
Il giornalista Mino Pecorelli (Ansa)
Il 5 marzo scorso la Procura di Roma ha riaperto le indagini sul l’assassinio di “Mino” Pecorelli. Le indagini sono state affidate alla DIGOS. Indagini che hanno la finalità di trovare elementi, consistenti, per un eventuale nuovo processo su quell’omicidio rimasto impunito per quarant’anni. La riapertura dell’ indagine ci offre l’occasione per parlare di quella morte, avvenuta il 20 marzo del 1979 a Roma. L’omicidio del giornalista Pecorelli è uno dei misteri più cupi della nostra storia repubblicana. Per sapere un po’ di più su queste indagini, abbiamo intervistato Raffaella Fanelli, giornalista del sito d’inchiesta “Estreme Conseguenze“. Raffaella Fanelli ha collaborato con numerose testate, tra le quali La Repubblica, Sette, Panorama, Oggi, e altrettante trasmissioni televisive, da Chi l’ha visto? a Quarto Grado a Lineagialla. Con Aliberti ha pubblicato Al di là di ogni ragionevole dubbio, il delitto di Via Poma, con EdizioniANordest Intervista a Cosa Nostra e con Chiarelettere La Verità del Freddo. Al libro intervista a Maurizio Abbatino è stato assegnato il premio internazionale al giornalismo d’inchiesta “Javier Valdez” 2018.
Raffaella Fanelli, grazie al tuo lavoro di giornalista investigativo, una piccola luce si è accesa sull’omicidio Pecorelli (avvenuto, come si sa, il 20 marzo del 1979). Un omicidio che attende giustizia da 40 anni. Questa “piccola luce” è il rinvenimento di un verbale, in un cartella dedicata al caso Moro, delle dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra al Giudice Guido Salvini. Un verbale “dimenticato”. … Prima di parlare di questo nuovo indizio investigativo, sulla base del quale la famiglia di Carmine “Mino” Pecorelli ha chiesto la riapertura del processo, parliamo un po’ di “Mino” Pecorelli… Nell’immaginario collettivo Pecorelli è visto come una figura “border line”, controversa assai (per qualcuno, addirittura, un ricattatore). E’ vero tutto questo?
Mino Pecorelli era un giornalista coraggioso, temuto da molti e sgradito a tantissimi. Per dire chi era uso le parole del figlio, Andrea Pecorelli: “Era un avvocato con la passione per il giornalismo. Ucciso prima dal piombo dei suoi killer e poi dalla giusti zia”. Che rischia di essere ucciso per la terza volta, dall’omertà, dalla codardia o dal troppo cameratismo di chi sa. Diciamo subito che Mino Pecorelli non era un ricattatore. Se avesse ricattato non avrebbe pubblicato e sulle pagine di Op ci sono finiti tutti, pure Silvio Berlusconi. Rivelò gli affari loschi di militari e di industriali, di banchieri e di cardinali. Dalle colonne della sua testata Pecorelli denunciò il marcio di quegli anni anticipando inchieste che sarebbero finite sulle pagine dei giornali “istituzionali” solo anni dopo. Mino Pecorelli sapeva tutto sul famoso lago della Duchessa e sulla scoperta “pilotata” di via Gradoli e scrisse del sequestro Moro come di “una delle più grosse operazioni politiche compiute per allontanare il Pci dall’area del potere”. Nel gennaio del 1979 rivelò su Op quello che sarà scoperto soltanto anni più tardi, e cioè che il governo italiano durante il sequestro dell’onorevole Aldo Moro fu affiancato da un esperto americano di nome Steve Pieczenik.
Mino Pecorelli era il solo a firmare gli articoli, a non usare pseudonimi. “Temeva per la nostra vita” mi ha dichiarato Paolo Patrizi, caporedattore di Op. “Mino proteggeva i suoi collaboratori”. Eppure il suo giornale, ovvero quella che avrebbe potuto essere una fonte così importante, quasi incredibilmente è sparito nel nulla: in nessuna biblioteca nazionale ci sono copie di Op. Per mesi ho cercato negli archivi romani e nei cassetti dei familiari di Mino Pecorelli per mettere insieme le pubblicazioni e studiarle. Per cercare di individuare un movente. E una cosa ho capito. Che erano in tanti a volerlo morto, in tanti a voler fermare la sua penna. Che in tanti l’hanno infangata, dopo quel 20 marzo del 1979. Perché solo col fango si poteva occultare la verità ormai pubblicata.
Per la sua attività di giornalismo, un giornalismo “particolare”, qualcuno lo ha definito come un “scapestrato e impavido giornalista”. Condividi questa definizione?
Forse scapestrato. Di certo sfortunato. Vittima di un Paese dalla memoria corta che riabilita in fretta i mascalzoni e dimentica i suoi martiri. Non c’è una targa in via Orazio, a Roma, niente che ricordi la fine di questo coraggioso giornalista. Nel luogo dove Mino Pecorelli è stato ucciso non ci sono mai state cerimonie né fiori. Neanche l’ordine dei giornalisti è mai intervenuto per rendere omaggio, per togliere l’oblio e l’infamia, eppure sanno perché la sentenza di Perugia che non è servita a dare un nome ai responsabili dell’omicidio ha però fatto chiarezza sulla figura di Mino Pecorelli. E’ scritto nero su bianco in quella sentenza che Pecorelli non era un ricattatore ma un ottimo giornalista. In quarant’anni nessun primo cittadino della capitale lo ha mai ricordato e nessuno dal pachidermico ordine dei giornalisti si è mai indignato. In via Orazio, lo scorso 20 marzo, a quarant’anni di distanza dall’omicidio c’erano gli ex colleghi di Pecorelli, gli amici, pochi parenti, una sorella e un figlio, condannati al ricordo. Condannati al dolore.
Negli “anni di Piombo”, gli anni di Pecorelli, “la stampa urlava a gran voce delle morti e delle bombe ma, pur in qualche caso sapendo, taceva sul vero male che ha colpito la penisola: l’occulto. Pecorelli, al contrario, non dava troppa enfasi agli assassinii e agli atti di terrorismo, il suo era uno sguardo diverso, penetrato negli androni dei Palazzi (quelli con la P maiuscola), tra le carte e i documenti, le missive e i dispacci segreti, le note interne e le frasi sussurrate” (L. Signorini). Ecco questa attenzione all’occulto (del potere) porterà Pecorelli, durante la sua vita avventurosa, ad avere rapporti con persone discutibili, politici di alto rango, Servizi segreti. Alla fine viene il dubbio se, Pecorelli, non fosse uno strumento del Potere oscuro?
Pecorelli non fu “strumento” del potere occulto ma “infiltrato” in macchinose logge segrete. Nel 1978 rivelò nomi illustri iscritti alla P2, anche quello di un presidente della nostra Repubblica. Fu il primo a scrivere, nel silenzio più assoluto delle testate italiane più importanti, della loggia massonica in Vaticano. Fu lui a pubblicare l’elenco dei cardinali massoni. Attaccava tutti, indistintamente. Anche Licio Gelli: il 20 febbraio del 1979 Pecorelli pubblicò un articolo nel quale affermò di aver ricevuto una copia del rapporto Cominform da un ufficiale dei servizi segreti, il tenente colonnello Antonio Viezzer. E ne annunciò la pubblicazione. La lista alla quale Pecorelli si riferiva era quella contenente i nomi di cinquantasei fascisti traditi da Gelli alla fine della guerra. Tuttavia, “Cominform” non era il titolo di quel documento ma il nome dato al rapporto dei servizi segreti sulle attività di spionaggio di Gelli per i comunisti. L’intenzione di Pecorelli, presumibilmente, era quella di far sapere a Gelli che anche quel documento era nelle sue mani. Il 20 marzo 1979, un mese dopo, il giornalista fu ucciso.
Sappiamo che la sua creatura “OP” non navigava in acque tranquille. E questo creava moltissimi problemi al giornalista. Chi erano i finanziatori di OP? Erano i Servizi?
Certamente Pecorelli avrà cercato finanziamenti e sostegni per far sopravvivere Op, la rivista di cui era anche editore. Certamente accettava finanziamenti da chiunque ma a chi lo accusò di essere sul libro paga dei Servizi segreti italiani nel numero del primo agosto del 1978 rispose rivendicando l’autonomia della sua testata. Precisò che Op aveva una sua “propria e autonoma rete di informatori” e che non era l’agenzia del Sid (Servizio informazioni difesa). D’altronde se fosse stato al soldo dei servizi non avrebbe scritto contro Vito Miceli, contro Gianadelio Maletti e contro lo stesso Antonio Labruna. Scrisse anche del coinvolgimento di frange dei servizi segreti deviati nella fuga di Guido Giannettini dopo l’attentato di piazza Fontana: Pecorelli le notizie le pubblicava tutte.
Che rapporti c’erano tra Moro e Pecorelli?
Dopo la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro, Mino Pecorelli sottolineò più volte, su OP, gli aspetti ambigui della vicenda e dei brigatisti scrisse che non erano quello che volevano sembrare. Che lo scopo del rapimento si inseriva nella “logica di Yalta”, con il fine di impedire che il Partito Comunista fosse coinvolto nel governo del Paese. Gli articoli pubblicati da Op accompagnarono lo svolgersi della vicenda Moro con notizie di prima mano: furono anticipate le lettere dell’onorevole Moro e le trattative avviate dal Vaticano per la liberazione dell’ostaggio. Trattative smentite allora dalle fonti ufficiali e confermate solo nei primi anni ’90. Pecorelli sapeva, anticipava.
E tra Andreotti e Pecorelli?
Pecorelli bersagliava Giulio Andreotti continuamente, fu lui a soprannominarlo il Divo. Lo accusò di non aver distrutto tutti i fascicoli del Sifar, di avere responsabilità nella morte di Aldo Moro e nello scandalo petroli. Durante il processo Andreotti confermò di non aver mai incontrato il giornalista, di averlo letto ma mai conosciuto. Fu Franco Evangelisti ad offrire 30 milioni di vecchie lire per tamponare i debiti con la tipografia, in cambio, il braccio destro di Andreotti, chiese di bloccare la pubblicazione del numero “Gli assegni del Presidente”. Quindici anni dopo l’omicidio del giornalista, nell’aprile del 1993, il nome del senatore a vita fu iscritto nel registro degli indagati: Andreotti fu accusato da Tommaso Buscetta di essere il mandante dell’omicidio Pecorelli. Accuse confermate dai pentiti della Banda della Magliana. Andreotti, dopo una condanna a 24 anni sentenziata in appello, fu assolto nell’ottobre del 2003 dalla Corte di Cassazione.
Ora sono molti i capitoli da chiarire su questo omicidio. Ad esempio La sorella di Pecorelli afferma di aver visto, per ben due volte, nel giro di poche ore, in via Tacito un uomo. Un volto che segnalò subito ai carabinieri. Eppure tra verbali e interrogatori non troviamo traccia di queste dichiarazioni di Rosita Pecorelli. Vi sono altri identikit?
Nel fascicolo c’è un solo identikit realizzato il 21 marzo del 1979, un giorno dopo il delitto, su indicazioni di un testimone che chiese di poter mantenere l’anonimato. Al capitano dei carabinieri Antonino Tomaselli, il teste disse di aver notato “un uomo sui 38 anni, con viso dai tratti marcati e corporatura robusta, muscolosa… Quell’uomo dava l’impressione di controllare l’uscita dell’ufficio di Pecorelli”. Esperti disegnatori ne abbozzarono i tratti. Non c’è traccia delle informazioni fornite da Rosita Pecorelli né c’è traccia dell’identikit realizzato con le indicazioni di Antonio Varisco, il colonnello dei carabinieri amico di Carmine Pecorelli ucciso pochi mesi dopo il giornalista, il 13 luglio del 1979.
Veniamo al tuo ritrovamento. Perché é importante il verbale che hai trovato? E’ casuale che si trovasse in un raccoglitore che riguarda il “caso Moro”?
E’ importante perché in quel verbale Vincenzo Vinciguerra parla della pistola usata per uccidere il giornalista, un’arma mai ritrovata che potrebbe portare, ovviamente, a chi la usò, quindi agli assassini di Pecorelli. Si trovava in quel raccoglitore perché in quello stesso verbale Vinciguerra rispondeva a domande sul caso Moro.
Chi è Vincenzo Vinciguerra ? Cosa dice quel verbale? Su che basi questa dichiarazione può essere credibile?
Vinciguerra, ex di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, sta scontando l’ergastolo per la strage di Peteano. Una condanna arrivata in primo grado e mai appellata. Per quella strage fu lo stesso Vinciguerra a costituirsi per evitare la condanna di innocenti fermati al suo posto. Vinciguerra ha scelto di testimoniare, non di collaborare, per rivendicare la sua posizione politica e per attaccare e criticare gli uomini di estrema destra passati al servizio del potere… Non ha chiesto premi o sconti di pena ma ha fatto una scelta completamente gratuita e quindi non parla per ottenere qualcosa. Per ottenere benefici o sconti. Ha fatto dichiarazioni importanti sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, su Piazza Fontana e su altri gravi episodi che hanno segnato la storia del nostro paese e nessuna delle sue dichiarazioni si è mai rivelata falsa. Tutte le sue informazioni si sono dimostrate vere e attendibili. In quel verbale reso al giudice Guido Salvini il 27 marzo del 1992 Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere. Da loro aveva saputo che Domenico Magnetta, sempre di Avanguardia Nazionale, aveva l’arma usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli. Un’arma che ovviamente aveva un potere di pressione, magari di ricatto… infatti Magnetta, stando alle dichiarazioni di Vinciguerra, minacciava di tirarla fuori se i vertici di Avanguardia Nazionale non lo avessero aiutato ad uscire dal carcere scomodando le loro amicizie.
Chi sono i nomi che Vinciguerra chiama in causa?
Domenico Magnetta, avanguardista poi passato ai Nar (i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Fioravanti), Adriano Tilgher, fondatore insieme a Stefano delle Chiaie di Avanguardia Nazionale e Silvano Falabella, sempre di Avanguardia Nazionale
La Beretta 7,65 è l’arma che ha ucciso Pecorelli. Vinciguerra riporta che Magnetta parla di una Beretta dello stesso modello che ha ucciso Pecorelli. E a Magnetta è stata sequestrata una Beretta . E’ stata fatta una perizia per comparare se si tratta della stessa arma?
L’avvocato Walter Biscotti, legale della famiglia Pecorelli, nella sua istanza, ha chiesto che si faccia una perizia. Probabilmente sarà fatta.
Poi c’è tutto il capitolo dei proiettili. Sono stati manipolati?
In aula, durante il processo di Perugia, il perito balistico incaricato di eseguire le prime due perizie, dichiarò di aver trovato la busta contenente i quattro proiettili lacerata nella parte superiore. Non più sigillata ma soltanto pinzata. E la cosa sorprendente è che i proiettili Fiocchi erano diventati tre e i Gevelot uno. Se non è manomissione questa!
Ultima domanda: ti sei fatta una idea possibile su chi potesse essere il mandante dell’omicidio?
Del mandante no ma dei killer sì.