“La Parola Contraria” di Erri De Luca

Erri de Luca (fondazioneerrideluca.com)

Erri de Luca (fondazioneerrideluca.com)

Erri De Luca a processo, secondo l’accusa della procura di Torino, per “istigazione a delinquere” per le parole pronunciate in una intervista all’Huffington Post del primo settembre 2013: “La Tav va sabotata (…) Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti”.

Parole ruvide, quelle dello scrittore napoletano, sull’opera della Tav, che lui ritiene, in solidarietà con la stragrande maggioranza della popolazione della Val Susa, “un’opera nociva e inutile”. Nociva a causa dell’amianto e del materiale radioattivo presente in quelle montagne.

Le parole sul “sabotaggio”, così, hanno fatto scattare la denuncia, alla magistratura di Torino, dell’azienda italo-francese che gestisce i cantieri Ltf. Il processo, iniziato il 28 gennaio, riprenderà a marzo.

Un processo che sta facendo discutere l’opinione pubblica europea e che ha suscitato la solidarietà di molti (vedi iostoconerri.net )

In questo suo libretto, dal titolo fortemente evocativo, la “parola contraria”, pubblicato da Feltrinelli (pag. 62 € 4) e che finora ha venduto più di 100 mila copie, spiega le sue ragioni e mette in evidenza la posta in gioco con questo processo:

“Nell’aula del Tribunale di Torino (…) non sarà la discussione la libertà di parola. Quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria”. Ecco il punto: in quel tribunale c’è in gioco il diritto di esprimere “la parola contraria”. Ovvero la parola di dissenso forte, detta anche con ruvidità, una ruvidità tipica di un uomo mite come Erri de Luca. Abituato per “mestiere” alla parola ruvida e contraria (dalla Bibbia ai classici).

Un uomo, per la sua storia personale, abituato ad andare in “direzione ostinata e contraria”.

E a questo riguardo a proposito di parole “ruvide” e di significati delle parole, scrive De Luca: «Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri di questo caso. Per esempio: uno sciopero, specialmente di tipo a gatto selvaggio, senza preavviso, sabota la produzione di un impianto, di un servizio. Un soldato che esegue male un ordine, lo sabota. Un ostruzionismo parlamentare contro un disegno di legge, lo sabota. Le negligenze, volontarie o no, sabotano. L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare… Se avessi inteso il verbo sabotare in senso di danneggiamento materiale, dopo averlo detto sarei andato a farlo».

E per rendere ancor più forte il senso della “parola contraria” e della sua potenza di “istigazione”, non a compiere reati ovviamente, ma a prendere partito per la giustizia , parla delle sue letture giovanili che lo hanno “istigato” a diventare quello che è. “Perché la letteratura agisce sulle fibre nervose di chi si imbatte nel fortunoso incontro tra un libro e la propria vita. Sono appuntamenti che non si possono prenotare né raccomandare. A ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro”.

Così per Erri De Luca è stato l’incontro con George Orwell e il suo “Omaggio alla Catalogna”, che è stato “il mio primo picchetto piantato di una mia tenda accampata fuori da ogni partito e parlamento”, e l’ha istigato a diventare anarchico. Una anarchia antica quella di De Luca, che si è alimentata degli scritti di Borges e di Shalamov, così come l’opera di Pasolini che “mi istigava a formarmi un’opinione in disaccordo con lui”.
“Se – continua De Luca – dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo” E cita il caso di Goethe, “I dolori del giovane Werther, e dell’autore della Marsigliese: “È istigazione presente nella Marsigliese, inno nazionale francese, il più bello che conosco. Incita alla guerra civile, a prendere le armi contro il tiranno. Fa da colonna sonora sottintesa di ogni insurrezione.
Claude Joseph Rouget de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denuncia per istigazione”.

Quindi l’istigazione della “parola contraria” serve a istigare ad un sentimento di giustizia che già esiste, ma che non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo. Perché la “ragione sociale” di uno scrittore è quella di farsi portavoce di chi è senza ascolto (“apri la tua parola al muto” dice la Bibbia).

Le parole non si processano, le parole si liberano!

Di questa resistenza civile ha bisogno la nostra democrazia, ancora di più in tempi cupi come i nostri.

Un “ritratto” del Subcomandante Marcos, l’ultimo rivoluzionario del XX° secolo.

images-1Di seguito pubblichiamo un ritratto e un pensiero dell’ormai, da qualche giorno, ex Subcomandante insurgente Marcos. Per ricordare quello che è stato tra i più colti e ironici rivoluzionari del XX secolo. Per vent’anni è stato alla guida dell’EZLN, l’esercito zapatita di liberazione nazionale. La sua lotta in Chiapas ha fatto sognare l’America Latina e colpito il mondo per la sua grande  cultura politica e letteraria. Un   uomo fascinoso, l’ultimo erede della tradizione rivoluzionaria dell’America Latina.

Un pensiero di Marcos

Noi siamo il volto che si nasconde per mostrarsi. Dietro il nostro passamontagna siamo gli stessi uomini e donne semplici e ordinari che si ripetono in tutte le razze, si dipingono di tutti i colori, si parlano in tutte le lingue e si vivono in tutti i luoghi. Gli stessi uomini e donne dimenticati. Gli stessi esclusi. Gli stessi intollerati. Gli stessi perseguitati. Siamo gli stessi voi. Dietro di noi stiamo voi. 
Dietro i nostri passamontagna c’è il volto di tutte le donne escluse, di tutti gli indigeni dimenticati, di tutti gli omosessuali perseguitati, di tutti i giovani disprezzati, di tutti gli emigranti picchiati, di tutti gli incarcerati per la loro parola e pensiero, di tutti i lavoratori umiliati, di tutti i morti di oblio, di tutti gli uomini e donne semplici e ordinari che non contano, che non vengono visti, che non sono nominati, che non hanno un domani. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di esseri umani che gridano ‘YABASTA!’ al conformismo, al non fare nulla, al cinismo, all’egoismo fatto dio moderno. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di piccoli mondi che assaporano un principio: il principio della costruzione di un mondo nuovo e buono, un mondo dove ci stiano tutti i mondi. – Subcomandante Marcos – (http://www.oocities.org/it/piazza_rossa/Pagine/Citazioni_marcos.htm

Un ritratto (per gentile concessione del sito: www.spondasud.it)

(Alessia Lai) – Ironico, dissacrante. Anche nel giorno dell’addio o, sarebbe meglio dire, del momento in cui riporre il “travestimento” nell’armadio. Il subcomandante Marcos, misterioso leader del Ezln, il movimento ribelle zapatista messicano del Chiapas, ha annunciato pochi giorni fa il suo passo indietro: non rappresenterà più il movimento. Non è la rinuncia di un capo. Capo non lo è mai stato né ha voluto esserlo, Marcos. Subcomandante, non comandante. Controfigura di un popolo. Questo è voluto essere. Ora, a 20 anni da una delle più affascinanti ribellioni del secolo scorso, quella nel Chiapas del 1994, l’ologramma della rivolta non serve più. Il corpo che incarnava quella rivolta rappresentandola al mondo ha esaurito la sua funzione: «Ci siamo resi conto che oramai c’era già una generazione che poteva guardarci, ascoltarci e parlarci senza bisogno di guida o leadership, né pretendere obbedienza (…) Marcos, il personaggio, non era più necessario. La nuova tappa della lotta zapatista era pronta». Con queste parole, il 25 maggio, l’uomo col passamontagna la cui identità non è mai stata scoperta, ha annunciato che «colui che è conosciuto come Subcomandante ribelle Marcos non esiste più».

Nel 1994 «un esercito di giganti, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo. Solo qualche giorno dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per guardarci; abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio che videro con un passamontagna, cioè, non vedevano. I nostri capi allora dissero: ‘vedono solo la loro piccolezza, inventiamo qualcuno piccolo come loro, cosicché lo vedano e che attraverso di lui ci vedano’».

Un passamontagna e un fucile, Marcos nasce in quel 1994, una «complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un gioco malizioso del nostro cuore indigeno; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione» ha ricordato il subcomandante. Un ologramma della rivoluzione, un fantasma. Impossibile da catturare, ferire, uccidere. Nell’ultimo messaggio ufficiale prima del congedo, nel suo abituale stile ironico e provocatore, il “fantasma” gioca ancora una volta con la sua stessa esistenza: «Quelli che hanno amato e odiato il  Subcomandante Marcos  adesso devono sapere che hanno amato e odiato un ologramma. I loro amori e i loro odi sono stati inutili, sterili, vuoti. Non ci sarà alcuna casa-museo o targa di metallo dove sono nato e cresciuto. Nessuno vivrà dell’essere stato il Subcomandante Marcos. Non si erediterà il suo nome né il suo incarico. Niente viaggi per tenere conferenze all’estero. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Nessun funerale, né onorificenze, né statue, né musei, né premi, niente di quello che fa il sistema per promuovere il culto dell’individuo e sminuire quel che fa il collettivo. Il personaggio è stato creato e adesso noi, i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Chi saprà comprendere questa lezione dei nostri compagni e delle nostre compagne, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo».

L’impersonalità della lotta. Questa la lezione di Marcos. Non finisce l’Ezln, non finisce la resistenza: «È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non sono necessari né leader né capi, né messia né salvatori; per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, una certa dignità e molta organizzazione, il resto o serve al collettivo o non serve». La bellissima «messa in scena» del subcomandante Marcos è finita, ma solo perché ha esaurito la sua funzione catalizzatrice. Marcos è stato la lente che ha concentrato in un punto le forze di una ribellione ignorata, con uno stile beffardo ha usato il “mito” del guerrigliero per accendere i riflettori sul Chapas e senza appiattirsi su un certo “internazionalismo ribelle da scritte per magliette”.

Esilarante e al contempo illuminante la polemica con l’Eta nel 2003 della quale è facile trovare tracce in Rete: modi diversi di intendere la ribellione e propagandarla al mondo. «Noi non prendiamo niente sul serio, nemmeno noi stessi» fu una delle frasi rivolte da Marcos ai baschi, irritati per una proposta zapatista di dialogo sulla loro questione. E, nella stessa lettera, in uno dei suoi famosi P.S. fu ben chiaro: «ALTRO P.S.: Forse è già evidente, ma lo ribadisco: me ne frego anche delle avanguardie rivoluzionarie di tutto il pianeta». Che dire, prendersi troppo sul serio è roba da fanatici. La leggerezza della lotta, la rivolta gioiosa, hanno avuto bisogno di un ologramma col passamontagna. Anche nel suo ultimissimo messaggio non ha rinunciato ai suoi P.S. ben sette. L’ultimo: «Ehi, è molto buio qui, ho bisogno di un po’ di luce». Una risata “rebelde” per il subcomandante.

(DAL SITO : http://spondasud.it/2014/05/subcomandante-marcos-lascia-guida-dellezln-ritratto-dellultimo-rivoluzionario-xx-secolo-1824 – anche l’immagine di Marcos è tratta dal medesimo sito)