Così nascono i giovani boss della ‘ndrangheta. Intervista a Claudio Cordova

Il familismo criminale della ‘ndrangheta genera nuovi boss giovani. Chi sono gli emergenti? Ne parliamo con Claudio Cordova, giornalista calabrese. Tra le sue inchieste più famose ricordiamo quella sui rapporti tra la massoneria  e la ‘ndrangheta. Cordova è autore di  un importante saggio : Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati (PaperFirst, 2019).

Claudio, per analizzare la struttura della’ ndrangheta si usa un termine, un concetto sociologico, di “familismo amorale”. Cosa si intende e perché si “applica” nella analisi del fenomeno criminale della ‘ndrangheta?

E’ un concetto che Banfield incollò alle dinamiche e logiche mafiose negli scorsi decenni. Ma credo che possa essere ancor più calzante per la ‘ndrangheta. Se, in Sicilia, non esisteva la “cosca Riina” o la “cosca Provenzano”, ma i clan erano e sono strutturati per luoghi d’origine o aree di influenza – i “Corleonesi” o la mafia del quartiere Brancaccio – la ‘ndrangheta è strutturata in famiglie. Famiglie di sangue. Con un cognome che significa ancora più unità, ancora più ermetismo. Famiglie che proseguono la propria opera criminale spesso per discendenza diretta. Del resto, la ‘ndrangheta ruba riti, ruba tradizioni. Piega alle proprie logiche perverse anche concetti neutri o anche positivi. Oltre al tema della “famiglia”, penso alle idee di “onore” e “rispetto”. Che, evidentemente, nell’accezione ‘ndranghetista diventano elementi fondamentali per alimentare l’omertà.

In questo contesto, di familismo criminale assoluto, trova forza la struttura’ ndranghetista. Il legame di sangue non è comune con le altre mafie. E’ così?

Essere strutturata in famiglie di sangue, con rapporti di parentela assai stretti, la rende più immune rispetto alle altre organizzazioni criminali al fenomeno dei collaboratori di giustizia. Il cosiddetto “pentitismo”. E’ più difficile, umanamente, collaborare e mandare in carcere il proprio padre o il proprio fratello, rispetto a un “estraneo” con cui si sono commessi dei crimini. La ‘ndrangheta ha avuto, storicamente, meno collaboratori rispetto alle altre mafie. E, soprattutto, di livello inferiore. Per intenderci, la ‘ndrangheta non ha avuto il suo Tommaso Buscetta, che al giudice Giovanni Falcone ha aperto, letteralmente, le porte dei livelli più alti di Cosa Nostra. Questo perché la ‘ndrangheta è una struttura chiusa, che la fa assomigliare molto a una setta. E in questa chiusura familiare, un ruolo sempre più importante lo rivestono le donne. Di rado (solo per adesso) con gradi apicali nella struttura, ma vestali e custodi proprio di quello spirito familiare, che è l’humus ‘ndranghetista.

A che punto siamo sul fronte dei pentiti? Ci sono cambiamenti?

Si muove qualcosa in più. Le nuove leve sembrano più pericolose, ma meno forti e integraliste dei vecchi capi. Questo ha portato ad alcune collaborazioni di 35enni/40enni. Ma, anche in questo caso, salvo casi sporadici, come, per esempio, Emanuele Mancuso, nipote dei boss del potente casato vibonese, non parliamo di boss, ma di luogotenenti o, più spesso, manovalanza. La ‘ndrangheta è un’organizzazione subdola, quindi anche il fenomeno del pentitismo, a volte può celare delle insidie e far parte di un piano. Solo per citare un esempio recente: la controversa collaborazione del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri. Per anni egemone in Emilia Romagna. Sulla carta probabilmente l’elemento della ‘ndrangheta più importante a pentirsi, ma sulla cui attendibilità i magistrati nutrono seri dubbi. In generale, il concetto dei “falsi pentiti” e dei depistaggi non è solo uno strumento di Cosa Nostra, come crediamo in maniera riduttiva. Ma, anzi, molto presente nelle strategie ‘ndranghetiste. Calunnia, isolamento e delegittimazione sono armi spesso anche più efficaci delle pistole.

Parliamo delle nuove generazioni di boss. Quanto pesa la storia criminale della famiglia ‘ndranghetista nei figli dei capi delle cosche?

Pesa moltissimo. Le famiglie che appartengono al gotha della ‘ndrangheta – penso ai De Stefano o ai Piromalli, ma anche ai Condello e ai Mancuso – non sono in questa condizione di grande potere per caso. Ma per la loro storia. Nella ‘ndrangheta la tradizione conta molto. E, viceversa, se si sbaglia, si viene tagliati fuori. Anche se si ha un cognome importante. Ci sono cosche, anche importanti, che ancora pagano scelte fatte circa trent’anni fa. La famiglia Fontana di Reggio Calabria, per esempio, nel corso della seconda guerra di ‘ndrangheta non si schierò dalla parte ritenuta “giusta”. E quindi per anni è stata relegata ad affari considerati “minori”. Che comunque ha saputo far fruttare bene. Ma quel che conta è che la ‘ndrangheta non dimentica. Mai.

Esiste una ereditarietà del ruolo di capo nella’ ndrangheta?

Certamente. Ma, anche in questo caso, i gradi da generale bisogna guadagnarseli. Essere figli di un grande boss è un ottimo punto di partenza sotto il profilo criminale, ma poi bisogna dimostrare di essere all’altezza. Faccio solo un esempio esplicativo: dei figli del superboss Paolo De Stefano, quello a prendere le redini del clan, fino a diventare “Capo Crimine” della ‘ndrangheta, non è stato il figlio maggiore, Carmine. Ma il secondogenito, Giuseppe, che ha dimostrato doti delinquenziali fuori dal comune e che già, appena 18enne, godeva del rispetto degli anziani della ‘ndrangheta. Esistono diversi casi di “figli illustri” che per la loro scarsa attitudine al comando o per alcuni comportamenti fuori dal “codice” della ‘ndrangheta sono stati messi da parte. O talvolta anche eliminati.

Facciamo un il punto sui “rampolli” emergenti della’ndrangheta. Molti di loro appartengono alle famiglie storiche della mafia calabrese (Molè, CondelloSibio/De Stefano, Greco, Macrì, Tegano, Mancuso ecc). In che ambito operano? Chi sono gli emergenti?

Certamente i De Stefano. Sono quelli che hanno dimostrato maggiore capacità di rigenerarsi. Anche se colpiti da dure condanne. Giuseppe De Stefano, per esempio, potrebbe trascorrere tutta la vita dietro le sbarre. Carmine entra ed esce di galera e Dimitri, un tempo considerato fuori dai giochi, ha imparato a gestire le logiche criminali. Ma non dimentichiamo Giorgino Condello Sibio, oggi De Stefano perché riconosciuto dalla famiglia. A Milano frequentava gli ambienti più “in”. Così come erano e sono di casa a Milano (nel mercato ortofrutticolo, soprattutto) i Piromalli.  In generale, gli ambiti di intervento sono quelli di sempre. L’edilizia, gli appalti, la sanità. E, ovviamente, la droga. Con una crescente capacità di interloquire con la classe dirigente. Ma sempre più spesso notiamo la capacità di sfruttare i nuovi business. I rampolli dei Tegano, i cosiddetti “Teganini” hanno mostrato di sapersi muovere bene nel “gambling”, il gioco d’azzardo online. Con l’abilità di muoversi anche in altri Paesi, come Malta. Sempre e comunque grazie a professionisti e soggetti “cerniera” o “facilitatori” degli affari.

Com’è il loro stile di vita?

I vecchi boss mantenevano un profilo basso, operavano sotto traccia. Pur miliardari, non mostravano opulenza. E sapevano essere tattici, anche da giovani. I nuovi rampolli di ‘ndrangheta questo lo fanno molto meno. Sono più disinvolti e spregiudicati. Si mostrano nei locali della movida e spesso terrorizzano commercianti ed esercenti. Con atteggiamenti e richieste che ne rivelano la pochezza: dalla rissa per uno sguardo di troppo, alla pretesa di non pagare, anche se il conto è di poche decine di euro. Ecco, forse è un po’ presto per parlare di una “camorrizzazione” delle nuove leve della ‘ndrangheta. Con questi comportamenti sono molto più molesti e pericolosi. Ma di certo non andranno lontano.

Tra loro ci sono degli “strateghi” (ovvero gente capace di individuare nuovi ambiti di infiltrazione)?

Roccuccio Molè, sebbene meno che 30enne, ragionava e operava già da leader. E’ solo l’ultimo esempio. Ma ci sono giovani che hanno la stoffa criminale per portare avanti i propri casati. Nella fattispecie, i Molè erano indicati in grande difficoltà. E il giovane, nipote omonimo del boss ucciso l’1 febbraio 2008, voleva riportare la famiglia di Gioia Tauro ai fasti di un tempo. In generale, devo dire che le nuove leve della ‘ndrangheta si muovono meglio altrove. Non sul territorio d’origine, dove i fari degli inquirenti sono maggiormente accesi, ma la Nord o all’Estero, dove possono muoversi più indisturbati. E, ovviamente, dove possono fare la bella vita.
Ci sono dei pentiti, giovani che rompono con la  storia della famiglia?

I collaboratori ci sono tutto sommato in ogni famiglia. Ma raramente hanno i cognomi importanti o del clan originario. A parte l’eccezione di Emanuele Mancuso, di cui parlavo prima, di solito si tratta di soggetti che gravitano intorno al clan o che sono al suo interno. Ma che non hanno i cognomi De Stefano, Piromalli, Condello, Libri, o altri casati così importanti. Il pentimento di un De Stefano “puro” sarebbe dirompente, per esempio. Ma fin qui non è accaduto. E’ accaduto in passato, invece, con le donne. Penso alla collaborazione di Giuseppina Pesce, giovane di una delle cosche più importanti. Ecco, le donne. Come dicevo prima, sono le custodi del nucleo familiare. Ma possono essere l’anello della catena che si spezza, facendo scelte coraggiose catastrofiche per i clan. Non solo per il loro patrimonio conoscitivo, ma anche perché metterebbero a nudo le debolezze della famiglia.

Ci sono programmi di recupero, quanto sono efficaci?

Il più famoso è il programma “Liberi di scegliere”, portato avanti dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e da Libera, che adesso sta avendo concretezza anche altrove. Roccuccio Molè vi aveva aderito. Evidentemente con scarsi risultati. Ma, a parte questo caso eclatante, è innegabile che alcuni risultati siano stati raggiunti. Personalmente penso che questo programma vada implementato in tutte le zone in cui serve. Ma, allo stesso tempo, considerando la ‘ndrangheta non solo un fenomeno criminale e militare, resto fedele alla mia idea che serva un percorso culturale per sdradicarla. E non parlo solo di quelle famiglie col cognome “classico”. Parlo dell’intera società, dei professionisti, delle famiglie cosiddette “perbene”. La società calabrese, purtroppo, è profondamente pervasa da una cultura ‘ndranghetista. Che non significa che tutti i calabresi siano affiliati. Ma che in tanti resta viva la logica del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio. Che sono i primi gradini della mentalità ‘ndranghetista.

Ultima domanda : Vedi qualche rottura, rispetto al passato, nel rapporto tra ‘ndrangheta e la politica calabrese?

Nessuna, purtroppo. Anzi, vedo ormai una tendenza consolidata: se prima era l’esponente della ‘ndrangheta a cercare il politico – un po’ per chiedere favori, un po’ per nobilitarsi – oggi sono i politici che, poco dopo aver firmato la propria candidatura vanno a trovare lo ‘ndranghetista. Di fatto consegnando se stessi e la propria eventuale attività istituzionale alla ‘ndrangheta, in cambio di pacchetti di voti. Sono innumerevoli i casi e anche recentissimi. La politica non intende la Cosa Pubblica come qualcosa della collettività, ma come qualcosa su cui mettere le mani. E non si fuoriesce mai dalla logica giudiziaria: andare a trovare uno ‘ndranghetista, essere intercettato e parlare di attività politiche, avere una certa affinità con soggetti controindicati, potrà anche non essere reato. Ma è certamente qualcosa che dovrebbe essere ostativo all’attività politica. Non dobbiamo aspettare che sia la magistratura a dettare le linee, ma recuperare quel senso di etica, quella questione morale che oggi vedo assolutamente scomparsa in ogni schieramento.

“La collaborazione di Grande Aracri può aprire scenari ampi per combattere la ‘ndrangheta”. Intervista a Claudio Cordova

Nicolino Grande Aracri (ANSA/UFFICIO STAMPA CARABINIERI)

Nicolino Grande Aracri (ANSA/UFFICIO STAMPA CARABINIERI)

Nella settimana scorsa è arrivata la notizia, clamorosa, della collaborazione con la giustizia di un importante boss della ‘ndrangheta. Stiamo parlando di Nicolino Grande Aracri, detto “mano
di gomma”, boss indiscusso di Cutro e della ‘ndrangheta in Emilia. Killer spietato, è stato condannato a diversi ergastoli. Non è solo un feroce assassino, ha dimostrato anche una capacità di infiltrazione nei centri di potere importanti come la Massoneria e a tessere
rapporti importanti con ambienti politici e con quelli vaticani. Insomma, ci troviamo di fronte ad un personaggio di elevato spessore criminale. Cerchiamo di approfondire quali potranno essere le conseguenze di questa collaborazione. Lo facciamo con Claudio Cordova, coraggioso Direttore della testata on line “il Dispaccio” di Reggio Calabria. Cordova è autore di un importante saggio, “GOTHA” (pubblicato dalla casa editrice del “Fatto Quotidiano”). Per la sua attività di giornalista investigativo gli è stato assegnato, nel 2019, il premio “Paolo Borsellino” per il giornalismo. Per il suo impegno di denuncia è stato più volte minacciato dalla ‘ndrangheta. 

 

Claudio Cordova (Facebook)

Claudio Cordova (Facebook)

 

Claudio, nella settimana appena passata, tra le notizie più clamorose c’è stata quella della collaborazione di Nicolino Grandi Aracri. Cerchiamo di approfondire  il possibile significato di questa collaborazione. Innanzitutto di quale cosca era il capo e perché è importante questa cosca?
Quella di Nicolino Grande Aracri può essere una collaborazione che segna una svolta nella lotta giudiziaria alla ‘ndrangheta, perché da anni è ai vertici di una delle cosche più importanti della criminalità organizzata calabrese, capace di muoversi sia sul territorio d’origine, ma con importanti proiezioni anche al Nord. In generale, Grande Aracri può essere inserito sicuramente ai primi posti in una ideale classifica sull’importanza dei boss della ‘ndrangheta. E avere una collaborazione di tale portata è insolito per un’organizzazione chiusa ermeticamente come la ‘ndrangheta, che raramente ha avuto dei capifamiglia tra chi ha deciso di collaborare con la giustizia. Quindi può aprire scenari molto ampi, non solo sugli affari dell’ala militare, ma anche sui rapporti con i “colletti bianchi”.

Grande Aracri è un killer spietato ma è anche un uomo d’affari. In quali
ambiti faceva affari?

La cosca Grande Aracri si arricchisce grazie alle attività “tradizionali” della ‘ndrangheta. Estorsioni e traffico di droga, in particolare, rappresentano il core business illegale del clan. In Calabria, in particolare, sono pressanti le richieste estorsive che gli uomini del clan effettuano soprattutto sulle attività ricettive, quali i resort, gli alberghi, i villaggi vacanze. Questo è molto grave perché, ovviamente, rappresenta una enorme zavorra per lo sviluppo turistico della regione. Con riferimento, invece, alle attività “lecite”, quello dell’edilizia è uno dei settori di maggiore interesse per il clan. Ma non solo. Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro ha fatto emergere la capacità della cosca anche di sfruttare il mercato dei farmaci, anche attraverso connivenze istituzionali.

Oltre a Cutro, e il Crotonese, dove si estendeva il suo potere? In quali gangli del potere locale si annidava la sua influenza?
Già dagli anni ’80, Grande Aracri ha delocalizzato molte delle proprie attività economiche e illecite al Nord. Prima all’ombra della famiglia Dragone, poi, anche con una scia di sangue lasciata alle spalle, autonomamente. E’ ovviamente l’Emilia Romagna la regione dove Grande Aracri ha accumulato maggiore potere e più ingenti ricchezze. Non a caso, la sua figura è emersa in maniera prepotente con la maxi-inchiesta e il successivo processo “Aemilia”. Ma i grandi boss e le famiglie importanti non perdono mai il contatto con la casa madre calabrese.

Questo boss aveva rapporti con personaggi del Vaticano, faceva parte dell’Ordine dei templari (chi lo ha fatto entrare?), e con la massoneria. Della massoneria diciamo dopo. Parliamo un attimo del Vaticano, Come è possibile che la ‘ndrangheta abbia collegamenti con persone del Vaticano?
Il legame tra ‘ndrangheta e mondo ecclesiastico è storico. E’ lo stesso Grande Aracri, intercettato, a parlare di Templari, di Cavalieri di Malta. Quindi i riferimenti, che vengono dalla sua viva voce, sono ulteriormente genuini. Nelle conversazioni captate si fa riferimento un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. In generale, la ‘ndrangheta da sempre vuole legarsi al potere, che sia politico, che sia imprenditoriale, che sia informativo. E il Vaticano, oltre agli aspetti di natura spirituale, è notoriamente un luogo dai grandi intrecci, sia sotto il profilo economico, sia sotto quello relazionale, che poi permette agli uomini di ‘ndrangheta di entrare in contatto con mondi e ambienti apparentemente inaccessibili.

Di quale loggia Massonica faceva parte?
Sempre richiamando le intercettazioni a cui facevo riferimento prima, Grande Aracri parla della massoneria di Genova. Il meccanismo è quello che nasce con la Santa. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire, per esempio, pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati. E dalle indagini sul conto di Nicolino Grande Aracri emerge proprio il tentativo di condizionare persino l’operato della Suprema Corte di Cassazione.

Approfondiamo un poco la questione Massoneria. Tu hai scritto un libro bellissimo su questo tema, “Gotha”.Come è continuato, in questi ultimi anni, il rapporto Ndrangheta e Massoneria? La Magistratura è intervenuta?
Rispondo citando un parere molto più autorevole del mio. Nella prefazione alla mia inchiesta, il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, scrive: “È la massoneria il ponte per raggiungere quella “zona grigia” in cui convergono istituzioni, imprenditoria e criminalità organizzata. È soprattutto con i “pezzi” dello Stato, con gli infedeli appartenenti alle istituzioni che la ’ndrangheta assume un nuovo livello organizzativo”. Credo sia una sintesi perfetta per dimostrare come la massoneria deviata sia, almeno da 50 anni, una camera di compensazione, dove possiamo ritrovare le figure più disparate a dialogare con la criminalità organizzata. E’ sbagliato considerare la ‘ndrangheta “solo” un’organizzazione criminale. La ‘ndrangheta è quasi una setta, che si alimenta di ritualità e che non è “antistato”, ma “stato parallelo”. All’azione violenta preferisce il depistaggio, il vuoto di indagine, l’attacco ai magistrati impegnati, l’aggiustamento di processi; privilegia le relazioni con le istituzioni, ma anche con avvocati, commercialisti, medici, ingegneri, per penetrare negli ambienti in cui vengono assunte le decisioni.  La magistratura è ciclicamente intervenuta su questi legami, attualmente in corso a Lamezia Terme c’è il maxiprocesso “Rinascita-Scott”, che indaga anche questi rapporti. Ma essendo legami così occulti è molto difficile avere un quadro unitario e, per il momento, dobbiamo “accontentarci” di flash che vanno a illuminare questi rapporti oscuri.

Torniamo a Grande Aracri. Come reagirà la ‘ndrangheta? Qualcuno lo ha paragonato a Buscetta. È corretto il paragone?
Non è corretto paragonarlo a Buscetta, perché la collaborazione di Buscetta aprì dei mondi totalmente oscuri persino a magistrati capaci come Giovanni Falcone. Prima della collaborazione di Buscetta, noi non conoscevamo nemmeno l’appellativo “Cosa Nostra” per indicare la mafia siciliana. Grande Aracri è un boss di primissimo livello, che certamente potrà aggiungere un patrimonio conoscitivo importante, ma che dovrà essere capace di fornire riferimenti precisi al proprio narrato. Perché, soprattutto se si vogliono aggredire i livelli più alti del crimine, non può e non deve bastare l’approssimazione. Difficile dire quale potrà essere la reazione della ‘ndrangheta, che raramente ha adottato comportamenti eclatanti, ma di certo penso che, più che sull’ala militare dell’organizzazione, a essere colpita potranno essere soprattutto i legami imprenditoriali e politici.

Ultima domanda. Nella politica calabrese vedi qualche novità?
Purtroppo no. Vedo un’approssimazione imbarazzante e il modo di gestire l’attuale pandemia è emblematico della carenza qualitativa, non solo della politica, ma direi della classe dirigente calabrese. E ciò che appare all’orizzonte non sembra incoraggiante, anche per la mancanza di volontà di rinnovamento. L’incompetenza crea enormi danni e, cosa ancor più grave, anche sotto il profilo morale, è che la poca qualità spesso coincide con una maggiore permeabilità alla corruzione e agli accordi tra istituzioni e ‘ndrangheta. Se un tempo era la ‘ndrangheta a ricercare il politico, per chiedere favori, forse anche per “nobilitarsi”, oggi assistiamo al meccanismo opposto, con politici che, non appena firmano la propria candidatura vanno a consegnarsi mani e piedi ai boss pur di ottenere il risultato. La Calabria è stata per anni un “laboratorio criminale”, anche perché tradita da chi, invece, doveva tirarla fuori dalle secche con il proprio agire.

La masso-‘ndrangheta e i misteri d’Italia nel libro inchiesta di Claudio Cordova. Intervista all’autore

Importante questo libro, dal titolo significativo: “Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti deviati” (Edizioni Paper FIRST, pag. 381). L’autore è un giovane e brillante giornalista calabrese: Claudio Cordoba.

Il libro è un’inchiesta che affonda le radici nella storia della ‘ndrangheta svelando legami con massoneria, ambienti eversivi e mondo delle istituzioni. Emergono amicizie, relazioni e collegamenti tra uomini di altissimo livello e cosche. Un sistema di potere capace di rafforzarsi, rigenerarsi e mutare nonostante le sanguinose guerre tra clan, le morti e gli arresti. Attraverso fonti giudiziarie inedite il libro dimostra come le famiglie calabresi entrino prepotentemente in alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2 e agli attentati contro le istituzioni negli anni ’90. Una ‘ndrangheta che si infiltra ovunque: nell’economia, nel sociale, nella chiesa e negli ambienti para-istituzionali, come i servizi segreti deviati. Ma soprattutto si muove bene tra le nuove forze politiche.

Claudio Cordova, partiamo da un recentissimo fatto di cronaca avvenuto la scorsa settimana a Reggio Calabria. Mi riferisco al ritrovamento, da parte delle forze dell’ordine, di un consistente quantitativo di armi. Per gli inquirenti si tratta di un arsenale dell’ndrangheta. Ma quello che ha colpito, però, è che nel locale è stato ritrovato un “panetto” di droga fasciato con il simbolo della massoneria. Insomma è una ulteriore prova, inquietante, del legame indicibile, per usare un termine appropriato, tra ndrangheta e massoneria in Calabria?
Si tratta di una vicenda troppo recente per essere correttamente decifrata. E’ sicuramente molto inquietante. Diverse possono essere le chiavi di lettura e sarebbe troppo facile cadere in errore, soprattutto quando si parla di sistemi, meccanismi, ambienti e cervelli così raffinate. Quel simbolo potrebbe rappresentare di tutto: anche, per esempio, un ipotetico ordine per una specifica loggia. Ciò che può essere detto con certezza è che solo la ‘ndrangheta può avere disponibilità di armi di quel tipo. Quindi sembra l’ennesima conferma dei collegamenti tra ‘ndrangheta e massoneria, che potrebbe aprire nuovi squarci investigativi.

Il tuo libro, dal titolo emblematico “Gotha”, analizza in profondità l’evoluzione criminale della ‘ndrangheta. In particolare la sua evoluzione politico-organizzativo dalle locali al “Gotha” appunto. Questa evoluzione incomincia nel finale degli anni’ 60. Mi riferisco al famoso vertice di Montalto. Perché è importante questo vertice? Chi vi partecipa?
Vi partecipa il “Gotha” della ‘ndrangheta del tempo, appunto. Sono i boss più importanti a parlare, alla presenza, come ci dicono alcuni collaboratori di giustizia, anche di esponenti politici. E’ molto importante per almeno due motivi. Il primo è quello che ci porta a poter dire che in quell’occasione si salda il legame tra la criminalità organizzata e mondo eversivo, in quanto in quei giorni è certificata la presenza di Junio Valerio Borghese, ex gerarca della Decima Mas, a Reggio Calabria. Borghese sarà poi protagonista del famoso tentato golpe, in cui la ‘ndrangheta avrebbe dovuto giocare un ruolo fondamentale. Il secondo risiede nel fatto che per la prima volta abbiamo tracce del concetto di ‘ndrangheta unitaria, che verrà sancito oltre 50 anni dopo dalla sentenza del processo “Crimine”. La frase pronunciata dal boss Peppe Zappia è un tassello fondamentale per comprendere le dinamiche interne all’organizzazione.

Nel tuo libro si mette in evidenza il rapporto stretto della ‘ndrangheta con la destra eversiva: dalla richiesta di partecipazione al golpe borghese fino al “boia chi molla” di Reggio Calabria. In questo legame c’ è il ruolo determinante della massoneria. È così?
La massoneria deviata è, da sempre, il collante. Quelli infatti sono gli anni della creazione della “Santa”, la struttura interna alla ‘ndrangheta che consente ai boss di entrare in contatto con le logge, ma, soprattutto, di allacciare e coltivare i rapporti istituzionali. La rivolta del 1970 è un caso unico nella storia d’Italia e nella storia dell’Occidente: una città assediata per mesi in cui sono dovuti sfilare per le strade i carri armati per sbrogliare la situazione. La ‘ndrangheta è stata intelligente nel saper sfruttare a proprio vantaggio quella sommossa popolare, ferita ancora aperta per ogni cittadino che l’ha vissuta.

Concutelli e Delle Chiaie che rapporti avevamo con la ‘ndrangheta?
La componente eversiva di destra e, in particolare, quella facente capo ad Avanguardia Nazionale, era molto forte e radicata in Calabria, proprio grazie a quanto accaduto con la rivolta dei “Boia chi molla”. Secondo alcuni collaboratori di giustizia, Concutelli e Delle Chiaie avrebbero anche partecipato al famoso summit di Montalto. Personaggio chiave sul territorio era il marchese Fefè Zerbi, che da sempre ha tirato le fila di Avanguardia Nazionale e, secondo molti, era il collante tra la destra eversiva e la criminalità organizzata. Delle Chiaie ha sempre negato i rapporti con la ‘ndrangheta, ma sono plurimi gli elementi che ci fanno pensare il contrario: anche l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, per mano di Concutelli, si intreccia con dinamiche di ‘ndrangheta.

Anche nel caso Moro c’è la presenza del Crimine (la ‘ndrangheta). Con quale ruolo?
Nel libro sono sviscerati diversi indizi sul caso, sia in merito alla notizia, circolata in ambienti ’ndranghetisti, dell’esistenza di un’arma “sporca” impiegata a via Fani, sia in ordine all’ipotizzato interessamento della criminalità organizzata per favorire il rinvenimento del luogo di prigionia di Aldo Moro, sia con riferimento alla telefonata tra il segretario di Moro, Sereno Freato, e Benito Cazora, deputato della Democrazia Cristiana (secondo alcune ricostruzioni incaricato di tenere i rapporti con la malavita calabrese), avvenuta otto giorni prima della morte di Moro, nella quale Freato cerca di avere notizie sulla prigione di Moro. E poi, l’inquietante presenza sul luogo dei fatti del boss di San Luca, Antonio Nirta, detto “due nasi” per la sua predilezione per l’arma a doppia canna.

Dicevamo poco fa del cammino di evoluzione “organizzativa” (in realtà è anche “politico” ed economico). Il passaggio strategico è la costituzione della “Santa”. Cos’è e chi ne fa parte?
La Santa è quella struttura interna alla ‘ndrangheta che crea quell’abbraccio mortale, quasi una fusione in alcuni casi, tra criminalità organizzata calabrese e massoneria deviata. Nasce tra gli anni ’60 e gli anni ’70 per intuizione della famiglia De Stefano e del boss don Mommo Piromalli. Solo i grandi capi possono farne parte. Grazie alla massoneria deviata, i boss della ‘ndrangheta fanno ingresso in stanze apparentemente inaccessibili, possono iniziare a dialogare con politica, imprenditoria, chiesa, ma anche con il mondo istituzionale delle forze dell’ordine, della magistratura e dei servizi deviati. Tutte cose che con la “vecchia ‘ndrangheta” erano considerate elementi di vergogna e infamia.

Torniamo al quadro più generale. Un altro aspetto inquietante sono le relazioni della ‘ndrangheta con i Servizi Segreti deviati. Un “gioco” tremendamente sporco…. È così?
Credo fermamente che l’Italia debba fare i conti con la propria storia e ammettere che in alcune delle vicende più torbide dall’immediato dopoguerra in avanti, sia stato fondamentale il ruolo delle mafie e, in particolare, della ‘ndrangheta. Senza questi rapporti istituzionali e para-istituzionali, la ‘ndrangheta sarebbe rimasta una “semplice” banda armata. Invece abbiamo elementi concreti dei rapporti tra cosche e apparati di sicurezza, non solo con riferimento agli anni di piombo e ai casi come quello di Aldo Moro, ma anche, per esempio, per il traffico di rifiuti tossici e radioattivi, nonché per mettere in atto la strategia stragista in combutta con Cosa Nostra negli anni ’90.

Ci sono sempre stati rapporti con Cosa nostra. Ma negli anni ’90, come hai appena affermato, c’ è il salto ovvero la partecipazione alla politica stragista di Cosa nostra.. È così? Come si spiega?
E’ un tema che per anni è stato molto sottovalutato. In generale, è stata molto sottovalutata la potenza – che è cresciuta costantemente – della ‘ndrangheta. Cosa Nostra è l’organizzazione più simile (seppur con sensibili e fondamentali differenze) alla ‘ndrangheta. Molto più vicina rispetto alla Camorra. A partire dagli anni ’60, la mafia siciliana si è legata al mondo istituzionale. Successivamente, con l’attacco frontale allo Stato, ha commesso un grave errore strategico, permettendo invece alla ‘ndrangheta di muoversi sotto traccia. Per essere ancora più chiari: nell’immaginario collettivo, la strategia stragista degli anni ’90, viene imputata totalmente a Cosa Nostra. Nel libro, invece, sono svelati alcuni collegamenti che ci possono fare affermare che in quella lunga scia di sangue, gravi responsabilità siano da attribuire anche alla ‘ndrangheta.

Nella regione, nel corso di questi anni, nascono sempre più logge “coperte”. Da chi sono formate?

Alcune fonti ci dicono che ogni loggia ufficiale abbia anche la componente occulta. Si tratta, evidentemente, di pericolosi comitati d’affari, in cui, attorno a un tavolino (ideale e materiale) potremmo trovare il politico, il magistrato, l’ufficiale delle forze dell’ordine, l’imprenditore e il boss della ‘ndrangheta. E’ chiaro che da un’unione così perversa non possono che nascere trame oscure, che condizionano la vita politica, economica e sociale delle comunità.

Quelle “ufficiali” sono immuni dalle infiltrazioni? E come giudichi il comportamento delle “Fratellanze” massoniche ufficiali?
L’ex gran maestro Giuliano Di Bernardo dichiarò ufficialmente, anche alla magistratura, che aveva contezza del fatto che in Calabria 28 logge ufficiali su 32 fossero infiltrate dalla criminalità organizzata. Una proporzione inquietante. La massoneria nasce (e, sulla carta, mantiene) con propositi e ideali molto nobili. La riservatezza – che, in realtà, è una parola per edulcorare il concetto di segretezza – non fa del bene alla massoneria. Credo che maggiore trasparenza e, in alcuni casi, maggiore rigore, possano essere la chiave per riportare la fratellanza ai valori che, ancora oggi, vengono portati a vessillo dai massoni, e, a scrostare quelle convinzioni negative che vedono la massoneria come un potente centro di potere.

Tra i personaggi più inquietanti del libro c’è Paolo Romeo. Chi è?
E’ un avvocato. La sua figura emerge fin dagli anni della rivolta del 1970. Legato alla destra estrema, ha ricoperto diversi incarichi pubblici, fino alla carica di deputato nelle file del PSDI. Ma ha anche affrontato diversi procedimenti giudiziari: è infatti condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa ed è accertato anche sotto il profilo giudiziario il suo ruolo nella latitanza di Franco Freda, considerato uno dei terroristi “neri” più influenti. Freda trascorse un periodo a Reggio Calabria, ospitato proprio dall’avvocato Romeo, prima di fuggire in Costa Rica. Da sempre considerato vicino alla potente cosca De Stefano, Romeo è stato anche coinvolto nell’inchiesta (poi archiviata) “Sistemi Criminali”, con cui la magistratura siciliana ipotizzava un patto tra mafie e mondi occulti per sovvertire l’ordine costituito alla fine della prima Repubblica.

È ancora in attività?
Paolo Romeo è una figura carismatica, che, come unanimemente riconosciuto da chi lo ha frequentato, è dotato di grandissime doti intellettive, una grande dialettica e una propensione naturale alla pianificazione e alla strategia, che ha rappresentato il fulcro della politica degli ultimi 40 anni. Alcuni anni fa è stato nuovamente coinvolto in un’indagine giudiziaria in cui è accusato di diversi reati. Nel processo, tuttora in corso, è imputato essendo considerato a capo della cupola massonica della ‘ndrangheta. Nelle carte processuali, i magistrati definiscono “baricentrico” il suo ruolo nei rapporti tra ‘ndrangheta e associazioni segrete.

Quali sono le forze politiche maggiormente avvicinate dalla “masso-‘ndrangheta?
Storicamente è la destra e, in particolare, la destra eversiva. Alcuni collaboratori di giustizia ci dicono poi come negli anni ’90, con la nascita di Forza Italia, le organizzazioni criminali, anche attraverso la nascita dei movimenti separatisti di Nord e Sud, abbiano puntato sul partito di Silvio Berlusconi, identificato come il “nuovo che avanza”. Ma la ‘ndrangheta va sempre verso chi ritiene sia il vincitore, a prescindere dal colore politico, indirizzandone molto spesso la vittoria. Per la ‘ndrangheta le due cose più importanti sono governare e fare soldi.

Un collaboratore di giustizia, Virgiglio, fa questa affermazione, che tu riprendi nel libro : “attraverso un” varco”il mondo mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa”. Qual è questo varco?
E’ la “Santa”. Il Santista è l’emblema dell’evoluzione della ‘ndrangheta. Virgiglio parla con grande cognizione di causa, essendo stato a contatto sia con l’elite della ‘ndrangheta, le cosche Piromalli e Molè, ma anche avendo avuto ruoli di altissimo livello all’interno della Fratellanza. Dal patto tra ‘ndrangheta e logge deviate nasce un’organizzazione criminale che, come ci dice Virgiglio, ha l’obiettivo finale di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. Attraverso il controllo di politica e classe dirigente si possono gestire gli ingenti capitali sporchi, già formati, che vanno costantemente ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria.

Arriviamo così all’ultimo punto : “La sacra corona”. Cos’è il “Gotha” della masso-‘ndrangheta?
Si tratta di una ulteriore struttura della ’ndrangheta fino a poco tempo fa quasi totalmente ignota. Può rappresentare effettivamente un’articolazione legata alla massoneria che non raggruppa liberi muratori con aspirazioni da carriera all’interno di un’organizzazione massonica, ma soggetti cui si riconosce un potere di controllo del territorio. E’ fondamentale sottolineare come gran parte della struttura più alta della ‘ndrangheta sia ancora a noi ignota. Noi abbiamo una buona conoscenza del fenomeno a livello medio. Per intenderci, la ‘ndrangheta non ha avuto un Tommaso Buscetta, che al giudice Giovanni Falcone ha aperto le porte di Cosa Nostra. Noi abbiamo piccoli squarci di luce sui livelli più alti e occulti. La segretezza e la struttura familistica della ‘ndrangheta sono uno dei punti di maggiore forza della ‘ndrangheta, che la rendono anche abbastanza immune al fenomeno del pentitismo.

In questi ultimi anni ci sono stati processi, condanne. Ma l’impressione è che questo intreccio criminale continui a soffocare la vita politica, economica e sociale della Calabria. È così?
Sì. Perché il sistema è così radicato, così oleato, che riesce a superare le epoche, a prescindere dagli arresti o dalla scomparsa dei capi carismatici. Non si può delegare tutto all’azione repressiva da parte di magistratura e forze dell’ordine. Ci sono ampie fette di territorio e di classi sociali anche elevate che strizzano l’occhio alla ‘ndrangheta. Questa terra è stata tradita proprio da chi l’avrebbe dovuta tirare fuori dalle secche: dalla borghesia, dai professionisti, dagli intellettuali. A volte è ben visibile un preciso disegno che vuole la regione come un territorio a perdere, dove poter realizzare ogni nefandezza. Per anni, la Calabria è stato un crocevia di torbidi affari e di trame, anche di caratura nazionale e internazionale. Però poi la situazione è sfuggita di mano e ci si è accorti che non sono i calabresi a essere geneticamente modificati, a essere mafiosi nel DNA, ma che la ‘ndrangheta può attecchire ovunque e che nessun luogo e nessuna popolazione hanno gli anticorpi per resistere al contagio. In Calabria la ‘ndrangheta controlla tutto e chiunque voglia edulcorare questo concetto, non fa il bene di questa terra. C’è un primo passo fondamentale per sconfiggere la ‘ndrangheta: parlarne.

Mappa delle famiglie mafiose in Liguria

La Liguria è una terra di mafia. Camorra e Cosa Nostra prima, la ‘ndrangheta poi, si sono impadronite di fette rilevanti del territorio ligure, incutendo timore, condizionando la politica, accaparrandosi lucrosi appalti quaranta arresti ordinati dalla Procura Antimafia effettuati in questi giorni, grazie alle indagini della DIA di Genova. Le indagini hanno rivelato come i mafiosi della ‘ndrangheta puntassero ad infiltrarsi, attraverso i sub appalti, nei lavori del Terzo Valico. Inoltre, ed è la prima volta per la Liguria, le indagini hanno rivelato il coinvolgimento del livello dei “colletti bianchi”. Un altro filone di indagini riguarda gli affari delle cosche attraverso lo smaltimento dei rifiuti. Ma quanto è diffusa la ’ndrangheta in Liguria? Quali sono le famiglie mafiose presenti sul territorio ligure? Con la collaborazione dell’Osservatorio Boris Giuliano sulle mafie in Liguria (http://mafieinliguria.it/), che racconta (in modo scientifico) la presenza della criminalità organizzata nel territorio ligure, abbiamo compilato una mappa della presenza mafiosa in quella regione. Le fonti utilizzate sono: relazioni DIA e DNA, relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, atti processuali (ordinanze, sentenze, fascicoli ecc).

LA SPEZIA
La provincia della Spezia potrebbe sembrare una provincia “babba”: a prima vista pochi episodi violenti, poche inchieste, pochissime condanne. Ma da anni fonti istituzionali raccontano della presenza di un gruppo criminale calabrese collegato al clan ALVARO di Sinopoli (RC) e delle famiglie DE MASI e ROSMINI. Nel 2000 la DIA scrive che «è stata evidenziata l’attività di elementi legati alla cosca IAMONTE» e un paio di anni dopo dichiara che a Sarzana si è stabilita da tempo la famiglia ROMEO, originaria di Roghudi (RC), «dove svolge attività edilizia e di floricoltura». Anche la Direzione Nazionale Antimafia conferma questa ipotesi: «nell’estremo levante, fino al confine con la provincia di Massa e Carrara, è infatti attivo da tempi un locale di ‘ndrangheta facente capo alla famiglia ROMEO-SIVIGLIA». Incrociando queste fonti istituzionali con diverse inchieste condotte negli ultimi quarant’anni il quadro diventa allarmante, dato che molti soggetti legati ad Antonio ROMEO, considerato dagli inquirenti il vertice del locale, hanno collezionato nel corso degli anni pesanti condanne: il fratello Carmelo ROMEO condannato per associazione a delinquere e tentata estorsione; il pronipote Daniele FAENZA anch’egli coinvolto in tentativi di estorsione ai danni di una ditta che si occupa di smaltimento di rifiuti; Annunziato SIVIGLIA condannato per aver tentato di imporre un racket estorsivo alla Spezia già nel 1983. Gruppi che, oltre ai tradizionali mercati illegali degli stupefacenti, risultano ormai inseriti in diversi settori economici: edilizia, mercato immobiliare, ortofloricoltura, distribuzione commerciale, gioco d’azzardo.

GENOVA
Genova: Da tempo si ritiene che il capoluogo ligure sia sede di un locale di ‘ndrangheta, guidato da Mimmo Gangemi e, precedentemente, da Antonio RAMPINO. Domenico GANGEMI, ex fruttivendolo di S. Fruttuoso, e Domenico BELCASTRO, imprenditore edile, sono stati condannati rispettivamente a anni 19 e mesi 6 di reclusione (pena già confermata in Appello) e a anni 6 di reclusione (pena confermata in Cassazione), nell’ambito del processo “Crimine”, condotto dalla D.D.A. di Reggio Calabria. Sono stati invece tutti assolti, in primo e secondo grado, i 10 imputati del processo “Maglio 3”, tra i quali figuravano diversi “genovesi” (Raffaele BATTISTA, Rocco BRUZZANITI, Antonino MULTARI, Onofrio GARCEA, Lorenzo NUCERA). Arcangelo CONDIDORIO è stato dichiarato incapace di stare in giudizio. Nel centro storico genovese, negli anni ’90, è stata sgominata un’associazione per delinquere di origine calabrese, dedita a molteplici attività criminali, di cui facevano parte alcuni membri delle famiglie di Taurianova (RC) degli ASCIUTTO e dei GRIMALDI. Sempre in centro storico (soprattutto nel sestiere della Maddalena), vi sono tuttora alcune famiglie di origine calabrese che, secondo gli inquirenti, utilizzano modalità mafiose come i FIUMANO’ o agli ALESSI.

Lavagna: nelle relazioni DIA e della DNA si legge che Lavagna è da tempo sede di un locale di ‘ndrangheta, costituito intorno alle famiglie NUCERA-RODA’ originarie di Condofuri (RC). Paolo NUCERA, considerato il capo del locale, è ancora imputato in uno stralcio del processo “Maglio 3”, per lui il pm Lari ha recentemente chiesto 12 anni di reclusione. Sempre Paolo NUCERA, con i fratelli Antonio e Francesco, è stato recentemente arrestato nell’ambito dell’inchiesta “I Conti di Lavagna”, insieme a Francesco Antonio ed Antonio RODA’: devono rispondere di associazione mafiosa ed altri reati, anche riguardanti contatti con l’amministrazione. Inoltre, Antonio NUCERA è stato recentemente condannato in primo grado ad 8 anni di reclusione per prostituzione minorile e cessione di sostanze stupefacenti.

SAVONA
Dopo anni di “deserto giudiziario”, come definito dall’ex Procuratore Capo Francantonio Granero, Savona negli ultimi tempi si è ritrovata spesso al centro di indagini antimafia. Proprio alcuni giorni fa, nell’ambito dell’inchiesta ALCHEMIA, sono stati arrestati (su ordine della D.D.A. di Reggio Calabria e con l’ausilio della polizia giudiziaria ligure) numerosi soggetti da tempo presenti nel savonese, quali Carmelo GULLACE (con i fratelli Elio e Francesco, nonché la moglie Giulia FAZZARI), Antonio FAMELI (residente a Loano, ma originario di S. Ferdinando, collegato ai Piromalli di Gioia Tauro) e Fabrizio ACCAME (autista e prestanome di GULLACE, reduce da un patteggiamento di 1 anno e 10 mesi nell’inchiesta “Real Time”). Sono tutti accusati di associazione mafiosa e sono già rimasti coinvolti, in passato, in procedimenti giudiziari attivati dalla Procura di Savona (per estorsione, usura, intestazione fittizia di beni). Insieme con loro sono stati tradotti in carcere anche vari esponenti della famiglia RASO. Sempre nell’inchiesta ALCHEMIA rispondono di intestazione fittizia di beni Giovanni e Giuseppe SCIGILITANO di Cisano sul Neva (SV), originari di Seminara (RC). Da tempo gli inquirenti sospettavano che nel savonese (tra Borghetto S. Spirito e Toirano, soprattutto) fossero radicati alcuni esponenti della ‘ndrina dei RASO-GULLACE-ALBANESE, tradizionalmente insediata a Cittanova (RC). I fratelli FOTIA hanno invece subito sequestri per 10 mln di euro alle proprie aziende di movimento terra (Scavoter, Se.le.ni e PdF) nel marzo 2015. Non hanno mai avuto processi per 416-bis ma sono ritenuti vicini alla cosca MORABITO-PALAMARA- BRUZZANITI.

IMPERIA
Ad avviso della Presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, trattasi della “sesta provincia della Calabria”. Al di là dell’immagine suggestiva, è noto che il ponente ligure abbia rappresentato una delle mete privilegiate dalle famiglie mafiose di origine calabrese. Alcuni soggetti sono stati qui spediti in soggiorno obbligato, altri si sono rifugiati, in fuga dalle faide, per sfruttare la vicinanza con la Francia, altri ancora sono stati attratti dall’attività di riciclaggio connessa al casino di Sanremo, o comunque hanno trovato floridi mercati in cui investire profitti illeciti.

Ventimiglia: in questa città spiccano i MARCIANO’ (il vecchio boss Giuseppe, suo fratello Vincenzo cl. 1948 e suo figlio Vincenzo cl. 1977) tutti condannati per associazione mafiosa nell’ambito del processo “la Svolta” e PALAMARA Antonio (condannato in primo grado a 14 anni, assolto in Appello; già accusato di associazione mafiosa nel processo Colpo della Strega, 1994). Vi sono inoltre altri soggetti condannati per associazione mafiosa (nell’ambito del processo La Svolta): Paolo e Alessandro MACRI’ (quest’ultimo a titolo di tentativo), Omar ALLAVENA, Giuseppe GALLOTTA, Annunziato ROLDI, Ettore CASTELLANA, Salvatore TRINCHERA, Giuseppe SCARFO’, Giuseppe COSENTINO (assolto in Appello).

Bordighera: qui sono presenti i fratelli PELLEGRINO (Maurizio, Giovanni e Roberto) condannati in I grado, ma assolti in appello, dall’accusa di associazione di tipo mafioso nell’ambito del processo La Svolta; Antonino BARILARO, condannato in I grado, ma assolto in appello dall’accusa di associazione mafiosa; Francesco e Fortunato BARILARO sono stati invece processati e assolti in Maglio 3, così come Benito PEPÉ (suocero di Maurizio PELLEGRINO) e Michele CIRICOSTA. Tali famiglie sarebbero legati al clan Santaiti-Gioffré di Seminara (RC).

Taggia: famiglia MAFODDA (Rodolfo e Mario condannati per 416- bis, Trib. Genova, Uff. GIP, nr. 217/99, Sent. del 15 aprile 1999)

Diano Marina: Nell’aprile del 2015, si è insediata una commissione d’accesso che, al termine di un lungo lavoro, ha optato per non decretare lo scioglimento dell’amministrazione comunale per infiltrazione mafiosa (era finita sotto la lente degli inquirenti, in particolare, la gestione degli stabilimenti balneari). In particolare sono segnalate le famiglie SURACE e SCIGLITANO (Giovanni e Domenico SURACE, e Giovanni SCIGLITANO sono stati rinviati a giudizio per corruzione elettorale, art. 86 D.P.R. 16-5- 1960 n. 570, insieme al sindaco di Diano Marina Chiappori, recentemente rieletto; l’ipotesi accusatoria iniziale era di scambio elettorale politico-mafioso, art. 416-ter c.p.).