“L’identità cristiana, in politica, è quella della compassione e dell’accoglienza”. Intervista a Padre Francesco Occhetta SJ

Padre Francesco Occhetta (Twitter/@OcchettaF)

Cosa significa per un cattolico fare politica nel tempo del sovranismo leghista? E’ “cattolicesimo” quello della Lega? Questi sono, essenzialmente, gli interrogativi che l’opinione pubblica cattolica si sta ponendo dopo il voto delle Europee. Ne parliamo, in questa intervista, con un autorevole commentatore della politica italiana: Padre Francesco Occhetta, gesuita e Scrittore della prestigiosa rivista “Civiltà Cattolica”.

Padre Francesco, in questi ultimi mesi (quelli della campagna elettorale), hanno fatto discutere l’opinione pubblica alcuni gesti eclatanti di Matteo Salvini. Mi riferisco all’ostentazione del rosario in piazza duomo al termine del suo comizio elettorale. Per molti osservatori cattolici, ma anche laici, si è trattato di un gesto fuori Luogo e strumentale. Molto severo il giudizio del Cardinale Bassetti, presidente della CEI. Cosa c’è dietro quel gesto?

Si nasconde una strategia comunicativa che ha almeno tre obiettivi: rivestire il potere di sacro; utilizzare l’identità religiosa per escludere chi rimane fuori; far credere che basta il medium, l’oggetto, per testimoniarne con la vita il senso e il significato. Invece nel Vangelo il potere è servizio agli ultimi; il termine cattolico significa universale; la vita di fede si misura sulla coerenza tra le parole dette e la testimonianza vissuta. A riguardo è già stato detto tutto e comunque Salvini non ha vinto per questo.

Nel “Pantheon” della Lega ci sono “devozioni” e riti pagani sul Po (la cerimonia dell’ampolla con l’acqua del fiume), il giuramento di Pontida. Adesso ci sono aggiunti il Rosario e il Cuore immacolato di Maria. Un sincretismo blasfemo oserei dire. Padre Francesco a me sembra un “neo paganesimo”. Per lei?

Si tratta di un politeismo nato negli anni Novanta con Bossi che giustappone segni diversi con un significato univoco, simile a quello degli amuleti. I segni cristiani vengono utilizzati fra gli altri nella costruzione politica di un’identità religiosa etniconazionale, basata sulla contrapposizione tra un «noi» ideale (i padani prima, gli italiani oggi) e un «loro» da respingere (quelli «dal Po in giù» prima, gli immigrati oggi, gli europei domani ecc). È un modo di fare antico che io ho conosciuto in America Latina da molti predicatori protestanti di alcune correnti radicali.

Questa specie di “cattolicesimo identitario” (con forti venature reazionarie e xenofobe), che ha la benedizione dei circoli sovranisti europei, può costituire un pericolo per la missione della Chiesa?

Una preoccupazione, più che un pericolo. Quando si ha paura di costruire nuovi mondi – come per esempio l’Europa multiculturale – riaffiorano linguaggi identitari come quello di Trump negli Stati Uniti d’America, di Bolsonaro in Brasile, di Orban in Ungheria. L’alternativa è quella testimoniata da cattolici come De Gasperi e Moro, Dossetti e La Pira e molti altri che hanno costruito la democrazia compiendo una scelta diversa: quella dell’inclusione e della dignità, della solidarietà e, soprattutto, della laicità. Laicità che non è negazione né neutralità del proprio credo nello spazio pubblico, ma ascolto, condivisione, incontro e dialogo con le altre culture. Occorre scegliere tra inclusione ed esclusione; tra il nuovo mondo e il vecchio.

Veniamo al voto dei cattolici italiani. Recenti analisi sociopolitiche affermano che molti cattolici hanno votato Lega. Questo pone drammatici interrogativi. L’operato della Lega sul piano dell’accoglienza dei più poveri (dai migranti ai Rom) è quanto di più lontano ci sia dal Vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa. Come spiega questa dissociazione? C’è un criterio imprescindibile su cui valutare una Proposta politica?

Alcune ricerche dicono che su 100 cattolici praticanti, 16 hanno votato Lega, 13 Pd, 5 FI, 7 M5S mentre 52 non hanno votato. È anche questa enorme fascia di popolazione che occorre rimotivare a partecipare alla vita politica. La Lega non ha vinto solamente per il tema dell’accoglienza ma anche per temi lontani da Bruxelles, come la flat tax, il decreto sicurezza bis ecc. Anche la comunicazione politica, basata sul made in Italy e sui simboli identitari, ha mortificato il logos del discorso politico ed esaltato il pathos: le paure hanno prevalso sulle speranze, le credenze sulla realtà, le parole forti su quelle da condividere. L’area moderata italiana è orfana di una forza politica e popolare che invece esiste nel Parlamento europeo.

Il protagonismo del “laicato cattolico” non è molto esaltante. Le cause sono tante e non le affrontiamo. Resta sul tappeto la questione del “che fare?” Di fronte ad una società incattivita, come molti episodi delle nostre periferie stanno a dimostrare, in cui si enfatizza “il prima gli italiani”, c’è bisogno di una “contronarrazione” alternativa. L’unico che riesce a scalfire il muro dell’indifferenza è Papa Francesco. Ma quanto importa ai cattolici italiani la parola di Francesco?

La responsabilità del Papa e della Chiesa è essere voce della coscienza sociale che distingua il bene dal male e le scelte umane da quelle dis-umane. Saremo minoranza? Il lievito conta come la farina. Questo tipo di presenza è liberante, conta come si vive e non ciò che si dice ed include l’obiezione di coscienza quando il potere non è al servizio degli ultimi. Se i media e i social moltiplicano il “cattivismo”, l’alternativa non è il buonismo, ma la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). È la parola di Dio a ispirare l’agire politico del credente impegnato in politica con pagine luminose, come il capitolo 10 del Vangelo di Luca, in cui un samaritano, mosso dalla compassione, si ferma a curare un giudeo ferito, sebbene la sua cultura lo consideri un nemico; o come il giudizio finale nel Vangelo di Matteo, dove risuonano le parole di Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Ultima domanda: per l’Europa è arrivato il tempo di rinnovarsi. Qual è il contributo che può portare la Chiesa cattolica al rinnovamento del sogno europeo?

Difesa e sicurezza, crescita e occupazione hanno bisogno di più sovranità europea e di meno sovranità nazionale. Nel mondo stanno sorgendo sfide così grandi che si vincono solo con un’Europa più forte. Non esistono soluzioni locali a problemi transnazionali in materia di lavoro, ambiente, immigrazione, rapporto uomo-macchina, big data e così via. Certo, il voto europeo, allontanandoci dall’Europa, determinerà per il Paese un isolamento politico. Il Paese è però pieno di risorse, competenze, creatività. Più di 800mila giovani hanno fatto l’Erasmus e l’Italia silenziosa è da sempre europea. Più che preoccuparsi di bloccare chi arriva, bisognerebbe avere a cuore gli italiani che emigrano, 128 mila nell’ultimo anno tra cui 24 mila minori.
La Chiesa è chiamata a formare persone che in tempo di crisi progettino il mondo che verrà attraverso il binomio cultura-spiritualità. Lo aveva fatto Benedetto attraverso la rete dei monasteri. Lo ha voluto Ignazio di Loyola, che alla Sorbona di Parigi riuscì a mettere insieme un gruppo di religiosi di Paesi in guerra tra loro. Continua a crederci il Papa, che all’Europa chiede di tenere a cuore la dignità di tutte le persone per non smarrire il senso che l’ha fondata.

 “Il PD non è pronto per essere l’alternativa”. Intervista a Marianna Aprile

Funziona la strategia di Zingaretti? Calenda quale partita gioca?

Queste e altre domande, sul Partito Democratico, abbiamo posto, in questa intervista, a Marianna Aprile, cronista politica del settimanale “OGGI”.

Marianna Aprile, il PD alle Europee, e anche alle amministrative, ha fatto un risultato dignitoso. Come possono essere giudicati questi segnali di ripresa?

«Credo sia avventato leggere i recenti risultati elettorali del Pd come veri segnali di ripresa. Lo sarebbero se fossero stati frutto di una strategia e di una visione che al momento nel Pd non mi sembrano ancora emergere con chiarezza. Tantomeno con unità d’intenti, considerato il rinfocolarsi delle crepe interne al partito. Che quello delle Europee sia stato un motivo di gaudio effimero lo dimostrano in fondo proprio gli esiti delle amministrative, dove il Pd ha perso città da sempre amministrate, oggi in mano al centrodestra. Per avere un quadro della situazione basta cercare di rispondersi, con onestà, a una domanda: quanto del rivendicato successo di Livorno, con la riconquista del comune dopo il quinquennio pentastellato di Nogarin, è merito del Pd e quanto è invece il frutto del malcontento per la precedente amministrazione? Che poi significa chiedersi se il Pd sia stato in grado di proporsi come alternativa credibile o se non abbia semplicemente incarnato il male minore. Non mi pare che il Pd si stia facendo questa né (molte) altre domande».

A Bologna, durante la festa di “Repubblica”, Zingaretti ha riaffermato che il PD è l’alternativa alla Lega (o più in generale al sovranismo). Vuole essere un partito inclusivo, che parte dalle periferie. Eppure nella “pubblica opinione” si dice spesso che manca una “contro narrazione” al salvinismo… Ovvero c’è un problema di identità. È così? Quali potrebbero essere i punti, oltre ad un approccio umano alla immigrazione, identificativi della contro narrazione? 

«Se davvero vuole sostenere una vocazione maggioritaria credibile, il Pd non deve chiedersi cosa vuole essere in relazione al sovranismo o a Salvini, ma cosa vuol essere. Punto. Cosa vuole diventare da grande. Pensare di costruire un contro-narrazione al salvinismo significa ammettere di non riuscire a uscire dal campo in cui Salvini ha inchiodato il discorso pubblico e l’agenda politica. Che è un campo figlio di una visione distorta e propagandistica della realtà, in cui gli immigrati sono una minaccia, nessuna integrazione è percorribile, la difesa “è sempre legittima” e via salvinando. Per essere inclusivi, per aprire agli altri, bisogna sapere chi si è. E credo che il Pd, con le sue molte anime e i suoi molti malanimi interni, non sia in grado oggi di rispondere a questa domanda. Nessuna identità credibile (e quindi nessun allargamento a sinistra o al centro o su Marte) può essere costruita se non a partire dalle risposte ad alcune domande. Di cosa parliamo quando parliamo di Pd? Per esempio: il Pd di Zingaretti è davvero disposto a difendere le politiche di Marco Minniti sull’immigrazione? Davvero non c’è nulla di sbagliato nel jobs act, neanche l’abolizione dell’articolo 18, cioè di una tutela, in nome di una flessibilità incompatibile con l’immobilismo del nostro mercato del lavoro? Lo ius culturae è ancora una priorità o è un altro di quegli argomenti che si tirano fuori quando si vuol solleticare o sollecitare l’elettorato deluso più a sinistra? Si vuole davvero lasciare alla pantomina ambientalista dei Cinquestelle un tema, l’ecologia, che dovrebbe essere il perno attorno al quale si può legittimamente (e concretamente) costruire un’idea alternativa di paese?».   

Quanto pesa ancora il renzismo nel PD?

«In barba agli annunci secondo cui si sarebbe comportato da “senatore semplice” e avrebbe fatto il bene del partito, le uscite di Renzi contro Letta e Speranza – solo per citare le ultime, a RepIdee a Bologna – e le sue “riletture creative” della stagione di cui è stato protagonista (e, direbbe erroneamente lui, vittima) dimostrano che il renzismo nel Pd è ancora un tema enorme e ineludibile, se si vuole rilanciare davvero il partito. In parte, è un atteggiamento anche giustificato, visto che la rappresentanza parlamentare del Pd è ancora a trazione renziana, diciamo così. Ma alla luce del fatto che Renzi e i suoi si comportano come un organismo a se stante che non perde occasione per rimestare antichi livori (talvolta con esiti e stravolgimenti al limite del grottesco) ha davvero senso accettare di rimanere inchiodati a quella fase? Lasciarsi logorare dall’interno e magari poi assistere alla creazione di un partito di Renzi fuori da un Pd ormai in macerie?».

Gli anni di Renzi, anni spregiudicati della cosiddetta “rottamazione”, spesso, nell’ultima fase sono stati anni di un “garantismo largo”. Ecco non sarebbe il caso per Zingaretti, alla luce degli ultimi avvenimenti che investono il CSM, un certo rigorismo? Come giudichi la posizione del PD su questa vicenda?

«Per ribaltare un modo di dire, sul Caso Csm Zingaretti (e il Pd) hanno perso una buona occasione per parlare. L’ennesima. Quali che saranno gli esiti giudiziari della vicenda Lotti-Palamara, su cui è legittimo avere un approccio garantista, ci sono dati politici evidenti che non possono essere trascurati in generale, ma ancor di più se si millanta di essere in una fase ri-costituente del partito e delle proprie coordinate. Davvero il Pd non ha nulla da dire su quanto stiamo leggendo sull’ex sottosegretario Lotti? Sul presunto nesso tra l’abbassamento dell’età della pensione dei magistrati e la successione di Giuseppe Pignatone a capo della Procura della Repubblica di Roma? Non è una questione di garantismo o rigorismo. È una questione politica. E, fatto non secondario, una questione di comunicazione: sono giorni che si scrive di questi rapporti opachi tra Lotti, Palamara e altri e il silenzio del Pd ha il solo effetto di avallare anche le letture più maliziose e strumentali dei fatti. I motivi del silenzio possono essere due: o si tace perché si pensa che quelle accuse siano fondate, o si tace perché si pensa che qualsiasi cosa si dica possa diventare un’arma nelle imperiture guerre intestine del Pd. In entrambi i casi, si tratta di un silenzio che indebolisce e mortifica ogni intento riformatore del partito».

Veniamo alle prospettive politiche. Zingaretti vuole costruire un centrosinistra largo. C’è un modello vincente, voglio dire convincente, è il modello “Milano”. Però sappiamo che Milano, in molte cose, è distante dal resto di Italia. Sala e Calenda possono essere le sintesi di questo centrosinistra largo?

«Milano è un’eccellenza e può sicuramente essere guardata come un successo. Ma sarebbe miope pensare di “esportare” il cosiddetto Modello Milano. Non solo perché anche in quello di zone d’ombra ce ne sono e ce ne sono state molte, ma perché semplicemente – come notavi – l’Italia non è Milano. Per una serie di ormai pluridecennali congiunture storiche, economiche, sociali, chi vive lì non rappresenta la media nazionale. Non dico siano migliori o peggiori del resto d’Italia. Dico che funzionano oggettivamente in modo diverso. E un partito che voglia allargare il proprio consenso e il proprio campo di appartenenza non può pensare di avere come interlocutori 60 milioni di milanesi, perché non esistono. Esistono le province con i loro problemi, esistono le periferie delle grandi città (anche di Milano), esistono le isole. Detto questo, difficile dire se Sala e Calenda possano davvero incarnare una sintesi del centrosinistra allargato, né in che termini e con quali ruoli, perché nessuno dei due ha ancora ben chiarito le proprie reali intenzioni e ambizioni. E in assenza di chiarezza dei diretti interessati, considerate a fluidità della scena politica italiana e la rapidità con cui cambiano gli scenari, fare previsioni rischia di essere un esercizio di stile destinato alla smentita».

Se è “largo”, il Centrosinistra, deve parlare anche a Maurizio Landini (che in questo periodo si è fatto più pragmatico) e a Fratoianni. È facile?

«Il Pd dovrebbe chiedersi se Landini e Fratoianni vogliano o no parlare con lui, piuttosto. No, non è facile. Per i motivi e gli scivoloni di cui sopra. Non è facile ma non è impossibile. Temo però ci vorrà tempo, la ricostruzione di una identità (e la conseguente definizione di un progetto credibile) è un processo necessariamente lento».

Parliamo per un attimo di Calenda. È sicuramente un talento politico. Il punto qual è: Lui, iscritto al PD, vuole costruire un “soggetto” moderato alleato del PD. Francamente non mi è chiara l’alchimia…..

«Calenda giura di aver già accantonato quell’idea e, al contrario di quanto è prudente fare quando Renzi giura di aver fatto altrettanto con l’idea di un suo partito, a Calenda c’è da credergli. Ma il punto con l’ex titolare del Mise semmai è un altro: che senso ha fare annunci (ricordi la famosa cena proposta ai “leader” via Twitter e subito naufragata?) senza aver prima sondato animi e anime o, ancora meglio, contato voti? Continua a muoversi mostrando e celando ambizioni da leader, sottovalutando il suo vero atout: la competenza. È merce rara in questo periodo, lui ce l’ha ma sembra essere il primo a non darle valore, cercando fughe in avanti che puntualmente si dimostrano lontane dalle sue vere corde».

Ultima domanda: meglio per Zingaretti elezioni politiche ravvicinate o in primavera? 

«Ripeto, la ricostruzione del Pd è un processo che richiederà molto tempo. Più lontana sarà la prossima scadenza elettorale, quindi, più probabilità avrà il Pd di arrivare un minimo preparato all’appuntamento con gli elettori. Sempre che nel frattempo ricominci ad andare sui territori a cercare di riconquistarli davvero, gli elettori».

ESSERE STRANIERO. TESTI DI COLIN CROUCH E DI KERRY KENNEDY

Sarà, tra qualche giorno,  nelle Librerie il nuovo numero della Rivista dellArel. La rivista diretta da Enrico Letta e Mariantonietta Colimberti. Affronterà  un tema di grandissima attualità: quello dello STRANIERO.  Perché straniero? IL  numero, che esce appena dopo le elezioni per il Parlamento UE ma pensato e preparato nei mesi immediatamente precedenti, riguarda uno  dei principali (forse il principale) motivi conduttori del dibattito politico e non soltanto politico italiano ed europeo. La questione dello straniero e degli stranieri ha condizionato in modo preponderante la percezione dei cittadini delle democrazie occidentali rispetto a se stessi e alla propria condizione, finendo per incidere in modo determinante sullespressione del consenso e sugli equilibri politici.  «La xenofobia è di destra, ma la soluzione non può essere un nazionalismo di sinistra; una sinistra nazionalistica è destinata a sparire nelle mani della destra», spiega il grande sociologo e politologo inglese Colin Crouch a Maria Elena Camarda in unampia intervista in cui sottolinea la connessione esistente tra lutilizzo politico della xenofobia e il nascondimento di un sistema economico che produce sempre maggiori disuguaglianze. Il tema è affrontato da angolature diverse: politica, sociale, economica e culturale. Molti i nomi di spicco presenti con i loro contributi, ne ricordiamo alcuni: Enrico Letta, Colin Crouch, Kevin Kennedy, Tito Boeri, Lilian Thuram. Di seguito, per gentile concessione, anticipiamo i contributi del grande politologo Colin Crouch e di Kerry Kennedy (figlia di Robert Kennedy)

Continua a leggere

“Con una posizione anti UE si va alle Elezioni”. Intervista a Fabio Martini

 

Sono giorni difficili per il governo italiano.  Ha tagliato il traguardo del suo primo anno di vita con l’arrivo della lettera, da parte  della UE, di proposta di una possibile procedura d’infrazione per “debito eccessivo”. Non è stato un bel compleanno per i sovranisti nostrani. Come si svilupperà  il quadro politico italiano? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini editorialista e cronista parlamentare della Stampa di Torino.

Fabio Martini, incominciamo con l’arrivo, avvenuto nella giornata di ieri della proposta di procedura d’infrazione per “debito eccessivo” da parte della Commissione UE. La trattativa si annuncia complessa. Il Premier Conte ha detto che “farà di tutto per evitare l’inizio della procedura”, Il Commissario Moscovici ha dato la sua disponibilità al dialogo (”la mia porta sempre aperta”).  Le reazioni dei due leader, Di Maio e Salvini, sono state diverse. Salvini mantiene il punto “Condizioni inaccettabili. Vogliamo crescita e lavoro, in Europa capiranno”, Di Maio “Siamo persone serie le regole le rispettiamo, ma quota 100 e le pensioni degli italiani non si toccano”. Insomma la situazione è molto difficile…Reggerà la fragile “tregua armata” tra Salvini e Di Maio? Hanno capito che la  campagna elettorale è finita?

Stavolta la risposta all’Europa avrà una valenza assai più corposa della questione in sé – fare o non fare la correzione di bilancio – perché farà capire definitivamente cosa vogliano fare i due partner di governo: se andare ad elezioni anticipate o rinviare la resa dei conti al 2020. La Commissione europea non ha aperto la procedura di infrazione, ma l’ha definita “giustificata” e dunque ha lasciato al governo italiano ampi spazi di manovra per una correzione di piccola entità. Se il governo la farà, significa che i due hanno rinviato la resa dei conti. Ma un irrigidimento nei prossimi giorni vorrebbe dire che si sta riaprendo la finestra elettorale di settembre.

Parliamo, per un attimo, del Premier Conte. Nella Conferenza Stampa di  lunedì scorso a palazzo Chigi ha voluto dimostrare  la sua terzietà Riuscirà ad avere la necessaria autonomia per condurre la trattativa con la UE?

E’ vero, lo sforzo più sostanzioso del presidente del Consiglio è stato proprio quello: dimostrare la propria terzietà. Lo ha fatto per due motivi. Anzitutto per ritagliarsi uno spazio negoziale, facendo credere che lui è davvero distante dai Cinque stelle. Ma c’è una seconda ragione, altrettanto importante: davanti all’ipotesi concreta di elezioni anticipate, si è materializzato un Partito di Mattarella che punta a rinviare la battaglia campale delle elezioni alla primavere 2020. Di questo Partito fanno parte da mesi – ma oggi più che mai – il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia, dal quale c’è da attendersi ulteriori esternazioni distensive verso Bruxelles.  Il grande enigma è questo: in contrapposizione al Partito di Mattarella, si formerà o no un Partito delle elezioni? E se si formerà, siamo sicuri che a farne parte, sarà il solo Salvini?.

 

Guardiamo al Governo. A questo punto della situazione politica ed economica, con un debito che ha continuato a crescere, non si è arrivati per il “castigo degli dei” ma per scelte di questo governo. Del resto, Aldilà dei provvedimenti “bandiera” (reddito di cittadinanza, quota 100, immigrazione e leggi anticorruzione) e da ultimo lo “sblocca cantieri” (con la sua pesante problematicità) il bilancio non è esaltante. Dove sta fallendo il governo?

In 14 mesi, il governo ha aumentato il proprio consenso tra l’opinione pubblica: sommando le percentuali dei due partiti, si è passati al 50,1 del 4 marzo 2018 al 51,4% del 26 maggio 2018. Per i cittadini il bilancio è positivo e nei sondaggi tra gli elettori delle due forze di governo, sono nettamente di più quelli che preferirebbero una continuazione di questo Esecutivo. Ma da Bruxelles ci dicono due cose: le scelte di politica economica – pur così popolari – stanno deprimendo le prospettive di crescita e se non subiranno inversioni, peggioreranno non solo il “microclima” italiano, ma il maltempo potrebbe estendersi sul resto del Continente. In questo sta la scommessa del governo: trovare un equilibrio tra queste due spinte, consenso interno a breve e dissenso forte dei nostri partner.

Alla luce di questi ultimi avvenimenti, proviamo a delineare dei possibili scenari. Incominciamo da Matteo Salvini. Il suo ego smisurato, forte dei sondaggi, lo fa sentire ra”invincibile”, addirittura pensa di avere l’appoggio della Vergine Maria. Insomma l’uomo sa manipolare gli ingredienti del consenso popolare. Ti chiedo quali sono i punti di forza per chiedere le elezioni, e quali, invece, i dubbi che possono frenare questa voglia di passare all’incasso elettorale?
Staccare la spina e accollarsi platealmente la responsabilità di elezioni anticipate non è mai semplice. Per ragioni che si possono ricondurre alla saggezza popolare, come quella che sconsiglia di abbandonare la via vecchia per la via nuova. Una difficoltà accresciuta nella stagione attuale, nella quale qualsiasi avversario è pronto ad adoperare due armi micidiali: vittimismo e capacità di addossare ad altri i panni del capro espiatorio. Salvini, se mai deciderà di andare ad elezioni, lo farà soltanto dopo un accordo sostanziale con Davide Casaleggio. Per entrambi, la tentazione elettorale potrebbe consistere nella speranza di “congelare” la sostanza del risultato delle Europee: Salvini è pronto a mettere una firma all’idea di avere nel prossimo Parlamento una forza del 32-35 per cento e Casaleggio un Movimento tra il 18 e il 20 per cento. La ragione che spinge allo statu quo è lo spirito conservativo, che è sempre un’attrattiva potente in ogni attività umana.

Veniamo a Di Maio. L’uomo è salvato dal voto nline. Però resta molto debole. Salvini lo ha sgonfiato in questo anno di governo. Ma quello che è più grave, agli occhi degli elettori, è la perdita dell’anima del movimento. Nonostante tutti gli sforzi fatti l’uomo Di Maio è parso più vecchio della sua età. Di fronte allo straripante leghista  quale carta può giocare?  L’impressione è che si adagi sempre più ad essere l’Alfano  di Salvini….

Luigi Di Maio si è rivelato in questi 14 mesi di governo, il personaggio di maggiore qualità politica del Movimento Cinque stelle, sia nell’articolare le istanze del suo Movimento, sia nella capacità di metterci la faccia. Il Profeta (Beppe Grillo) si è ritirato sulla Montagna, il Capo (Davide Casaleggio) è restato nell’ombra, il presidente della Camera non sembra avere il passo per assumere ruoli di leadership, Di Battista – che pure ha un impatto mediatico fortissimo – oscilla tra anno sabbatico e incursioni filo-Di Maio, con un profilo di fatto “doroteo”, di puro mantenimento di una rendita di posizione. Per Di Maio la possibilità di diventare l’”Alfano di Salvini” è un rischio concreto e la carta da giocare sarebbe una sola: materializzare una forte, suggestiva e concreta agenda di cose da fare, un’agenda talmente forte da condizionare Salvini. Ma sinora l’assenza di una cultura di governo, sia pure in versione radicale, è stato il tallone di Achille dei Cinque stelle.

Matteo Salvini è, in questo momento, l’uomo più potente d’Italia. La sua ossessione  per il potere lo porta a creare nemici ogni giorno (dai “vescovoni”, come li chiama lui, ai giudici). Lo deve fare, fa parte della sua propaganda. Dicevamo della sua “invincibilità”. E questo a me fa venire in mente la tragedia greca. In particolare la hibris (hubris). Quale può essere per Salvini?

Matteo Salvini sta dimostrando di essere l’unico leader italiano, la personalità che sa esprimere meglio di ogni altra lo spirito del tempo. E’ vero la “hibris” è una cattiva compagna, da sempre, di tutti gli uomini pubblici e quando cresce, saperla dosare, è sempre un’impresa difficile. In Italia, tra l’altro, occorre sapersi guardare da un tratto della psicologia nazionale: gli italiani hanno sempre cercato un leader, ma hanno sempre rifiutato i padroni.

l sovranisti e la guerra per i followers. Intervista ad Alex Orlowski

 

Sempre  più la battaglia politica si sta svolgendo sulla Rete. Internet, con la sua potenza, è diventato uno strumento, fondamentale, di propaganda non solo per veicolare programmi politici, ma anche per la ricerca del consenso. In vista delle elezioni europee come si sta sviluppando la propaganda on-line? Quali armi usano i sovranisti per manipolare la Rete? Cosa sono i “bot-net”? Perché possono essere pericolosi? Ne parliamo, in questa intervista, con Alex Orlowski. Orlowski è uno spni-doctor, esperto di marketing politico.

Alex, la politica contemporanea usa sempre più la rete per costruire consenso, egemonia e, quindi, conquistare voti. I social quindi sono strategici. E ci sono eclatanti casi di successi elettorali, attraverso l’uso spregiudicato dei social con le “fake news”, come Trump e Bolsonaro.  Chi sono i più attivi sui social in Italia?

Come sappiamo il nome top di tutti è senz’altro Matteo Salvini che catalizza tutta la forza dei social media e della comunicazione della Lega, quindi non ci sono altri leader, tutto il team della comunicazione è solo dietro a lui (i parlamentari, i candidati regionali e alle Europee della Lega non hanno rilevanza mediatica, eccetto Claudio Borghi, Antonio Rinaldi (Rinaldi_euro) e alcuni “satelliti” intorno alla Lega, che sono attivisti, come la coordinatrice regionale della Lega in Sicilia Patrizia Rametta, una che è stata riwittata 60.000 volte in agosto 2018). Matteo Renzi, si sta riprendendo abbastanza bene, poi chi va molto bene è senz’altro la Boldrini che ha fatto un grosso passo avanti e inoltre c’è un grosso hashtag di protesta (#facciamorete), nato da Marco Skino di Torino (stiamo parlando di twitter). Infine Riccardo Puglisi, che è un economista indipendente europeista, va veramente forte sullarete.

Parliamo del “mercato dei followers”, la “merce” preziosa per la propaganda. Come funziona?

Il mercato dei followers funziona in vari modi: uno è l’acquisto, ci sono grandi ingegneri informatici, che vengono soprattutto dall’India, che già qualche anno fa hanno preparato le prime fabbriche di bot, di account fake e li vendevano come follower. Addirittura se io voglio comprare una botnet di twitter o di facebook  te li vendono da 1, 2, 3 dollari l’uno, quindi ne voglio mille spendo 8000 dollari e ti evitano un grossissimo lavoro. Uno si compra il consenso digitalmente, dai l’impressione di avere un grande consenso. Molti politici italiani in passato hanno comprato dei bot, quelli che non li hanno comprati li vedi subito, sono i più giovani che non hanno voluto legarsi a questo fenomeno. Un caso interessante è Berlusconi che ha solo 50.000 followers cioè non ha milioni di followers, è stato poco attivo sulle reti sociali. Ci sono poi quelli che si sono creati da soli il loro account oppure hanno usato quelli dei loro fans automatizzandoli con vari tecniche.

Una delle “tecniche” per costruire il consenso è la creazione di profili fake. Sappiamo che la destra sovranista mondiale ha utilizzato questi “profili fake”. Quando sono nati e che ruolo gioca Steve Bannon?

In parte ho risposto nella domanda precedente. I followers servono per far capire che tu hai una grossa massa di persone dietro, quello che ti serve poi sono i retweet, i like e i commenti, ma questi ultimi ovviamente sono più complicati. I servizi segreti russi hanno creato molti bot, che hanno team da centinaia di persone, che scrivono veramente dietro, creando le fake news. In Italia si sono organizzati bene quelli di estrema destra. Steve Bannon era socio di Cambridge Analytica quindi ha avuto a disposizione dei grandi programmatori e c’è uno dei suoi soci che è dentro a livello tecnico al partito nuovo che ha fatto Farage, che si chiama Brexit Party, quindi ha delle conoscenze importanti che lui può dare a quei partiti che segue, come la Meloni che ha un numero pazzesco di followers rispetto ai voti che prende (800.000 su twitter).

Quali utilità si possono avere con numerosi follower falsi? E quali risultati si possono ottenere “drogando” un account di Twitter?

Con i profili fake si gestisce una botnet, che è un software di gestione, che puoi acquistare in internet, quelli veramente potenti non si trovano facilmente perché comunque anche loro sanno che stanno violando i termini di facebook, twitter, di tutti i social per cui cercano di non farsi trovare facilmente. Alcuni li trovi nel dark web e sono molto costosi, costano sui 1000 dollari circa, però già un software da 400 dollari ti permette di gestire moltissimi account in massa. Si chiamano botnet perché sono dei “robot” e una rete di “robot” (ovvero possono svolgere i compiti più vari in maniera completamente autonoma).

Perché una “bot – net” può diventare pericolosa?

Una bot net è pericolosa perché cambia la percezione dell’impatto mediatico di un politico: stai falsando la percezione, stai facendo pensare alle persone che ha una grossa approvazione quello che sta facendo quindi se tu fai dei post violenti, di disinformazione, spesso delle vere e proprie fake news diventa pericoloso perché fai pensare alle persone che c’è un appoggio popolare e se tu sei una persona politicamente fragile ti aggreghi alla promozione di questo post (Salvini lo ha fatto spesso).

Recentemente hai fatto uno studio con 8 milioni di account monitorati in tre mesi. Cosa hai scoperto?

Abbiamo scoperto che ci sono account comuni, che sono tutti legati al sovranismo internazionale, legato a Steve Bannon, dal Brasile alla Francia, all’Italia, alla Spagna hanno tutti un patto in comune, si supportano nei tweet, nei like; ti ritrovi account che da brasiliani diventano olandesi e altri da brasiliani francesi, perché sono gestiti dalla stessa internazionale sovranista, che sposta questo tipo di finto consenso on line che serve moltissimo a influenzare i giornalisti. I giornalisti sono poi quelli che hanno lanciato Salvini o Bolsonaro perché vedendo tantissimi follower su twitter pensavano che avessero un grande appoggio. Quando Salvini aveva il 17% ad un certo punto è finito su tutte le televisioni italiane ed è arrivato al 30% e questo è colpa di chi pensava che lui avesse un mega appoggio popolare e volevano fare notizia. In questo momento uno come Salvini probabilmente non ha neanche più bisogno dei social, perché ha una esposizione mediatica televisiva enorme.