È ora di cambiare stile. La lezione dell’ultima crisi di governo. Intervista ad Alfio Mastropaolo

Il governo Conte2 ha iniziato il suo cammino. Il cammino, come si è visto in questi giorni, non si presenta per nulla facile. Quanto influirà la scissione renziana? Lo stile dialogico del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, avrà la meglio sulla politica degli ultimatum di Di Maio? Matteo Salvini radicalizzerà ancora di più lo scontro? Di tutto questo parliamo , in questa intervista, con il politologo Alfio Mastropaolo. Mastropaolo è Professore Emerito di Scienza della Politica all’Università di Torino.

Professore, sono passati poco più di un mese, da quando Matteo Salvini ha aperto la crisi, per chiedere agli italiani “pieni poteri”. Nel frattempo è nato il governo Conte 2, Matteo Salvini è all’opposizione e Matteo Renzi ha lasciato il PD. Insomma una serie di novità non da poco. E stando così le cose non si prevede una navigazione troppo tranquilla per il Governo. È così professore?

Si possono tirare in ballo un mucchio di spiegazioni. Siccome i problemi sono ricorrenti, sono ricorrenti pure le spiegazioni. Tre mi vengono in mente più di altre, scartando quella, insulsa, dell’inadeguatezza delle nostre istituzioni. La frammentazione politica è la prima. Il deficit etico di una parte cospicua della nostra classe politica è la seconda. La terza è l’entità dei problemi da affrontare. Quando il materiale umano è scadente, non ci sono santi. Quando si pretende troppo è inevitabile il disastro. Non bastasse, tutte le classi dirigenti occidentali si trovano da tempo di fronte a sfide difficilissime: quadrare il cerchio, diceva Dahrendorf. Ovvero conciliare crescita economica, coesione sociale e libertà democratiche. A quanto pare, pochi paesi ci riescono decentemente. L’Inghilterra, eterno modello per chi ne sa poco, è lacerata da una crisi sociale di cui il Brexit è solo il sintomo. Ci sono proteste populiste e razziste per ogni dove, fin nella Scandinavia felix. Ovunque, ahimé, si prospetta il sacrificio (soft) alla crescita di due degli ingredienti di Dahrendorf. Gli investimenti in coesione sociale sono in declino da tempo, il malessere cresce e suscita reazioni scomposte, si ricorre perciò alle maniere forti è possibile e la libertà è messa in dubbio. Da qualche parte la crescita ha tenuto, ma mai in maniera brillante, e la Grande recessione ha fatto danno dappertutto. Quindi c’è pure il rischio che il sacrificio della coesione sociale e della democrazia sia inutile. La qualità del personale politico è ovunque in declino. Si usa la politica per fare affari, o per farli fare agli amici. Oppure per ambizioni personali. Chi potrebbe far meglio è scoraggiato e fa un altro mestiere. Con differenze tra paese e paese. Quelli che all’inizio di questo ciclo stavano meglio hanno seguitato a star peggio. Quelli che stavano peggio, per ragioni storiche, hanno seguitato col peggio. Non navigano. Ben che vada galleggiano. Si aggiustano coi mezzi di cui dispongono. L’Italia galleggia da troppo tempo, imbarca troppa acqua. Il brutto è che non sappiamo come rimediare.

Così in Italia tra prima e dopo le elezioni sono emerse tre ricette. La prima, non so come definirla, forse continuista e europeista, era quella condivisa, con qualche variante, dal Pd renziano e da Forza Italia: attenzione ai mercati e accondiscendenza verso l’Europa. Contro è apparsa la ricetta sovranista-xenofoba. La terza ricetta la chiamerei l’illusione civica: prendiamo l’uomo della strada e facciamo di lui il protagonista della politica e dell’azione di governo: moralità e buon governo seguiranno. Gli elettori hanno fatto le loro scelte, ma ne è risultato un pasticcio. Come cavarne una maggioranza di governo? I 5 stelle si sono alleati col sovranismo, hanno perso la loro pretesa verginità morale e hanno permesso ai sovranisti di fare alle europee l’en plein dell’elettorato conservatore e moderato. Finché in un delirio di onnipotenza il leader sovranista, ha rotto la coalizione e se n’è formata una nuova. Più omogenea politicamente? Non direi, quanto a gruppi dirigenti, ma forse si, per gli elettorati. Una larga fetta degli elettori a 5 Stelle proviene dal Pd. C’era ovviamente da fare i conti con la diversità del personale politico. Le frizioni erano scontate. I programmi non sono proprio gli stessi. Comunque, si è fatto un nuovo governo. Con un programma di fedeltà europeista, ma anche con qualche innovazione prodotta sia da alcune sollecitazioni pentastellate, sia da qualche ripensamento in favore della coesione sociale entro il Pd. Renzi si è fatto promotore dell’operazione, togliendo la scomunica ai 5 Stelle, per calcoli a tutti ben noti. Zingaretti, che mi pare un mediano di quelli all’antica, non l’ha contraddetto più di tanto, ha neutralizzato il suo gusto di fare il bastian contrario e ne ha ricavato qualche profitto. Adesso l’ego di Renzi fa di nuovo le bizze, ma siccome si tratta di ego, a mio modesto parere, e non di un progetto politico, è inutile provarsi a fare previsioni serie. Lasciamolo contrattare un po’ di nomine e andiamo alla sostanza.

Veniamo all’ultimo avvenimento, da alcuni atteso, da altri temuto: la scissione di Matteo Renzi. Leggendo l’intervista di Renzi al quotidiano “La Repubblica”, ho fatto fatica a trovare un dato politico che potesse essere credibile per una scissione. Ho trovato molto ego… Del resto siamo nel tempo del l’egolatria… Che idea si è fatto della scissione? E quale l’obiettivo di Renzi?

Premetto di non avere una passione per Renzi. Per me la politica è una cosa diversa dalla leadership, dal personalismo, dal seguito osannante, dalle suggestioni mediatiche, dai colpi ad effetto (che poi suscita il gioco di buttare giù il leader dalla torre). Figurarsi se può sembrarmi seria la pretesa di un partito “allegro e divertente”, con corredo di capo carismatico che decide per tutti. Resto dell’idea che la politica è gioco di squadra: siamo in tanti e decidiamo di unire le nostre forze per fare qualcosa insieme. Ciò non toglie che il gesto di Renzi riproponga un problema serio e di assai più ampie dimensioni. Quello della ristrutturazione mai compiuta del sistema dei partiti e delle culture politiche. La confusione imperversa addirittura dal 1989, quando la politica italiana fu sconvolta dalla caduta del Muro e dalla mossa di Occhetto. Più tardi si aggiungerà il collasso della Dc, del Psi, dei partiti laici. Che in quella fase di grande rimescolamento di carte la tradizione socialista, a suo modo interpretata anche dal Pci, potesse trovare un punto d’incontro col solidarismo cattolico, era ragionevole. Era pure plausibile immaginare una revisione, anche profonda, ma coerente con lo spirito del tempo, segnato dal neoliberalismo: è successo in tutte le formazioni di sinistra europee. Ma un incontro di culture politiche è una cosa seria, su cui discutere, da preparare. Invece è stata, come dicono in tanti, una fusione a freddo. Una chiamata alle armi contro Berlusconi, che intanto aveva ricomposto, senza neanche lui ristrutturare granché, il centro-destra: solo la sapienza politica della Dc era riuscita a dare un senso al moderatismo nazionale. La chiamata alle armi si è risolta in assemblaggio di cordate dirigenti in cerca di collocazione, con in più alcuni (gli ex-Pci/Pds) smaniosi di liberarsi di un passato di cui, chissà perché, dovevano farsi perdonare. Racconta bene la storia l’ultimo libro di Antonio Floridia (Un partito sbagliato, Castelvecchi, 2019). Ne è venuto fuori un nido di vipere. In testa al Pd c’è un ceto politico eterogeneo, che ha buttato a mare la cultura del partito in quanto libera associazione dei cittadini e che si è lasciata affascinare dalla fiaba del partito personale, del Berlusconi di sinistra che andava scoperto, senza un progetto sul futuro del paese, dai costumi politici molto eterogenei e per nulla presente nella società italiana. È un partito incapace di darsi una qualche disciplina. In assenza della quale è da ultimo apparso Renzi, il più lesto a profittare della confusione. Ora Renzi lascia la compagnia. Quale progetto politico incarni lo sa solo lui. Aveva cominciato con Blair per riconvertirsi a Macron: dalla destra della sinistra alla destra e basta, che per antica ipocrisia chiamano centro. Chi sta peggio comunque sono gli elettori di centrosinistra, ricordiamolo, che hanno trascorso quasi trent’anni sulle montagne russe. L’elettorato popolare, soprattutto. La parte più consistente proveniva dal Pci. Ha sopportato stoicamente anche una conduzione fallimentare del governo del paese (colpa più di Berlusconi che del Pd). Finché la crisi economica e politica è divenuta culturale e morale. E se ne sono andati. Si astengono, o votano 5 Stelle, qualcuno anche Lega. Più o meno allo stesso modo, tra personalismi e divisioni, si sono consumati i tentativi di aprire spazi a sinistra del Pd. Vediamo se il bravo mediano di cui sopra saprà fare il miracolo. Certo l’avversione a Salvini, come già a Berlusconi, è un ben misero movente. Il fatto che un ben po’ di renziani sia rimasto dentro non aiuta. Per carità, le conversioni in politica sono all’ordine del giorno. Ma con quale animo sono rimasti? Saranno leali e contribuiranno col loro punto di vista a un ripensamento del partito, o faranno da quinta colonna? Comunque, dalle difficoltà in cui versa il Pd non si esce con le manovre di corrente, ma, come sottolinea Floridia, discutendo, pensando, studiando e elaborando un progetto politico.

Veniamo a Matteo Salvini. Il leader leghista, nonostante la sconfitta parlamentare, riesce a mantenere alto il consenso. E la sua collocazione all’opposizione lo favorisce. Il pericolo Salvini è ancora reale…

La radicalizzazione della destra promossa da Salvini è un problema gravissimo. È una destra del tutto incompatibile coi valori della Costituzione. Già lo era quella di Berlusconi, che almeno non era brutale. Questa lo è verbalmente e anche un po’ materialmente. Come sempre, però, la questione è complicata, perché questa nuova destra ha una testa e ha pure un corpo. La testa è Salvini, che è un tribuno, con suo seguito di tifosi, che lui ha messo in scena e aizzato a Pontida animando uno spettacolo indegno. Il corpo sono i suoi elettori, che sono per lo più elettori moderati, che hanno tutto il diritto di esserlo, anche se non siamo d’accordo con loro. In larga parte trasmigrati dal grande seguito berlusconiano. Ci sono quelli che votano col portafoglio: che è una motivazione molto seria. Al netto della propaganda xenofoba, Salvini promette loro meno tasse e meno vincoli burocratici. È un’alternativa sgangherata a ciò che servirebbe davvero e che non si riesce a ottenere: amministrazioni e servizi più efficienti, semplificazione delle procedure, spesso insopportabili, un fisco più rigoroso, ma anche meno esoso. C’è poi una quota di elettori conservatori, che sono soprattutto impauriti e faticano a sopportare le novità. Bisogna capirli. Il livello medio d’istruzione è modesto. Spesso sono anziani. C’è un fondo provinciale, che mal sopporta il femminismo, i matrimoni omosessuali e molte altre novità. Da ultimo si aggiunta l’immigrazione, spregiudicatamente strumentalizzata da Salvini e dai media. A suo tempo questi ceti li curava la Dc, che riusciva a mescolare abilmente tanti temi. Più tardi hanno votato Berlusconi, che li abbacinava. Adesso si rivolgono a Salvini. Forse non si accorgono nemmeno del suo stile. Era un’idea cretina che, morta la Dc, si sarebbe costituita una destra moderata e magari liberale, che in Italia è sempre stata minoritaria. Un pezzo di questi elettori impauriti li curava in alcune regioni pure il Pci. Il Pd nemmeno ci pensa. Ora, questo elettorato c’è e bisogna occuparsene seriamente, anzitutto informandolo meglio. Se la televisione pubblica facesse il suo mestiere, si potrebbero smussare certi eccessi, controllare molte paure. Anche se il compito è difficilissimo. Non ci riesce nemmeno papa Francesco (che peraltro si porta appresso il ricordo del papato muscolare di Giovanni Paolo II). Della religione ormai ci si serve à la carte. Mi è capitato in una magnifica chiesa da queste parti. C’era un cortesissimo signore che ne illustrava con competenza le bellezze artistiche. Ha concluso evocando la battaglia di Lepanto. Li fermeremo un’altra volta. Cosa vuoi dire?

Con la scissione “fredda” Matteo Renzi diventa il terzo azionista della maggioranza… A Conte fischiano le orecchie?

Conte è venuto fuori alla distanza. Bisogna capirlo. Prendi un professore universitario, spero non si offenda, che, come gran parte degli accademici, ha scarso uso di mondo, o meglio di mondo politico. È rimasto frastornato. Intanto dall’io debordante di Salvini e poi dall’ingenuità maldestra di Di Maio, che cercava di tenere il passo. Lui in mezzo. Sarei molto curioso di sapere come ha vissuto quest’esperienza. Non era anzi mai capitato. Per un capriccio del caso uno che non c’entrava né punto né poco si è ritrovato capo del governo, che, dopotutto, è un ruolo gratificante. Mi sono chiesto più volte quando un signore palesemente di buona cultura avrebbe reagito alle provocazioni. Finalmente ha imparato, ha capito che il ruolo chiave conferitogli dal caso e si è mosso abilmente per utilizzarlo. Adesso dispone di una maggioranza più omogenea, con priorità programmatiche più compatibili. Certo, se Renzi la finisse coi capricci sarebbe meglio. La sfida è far funzionare un governo tra gente che si è presa a sassate e che sappia usare quei sassi altrimenti: a me è piaciuta la citazione del Talmud di Franceschini. Fare funzionare il governo significa affrontare le priorità del paese. Che sono drammatiche. Il debito pubblico è un handicap, comunque lo si consideri. Le imprese devono essere messe in condizione di reggere la competizione globale, i lavoratori vanno protetti, il Mezzogiorno sta affogando. C’è un ritardo mostruoso nell’istruzione, a tutti i livelli, che spiega anche certi atteggiamenti: c’è un pezzo di paese che ha dimenticato cosa fu il fascismo. Un buon governo dovrebbe riuscire nella quadratura del cerchio, alla Dahrendorf, ardua per i tedeschi, difficilissima per gli italiani. Niente è impossibile. È stato ricostruito un paese distrutto dal fascismo e dalla guerra mondiale. Suvvia. Non sono ottimista, ma mantengo un barlume di speranza. Spesso succedono cose che non ci aspettiamo. Tanto più se un segmento di opinione pubblica si mobilita, capisce quanto alta sia la posta in gioco e preme sulla politica.

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di legge elettorale proporzionale. Non trova che sia un rischio di ritorno al passato?

Come si fronteggia Salvini? Prosciugando l’acqua in cui nuota. Non la prosciugheranno mai tutta. Comunque, non confiderei troppo nel cambiamento della legge elettorale, che servirebbe solo a nascondere la polvere sotto il tappeto. Il Rosatellum, d’accordo, è una schifezza. Decidono tutto i partiti. Era frutto di un accordo sottobanco tra Berlusconi e Renzi finalizzato a un’intesa postelettorale, magari all’ombra della solidarietà europea tra popolari e socialisti. Solo che il diavolo, che è specializzato in pentole, non fa i coperchi. Ora questa legge elettorale rischia di consegnare il paese a Salvini col 40 per cento dei consensi. Eppure non può essere questo il solo motivo per cambiarla. Bisogna cambiarla perché è una bruttissima legge e una legge elettorale decente richiede che gli elettori quando votano si sentano almeno un poco ascoltati. Il paese ne ha gran bisogno. E qui il ragionamento si complica. Perché vorrei augurarmi che i 5 Stelle, che sono frutto della frustrazione degli elettori, si fermino un attimo a riflettere su questa a mio avviso dissennata decurtazione dei parlamentari. Che servirebbe a allontanare sempre più la politica dai cittadini. Per quello che vale, direi a Di Maio, basta con la politica degli ultimatum. Cambiamo stile, discutiamo. Le leggi elettorali che hanno sostituito la proporzionale hanno tutte promesso di assicurare la stabilità governativa, come sappiamo con modesto successo, nonché di rendere la politica più trasparente e di ravvicinarla ai cittadini. Basta col filtro della partitocrazia. In realtà, hanno tutte conferito ai partiti un potere enorme di selezione degli eletti. Insisto con modestissimo successo, vista la qualità declinante del personale politico. Ma anche senza precludere la frammentazione, come ha per l’ennesima volta confermato la secessione di Renzi. Tutte hanno soprattutto cambiato il modo di far politica e il rapporto con gli elettori. Secondo me peggiorandolo rispetto al tempo delle preferenze, che potevano essere contrastate in altro modo. I parlamentari d’oggidì frequentano poco o nulla i collegi, tanto il loro destino è deciso dal partito. Quando invece i parlamentari servivano proprio come tramite con gli elettori. Non sempre erano un tramite clientelare e perciò perverso, erano per lo più un tramite prezioso. Vivevano il collegio, lo frequentavano, parlavano coi cittadini, contrastavano il sentimento di distanza che la divisione del lavoro tra elettori ed eletti produce. Sa lei chi sono i suoi rappresentanti? La mia opinione è che una nuova legge elettorale debba per prima cosa porsi questo problema. Lo si può risolvere con la proporzionale, o con collegi uninominale di piccole dimensioni In ogni caso, serve un numero congruo di parlamentari. I quali forse costeranno, ma sono soldi, direi ai 5 Stelle, molto ben spesi. Questo insegna l’esperienza. Se si risolvesse il problema del numero, si potrebbe sdrammatizzare l’eterna querelle tra maggioritario e proporzionale. Non esageriamo. Ciò che conta davvero è la politica. Anche se, qualora si replicasse la formula maggioritaria, suggerirei di rivedere i quorum per l’elezione del Capo dello Stato e dei giudici costituzionali. Sono cariche di garanzia, che vanno condivise. Saperle condivise, rasserena l’atmosfera. Non possiamo finire come in Polonia o in Ungheria. Per il resto, mi lasci spezzare una lancia hic et nunc a favore del proporzionale. Finiamola di evocare la governabilità. È una menzogna, almeno in Italia. Siamo un paese composito e per vincere si creano coalizioni larghissime, che poi, lo si è visto, sono logorate dai ricatti tra partners. Oggi ancor peggio, perché la frammentazione politica non è più un problema solo italiano. I tempi sono difficili, il mondo cambia e viviamo in società sempre più diversificate. Che, come mi pare confermi la politica inglese, non si prestano a essere governate da uno schieramento politico magari maggioritario (ma non sempre) tra i votanti, ma minoritario tra gli elettori. Macron in Francia è il presidente di una minoranza, che per giunta l’ha scelto non per amore, ma in odio alla sua antagonista. Alla fine i gilets jaunes hanno messo a soqquadro il paese. In tempi difficili, serve aggregare. Si pagherà un costo in mediazioni, ma è conveniente sopportare anche questo, perché aiuta a governare. Serve tuttavia rivedere il modo di pensare la politica. Va messa in discussione l’idea del duello in cui uno vince, uno perde, chi vince è padrone assoluto, chi perde stia nel suo angolo. Mi spiace contraddire Prodi, che è una personalità che rispetto. Ma in questo a mio avviso si sbaglia. Il mondo è pieno di sfumature, rifugge i dilemmi semplici. Abbiamo bisogno di rispetto dell’altro, di dialogo, di compromessi. La democrazia, a conti fatti, è una cosa molto piccola. È conduzione pacifica della contesa politica. Nient’altro. Squalificare come inciucio una cosa nobile come il compromesso tra diversi è una mistificazione. Alla luce della quale il paese ha accumulato troppi fallimenti. Nulla abbiamo guadagnato col maggioritario, che ha semmai avvelenato la cultura politica del paese, l’ha polarizzata, l’ha incattivita, filtrando nella vita collettiva. È troppo chiedere alla classe politica di rifletterci sopra? Rino Formica evocava qualche settimana fa il pericolo di una guerra civile. La mia modesta convinzione che un proporzionale ben temperato, aiuterebbe a scongiurarlo assai più del maggioritario.

“Per durare il Conte2 dovrà creare un amalgama per la coalizione”. Intervista a Fabio Martini

Con il voto di ieri sera al Senato il governo ha ottenuto la Fiducia. Si conclude, così in modo imprevisto, la crisi politica scatenata da Matteo Salvini poco più di un mese fa. Quali sono i nodi politici dell’inedita coalizione “5 Stelle – PD”? Come si svilupperà la navigazione del “Conte 2”?
Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, il Conte 2 ha ottenuto la fiducia. Sappiamo quanto il parto sia stato complicato. A questo riguardo facciamo un passo indietro. La crisi nasce dalla decisione di Salvini di “capitalizzare il consenso elettorale” della Lega. E scatena la crisi dopo l’approvazione da parte del parlamento del decreto sicurezza 2 e della TAV. Due risultati positivi per la Lega. È un Salvini che ha il vento in poppa, euforico a dismisura (chiede i “pieni poteri”. E qui comincia il disastro…. La hubris si è manifestata con effetti imprevisti per lui: da dominus assoluto del governo si ritrova all’opposizione…. Cosa non ha funzionato nel calcolo di Salvini?
Il capo della Lega non ha fatto bene i conti con i numeri in Parlamento, con la volontà quasi disperata dei Cinque stelle di evitare la distruzione personale e politica di capi e parlamentari nelle elezioni, a quel punto imminenti. E non ha calcolato quanta poca presa il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, avesse sui propri gruppi parlamentari. Come si può notare troppi errori in una volta sola. Anche se un errore più degli altri, agli occhi di Salvini, deve risultare imperdonabile: non aver capito la psicologia politica dei Cinque stelle con i quali ha convissuto per quasi un anno e mezzo.

Stando agli ultimi sondaggi, per quello che possono valere, la Lega ha pagato il pegno per questo errore politico di Salvini: perde punti percentuali, così come la fiducia in Salvini diminuisce. Ti chiedo, è strutturale questo calo?
Nessuno può dirlo. Il calo c’è, ora Salvini tenterà di fermarlo. Magari attenuando la propria natura guascona. Non si può affatto escludere, come segnala il suo intervento in Senato, un profilo diverso: tosto ma non distruttivo. Certo, si proporrà come capo dell’opposizione. E curiosamente anche come punto di riferimento per i fautori di una democrazia governante. Se, come pare, torna il sistema proporzionale, la politica torna in mano a quattro capi, pronti a fare e disfare come meglio credono. Che Salvini riprenda la battaglia di Romano Prodi, di Mario Segni, di Achille Occhetto e del primo Berlusconi è un paradosso, uno dei tanti di questa stagione.

Veniamo al Presidente Conte, indubbiamente ha dimostrato abilità. È un nuovo Zelig o l’Italia ha scoperto un nuovo statista?
Un po’ Zelig lo è, ma nessuno come lui incarna come lui questa stagione così cangiante e così indifferente ad un minimo di coerenza. Nessuno meglio di lui, perché nei 14 mesi della prima stagione da presidente del Consiglio ha dimostrato di saper maneggiare bene la dimensione di governo, i dossier, la macchina amministrativa. Di statisti l’Italia ne ha avuti pochissimi e secondo qualcuno bisogna tornare a De Gasperi per trovarne uno degno di questo nome. E comunque sia chiaro: senza il decisivo appoggio di Sergio Mattarella, nelle ore del veto espresso dal Pd su di lui, Conte non sarebbe più a palazzo Chigi. Si scrive Conte-2, ma si legge Mattarella-1.

Parliamo di alcuni protagonisti di questa “pazza crisi”. Il governo “giallo-rosso” ha tanti “padri”. Incominciamo dalla “coppia” inedita: Gríllo-Renzi. Per motivi opposti hanno sbloccato il percorso. Ti chiedo : che ruolo giocheranno? Si dice che il premier Conte temi Renzi. Per te?
Beppe Grillo sembrava confinato nell’irrilevanza, ogni tanto emetteva le sue sentenze, ma nessuno dei suoi lo ascoltava più. E invece ha giocato un ruolo decisivo, nel far pendere la bilancia a favore del nuovo governo e contro, decisamente contro, gli orientamenti della Casaleggio e di Luigi Di Maio. Ora tornerà nel suo ruolo di profeta, con la  differenza che ogni volta che si sveglierà dal suo silenzio, gli altri saranno costretti ad ascoltarlo. Renzi ha compiuto quel che ogni politico dovrebbe avere nel suo vademecum: in ogni azione tentare di conciliare l’interesse generale e quello personale. Se ci fossero state elezioni anticipate, Renzi sarebbe stato ulteriormente ridimensionato. Ora può giocarsi la sua partita del partito moderato e decidere lui quando chiudere la legislatura. Da questa visuale, Conte dovrà scrutare sempre con la massima attenzione le mosse di Renzi.

Altra coppia inedita : Di Maio – Zingaretti. I due capi partito hanno giocato una partita parallela. Il risultato, forse mi sbaglierò, è che tra i due il più “caldo” nei confronti di questa esperienza governativa sia Zingaretti…. Di Maio è ancora “orfano” di Salvini?
E’ vero il più caldo appare Zingaretti, che inizialmente puntava ad elezioni anticipate. Ora si è “accomodato” bene nel nuovo scenario e lo incoraggia con aggettivi entusiastici, che oggettivaente stridono con gli anatemi e i “mai e poi mai” scagliati per mesi contro i 5 stelle. Il leader di un partito, una volta gettato il cuore oltre l’ostacolo e una volta entrato in un governo, non può che diventarne un paladino. Quanto a Di Maio, una volta escluso il fattore affettivo, di chi si potrebbe sentire “orfano” di un altro leader, la prossima decisione veramente strategica riguarda le elezioni regionali: se in una, o più di una delle Regioni dove si vota, i Cinque stelle accederanno ad un’alleanza organica col Pd, allora la mutazione genetica del M5s avrà segnato il passaggio decisivo: da forza anti-sistema a forza dentro il sistema. In un’alleanza di sinistra.

Uno sguardo alle opposizioni. Quello che emerge è una accentuata radicalizzazione sovranista del “centrodestra” (molto più destra che centro). Dove andranno i “moderati” di Forza Italia?
I moderati di Forza Italia confluiranno in una nuova formazione moderata, che si farà sicuramente ma non ha ancora contorni precisi

Pensi che questa radicalizzazione della Destra possa creare un nuovo bipolarismo?
Avremo un sistema a quattro poli, dunque diverso dal tripolarismo del post-2011: allora c’era il centro-sinistra, il centro-destra e il grillismo. Ora si va verso quattro poli: Pd, 5 stelle, nuovo Centro, destra-centro.

Comunque sia al di là dell’antisalvinismo, che non è sufficiente per creare una amalgama governativa (intesa come “anima”, “respiro”). Pensi che l’orizzonte europeo possa creare questo?
Anima e respiro se ne vedono pochi, siamo alla sopravvivenza pura. Per tutti. Certo, l’anti-salvinismo non basta, ma per ora non c’è Europa che possa aiutare: il coraggio se non ce l’hai, non te lo regala nessuno. E neanche lo spessore politico. Si navigherà alla giornata
Il premier Conte guarda al suo governo, come ad un governo di legislatura.

Proprio per la mancanza di una amalgama profonda non mancheranno le difficoltà di navigazione. Quando si manifesteranno?
Questo governo nasce per prendere tempo e per impedire a Salvini di prendersi il Paese. Probabilmente per arrivare all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica nel 2022, la ricetta “migliore” sarà quella di mettere in cottura il minor numero di cose possibile. Per non lacerarsi. Non decidere per durare.

Le elezioni amministrative in Emilia, Toscana e Umbria costituiranno un pericolo per il governo?
In Umbria il Pd rischia molto e se non ci saranno alleanze col M5s, una sconfitta in una Regione rossa non sarebbe un buon viatico per il governo. In Emila e Toscana i  rischi sono assai relativi per il Pd. Il governo? Molto dipenderà dalle alleanze Pd-M5s, che in troppi danno per scontate. Se ci saranno, il governo non rischierà nulla, se non ci saranno i rischi aumentano ma non di molto.

Chi rischia di più in questa esperienza governativa? Il PD o il M 5stelle?
Entrambi. Una ragione di più per abbandonare lo schema del precedente governo, ognuno con la sua bandiera e puntare invece su riforme condivise e non soltanto finalizzate al consenso breve.

“Il sogno di una ‘società aperta’ europea è ancora attuale”. Intervista  a Giulio Giorello e Giuseppe Sabella

 

Nel tempo del sovranismo è ancora possibile pensare ad una “società aperta”? Su quali valori si può ripensare una “società aperta” europea? Lo  abbiamo chiesto, in questa intervista, a due autorevoli interlocutori: al filosofo Giulio Giorello e al sociologo del lavoro Giuseppe Sabella. Giorello e Sabella  sono autori di un interessante saggio, appena uscito  nelle librerie: Società aperta e lavoro. La rappresentanza tra ecocrisi e intelligenza artificiale  (Ed. Cantagalli, Milano 2019, pag. 96).

Giulio Giorello | docente di Filosofia della scienza presso l’Università degli Studi di Milano. È stato Presidente della SILFS (Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza). Ha vinto la IV edizione del Premio Nazionale Frascati Filosofia 2012. Dirige, presso l’editore Raffaello Cortina di Milano, la collana Scienza e idee e collabora alle pagine culturali del Corriere della Sera.

Giuseppe Sabella | direttore di Think-industry 4.0, think tank specializzato in lavoro e welfare. Ha collaborato e collabora con diverse testate tra cui Il Sole 24Ore, il sussidiario e Start Magazine. È spesso ospite del TGCom24 e del sito internet di Rainews24 (www.rainews.it) in veste di commentatore economico ed è autore di diversi saggi sui temi dell’industria e del lavoro. Per Cantagalli dirige la collana nova industria.

Giorello e Sabella, il vostro saggio sulla “società aperta” e il lavoro nella 4 rivoluzione industriale, assume, per me, il significato di un interessante “manifesto” liberal (o, se volete, di liberalismo sociale) nel tempo del sovranismo imperante. Si può intendere in questo modo?

Si. Tanto per ricordare il celebre insegnamento di Luigi Einaudi, il pensiero liberale non coincide affatto con il liberismo economico che, in quanto tale, è in crisi. Ma non sono in crisi la tradizione e la società liberale, che a noi piace chiamare società aperta.

Veniamo ai contenuti del libro. Professor Giorello, nel libro si parla diffusamente di “società aperta” e del filosofo della scienza Karl Popper. A lei chiedo: quali sono i valori della società aperta che sono minacciati dal sovranismo?

Tutti i valori della società aperta sono minacciati dal sovranismo, a cominciare dalla libertà intellettuale dei singoli e dalla tolleranza. Per non dire di quei valori che stanno alla base della ricerca scientifica. E poi, come diciamo nel libro, la competenza, l’innovazione, la giustizia sociale, il pluralismo, la pratica del dissenso e, naturalmente, la laicità.

Professore, Il grande idolo dei sovranisti, Vladimir Putin, ha affermato che il liberalismo è finito. Condivide questo giudizio?

Chissà che prima o poi non si possa constatare che “finiti” sono i tipi come Putin!

Perché la lezione di Karl Popper può essere attuale in questo tempo?

Karl Popper è stato un critico particolarmente acuto del totalitarismo, nelle sue più diverse forme. La sua critica è stata radicale dal punto di vista di tutti coloro che insistono sull’autonomia della ricerca scientifica. Ricordiamoci che tale autonomia ci ha garantito i maggiori successi delle nostre condizioni di vita negli ultimi quattro secoli: dalle applicazioni tecnologiche più significative ai progressi dell’indagine medica. In particolare, nel tempo della grande trasformazione, la lezione di Popper è importante – soprattutto per un Paese come il nostro – perché ci aiuta a comprendere come bisogna andare incontro al cambiamento e all’innovazione. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, non abbiamo alcun bisogno.

Oggi è tornata di moda la “sovranità” : “prima gli italiani”, con tutti gli annessi e connessi. Quella dei sovranisti e dei populisti è rancorosa. In una visione aperta, qual è il senso della sovranità?

Per noi sovranità non può che essere sovranità dello stato di diritto. Il sovranismo attuale tende invece a calpestare la dignità della legge: non fosse altro per il culto e il ruolo più o meno spregiudicato del leader. In questo senso costituisce un tradimento della miglior tradizione europea, a cominciare da Montesquieu.

Sabella, nel libro si parla del lavoro e delle sue trasformazioni. Dal punto di vista antropologico come viene percepito il suo valore oggi?

Nell’epoca della grande trasformazione del lavoro e, al contempo, della sua precarietà (intesa anche come mancanza), il lavoro viene percepito prima di tutto come “bisogno”: se vi è oggi un rischio di alienazione questa consiste nel pericolo di essere ai margini della società perché esclusi dal lavoro oltre che, paradossalmente, nel ritrovarsi schiavi dello stesso. Oggi la schiavitù la vediamo da una parte nel fenomeno dei braccianti, ma anche in quei casi meno visibili di dipendenza dal lavoro, tipici delle alte professioni. Ecco perché è molto interessante ciò che ci arriva dalla tradizione greca: scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero.

Oggi è il tempo della 4 rivoluzione industriale, anche se sopravvivono elementi di fordismo, come si difende il lavoro in questo tempo del culto della flessibilità?

Purtroppo, ad oggi, si continua a giocare troppo in difesa, anche per l’effetto della grande crisi economica che – soprattutto in Paesi come l’Italia – è ancora crisi del lavoro. Istat ci dice che la disoccupazione è scesa a livelli record (9,9%) ma continua a crescere il cosiddetto “lavoro povero”, come emerge dalla recente rilevazione Inps: continua il trend negativo delle ore lavorate (-4,8%) ed è in costante aumento il part time involontario per il 20% degli occupati. In sintesi, cosa si dovrebbe fare per aggredire la situazione? Una forte politica per gli investimenti e un intervento di rafforzamento del potere d’acquisto delle persone.

 

Sabella nel libro trattate anche del sindacato. Come può essere protagonista nel tempo della disintermediazione?

Per come vanno le cose oggi, il protagonismo dell’azione sindacale più prossimo è nei luoghi di lavoro. La trasformazione del lavoro e lo sviluppo del welfare offrono possibilità importanti alle Parti sociali dal punto di vista contrattuale. È questo un terreno dove ancora non si registra una forte spinta ma è auspicabile che ci si convinca a fare di più. Per il resto, sarebbe interessante che il sindacato tornasse ad essere soggetto per lo sviluppo: è chiaro che, in questo senso, ne è coinvolto il livello confederale, ovvero la parte più ingessata del sindacato. Il dichiarato intento dell’unità sindacale è importante ma non basta.

Ultima domanda per entrambi: il sogno di una “società aperta” europea è ancora attuale?

Oggi più che mai. Come abbiamo scritto nel libro, la società aperta non coincide affatto con la “società liquida” su cui ha tanto insistito Zygmunt Bauman. La società aperta è una società che sa difendersi. Per questo oggi la sua dimensione non può che essere decisamente europea. E cosa vuol dire società che sa difendersi? Significa, in breve, una società che sappia individuare e bloccare i fanatici e gli intolleranti, di qualunque matrice ideologica siano, religiosa o politica. Contro costoro non sono certo efficaci quei quattro nostalgici del marxismo che riducono il pensiero di Marx e Engels a poche formulette che vengono ripetute senza un minimo senso critico.

“Solo un’Europa “keynesiana” salverà l’Italia”. Intervista a Giorgio Tonini

Ieri a Bruxelles sono stati definiti i “top job”, gli incarichi di vertice, della nuova Commissione Europea. Il quadro si è completato, oggi a Strasburgo, con l’elezione dell’italiano David Sassoli, parlamentare del PD, a Presidente del Parlamento Europeo. Quali sfide la nuova Europa dovrà affrontare? Quali conseguenze per l’Italia? Ne parliamo, in questa intervista con Giorgio Tonini. Tonini è Capogruppo regionale e provinciale del PD in Trentino.

Giorgio Tonini, dopo l’esperienza romana si è tuffato nella sua “patria di elezione”: il Trentino. Anche qui ha soffiato forte il vento leghista. Visto dal Trentino com’è il salvinismo? Quali contraddizioni stanno emergendo?

Giorgio Tonini (LaPresse)

Il “salvinismo” è una variante italiana dell’ideologia prevalente nella destra contemporanea,tendenzialmente populista e anti-liberale. Un’ideologia che si fonda su due elementi principali: la rivolta fiscale e il rifiuto degli immigrati. Entrambe queste posizioni hanno una motivazione strutturale, che va compresa e non semplicemente giudicata, in particolare da chi voglia contrastare il populismo. Nel caso della rivolta fiscale, la motivazione strutturale è la stanchezza degli italiani costretti da 25 anni ad accollarsi il peso di un significativo avanzo primario. In altre parole, da un quarto di secolo lo Stato italiano, al netto della spesa per interessi, incassa dai contribuenti più di quello che spende. È quindi comprensibile che una parte significativa del Paese possa essere attratta da una proposta politica che promette la restituzione, in tutto o in parte, di questo avanzo. Naturalmente resta il problema di come finanziare il debito e di come ridurlo. E questo è, nel medio termine, il vero, grande punto debole del salvinismo. L’altro elemento, più frequentato nel dibattito pubblico, è il rifiuto dell’immigrazione. Il modo disordinato col quale questo delicatissimo tema è stato gestito nella passata legislatura, prima del (tardivo) arrivo di Minniti al Viminale, ha contribuito non poco ad alimentare questo sentimento e il salvinismo che ha saputo cavalcarlo. Resta il fatto che una quota di immigrazione è indispensabile, per l’Italia che invecchia e non fa figli. Il problema è dunque come governare questo fenomeno, non come azzerarlo.

Voi trentini siete la patria di De Gasperi, uno dei tre padri fondatori dell’Europa. Ieri a Bruxelles, è nata la nuova Commissione. Si spera sia all’altezza della situazione drammatica. Le chiedo una prima impressione sulle nomine….
I “top jobs”, gli incarichi di vertice, in Europa vengono attribuiti sulla base di un complesso incrocio tra i rapporti di forza tra le famiglie politiche rappresentate al Parlamento europeo e le relazioni tra i governi nazionali nel Consiglio europeo. Cinque anni fa, questo incrocio aveva portato ad un accordo tra la Germania della signora Merkel, capofila della famiglia popolare, e l’Italia di Renzi, capofila di quella socialista e democratica. Questa volta, lo spazio aperto dall’indebolimento della Merkel e dall’uscita di scena del Pd, è stato rioccupato dalla Francia di Macron, capofila della componente liberale, uscita rafforzata dalle elezioni europee. Sulla carta, e nelle speranze di chi crede nell’Europa politica, questo esito dovrebbe consentire una ripresa e un rilancio della posizione federalista, in particolare sulla decisiva questione del bilancio dell’Eurozona. Ma si tratta pur sempre di una soluzione di compromesso e, al di là dei nomi, tutti di spessore e con una importante svolta “rosa”, non sappiamo ancora quasi nulla sui risvolti di tipo programmatico.

Fa impressione che l’Italia, che qualcuno ha definito come il “dottor Jekyll e il mister Hyde d’Europa”, sia stata accanto a Polonia e Ungheria contro un socialista amico dell’Italia (che poteva dare una mano sui migranti). Come giudica il comportamento italiano? L’Italia Riuscirà ad avere un vicepresidente?
Con le elezioni politiche del 2018 e quelle europee del 2019, l’Italia è entrata nel club dei paesi europei governati da una coalizione populista. Ed è quindi uscita dalla cabina di regia delle grandi famiglie politiche variamente europeiste (popolari, socialisti, liberali, in parte verdi), che per quanto indebolite sono ancora quelle che danno le carte nel grande gioco europeo. Non a caso l’unico “top job” conquistato dall’Italia è la presidenza del Parlamento europeo, assegnata a David Sassoli del Pd, in quota “socialisti e democratici”, dunque ad un’esponente di un partito che in Italia è all’opposizione. L’Italia della maggioranza populista si è cacciata da sola in un angolo. E certamente, bocciando Timmermans a causa del diktat di Salvini, ha perso la sua ultima, perfino inaspettata, occasione: quella di far parte della coalizione che eleggeva il Presidente della Commissione. A questo punto l’Italia avrà certamente un commissario europeo, vedremo con quale delega e se avrà o meno i gradi di vicepresidente. Ma sarà comunque in seconda fila.

Lei ha scritto, sul quotidiano trentino “l’Adige”, che nel prossimo Parlamento Europeo si scontreranno tre visioni dell’Europa. Quali sono e cosa rappresentano?
Schematizzando, le tre posizioni principali mi pare che siano quella degli “europeisti conservatori”, rappresentata dai popolari a guida tedesca; quella degli “europeisti federalisti”, liberali, socialisti e democratici, in parte anche verdi, guidati da Macron; e la galassia dei “sovranisti”, inglesi, italiani, est-europei. Quest’ultima componente, per quanto cresciuta elettoralmente, resta politicamente marginale, al massimo può condizionare, ma non determinare le decisioni politiche europee, che restano di fatto una risultante del rapporto negoziale tra conservatori a guida tedesca e federalisti a guida francese. I primi tendono a conservare lo status quo, perché sono quelli che ne hanno tratto maggior beneficio. In particolare i tedeschi hanno raggiunto un delicato equilibrio tra finanza pubblica sana, avanzo commerciale, crescita moderata e piena occupazione, che hanno una comprensibile ritrosia a mettere in discussione. Una più forte spinta alla crescita in Germania, come sarebbe auspicabile e anche prescritto dal Fiscal Compact, significherebbe infatti per Berlino aprire le porte ad una ancora più massiccia immigrazione, con tutti i rischi che questo comporterebbe. Diversa la posizione francese, che punta a guidare il gruppo di partiti e paesi che hanno interesse ad un’Europa più “americana”, nella quale il necessario risanamento delle finanze degli Stati sia reso sostenibile da una forte azione anti-ciclica, “keynesiana”, dell’Unione, attraverso la “Fiscal Capacity”, la capacità di bilancio, dell’Eurozona. Insieme ai francesi, gli italiani sono quelli che hanno il maggiore interesse al successo di questa linea politica. Il problema è che la maggioranza populista che governa e rappresenta in Europa il nostro paese ha collocato l’Italia su tutt’altra traiettoria…

Questo governo italiano è quello meno europeista della storia della repubblica. Epperò continua a chiedere flessibilità di bilancio. È giusto questo atteggiamento? Salvini dice: l’Italia è tra i maggiori contributori, ci diano quello che si spetta…
Questo è l’atteggiamento storicamente sostenuto dagli inglesi. “I want my money back!” Rivoglio indietro i miei soldi, diceva Margaret Thatcher. Questa strada ha portato il Regno Unito nel pantano della Brexit… Quanto alla flessibilità ne abbiamo avuta e continuiamo ad averne tanta. Ma la flessibilità serve a comprare tempo, non a risolvere il rompicapo italiano, fatto di alto debito, forte avanzo primario e bassa crescita. Noi abbiamo bisogno di un motore europeo (il bilancio dell’Eurozona) che spinga sulla crescita. Solo in questo modo possiamo portare l’avanzo primario ad un livello tale da ridurre il debito, senza contraccolpi sul piano sociale e politico. Ma se non è stato capace il Pd di spiegare questa elementare verità agli italiani e di aggregare su questa piattaforma il consenso necessario, come si può sperare che lo facciano i populisti?

Sfioriamo, per un attimo, il tema del PD. Rispetto alla volta scorsa i numeri sono dimezzati. C’è la possibilità di avere un ruolo?
L’elezione di Sassoli dice che il Pd è ancora in gioco in Europa. Per me questa è una notizia molto importante, perché credo che il Pd potrà tornare a vincere in Italia solo se riuscirà a porsi tra i protagonisti di un cambiamento in Europa. Come ho già cercato di dire, la soluzione del rompicapo italiano (per ridurre il debito dobbiamo mantenere, anzi aumentare l’avanzo primario, ma gli italiani non ne vogliono più sapere di fare l’avanzo primario più grande d’Europa; e d’altra parte se smettiamo di fare avanzo primario il debito diventerà insostenibile…) può arrivare solo da una svolta “keynesiana” dell’Europa. Il Pd deve intestarsi questa battaglia e selezionare gli alleati in Europa sulla base di questa discriminante. Se riusciremo a fare questo, disporremo di un’alternativa praticabile e convincente per il Paese, quando l’attuale coalizione populista andrà in crisi.

Il cuore nero di Brescia.Intervista a Federico Gervasoni

 

Sempre più la cronaca ci racconta un fenomeno, molto preoccupante: la presenza di gruppi neofascisti nella provincia italiana. E’ il caso, ad esempio, di Brescia. Città antifascista per eccellenza, vittima di un criminale attentato, nel 1974 a Piazza della Loggia (8 morti e oltre 100 feriti), ad opera dei neofascisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Anche in questa città si sta sviluppando questo preoccupante fenomeno. Un giovane, e coraggioso , giornalista bresciano ha indagato a lungo sui neofascismo della città e della provincia. Il suo nome è: Federico Gervasoni. Per le sue inchieste è stato minacciato pesantemente da esponenti neofascisti. Federico, cui va la nostra solidarietà, ha pubblicato un libro-inchiesta su questo fenomeno, uscito da poco nelle librerie:Il cuore nero della città. Viaggio nell’antifascismo bresciano (Ed. liberedizioni). In questa intervista ci parla del suo libro. 

Federico, parliamo un po’ di te: sei giovane, quando ti è nata la passione per il giornalismo? 

Ho cominciato nell’estate 2010, avevo diciotto anni. Tutto è nato dalla voglia di far emergere le vicende poco raccontate e in aggiunta da una forte passione trasformata successivamente in professione. Certo, a distanza di tempo dall’inizio, i sacrifici sono ancora molti, essendo io un professionista freelance, vivo dei pezzi che scrivo, lontano dalle redazioni.  

È molto importante il legame che crei tra essere antifascista ed essere giornalista. Perché, per te, questo legame è così forte? 
 

Ha influito sicuramente ciò che ho studiato e imparato nel tempo. Mi sono diplomato nove anni fa al liceo Veronica Gambara, la cui meravigliosa biblioteca è dedicata a Clementina Calzari Trebeschi, la professoressa di italiano rimasta uccisa a 31 anni il 28 maggio 1974 nella strage nera di piazza della Loggia. Oggi Brescia è città medaglia d’argento per l’eroica resistenza al nazifascismo.  

Una piccola variazione sul tema: vedi messo in pericolo, nella coscienza degli italiani, l’antifascismo? 

Il problema sta nel fatto che gli stessi antifascisti si sono praticamente estinti. La cultura civile contro ogni forma di totalitarismo è sparita mentre i ha assistito a una vasta diffusione di un’ignoranza di massa. Mi preoccupa per di più chi davanti a certi episodi di violenza si volta dall’altra parte senza denunciare. A Brescia e in provincia, il neofascismo è evidentemente presente, chi ne racconta, dà molto fastidio.  
E il mondo giovanile, dal tuo osservatorio, su questo punto (dell’antifascismo), come lo vedi? 

Per ciò che ho potuto constatare in questi ultimi anni, il mondo giovanile è poco attratto dalla politica contemporanea. Non so se si tratti di una reazione dovuta a un sentimento di sfiducia generale.  

Parliamo del tuo libro – inchiesta. Un libro importante e interessante. Un libro che ci offre la mappa (nel senso proprio dei luoghi) e dell’azioni criminose del neofascismo bresciano. Prima vorrei chiederti : come è possibile che, a Brescia, città antifascista per eccellenza, che è stata vittima di un criminale attentato, la tua città tolleri una presenza sempre più preoccupante sotto molti punti di vista? 

Il discorso è più ampio. In Italia, da diverso tempo i fascisti hanno rialzato la testa. Sono infatti alla ricerca di una legittimazione da parte dell’opinione pubblica e in parte ci sono riusciti, riaffermando le proprie idee sia nelle piazze che sul web. Il nuovo fascismo si esprime in modo disomogeneo con forme nuove rispetto a ciò che la storia ci ha raccontato sebbene le idee siano le stesse. Davanti a ciò, da giornalista mi sento in dovere di informare i lettori, ovvero i cittadini, dal rischio che questo fenomeno può causare per la nostra democrazia.  
Sappiamo, invece, che la provincia ha atavici legami con il neofascismo. È così? 

In provincia ci sono una miriade di piccoli partiti, gruppi e associazioni che si differenziano da CasaPound e Forza Nuova anche per aspetti minimi. E se molti di loro nemmeno si presentano alle elezioni, a preoccupare sono invece i singoli episodi di violenza registrati. Ho detto registrati, perché l’elenco si arricchisce anche di pericolosi e controversi episodi mai denunciati.  

Approfondiamo alcuni aspetti del libro, per esempio c’è l’incredibile e preoccupante vicenda della ricostituzione del famigerato gruppo fascista Avanguardia Nazionale, con la presenza di Stefano delle Chiaie. Come è stato possibile? 

Avanguardia Nazionale si è ormai ricostituita da quasi tre anni nella più assoluta indifferenza. I dirigenti sono rimasti gli stessi, compreso il capo Delle Chiaie. Inoltre, a fare impressione sono i volti dei giovani. Abbiamo infatti tre generazioni diverse, tutte riunite sotto la stessa bandiera, quella di un’organizzazione neofascista sciolta per legge nel 1976.  

Chi sono i gruppi protagonisti del neofascismo bresciano? Che tipo di azioni hanno compiuto? 

Oltre ai già citati Forza Nuova e CasaPound, c’è una componente bresciana chiamata Brigata Leonessa e legata a Veneto Fronte Skinheads (blitz naziskin a Como, 28 novembre 2017) che proprio lo scorso settembre è rimasta coinvolta in un’aggressione ai danni di altri giovani nel centro storico di Brescia.  

Dove avviene il reclutamento giovanile: negli stadi? Anche sul Web? 

Spesso il calcio viene utilizzato come pretesto per costruire una rete di violenza più ampia. Sia le curve degli stadi che i concerti d’area sono entrambi terreni molto fertili per la costruzione di nuove leve mentre sui Social si moltiplicano le pagine dove si incita all’odio e alla violenza in nome dell’ideologia. Soltanto su Facebook sono centinaia le pagine che fanno propaganda fascista. Per questo propongo di aggiornare le leggi Scelba e Mancino in era digitale.  

Vi sono alleanze e azioni concordate con gruppi di altre città? 

A livello calcistico assolutamente sì. Nonostante Hellas Verona e Brescia siano divisi dai colori e da una rivalità storica, ci pensa l’estrema destra con Forza Nuova e Veneto Fronte Skinheads in testa a mettere tutti d’accordo. A dimostrazione che dove il pallone separa, l’ideologia (nera) unisce.  
 

La tua città come sta reagendo? 

Io penso che Brescia non abbia bisogno di queste cose. Brescia è diventata nel tempo la città dell’accoglienza e non dello scontro. Ciò che oggi più mi preoccupa e mi riferisco ai reduci delle cene di Avanguardia Nazionale è vedere delle persone che pur avendo vissuto in prima persona le violenze e il dolore degli anni Settanta esaltano oggi le proprie gesta senza fare una dovuta riflessione. Trovo questo concetto assolutamente preoccupante perché ci riporta indietro nel tempo e finisce per mettere in discussione i principi della convivenza civile. Personalmente ho ricevuto tanta solidarietà dalla sezione provinciale dell’Anpi, una delle pochissime realtà rimaste a vigilare sui rischi del neofascismo. Ringrazio inoltre i miei colleghi che mi sono stati vicini nei momenti più difficili.  

Pensi che tutto questo sia figlio di un clima politico, a livello nazionale, che ha sdoganato atteggiamenti xenofobi di chiusura verso il diverso? 
 

Certamente. In particolare, la banalizzazione dell’estremismo nero. Il nostro ministro dell’Interno Salvini, dopo aver allontanato la Lega dal Nord, ha permesso ai fascisti del terzo millennio di CasaPound di avvicinarsi e ad alcuni persino di confluire. Bossi, da antifascista convinto, non avrebbe mai tollerato questo comportamento.  

Ultima domanda : per il tuo lavoro di inchiesta hai ricevuto minacce, intimidazioni pesanti. Continuano? 

Le intimidazioni e le minacce sono un aspetto che considero poco piacevole del mio lavoro ma che al tempo stesso non mi turba. In Italia, chi si occupa di estrema destra, sa che non avrà vita facile. Ad esempio, penso al collega di Repubblica Paolo Berizzi (attualmente sotto scorta). La maggior parte dei gruppi neofascisti, da sempre adottano infatti il metodo di delegittimare e denigrare chi ne scrive. Nonostante l’età (ho ventotto anni) e la mia condizione di giornalista precario non voglio assolutamente fermarmi.