Il familismo criminale della ‘ndrangheta genera nuovi boss giovani. Chi sono gli emergenti? Ne parliamo con Claudio Cordova, giornalista calabrese. Tra le sue inchieste più famose ricordiamo quella sui rapporti tra la massoneria e la ‘ndrangheta. Cordova è autore di un importante saggio : Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati (PaperFirst, 2019).
Claudio, per analizzare la struttura della’ ndrangheta si usa un termine, un concetto sociologico, di “familismo amorale”. Cosa si intende e perché si “applica” nella analisi del fenomeno criminale della ‘ndrangheta?
E’ un concetto che Banfield incollò alle dinamiche e logiche mafiose negli scorsi decenni. Ma credo che possa essere ancor più calzante per la ‘ndrangheta. Se, in Sicilia, non esisteva la “cosca Riina” o la “cosca Provenzano”, ma i clan erano e sono strutturati per luoghi d’origine o aree di influenza – i “Corleonesi” o la mafia del quartiere Brancaccio – la ‘ndrangheta è strutturata in famiglie. Famiglie di sangue. Con un cognome che significa ancora più unità, ancora più ermetismo. Famiglie che proseguono la propria opera criminale spesso per discendenza diretta. Del resto, la ‘ndrangheta ruba riti, ruba tradizioni. Piega alle proprie logiche perverse anche concetti neutri o anche positivi. Oltre al tema della “famiglia”, penso alle idee di “onore” e “rispetto”. Che, evidentemente, nell’accezione ‘ndranghetista diventano elementi fondamentali per alimentare l’omertà.
In questo contesto, di familismo criminale assoluto, trova forza la struttura’ ndranghetista. Il legame di sangue non è comune con le altre mafie. E’ così?
Essere strutturata in famiglie di sangue, con rapporti di parentela assai stretti, la rende più immune rispetto alle altre organizzazioni criminali al fenomeno dei collaboratori di giustizia. Il cosiddetto “pentitismo”. E’ più difficile, umanamente, collaborare e mandare in carcere il proprio padre o il proprio fratello, rispetto a un “estraneo” con cui si sono commessi dei crimini. La ‘ndrangheta ha avuto, storicamente, meno collaboratori rispetto alle altre mafie. E, soprattutto, di livello inferiore. Per intenderci, la ‘ndrangheta non ha avuto il suo Tommaso Buscetta, che al giudice Giovanni Falcone ha aperto, letteralmente, le porte dei livelli più alti di Cosa Nostra. Questo perché la ‘ndrangheta è una struttura chiusa, che la fa assomigliare molto a una setta. E in questa chiusura familiare, un ruolo sempre più importante lo rivestono le donne. Di rado (solo per adesso) con gradi apicali nella struttura, ma vestali e custodi proprio di quello spirito familiare, che è l’humus ‘ndranghetista.
A che punto siamo sul fronte dei pentiti? Ci sono cambiamenti?
Si muove qualcosa in più. Le nuove leve sembrano più pericolose, ma meno forti e integraliste dei vecchi capi. Questo ha portato ad alcune collaborazioni di 35enni/40enni. Ma, anche in questo caso, salvo casi sporadici, come, per esempio, Emanuele Mancuso, nipote dei boss del potente casato vibonese, non parliamo di boss, ma di luogotenenti o, più spesso, manovalanza. La ‘ndrangheta è un’organizzazione subdola, quindi anche il fenomeno del pentitismo, a volte può celare delle insidie e far parte di un piano. Solo per citare un esempio recente: la controversa collaborazione del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri. Per anni egemone in Emilia Romagna. Sulla carta probabilmente l’elemento della ‘ndrangheta più importante a pentirsi, ma sulla cui attendibilità i magistrati nutrono seri dubbi. In generale, il concetto dei “falsi pentiti” e dei depistaggi non è solo uno strumento di Cosa Nostra, come crediamo in maniera riduttiva. Ma, anzi, molto presente nelle strategie ‘ndranghetiste. Calunnia, isolamento e delegittimazione sono armi spesso anche più efficaci delle pistole.
Parliamo delle nuove generazioni di boss. Quanto pesa la storia criminale della famiglia ‘ndranghetista nei figli dei capi delle cosche?
Pesa moltissimo. Le famiglie che appartengono al gotha della ‘ndrangheta – penso ai De Stefano o ai Piromalli, ma anche ai Condello e ai Mancuso – non sono in questa condizione di grande potere per caso. Ma per la loro storia. Nella ‘ndrangheta la tradizione conta molto. E, viceversa, se si sbaglia, si viene tagliati fuori. Anche se si ha un cognome importante. Ci sono cosche, anche importanti, che ancora pagano scelte fatte circa trent’anni fa. La famiglia Fontana di Reggio Calabria, per esempio, nel corso della seconda guerra di ‘ndrangheta non si schierò dalla parte ritenuta “giusta”. E quindi per anni è stata relegata ad affari considerati “minori”. Che comunque ha saputo far fruttare bene. Ma quel che conta è che la ‘ndrangheta non dimentica. Mai.
Esiste una ereditarietà del ruolo di capo nella’ ndrangheta?
Certamente. Ma, anche in questo caso, i gradi da generale bisogna guadagnarseli. Essere figli di un grande boss è un ottimo punto di partenza sotto il profilo criminale, ma poi bisogna dimostrare di essere all’altezza. Faccio solo un esempio esplicativo: dei figli del superboss Paolo De Stefano, quello a prendere le redini del clan, fino a diventare “Capo Crimine” della ‘ndrangheta, non è stato il figlio maggiore, Carmine. Ma il secondogenito, Giuseppe, che ha dimostrato doti delinquenziali fuori dal comune e che già, appena 18enne, godeva del rispetto degli anziani della ‘ndrangheta. Esistono diversi casi di “figli illustri” che per la loro scarsa attitudine al comando o per alcuni comportamenti fuori dal “codice” della ‘ndrangheta sono stati messi da parte. O talvolta anche eliminati.
Facciamo un il punto sui “rampolli” emergenti della’ndrangheta. Molti di loro appartengono alle famiglie storiche della mafia calabrese (Molè, CondelloSibio/De Stefano, Greco, Macrì, Tegano, Mancuso ecc). In che ambito operano? Chi sono gli emergenti?
Certamente i De Stefano. Sono quelli che hanno dimostrato maggiore capacità di rigenerarsi. Anche se colpiti da dure condanne. Giuseppe De Stefano, per esempio, potrebbe trascorrere tutta la vita dietro le sbarre. Carmine entra ed esce di galera e Dimitri, un tempo considerato fuori dai giochi, ha imparato a gestire le logiche criminali. Ma non dimentichiamo Giorgino Condello Sibio, oggi De Stefano perché riconosciuto dalla famiglia. A Milano frequentava gli ambienti più “in”. Così come erano e sono di casa a Milano (nel mercato ortofrutticolo, soprattutto) i Piromalli. In generale, gli ambiti di intervento sono quelli di sempre. L’edilizia, gli appalti, la sanità. E, ovviamente, la droga. Con una crescente capacità di interloquire con la classe dirigente. Ma sempre più spesso notiamo la capacità di sfruttare i nuovi business. I rampolli dei Tegano, i cosiddetti “Teganini” hanno mostrato di sapersi muovere bene nel “gambling”, il gioco d’azzardo online. Con l’abilità di muoversi anche in altri Paesi, come Malta. Sempre e comunque grazie a professionisti e soggetti “cerniera” o “facilitatori” degli affari.
Com’è il loro stile di vita?
I vecchi boss mantenevano un profilo basso, operavano sotto traccia. Pur miliardari, non mostravano opulenza. E sapevano essere tattici, anche da giovani. I nuovi rampolli di ‘ndrangheta questo lo fanno molto meno. Sono più disinvolti e spregiudicati. Si mostrano nei locali della movida e spesso terrorizzano commercianti ed esercenti. Con atteggiamenti e richieste che ne rivelano la pochezza: dalla rissa per uno sguardo di troppo, alla pretesa di non pagare, anche se il conto è di poche decine di euro. Ecco, forse è un po’ presto per parlare di una “camorrizzazione” delle nuove leve della ‘ndrangheta. Con questi comportamenti sono molto più molesti e pericolosi. Ma di certo non andranno lontano.
Tra loro ci sono degli “strateghi” (ovvero gente capace di individuare nuovi ambiti di infiltrazione)?
Roccuccio Molè, sebbene meno che 30enne, ragionava e operava già da leader. E’ solo l’ultimo esempio. Ma ci sono giovani che hanno la stoffa criminale per portare avanti i propri casati. Nella fattispecie, i Molè erano indicati in grande difficoltà. E il giovane, nipote omonimo del boss ucciso l’1 febbraio 2008, voleva riportare la famiglia di Gioia Tauro ai fasti di un tempo. In generale, devo dire che le nuove leve della ‘ndrangheta si muovono meglio altrove. Non sul territorio d’origine, dove i fari degli inquirenti sono maggiormente accesi, ma la Nord o all’Estero, dove possono muoversi più indisturbati. E, ovviamente, dove possono fare la bella vita.
Ci sono dei pentiti, giovani che rompono con la storia della famiglia?
I collaboratori ci sono tutto sommato in ogni famiglia. Ma raramente hanno i cognomi importanti o del clan originario. A parte l’eccezione di Emanuele Mancuso, di cui parlavo prima, di solito si tratta di soggetti che gravitano intorno al clan o che sono al suo interno. Ma che non hanno i cognomi De Stefano, Piromalli, Condello, Libri, o altri casati così importanti. Il pentimento di un De Stefano “puro” sarebbe dirompente, per esempio. Ma fin qui non è accaduto. E’ accaduto in passato, invece, con le donne. Penso alla collaborazione di Giuseppina Pesce, giovane di una delle cosche più importanti. Ecco, le donne. Come dicevo prima, sono le custodi del nucleo familiare. Ma possono essere l’anello della catena che si spezza, facendo scelte coraggiose catastrofiche per i clan. Non solo per il loro patrimonio conoscitivo, ma anche perché metterebbero a nudo le debolezze della famiglia.
Ci sono programmi di recupero, quanto sono efficaci?
Il più famoso è il programma “Liberi di scegliere”, portato avanti dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e da Libera, che adesso sta avendo concretezza anche altrove. Roccuccio Molè vi aveva aderito. Evidentemente con scarsi risultati. Ma, a parte questo caso eclatante, è innegabile che alcuni risultati siano stati raggiunti. Personalmente penso che questo programma vada implementato in tutte le zone in cui serve. Ma, allo stesso tempo, considerando la ‘ndrangheta non solo un fenomeno criminale e militare, resto fedele alla mia idea che serva un percorso culturale per sdradicarla. E non parlo solo di quelle famiglie col cognome “classico”. Parlo dell’intera società, dei professionisti, delle famiglie cosiddette “perbene”. La società calabrese, purtroppo, è profondamente pervasa da una cultura ‘ndranghetista. Che non significa che tutti i calabresi siano affiliati. Ma che in tanti resta viva la logica del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio. Che sono i primi gradini della mentalità ‘ndranghetista.
Ultima domanda : Vedi qualche rottura, rispetto al passato, nel rapporto tra ‘ndrangheta e la politica calabrese?
Nessuna, purtroppo. Anzi, vedo ormai una tendenza consolidata: se prima era l’esponente della ‘ndrangheta a cercare il politico – un po’ per chiedere favori, un po’ per nobilitarsi – oggi sono i politici che, poco dopo aver firmato la propria candidatura vanno a trovare lo ‘ndranghetista. Di fatto consegnando se stessi e la propria eventuale attività istituzionale alla ‘ndrangheta, in cambio di pacchetti di voti. Sono innumerevoli i casi e anche recentissimi. La politica non intende la Cosa Pubblica come qualcosa della collettività, ma come qualcosa su cui mettere le mani. E non si fuoriesce mai dalla logica giudiziaria: andare a trovare uno ‘ndranghetista, essere intercettato e parlare di attività politiche, avere una certa affinità con soggetti controindicati, potrà anche non essere reato. Ma è certamente qualcosa che dovrebbe essere ostativo all’attività politica. Non dobbiamo aspettare che sia la magistratura a dettare le linee, ma recuperare quel senso di etica, quella questione morale che oggi vedo assolutamente scomparsa in ogni schieramento.