un disabile produce nel rapporto tra fratelli; Antonello Colimberti ci introduce all’incontro con un personaggio poliedrico e poco conosciuto al grande pubblico, George Lapassade, che studiò e scrisse sulla dissociazione psicologica, mentre Alberto Biancardi ci parla di un grande scrittore argentino, Julio Cortázar, e del suo rapporto speciale con la normalità e col fantastico. Mazzino Montinari ci conduce attraverso un viaggio affascinante tra film in cui la narrazione fantastica sfida continuamente il reale e la normalità, in una simbologia che accende i riflettori sull’incomunicabilità e la disumanità. Si torna alla “normalità” con gli articoli di Francesco Gastaldi sulle trasformazioni territoriali e di Michele Bellini su un “normale” comportamento negativo, quello dell’evasione fiscale.
“In conclusione” le nostre consuete rubriche: citazioni dotte e meno dotte, e questa volta anche versi di illustri cantautori (Gianmarco Trevisi) e l’Osservatorio bibliografico di Pierluigi Mele, con recensioni sui volumi appena usciti di Giana Andreatta, Giovanni Bianconi, Marco Damilano, Ferruccio de Bortoli, Maurizio Molinari e Romano Prodi.
Infine, una notazione: di fronte a questa “normalità” inafferrabile l’apparente “ordine” di Piet Mondrian ci è sembrato la scelta più adatta per far “parlare” la nostra copertina.
(M.C.)

“Il populismo mette in crisi lo Stato Sociale”. Intervista a Tito Boeri

La “ricetta” politica del populismo europeo, oltre ad essere una risposta sbagliata ai problemi dell’Europa, mette in crisi quella, che è tra le più  importanti, conquista sociale della modernità: il Welfare State. E’ la tesi del libro (“Populismo e Stato Sociale” Editori Laterza), appena uscito nelle librerie, dell’economista, Presidente dell’INPS, Tito Boeri. Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore.

Professor Boeri, nel suo saggio analizza il pericolo del populismo in Europa. Lei pensa che anche dopo le elezioni di Francia, Olanda e  la vittoria, stando ai sondaggi, di Angela Merkel a quelle tedesche, il populismo costituisca ancora un pericolo per l’Europa?

Assolutamente si, la vittoria di Macron non deve far passare in secondo piano il fatto che anche al primo turno delle presidenziali francesi i partiti populisti hanno raccolto più del 40 % dei voti così come anche in Germania dove ci sono forti pulsioni in quel verso.

Non bisogna dimenticare che i populisti agiscono sulla partecipazione e il secondo turno delle presidenziali francesi, infatti, credo abbia toccato il livello più basso di partecipazione al voto della storia repubblicana. Quindi c’è un problema di disagio diffuso da cui possono fare spunto pulsioni di questo tipo.

Qual è la caratteristica più pericolosa del populismo europeo?

Credo che nel dare una lettura semplificata dei problemi tende, di fatto, ad allontanarne la soluzione, alla fine finisce per penalizzare gran parte delle persone che lo sostengono. Infatti quando li abbiamo visti alla prova (i partiti populisti) hanno fatto delle politiche che, se non nell’immediato, si sono riversate contro i ceti popolari (le persone a maggior rischio di vulnerabilità sociale).

La globalizzazione ha creato, certamente, opportunità ma ha fatto tante vittime a cominciare dal ceto medio basso. Insomma c’è un bisogno di sicurezza che porta acqua al mulino della propaganda populista. Come rispondere a questo bisogno?

Ci sono due fattori alla base del successo dei populisti: da una parte come diceva lei il disagio legato a queste sfide strutturali che provengono dalla globalizzazione: il progresso tecnologico che pongono sfide strutturali di protezione sociale a cui i nostri sistemi di protezione non sono in grado di dare delle risposte; dall’altro un problema legato alle classi dirigenti, le persone infatti da una parte sentono che non sono protette, dall’altra ritengono che le persone che potrebbero trovare i correttivi per migliorare i sistemi di protezione sociale sono corrotte e incapaci di gestire questo cambiamento. Per cui preferiscono rivolgersi a degli sconosciuti, che sono fuori dalla classe dirigente, che si presentano come figure nuove e le persone, a tal punto che, sfiduciate dalla classe dirigente, vogliono punire in tutti i modi la classe dirigente. La risposta quindi sta nel dare una risposta ai quesiti che stanno alla base dei populismi piuttosto che inseguire nelle loro posizioni, evitare di replicare perché loro saranno sempre più credibili sia come outsider che come persone che prendono una linea dura su diverse cose. Infatti la loro propaganda non ha mediazione, rifiutano la logica dei pro e dei contro e quindi è molto difficile seguirli nel loro terreno. La cosa fondamentale, quindi, è dare risposte ai problemi che stanno alle base dei disagi, questo è l’unico modo per essere efficaci.

Lei, nel suo libro, ha smascherato quello che è il vero pericolo insito nel populismo: ovvero la messa in crisi del welfare state europeo. Perché la “ricetta” populista mette in crisi lo Stato Sociale?

Perché di fatto mina alle fondamenta di molti aspetti che sono cruciali nel funzionamento del sistema di protezione sociale, il primo è quello di avere dei regimi, per esempio previdenziali, che comunque sono molto importanti nel sistema di protezione sociale che devono essere sostenibili. La propaganda populista sostiene che: ad esempio, c’è un pasto gratis tende a dire che bisogna abbassare i contributi e aumentare la generosità delle persone, e questo porta alla disgregazione di questo patto sociale. In secondo luogo perché chiudere le frontiere è qualcosa che può essere molto dannoso nella realtà a lungo andare, infatti come riportato nel rapporto annuale dell’ Inps, se non alimentiamo un flusso crescente di contribuenti di fronte all’invecchiamento della popolazione e al calo delle nascite abbiamo un problema molto serio di sostenibilità.

Immigrazione, è il punto debole dell’Europa: tante belle parole e pochi fatti. Come spiega questa assurda cecità europea?

Io non sono un commentatore politico, non è facile effettivamente coordinarsi tra paesi diversi nel gestire un problema comune, c’è sempre la tentazione da parte dei paesi che non sono periferici di scaricare su quelli che li sono il costo. È chiaro che c’è un problema che va affrontato trovando dei correttivi tra cui il fatto di prevedere delle forme di scambio tra i vari paesi con delle quote, credo, comunque, che anche l’Italia da sola possa gestire meglio questo fenomeno.

Lei fa una proposta molto interessante: quella del codice di protezione sociale che valga per tutti i paesi dell’Ue. Può spiegarci meglio la sua idea?

Significa, semplicemente, assicurare che il principio della libera circolazione dei lavoratori nell’ambito dell’Unione Europea  venga rispettato e che i lavoratori si possono spostare all’interno dell’ Europa senza avere dei costi di portabilità dei diritti a livello sociale; al tempo stesso è un modo anche per impedire che ci siano abusi, per cui persone che percepiscono sussidi in un paese e lavorano in un altro. La proposta si può fare sul piano meramente amministrativo senza revisione dei trattati o consensi che a livello europeo sono molto difficili da trovare, ma semplicemente un coordinamento più forte tra le varie amministrazioni della protezione sociale a livello europeo, in altre parole questo vuol dire che quando c’è un lavoratore che arriva in un paese europeo di un’altra nazionalità e cittadino dell’unione, l’amministrazione che deve guardare al suo caso è in grado di risalire, in tempo reale, alla posizione assicurativa della persona accumulata in altri paesi. Questo consente un miglior monitoraggio dei flussi migratori all’interno dell’Unione. Il “codice di protezione sociale europeo” può diventare anche un fattore identitario, un modo di acquisire nei fatti la cittadinanza europea da parte di chi regolarmente contribuisce a finanziare lo stato sociale dei singoli paesi.

Doveva morire, Il caso Pantani. Un libro di Chiarelettere

Gli ultimi giorni di Marco Pantani

Le inchieste sulla morte

Le clamorose rivelazioni di Vallanzasca

La camorra e le scommesse clandestine

Le ombre, i misteri

La verità indicibile dietro un suicidio troppo imperfetto

 

Giovanni Falcone disse: “Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano”.

Ecco, forse anche con Pantani è andata così.

Una morte da rockstar e il caso è chiuso. Ma qui non siamo a Los Angeles, siamo nel paese dei misteri irrisolti, dei depistaggi e delle doppie verità. State per leggere un giallo scritto da un criminologo che in un crescendo di suspense e rivelazioni entra nella scena di un suicidio troppo imperfetto per essere vero.

Una storia che deve essere raccontata anche dopo che l’iter processuale ha detto la sua ultima parola. Una storia che ci porta dritti nel territorio di una verità indicibile e clamorosa. Marco Pantani era un fuoriclasse troppo irregolare. La squalifica che lasciò sgomenta l’Italia intera era in realtà una gigantesca truffa ai suoi danni. In un giro di scommesse clandestine la criminalità

organizzata aveva puntato cifre folli sulla sconfitta del Pirata. Gli elementi rilevanti per un criminologo fanno ritenere del tutto improbabile l’ipotesi del suicidio. Allora il caso non può essere chiuso.

L’autore chiede l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, forse è l’unica strada per stabilire una verità che rischia ancora di far saltare troppi intoccabili. L’ultima strada per rendere giustizia a un uomo fragile e a un grande campione.

L’AUTORE

Luca Steffenoni è un criminologo che lavora come consulente per diversi tribunali. Da anni segue i grandi gialli italiani unendo le sue competenze professionali all’attività di scrittore e narratore. È stato redattore della rivista “Delitti & Misteri” ed è autore di vari libri, tra i quali ricordiamo: “Presunto colpevole” (Chiarelettere 2009) e “I 50 delitti che hanno cambiato l’Italia” (Newton Compton 2016). Come criminologo è spesso ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto  del volume

QUESTO LIBRO

Sembra un segno del destino che l’ultima pagina di questo libro venga scritta nel giorno in cui il mondo del ciclismo si raduna ad Alghero per onorare la centesima edizione del Giro d’Italia. La corsa parte con mestizia, nel ricordo di Michele Scarponi, morto il 22 aprile in un drammatico impatto mentre si allenava sulle strade di casa. Mi piace immaginare un Pantani di mezza età capace di trovare le parole giuste per spiegare il senso di questo sport che sta diventando sempre più estremo e pericoloso. Forse polemizzerebbe da uno studio televisivo, probabilmente avrebbe attinto a quella tremenda immagine di «torrida tristezza» alla quale fa riferimento in una sua lettera. Chissà. È tempo di lasciare questo lavoro al giudizio dei lettori. Per un criminologo la storia del ciclista di Cesenatico è essenzialmente ricerca della verità sulla sua tragica fine. Se l’esperienza professionale può aiutare a capire cosa sia successo a Rimini quel 14 febbraio 2004, diventa difficile esimersi dall’esprimere una posizione personale sul «caso Pantani», provando a dare risposta ai tanti enigmi lasciati aperti.

 A Madonna di Campiglio, nel giugno del 1999, è stata commessa una frode sportiva ai danni di Marco Pantani a opera di esponenti dei clan camorristici interessati al ricco mercato delle scommesse clandestine?

La ricostruzione effettuata dai giudici del Tribunale di Forlì fornisce una risposta affermativa, pur vincolata al tempo trascorso da quel giorno e all’impossibilità di esplorare le connivenze, che tuttavia debbono esserci state, tra l’ambiente del ciclismo professionistico e la malavita organizzata.

Posata questa prima pietra sul terreno della verità, diventa fondamentale capire se Pantani, a più di quattro anni da quell’episodio e molto prima che emergessero i contorni di quella immensa truffa, potesse rappresentare un pericolo o un semplice fastidio per la camorra o per chi, all’interno del mondo sportivo, aveva permesso che tale truffa si realizzasse o l’aveva addirittura promossa e sostenuta. Qualcuno che avrebbe voluto zittire per sempre la voce di quel campione polemico e fin troppo tenace.

La risposta in questo caso è molto più difficile. Si tratta di un’ipotesi che forse non è mai stata scandagliata dagli inquirenti, nemmeno durante l’inchiesta del 2014, inevitabilmente influenzata dalla convinzione che dieci anni prima i colleghi della Procura di Rimini avessero agito nella maniera corretta e che quello avvenuto nella camera del residence Le Rose fosse un banale suicidio. L’opinione dell’autore è che su questo movente non sia possibile far luce mediante il percorso giudiziario tradizionale ma sia  necessario l’intervento della Commissione parlamentare antimafia, la sola in grado di collegare le tessere del grande puzzle delle attività criminali che si muovevano tra sport e scommesse clandestine a cavallo del nuovo millennio. Date le premesse, il tema centrale del caso Pantani diventa ovviamente capire se nella stanza D5 si sia consumato un omicidio o un suicidio. Ancora una volta realtà processuale e punto di vista di chi scrive divergono. Tutti i dati criminologicamente rilevanti concorrono a far ritenere altamente improbabile l’ipotesi di un suicidio. Rilievi autoptici e ambientali, posizione del corpo e presunte modalità di assunzione della dose mortale di cocaina erodono la versione ufficiale e rendono poco credibile la tesi che Marco Pantani abbia voluto togliersi la vita. L’anamnesi stessa, ovvero la storia personale del campione, unita a un’indagine sulla sua personalità e sugli accadimenti immediatamente precedenti a quel14 febbraio 2004, porta a escludere che si sia trattato di suicidio.

Eppure l’inchiesta del 2004 fotografa una realtà diversa. Possibile che sia stata fatta male, chiusa in modo frettoloso o addirittura in odore di complotto, come molti sospettano? Niente di tutto questo. Le indagini, compatibilmente con la cultura investigativa del periodo, sono state effettuate in maniera corretta.

Confondendo la realtà con la finzione cinematografica si è gridato allo scandalo per la carenza di un’approfondita indagine scientifica, per la mancata ricerca di tracce biologiche mediante Luminol, o per la carenza di catalogazione delle impronte digitali presenti sulle pareti e sugli oggetti.

Una stanza d’albergo è per sua natura piena di impronte e tracce, a che servirebbe esaminarle? Abbiamo idea di quante manipolazioni ha subito una bottiglia di acqua minerale, dalla fabbrica al trasporto, prima di arrivare sulla mensola della camera D5? Possiamo credere che un assassino professionista, perché di questo si tratterebbe, non utilizzi dei guanti e lasci impronte ovunque? La realtà è che l’indagine svoltasi nel 2004 fu eseguita correttamente. Sono le sue conclusioni a essere discutibili, perché inevitabilmente vincolate ai pochi elementi a suo tempo in mano agli inquirenti.

Per un meccanismo di banale economia giudiziaria, l’indagine sull’omicidio di Marco Pantani non c’è stata.

L’unica pista seguita dagli inquirenti nel 2004, e tenacemente difesa dieci anni dopo, è quella del suicidio.

Tra una tesi scientificamente improbabile come il suicidio e una che può sembrare del tutto fantasiosa come l’omicidio, il sistema giustizia tenderà sempre a preferire la prima.

Pantani forse doveva morire, perché rappresentava una spina nel fianco non solo per chi aveva commesso l’illecito di Madonna di Campiglio, ma anche per i tanti che con la camorra in quegli anni avevano fatto affari.

Proviamo a pensare cosa sarebbe accaduto se un ciclista del calibro di Pantani, a fine carriera, avesse seguito le orme di Danilo Di Luca, mettendo nero su bianco le ipocrisie del sistema antidoping, e denunciando gli interessi economici e gli affari che sovrastano il mondo del ciclismo professionistico. Forse il sistema stesso dietro uno degli sport più popolari sarebbe crollato. Dietrologia? Può darsi. Sarebbe stato comunque interessante se almeno in una delle due inchieste svoltesi a Rimini si fosse contemplata anche questa ipotesi. Purtroppo non è accaduto. Agli inquirenti, a pochi minuti dal ritrovamento del cadavere, è stata fornita una versione suggestiva, e in parte falsa, su chi fosse Pantani e sui presunti motivi di un suicidio. Forse l’immagine romantica e dannata del campione faceva comodo a tanti, sorvolava su chi, tra i personaggi a lui vicini, gli avesse fornito le prime piste di cocaina, e allontanava responsabilità e sensi di colpa di chi non aveva saputo o voluto sostenerlo in vita. Giovanni Falcone diceva: «Prima ti delegittimano, poi ti isolano e poi ti ammazzano». Ecco, forse è andata così.

 

Luca Steffenoni, Il caso Pantani.Doveva morire, ED. Chiarelettere, Milano 2017, Misteri italiani, pp. 160, prezzo: 12 euro