Sono sempre più intrecciati, nella post-modernità, i rapporti tra informazione e intrattenimento. Quali sono le dinamiche che stanno alla base dell’infotainment? Quali i rischi, o le opportunità, per il giornalismo? Ne parliamo con il professore Massimiliano Panarari. Massimiliano Panarari, massmediologo e politologo, insegna “Campaigning e Organizzazione del consenso” all’Università Luiss di Roma e “Marketing politico” alla Luiss School of Government. Si occupa di comunicazione politica, mass media, immaginario e cultura pop. Editorialista de La Stampa e de Il Piccolo, è autore del libro L’egemonia sottoculturale (Einaudi, 2010)
Professore, partiamo da un fatto di cronaca. E’ di qualche giorno fa la decisione del GIP di Monza di rigettare, e archiviare, la denuncia dell’Ordine dei giornalisti contro Barbara d’urso che con il suo programma, Domenica live, per esercizio abusivo della professione giornalistica. Secondo il Gip la D’Urso fa infotainment. Ci spiega, in breve, cos’è e come nasce l’infotainment?
Ha richiamato un fatto di cronaca che ci porta oltre l’infotainment, nei territori che vengono definiti dell’entertation. Se l’infotainment è un mix di informazione e intrattenimento nel quale prevale la prima dimensione, nel caso dell’entertation è, appunto, la seconda a risultare maggioritaria. Da svariati decenni ormai i mass media rappresentano le fonti essenziali non solo di trasmissione, ma anche di produzione dell’informazione politica. Si tratta di un dato di fatto, derivante da fenomeni storici strutturali, che hanno decretato via via la caduta e l’archiviazione delle ideologie, la crisi drastica della militanza politica, il disallineamento politico, e hanno indebolito in maniera radicale la capacità di comunicazione delle forze politiche che hanno affidato sempre più la loro possibilità di trasmettere ai media. In questo contesto e scenario fattosi postmoderno, l’informazione si è sempre più sposata con l’intrattenimento, fino a rappresentare una formula egemonica nel panorama giornalistico, partendo dagli Usa degli anni Settanta per diffondersi prima nel resto dell’Occidente e poi in tutto il Villaggio globale.
L’infotainment non si esprime solo attraverso la Tv ma anche attraverso la Carta Stampata. In che modo?
La “contaminazione” e i travasi tra i modelli informativi della carta stampata e della televisione sono divenuti sempre più frequenti in Italia dagli anni Ottanta in avanti, in una sorta di rincorsa della prima nei confronti della seconda, a causa dei suoi successi in termini di pubblico e della forza del suo paradigma e della sua logica mediale. Situazione che da alcuni anni si ripete, mutatis mutandis, rispetto al mondo della Rete. L’informazione “spettacolarizzata” sulla carta nasce di qui (in vari ambiti e sezioni dei giornali: dalla titolazione al retroscena), e, più in generale, appunto, dalle modificazioni dei costumi, dei comportamenti sociali, dai cambiamenti nelle modalità di lettura e dai tempi sempre più accelerati a cui siamo tutti sottoposti nella nostra vita quotidiana.
Qual è la logica “profonda” dell’infotainment? A cosa mira? Alla spettacolarizzazione della realtà o della verità?
Si tratta di una forma di spettacolarizzazione delle notizie e del racconto della realtà, che punta ad attrarre più pubblico e a suscitare l’interesse dei lettori o telespettatori. Ecco perché la dimensione e l’“aura” dello spettacolo finisce talvolta per sopravanzare l’obiettività, quando – come in alcuni casi – si scommette direttamente sulla verosimiglianza anziché sulla “verità” del fatto. In tutto questo, evitando – dall’altra parte – gli eccessi di “moralismo”, occorre appunto sapere quando si fruisce di un prodotto o di un genere di infotainment che lo standard informativo contemporaneo più diffuso è diventato questo. E la consapevolezza, nella vita come nei consumi culturali e mediali, è (o dovrebbe essere) fondamentale.
L’infotainment è un rischio o una opportunità per il giornalismo?
Esistono scuole di pensiero differenti sul tema. Nel giudicare tale fenomeno, se volessimo – un po’ scherzosamente – ricorrere alla celebre dicotomia di Umberto Eco, potremmo dire che da un lato ci sono gli “apocalittici” e, dall’altro, gli “integrati”. Ovvero, esistono posizioni (duramente) critiche e altre maggiormente “comprensive” e più sfumate che tendono a evidenziare la presenza di una valenza positiva o, comunque, a cercare di vedere il “bicchiere mezzo pieno”, per dirla in maniera un po’ colloquiale. Le prime sottolineano che l’infotainment non è “politicamente asettico” e che, al contrario, rafforzerebbe nel pubblico atteggiamenti di disimpegno, disaffezione, avversione nei confronti della politica, e veicolerebbe orientamenti populistici e xenofobi e il cosiddetto “conservatorismo irriflessivo” (lo sostiene una scuola sociologica di grande rilievo e di notevole successo nel mondo anglosassone, quella dei Cultural studies). Il secondo orientamento afferma invece che, nonostante tutto, l’infotainment rappresenterebbe una fonte di “informazione” in materia di politica per fasce di popolazione che non se ne interessano abitualmente; e, dunque, se mancassero programmi e format di questo tenore esse non verrebbero neppure minimamente informate a proposito di temi di natura pubblica e politica (una tesi sostenuta da uno dei massimi esponenti e studiosi della comunicazione politica in Italia, e uno dei suoi fondatori, Gianpietro Mazzoleni).
Anche questo approccio alla realtà della comunicazione e dell’informazione ,tocca la politica. Si parla, infatti, di politainment…come si sviluppa nel nostro Paese?
Il termine politainment emerge al principio degli anni Duemila (viene coniato dallo studioso Thomas Meyer nel suo volume Media Democracy: How the Media Colonise Politics del 2002) per indicare un duplice fenomeno: l’incrociarsi di realtà politica e industria dell’intrattenimento e la presenza dei politici nei programmi di varietà e, contemporaneamente, la trasformazione dei temi e degli attori politici in prodotti (output) riconducibili ai format della cultura popolare e di massa (film, riviste di gossip, reality show). Un processo che fa per molti versi da corrispettivo di quello che ha coinvolto il mondo dell’informazione generando l’infotainment.
Quali sono le conseguenze per gli operatori della politica?
Le conseguenze per i soggetti e gli attori della politica appaiono sempre più riconoscibili e marcate, oltre che massicce. E gli Stati Uniti, come sempre avviene sotto il profilo delle innovazioni e tecnologie della comunicazione, ne sono la vetrina. La politica si fa pop, appunto; così, alla “furibonda” ricerca del consenso i politici mutuano tutte quelle tecniche e strategie d’immagine e compiono all’interno dei media quelle apparizioni che dovrebbero garantire loro popolarità. In particolare “invadendo” i programmi “di varietà” e quelli che non prevedono l’approfondimento giornalistico e informativo. Ma il consenso politico, giustappunto, è cosa in verità non precisamente coincidente con il disporre di una dote di popolarità (anche se vi sono chiaramente sovrapposizioni tra i due campi).
Ci sono degli anticorpi per tenere a bada questa deriva assai problematica per la democrazia?
Come sviluppare anticorpi è, al tempo stesso, un tema problematico e un compito doveroso. Una democrazia in salute dovrebbe farsi promotrice del paradigma dello sviluppo umano e delle “capacità”, ovvero di quella che la filosofia Martha Nussbaum e altri chiamano l’istruzione per la democrazia, la quale mira alla formazione di cittadini e, dunque, alla preparazione di persone capaci di pensare agli altri in termini di reciprocità e rispetto, e non di manicheismi assolutistici. Un’istruzione per la democrazia, fondata sulla pedagogia socratica e sulla centralità del ragionamento, nella quale assumono un ruolo importante la cultura umanistica e quelle liberal arts. Ritengo personalmente che tutto ciò che riduce l’autonomia di giudizio, le facoltà intellettive e lo spirito critico sia da considerare come pericoloso. Quello che si deve fare, e che dovremmo ritenere alla stregua di un dovere etico, è la ricerca di tutti gli strumenti utili a mantenere uno sguardo critico rispetto alle cose e il pluralismo delle voci.