Il caos “infinito” della Siria. Intervista a Marina Calculli

Quali sono i possibili sviluppi del grande caos siriano? Ne parliamo, in questa intervista, con Marina Calculli. Marina Calculli, è politologa e specialista di Medioriente presso il St Antony’s College dell’Università di Oxford e all’Istituto Universitario L’Orientale di Napoli. Ha pubblicato: Esilio Siriano (con Shady Hamadi) e Terrore Sovrano (con Francesco Strazzari)

Lo scenario siriano è sempre più complicato. Come stanno procedendo colloqui di pace, sulla Siria, ad Astana in Kazakistan? 

Pur essendo partiti con grande entusiasmo, i negoziati non hanno prodotto risultati significativi. Permane, in particolare, molto scetticismo da parte dei ribelli anti-regime che non si fidano né della Russia né del regime siriano. Nell’ultimo round, inoltre, sono emerse divergenze anche tra la Russia e il regime di Asad stesso circa la discussione del testo di una nuova costituzione. L’unica cosa che sembra tenere per ora è l’accordo tra Russia, Turchia e Iran sulla data dei nuovi round negoziali all’inizio di maggio. Ma anche i rapporti tra i tre sponsor di Astana sono fragili. In particolare tra Russia e Turchia le relazioni potrebbero nuovamente deteriorarsi sulla questione curda. I russi – pare – sono ritornati a sponsorizzare più o meno indirettamente i ribelli curdi, dopo aver dato parvenza, per poco tempo, di fare il gioco di Ankara.

E’ sempre più evidente il ruolo egemonico della Russia nello scacchiere siriano, non solo sul piano militare ma anche diplomatico, alcune fonti affermano che anche la Russia parteciperà ai dialoghi infra-siriani di pace ad Astana, quale obiettivo della Russia?

La Russia è un alleato storico della Siria e, attraverso la guerra in Siria, ha cercato di recuperare una posizione di influenza in Medio Oriente, perduta durante e soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda. L’aspetto più importante da monitorare è l’aspetto militare – perché è la spia del disegno di lungo periodo che Mosca ha sulla Siria. Preziosa per la Russia è la base navale di Tartous, ma anche la base aerea di Latakia, nella zona controllata dal regime. A Marzo 2017 i ribelli curdi hanno detto che la Russia starebbe costruendo una base nel nord del paese contro l’ISIS. Anche se Mosca ha smentito questa notizia, è evidente che la Russia sta cercando di influenzare diversi attori del conflitto – non solo il regime, ma anche i curdi, in modo da poter accrescere il suo potenziale negoziale con la Turchia, con gli Stati Uniti e con l’Iran.

Washington, per alcuni osservatori, rimane fedele al principio strategico per cui la Siria è cruciale solo in funzione dei propri interessi in Iraq, conferma di voler lasciare a Mosca la guida della risoluzione del conflitto tra regime di Damasco e opposizioni, mantenendo però un ruolo di primo piano nell’altra guerra, quella contro l’Is e che si svolge in un’area strategicamente più importante in funzione irachena: l’est siriano. E’ così secondo te?

Per gli Stati Uniti la guerra in Siria non ha mai rappresentato una reale priorità strategica. Per questo, il ruolo della Russia non è visto come un reale competitor. Anzi, seppur con molte incognite, da un punto di vista realista la Siria potrebbe essere nella prospettiva americana, la patata bollente lasciata in mani russe – un modo per indebolire indirettamente la Russia nel lungo periodo. Neppure lo ‘Stato Islamico’ rappresenta una reale minaccia strategica, ma piuttosto una minaccia simbolica. Sconfiggere lo Stato Islamico militarmente a Mosul e a Raqqa serve più a costruire l’immagine di un successo internazionale per l’America, dopo i disastri della politica estera statunitense dall’inizio della guerra al terrore. Ma la presa di Mosul e Raqqa difficilmente sconfiggerà la forza comunicativa del progetto del Califfato, e questo forse lo sanno anche i generali americani. Il paradosso della guerra al terrorismo è che ha prodotto una proliferazione del terrorismo. Lo strumento militare, l’enfasi sulla sicurezza – che è sempre e comunque un business – è un palliativo che compensa l’assenza di una strategia politica.

Una cosa appare chiara: che dietro la guerra al fantomatico “Stato Islamico” c’è, ed è in atto, la spartizione della Siria in zone d’influenza per Usa, Russia e Turchia. Resta il punto dei curdi. La Turchia di Erdogan non accetterà mai uno Stato curdo…Pensi che la Russia lo imporrà ad Erdogan?

Non dimentichiamo l’Iran tra gli stati che si stanno spartendo le sfere influenza in Siria, oltre a Turchia, Russia e Stati Uniti… Il problema curdo è certo un problema enorme per la Turchia. Ma i curdi hanno diversi e forti alleati – a partire dagli USA, ma anche la Russia. E’ molto difficile che la Turchia di Erdogan possa un giorno accettare uno stato curdo. Certamente i partner internazionali dei miliziani dello YPG sono tali perché i curdi sono strategicamente i migliori per portare avanti la campagna contro lo ‘Stato Islamico’. Sarei cauta, tuttavia, sia nel parlare di “alleanze” vere e proprie o di promesse vincolanti. I curdi, dal loro canto, stanno cercando di conquistarsi la legittimità morale per rivendicare uno stato, proprio attraverso il loro impegno oggettivamente efficace nella lotta allo Stato Islamico.

L’Unione Europea, la “bella addormentata”,  non ha nulla da dire in tutto questo?

L’Unione Europea c’è come attore umanitario, seppur con una burocrazia così pesante che spesso inficia l’impatto che Bruxelles potrebbe avere anche solo con la diplomazia degli aiuti umanitari. Dal punto di vista politico, non l’UE non c’è come attore unitario. Ci sono, però, diversi paesi europei che hanno giocato un ruolo di primo piano in Siria, Francia e Regno Unito in primis. Tuttavia, si deve riconoscere che dal punto di vista diplomatico e strategico né l’Europa né i singoli stati membri riescono a competere con Russia e Stati Uniti, ma nemmeno a influenzare gli storici alleati regionali. La Turchia, in particolare, è ormai più lontana che mai dall’Europa, pur essendo – ricordiamolo – membro della NATO.

In questo scenario di giochi tattici e strategici delle potenze politiche resta l’enorme tragedia umanitaria delle popolazioni Siriane. Qual è il bilancio provvisorio ad oggi?

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono circa 450 mila i morti del conflitto. E’ la lenta distruzione del tessuto sociale, cui si devono aggiungere 4, 8 milioni di profughi attualmente fuori dalla Siria, e i 13 milioni di sfollati o sotto assedio all’interno della Siria, in aree difficili da raggiungere, anche e soprattutto perché il regime di Asad non consente alle agenzie umanitarie di entrare nel paese con lo scopo di alleviare la sofferenza di chi soffre in aree assediate.

Nel tuo libro “L’Esilio Siriano” offri una chiave di lettura drammatica per capire la condizione del  popolo siriano: è quello dell’esilio. Uno esilio destinato a durare a lungo date le condizioni del loro paese. Nell’epoca “sovranista” quale rischio corrono gli esuli?

Gli esuli sono figure politiche: cittadini di stati che hanno fallito nel loro patto con la società, prodotti inevitabili delle diseguaglianze economiche all’interno degli stati e tra gli stati – fenomeni che generano conflitti come quello siriano. In tutto questo, invece di comprendere e identificare le cause – purtroppo difficili da risolvere – si stigmatizzano i migranti, i rifugiati o gli sfollati – gli esuli – confondendo così la causa con la conseguenza con della disfunzionalità della politica e dell’economia globale. In questo i siriani sono in realtà solo rappresentativi di un fenomeno ben più ampio.

Alle radici del conflitto tra Arabia Saudita e Iran. Intervista a Marina Calculli.

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Lo scenario mediorientale si fa sempre più caldo. Il conflitto tra Arabia Saudita e Iran, dopo che il regime di Riad ha giustiziato il leader sciita Nimr  al-Nimr, getta quell’area del mondo ancor più nel caos. Quali sono le cause di questo conflitto? Quali saranno le conseguenze per l’intero M.O. e per il mondo occidentale? Ne parliamo con la studiosa Marina Calculli, Ricercatrice Fulbright presso l’Institute for Middle Eastern Studies della George Washington University a Washington DC (Usa).

Il conflitto, secolare, all’interno dell’Islam tra Sciiti e Sunniti conosce un nuovo e drammatico episodio con l’esecuzione, da parte saudita, dello Sheik Nimr al-Nimr (Sciita). Perché il regime di Riad temeva il religioso sciita? Quello che appare è che al-Nimr non fosse uno sciita settario, anzi aveva condannato il regime di Assad (sciita), quali sono allora le ragioni profonde di questa esecuzione?

E’ vero che c’è stata una dinamica settaria, ma quella che è in atto in questi giorni non è l’ultima puntata di un conflitto secolare. Sarebbe errato vederci odi ancestrali in questa faccenda. SI tratta piuttosto della politica di potenza delle due potenze regionali che si contendono l’egemonia sul Levante arabo e trovano utile mobilitare le piazze politicamente, socialmente e militarmente cavalcando queste divisioni settarie. C’è una duplice motivazione alla condanna a morte di Nimr al-Nimr. La prima è domestica: la casa regnante percepisce i fervori di un malcontento popolare soggiacente, anche dovuto al fatto che con il prezzo del petrolio così basso, cresce l’incertezza assieme alla disparità socio-economica. Inoltre, l’Arabia Saudita non ha solo un problema storico con la regione as-sharkiyya, ovvero orientale, dove vive la minoranza sciita da sempre marginalizzata. C’è anche il problema dei simpatizzanti dell’ISIS. Infine, c’è il problema dei numerosi attivisti per i diritti umani nel paese.  Dunque il regime ha voluto dare un messaggio per dissuadere qualsiasi forma di dissidenza e critica interna e poi l’ha buttata sul problema degli sciiti che, nella versione del potere, sarebbero tutti finanziati dall’Iran, così da creare paura del nemico estero in casa presso i sunniti e divaricare lo scontro sociale in un’ottica di divide et impera. C’e’ poi anche una motivazione internazionale: l’Arabia Saudita vede un Iran non più marginalizzato come prima dalla comunità internazionale e questo cambia gli equilibri anche regionali. Tra pochi giorni saranno levate le prime sanzioni contro Teheran che aprono uno scenario nuovo per l’Iran. L’Arabia Saudita cerca ancora di far saltare l’accordo e ripristinare lo status quo precedente.

Riad accusava al-Nimr di essere un “agente iraniano”. Quale era il suo rapporto con il regime degli ayatollah iraniani? 

Nimr era ovviamente uno cheikh sciita e in quanto tale aveva studiato in Iran e si era formato lì. Ma aveva più volte ribadito in sermoni peraltro disponibili online che il legame degli sciiti sauditi con l’Iran era un’invenzione dell’Arabia Saudita per non affrontare i veri problemi, ovvero le rivendicazioni sociali, politiche ed economiche della popolazione di As-sharkiyya. In uno dei suoi discorsi, peraltro, Nimr disse che il potere saudita parlava di un “paese straniero”, senza neppure avere il coraggio di chiamare l’Iran con il suo nome. E sarcasticamente diceva al potere: “Perché allora non andate a far guerra a questo paese straniero invece di arrestarci, torturarci, ammazzarci qui, se il problema è questo paese?”. Si tratta di un escamotage sarcastico per esporre il pretesto politico, la narrazione settaria, le bugie che hanno forgiato il potere in Arabia Saudita.

Questa esecuzione porterà ad ulteriori tensioni nello scenario, già complicato, del Medio Oriente. Pensa che tra Iran e Arabia Saudita si arriverà alla guerra , se non apertamente, ovvero ad una guerra per procura, dove i contendenti potranno mettere a segno colpi, attraverso alleati, per mettere in grave difficoltà il nemico? Insomma l’instabilità della zona aumenterà sempre di più?

Ci sono già diverse guerre per procura, fronti caldissimi, in Medio Oriente. La Siria e lo Yemen sono casi eccellenti in cui si vede come l’ostinazione per il potere – tanto da parte saudita quanto iraniana – non solo crea tragedie di proporzioni inaudite, ma rischia di ritorcersi contro i poteri stessi. Da queste guerre e’ nato l’ISIS, in Yemen sta proliferando al-Qaeda: quanto il potere saudita potrà giocare con questi gruppi senza essere travolta essa stessa dalla sula forza dirompente? Lo stesso in parte vale per l’Iran, che sta dal suo canto esacerbando la crisi, sostenendo a tutti i costi Bashar al-Assad in Siria, una mossa che procrastina la fine delle ostilità in quanto la maggior parte degli attori, anche quelli disposti a trattare con Damasco, non potranno mai accettare di sedersi al tavolo con un leader responsabile – proprio in quanto leader – della morte di 250.000 persone. CI sono altri poteri emersi dal conflitto che guardano al loro sostegno popolare, costituitosi durante la guerra e largamente anti-Assad. L’ossessione iraniana suAssad ha di fatto cristallizzato lo stallo e le tensioni di questi giorni certamente allontanano ancora di più la pace.

Il regime di Riad ha fatto del settarismo religioso un uso politico per riaffermare il suo potere sul mondo sunnita. Giustificando così la repressione al suo interno, e la guerra nello Yemen. Si pone così per il mondo occidentale la questione dell’alleanza con l’Arabia saudita. Fino ad ora l’occidente ha continuato a fare affari con la monarchia saudita, pensa si arriverà ad un chiarimento con il regime dei Saud?

E’ l’alleanza più ipocrita dell’Occidente. Ma questo non deve stupire: le alleanze si fanno per interesse politico, economico e strategico sempre. Quello che sta crollando in questo periodo è semmai la narrazione di copertura di questa alleanza, ovvero il tentativo di dipingere l’Arabia Saudita come un paese moderato. E’ importante semmai capire anche come tutti gli attori del sistema internazionale strumentalizzano narrazioni “emozionali”, “Identitarie” o a marca “religiosa”. Quella degli sciiti contro i sunniti e’ una guerra che in realtà si gioca tra potenze e su un piano strategico. Quella tra Oriente e Occidente, o Cristianità e Islam, ha motivazioni analoghe. Bisognerebbe guardare alle alleanze o alle rivalità strategiche non come a opposizioni o comunioni identitarie, ma come un complesso di interessi in cui l’identità raramente gioca un ruolo fondamentale, se non nella sua strumentalizzazione. Credo che l’alleanza tra USA e Arabia Saudita ne sia la prova più esemplare.

Il prezzo del petrolio, sempre più basso, ha prodotto conseguenze economiche e sociali nei paesi produttori di greggio. Quale regime è più vulnerabile tra Teheran e Riad?

Certamente l’Arabia Saudita la cui economia dipende quasi totalmente dalle esportazioni di greggio. Teheran ha invece una economia storicamente assai più diversificata, ha un apparato industriale nazionale molto sviluppato. E’ quello che ha salvato l’Iran dal collasso nel periodo delle sanzioni. Inoltre l’Iran ha una popolazione colta e specializzata, mentre l’Arabia Saudita dipende in larga parte dalla manodopera specializzata straniera.

Quali conseguenze avrà, questo conflitto tra Iran e Arabia Saudita, nella guerra all’ Isis?

L’ISIS approfitta dello sfaldamento degli stati. E’ lì che emerge l’ISIS. Dove non c’e’ più governance, emerge l’ISIS in altri termini. Dunque il procrastinare di questo stallo ovviamente e’ una buona notizia per l’ISIS. Mentre una transizione in Siria, per esempio, creerebbe comunque un’alternativa per buona parte di quella popolazione che non può prestare più lealtà a Bashar al-Assad e si trova schiacciata da ISIS.

Ultima domanda: Quale partita può giocare, in positivo, l’Europa in questo conflitto?

Non credo che l’Europa sia in grado di giocare una grande partita in un momento storico in cui persino gli Stati Uniti hanno poche carte in mano. Ci sono troppi interessi contrastanti tra alleati e potenziali alleati. L’Iran si prospetta come un nuovo paradiso di investimenti e business e i governi europei vogliono che l’accordo ingrani. Dall’’altro lato non si può far saltare l’alleanza con le monarchie del Golfo, inclusa l’Arabia Saudita, perché c’e’ una struttura di interdipendenza finanziaria e commerciale da mantenere.

Medio Oriente: L’Export record di armi italiane. Intervista a Giorgio Beretta

Abu Dhabi Class dal sito: www.fincantieri.it

Abu Dhabi Class dal sito: www.fincantieri.it

Nello scacchiere drammatico del Medio Oriente grande è la presenza dei Sistemi d’arma
italiani. E questo pone enormi problemi politici. Ne parliamo con Giorgio Beretta,
analista di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e
difesa) di Brescia e membro della Rete italiana per il disarmo (o Rete Disarmo).

Beretta, gli scenari di guerra aumentano: la gravissima escalation del conflitto in Iraq ad opera dell’ Isis, un vero e proprio esercito integralista, che sta compiendo stragi contro le minoranze etniche e religiose presenti nel territorio iracheno, tutto questo impone alla comunità internazionale di intervenire per fermare la follia integralista. La “Rete Italiana per il disarmo” ha criticato l’invio armi da parte del governo italiano ai curdi, quali le ragioni?

Innanzitutto dobbiamo considerare attentamente la situazione in Iraq e nella regione. Siamo di fronte ad un fenomeno che le agenzie dell’Onu definiscono di “pulizia culturale”  (“cultural cleansing’’), con “orribili crimini contro l’umanità” commessi ogni giorno da parte di gruppi armati associati allo Stato islamico in Iraq e Levante (ISIL). Un fenomeno che lo stesso presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, non ha esitato a paragonare ad un “genocidio”. In questo contesto l’Unione europea e l’Italia hanno un dovere prioritario: quello di mettere in atto tutti gli strumenti previsti dalla comunità internazionale per proteggere le popolazioni. Questo dovere invoca l’assunzione della [di quella che gli statuti delle Nazioni Unite definiscono come] “responsabilità di proteggere” (Responsibility to protect): tale responsabilità non ricade solo sul governo iracheno ma sull’intera comunità internazionale.  Attenzione: non è detto che debba essere il paese in cui si verificano questi crimini a richiedere la protezione della comunità internazionale, può benissimo essere ogni Stato membro dell’Onu che ne rilevi la necessità. E ogni intervento, anche militare, di “peace enforcement” stabilito in ambito Onu va esercitato secondo la norma della “responsabilità nel proteggere” (Responsibility while protecting) che non prevede assolutamente il bombardamento di aree popolate.

L’Unione europea, invece, per quanto riguarda l’Iraq ha deciso di delegare questa responsabilità di proteggere al governo iracheno e alle azioni militari aeree degli Stati Uniti limitando il proprio contributo – e la propria responsabilità – all’assistenza umanitaria e alla fornitura di armamenti. E’ innanzitutto questo auto-confinamento dell’Ue che reputiamo molto grave: significa di fatto non assumersi alcuna precisa responsabilità di fronte ad una  immane catastrofe ed allinearsi alla strategia militare degli Stati Uniti i cui risultati, dall’intervento unilaterale del 2003 – senza alcun mandato dell’Onu – per rovesciare il regime di Saddam Hussein, sono sotto gli occhi di tutti.

Avete espresso anche dubbi sulla tipologia di armi inviate ai peshmerga (su queste c’è una “denuncia” del Movimento 5Stelle, che ha sentito fonti irachene, secondo cui un primo lotto di armi sarebbero state bloccate dal governo centrale iracheno), quali sono questi dubbi?

Non entro nel merito della “denuncia” del M5S che lascio a chi di competenza valutare.  Riguardo alle armi che l’Italia intende inviare in Iraq ci sono due chiari problemi: uno di scelta politica e l’altro riguarda la situazione nella regione. Il governo italiano intende inviare ai militari peshmerga in Iraq diverse armi in parte dimesse dalle nostre forze armate e di provenienza da fondi di magazzino non più utilizzabili in ambito Nato. Ma soprattutto intende inviarne una parte proveniente da un lotto di armamenti di fabbricazione sovietica sequestrati al trafficante Zhukov e tenuti per anni nelle riserve dell’isola sarda della Maddalena. Queste armi, come prevede una sentenza del Tribunale di Torino del 2006 mai resa operativa, andavano distrutte. C’è quindi una precisa responsabilità politica del governo Renzi che a fronte di una sentenza di un Tribunale ha deciso di avvalersi di una legge successiva (la legge  108 del 2009) (vedi la nota in fondo all’intervista) che permette – attenzione è un permesso non un obbligo né un dovere – al Ministero della Difesa di disporre di armi sequestrate e non ancora distrutte “per fini istituzionali”. Quale sarebbe il “fine istituzionale” che il Ministero intende perseguire è tutto da chiarire. Ma soprattutto va ricordato che una parte di queste armi sequestrate sarebbe stata inviata nel 2011 agli insorti di Bengasi in Libia apponendo da parte dell’allora governo in carica (Berlusconi IV) il segreto di Stato: chiediamo perciò che  non si faccia alcun utilizzo di queste armi e che venga invece aperta subito un’inchiesta parlamentare per verificare quante e quali armi siano già state inviate nei vari teatri di guerra.

C’è il rischio di alimentare il mercato nero interno?

Proprio questo rappresenta il secondo motivo per cui ci opponiamo all’invio di armi in Iraq. Ma attenzione, non è un semplice “rischio”: la sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e di centri di ricerca autorevoli come il SIPRI di Stoccolma.  Un rapporto del Pentagono già del 2007 segnalava che a fronte di oltre 13mila armi consegnate all’esercito iracheno se n’era persa traccia per più di 12mila e tra quelle armi figurano pistole, fucili d’assalto, mitragliatrici e lanciagranate. Una simile situazione si è verificata in Afghanistan. Non a caso una specifica ricerca del SIPRI definisce questi due paesi come “gli esempi più evidenti dei rischi collegati alla fornitura di armi a Stati fragili”. Il nostro governo pare intenda avvalersi delle capacità di controllo dei nostri servizi di intelligence: se i migliori servizi di intelligence del mondo non hanno nemmeno saputo informarci per tempo sulla terribile minaccia che incombeva sulle popolazioni del nord Iraq, c’è davvero da preoccuparsi.

Veniamo alle armi italiane:  Lei in un suo articolo ha affermato che non c’è stato, nel 2013, un crollo delle esportazioni di armi italiane. Anzi il 2013 si è confermato il secondo anno “record” per l’export armiero. Tutto questo a fronte di un crollo degli ordinativi. Ci può spiegare il perché?

Dobbiamo sempre distinguere le consegne di sistemi militari dalle autorizzazioni che il governo rilascia: le consegne rappresentano ciò che di fatto si esporta, le autorizzazioni riflettono quello che in gergo viene definito il “portafoglio d’ordini” dell’industria militare nazionale. Nel 2013 non c’è stato alcun crollo nelle effettive esportazioni di sistemi militari italiani: sono stati infatti spediti nel mondo armamenti italiani per oltre 2,7 miliardi di euro (€2.751.006.957), cioè solo poco meno della cifra-record ventennale realizzata nel 2012 (€2.979.152.816): un calo quindi (del 7,7%), ma non certo un “crollo”.

Il “crollo” ha riguardato le autorizzazioni all’esportazione che nel 2013 si sono dimezzate: dagli oltre 4 miliardi (€4.160.155.096) del 2012 si è infatti passati a poco più di 2 miliardi di euro (€2.149.307.240) del 2013. Si tratta però del “valore globale”, cioè della somma delle autorizzazioni per esportazioni con quelle relative ai “programmi governativi di cooperazione” (detti anche “programmi intergovernativi”) tra cui figurano anche i sistemi in costruzione per la dotazione delle nostre forze armate.

Su questo “crollo” degli ordinativi hanno influito tre fattori. Il primo è che gran parte dei “programmi intergovernativi” sono già stati autorizzati negli anni scorsi. Il secondo è che la domanda di armamenti è fortemente altalenante perché  – a differenza dei beni di consumo – i maggiori sistemi militari (dai caccia alle navi da guerra) non si esauriscono in breve tempo. Ma c’è un terzo fattore sul quale la nostra industria militare e lo stesso governo farebbe bene a riflettere: le indagini per corruzione che hanno coinvolto Finmeccanica in India e Fincantieri per le navi inviate agli Emirati Arabi Uniti non favoriscono certo la credibilità delle maggiori industrie militari del nostro paese. E non basta un “Codice Etico” per risolvere il problema.

Nel 2013 sono state  autorizzate, nel Medio Oriente, esportazioni di armi italiane per un valore di 709 milioni di Euro. Un dato davvero preoccupante. Quale è il quadro complessivo dell’export dei sistemi d’arma italiani in Medio Oriente?

Il principale paese acquirente è stato l’Arabia Saudita (€ 296.399.644) che oltre ai caccia Eurofighter – una commessa anche questa dai contorni quanto mai torbidi – ha acquistato i relativi missili IRIS-T, ma anche un ampio arsenale di bombe, munizionamento, apparecchi per la direzione del tiro, veicoli e velivoli militari per oltre 126 milioni di euro.

Sono continuate le forniture di sistemi militari all’Algeria (€ 234.580.121): al controverso governo del presidente Bouteflika erano state autorizzate esportazioni nel 2011 per un record di oltre 477 milioni di euro a cui vanno sommati i quasi 265 milioni di euro del 2012 e gli attuali 235 milioni di euro: il leitmotiv è, evidentemente, armi e sistemi militari in cambio di gas e petrolio. Lo stesso motivo è alla base delle esportazioni verso gli Emirati Arabi Uniti che nel 2013 si sono visti autorizzare importazioni di armamenti italiani per quasi 95 milioni di euro. L’anno scorso agli Emirati sono state consegnati sistemi militari per un record di oltre 434 milioni di euro, tra cui spiccano due corvette “Abu Dhabi Class”, una commessa sulla quale lo scorso dicembre la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per “tentata  corruzione internazionale”. E sempre il petrolio fa da leitmotiv alle commesse autorizzate all’Oman: si tratta di oltre 44 milioni di euro che riguardano “armi automatiche”, munizioni e veicoli terrestri e non comprendono ancora – visto che la tabella degli Esteri non li segnala – i dodici Eurofighter ordinati dal Sultanato già nel dicembre del 2012 insieme ad altri velivoli prodotti dal consorzio di cui la britannica BAE è capofila per un valore complessivo di oltre 4 miliardi di dollari.

Nonostante le sommosse che hanno scosso l’Egitto per tutto il 2013, il ministero degli Esteri ha autorizzato esportazioni di materiali d’armamento per oltre 17 milioni di euro tra cui figurano armi automatiche, munizioni, bombe e sistemi per la direzione del tiro. Quasi 11 milioni di queste armi sono state consegnate fino ad agosto dell’anno scorso quando, come segnala una breve nota della Relazione, in sede di Consiglio degli Affari Esteri sono state decise “misure restrittive”. Le uniche di cui la Relazione da notizia e che comunque non pare abbiano interessato altri paesi della zona mediorientale come la Turchia, verso la quale Rete Disarmo aveva chiesto al ministro Bonino di sospendere l’invio di sistemi militari in considerazione della violenta repressione messa in atto dalle forze armate. Da non dimenticare Israele al quale proprio primi giorni dei raid aerei su Gaza, Alenia Aermacchi ha consegnato i primi due velivoli addestratori M-346 che sono parte di una contratto del valore di oltre 800 milioni di euro.  Un contratto definito dall’allora premier Mario Monti un “salto di qualità” che prevede la fornitura di questi velivoli ad Israele in cambio dell’acquisto dall’Italia di sistemi militari israeliani: di fatto un ottimo affare per Alenia Aermacchi e un’ulteriore spesa per i contribuenti italiani.

E’ chiaro che tutta questa presenza di armi in uno scacchiere drammatico, come quello mediorientale, pone enormi problemi politici. Quanto è efficace il controllo del Parlamento?

E’ proprio questo il punto più preoccupante. Da oltre sei anni ,cioè dai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, tutta la materia delle esportazione di sistemi militari non viene esaminata nelle competenti commissioni della Camera e del Senato. E questo nonostante la Presidenza del Consiglio abbia inviato ogni anno al parlamento una corposa Relazione come per legge.  La recente modifica della legge (la n.185 del 1990) richiede  che questa esame debba adesso essere ottemperato, ma ad oltre un mese dalla consegna della Relazione non mi risulta sia stato messo in calendario. Ma c’è di più. Proprio a partire dall’ultimo governo Berlusconi sono stati sottratte dalla relazione governativa una serie di informazioni di importanza fondamentale per il controllo parlamentare tanto che oggi è praticamente impossibile sapere dalla Relazione ciò che tutti dovremmo, per legge, sapere: e cioè a quali paesi il Governo abbia autorizzato l’esportazione di quali specifici sistemi militari, per quale quantità e valore, e a quali paesi siano state consegnate quante e quali armi nel corso dell’anno. E’ perciò quanto mai necessario e urgente che le competenti commissioni del parlamento riprendano il controllo dell’attività del Governo. Non farlo significa, di fatto, permettere ai vertici dei colossi dell’industria militare nazionale e ai gruppi politici che li sostengono di dettare al nostro paese una materia che riguarda direttamente la politica estera e di difesa del nostro paese.

Ecco il testo della Legge 3 agosto 2009, n. 108
Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali. (09G0117) (GU n.181 del 6-8-2009) Entrata in vigore del provvedimento: 7/8/2009

Art. 5. (Disposizioni in materia contabile)

3.  Le  armi,  le  munizioni,  gli esplosivi e gli altri materiali di interesse  militare  sequestrati e acquisiti dallo Stato a seguito di provvedimento   definitivo  di  confisca  dell’autorità giudiziaria possono  essere  assegnati  al  Ministero  della difesa per finalità istituzionali,  con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con  i  Ministri  della  difesa  e  dell’economia e delle finanze. Si provvede  con  decreto  del Ministro della difesa, di concerto con il Ministro  dell’economia  e delle finanze, nel caso in cui la confisca è   stata   disposta   dall’autorità   giudiziaria   militare.   Le disposizioni  di  cui al presente comma si applicano anche alle armi, alle  munizioni,  agli  esplosivi e agli altri materiali di interesse militare  per  i  quali, anteriormente alla data di entrata in vigore della  presente  legge,  è stata disposta ma non ancora eseguita la distruzione.