“Cossiga interprete drammatico di Aldo Moro. A modo suo”. Intervista a Giampiero Guadagni

Quirinale, il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga

Su Francesco Cossiga, come si sa, ci sono luci e ombre (per qualcuno, forse, sono di più le ombre). Eppure la figura di Cossiga, come afferma, in questa intervista, il giornalista Giampiero Guadagni, “è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte”. Questo libro, dal titolo curioso, cerca di offrire una possibile chiave di lettura della vicenda politica di Francesco Cossiga. Il Libro ha suscitato, tra i cronisti politici, molto interesse. Con l’autore, in questa intervista, approfondiamo alcuni punti del libro. Giampiero Guadagni è caporedattore di “Conquiste del Lavoro”.

 

Intanto, perché un libro su Cossiga?

Perché Francesco Cossiga è un motore di ricerca ineludibile e inesauribile per capire la storia repubblicana italiana. Una figura politica unica, non solo per le cariche che ha ricoperto – tutte le più importanti- ma per come le ha ricoperte. È stato il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane Presidente del Consiglio, il più giovane Presidente del Senato, il più giovane Presidente della Repubblica. Un uomo di vastissima cultura, capace al tempo stesso di altissimi confronti e di polemiche molto ruvide con personalità di Stato così come con personaggi dello spettacolo. Senso delle istituzioni e istinto per la trasgressione: aspetti diversi della propria personalità tenuti assieme sempre con grande fatica. Anche in questo senso la sua non è solo la storia di un uomo ma la biografia di un Paese che non ha mai del tutto chiuso i conti col proprio passato. Peraltro, sia da vivo sia da morto Cossiga è stato trasversalmente ammirato e detestato. E proprio questo a mio giudizio ci permette di valutare la sua vicenda e tutta una stagione politica senza il filtro dell’ideologia: un esercizio di libertà che ci obbliga a nuove domande più di quante risposte siamo in grado di dare.

 

Perché questo titolo?

Tre minuti 31 secondi è il tempo della durata dell’ultimo messaggio di fine anno di Cossiga Presidente della Repubblica. Il più breve nella storia di questi messaggi.

Siamo nel 1991, anno molto aspro per lui. A giugno manda un messaggio alle Camere sulla necessità delle riforme istituzionale, messaggio che rimane inascoltato. Il 6 dicembre viene presentata in Parlamento la richiesta di impeachment con addirittura 29 capi di accusa: che riguardano ad esempio lo scontro con la magistratura e la legittimità della struttura Gladio; e più in generale toni e contenuti delle sue picconate. Ecco quel 31 dicembre 1991 Cossiga parla agli italiani e sostanzialmente non dice nulla. Spera che quel suo silenzio faccia più rumore ottenendo più risultati delle sue esternazioni. Non sarà così. Riprenderà a picconare. E si dimetterà con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del Settennato.

 

 

 

Il libro parte da un tuo articolo su Conquiste del Lavoro per gli 80 anni di Cossiga in cui esponi una tesi che lo stesso Cossiga, nella sua breve risposta, definisce “oggettiva”: una rielaborazione del rapporto politico e umano con Aldo Moro. Ci riassumi questa tesi?

Io mi sono fatto l’idea che le picconate sono state il tributo dell’allievo al Maestro. Cossiga ha cioè detto con forza, spesso in modo esasperato, quello che secondo lui avrebbe detto Aldo Moro se fosse uscito vivo dalla prigione delle Brigate Rosse. Cossiga ha vissuto con tormento interiore e anche fisico quella vicenda, quei 55 giorni tra marzo e maggio del 1978, spartiacque della storia italiana. Nel tempo, forse anche per metabolizzare il dolore, ha reso esplicita una sorta di sentimento di correità, arrivando a dire: io sono responsabile almeno quanto le Brigate rosse della morte di Moro. “Tra Moro e lo Stato io scelsi lo Stato”, scriverà Cossiga su Repubblica nel ventennale della morte del Presidente Dc. Secondo la mia ricostruzione – sulla quale nel libro mi confronto con autorevoli giornalisti e politici – in qualche modo e in più momenti Cossiga interpreta Moro per restituirgli la vita che da ministro dell’Interno non era stato in grado di salvare. “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa”, scrive Moro prigioniero delle Br nella lettera a Zaccagnini del 24 aprile, quella nella quale chiede che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. “Io ci sarò ancora” sembra essere la frase bandiera che Cossiga ha voluto raccogliere.

 

In particolare, quando e in che modo Cossiga ha “interpretato” Moro?

Penso, intanto, al Messaggio alle Camere sulla necessità per i partiti politici di riformare sé stessi e le regole istituzionali. Ma quel Messaggio arriva troppo tardi, quando ormai i rapporti con il Parlamento erano deteriorati. E comunque è un messaggio dal contenuto importante. Per Cossiga bisognava andare oltre il bipolarismo imperfetto che assegnava alla Dc la cura del governo e al Pci il monopolio dell’opposizione Cossiga si riallaccia al pensiero di Moro, che sempre dalla prigione delle Br aveva scritto: “Un partito che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere”. Parole rivolte alla Dc ma che evidentemente valevano per tutti.

 

I fatti che citi riguardano l’ultimo scorcio del Settennato. Cossiga ha dunque maturato nel tempo questa “rielaborazione” del rapporto con Moro?

Certamente le picconate sono diventate il marchio di fabbrica di Cossiga una volta finita la stagione politica legata ai blocchi contrapposti e alla logica di Yalta. Però io mi sono fatto l’idea che Cossiga abbia iniziato ad interpretare Moro anche prima della caduta del Muro di Berlino. Emblematico quanto accade nel marzo 1986. Sono i primi mesi di Cossiga al Quirinale. In quei giorni gli Usa hanno affondato una nave libica in reazione a un lancio di missili verso aerei statunitensi sul Golfo della Sirte. Cossiga, critico rispetto alla pretesa dei libici di estendere la propria sovranità su una zona di acque internazionali, sostiene però anche che il dittatore libico Gheddafi non va “vittimizzato”, obbligando gli arabi moderati a difenderlo; e che la Marina americana non deve mostrare i muscoli verso Tripoli su navi partite da basi in Italia. Il 28 marzo Cossiga riceve al Quirinale il Segretario di Stato americano George Schulz. Un incontro descritto dal capo ufficio stampa di Cossiga Presidente, Ludovico Ortona nel suo “Diario del Settennato”. Cossiga “giunge volutamente tardi al colloquio, già irritando Schulz”.  Spiega per tre quarti d’ora le sue ragioni a Schulz senza dare spazio a repliche
in un clima che Ortona definisce “assolutamente agghiacciante”.
E attenzione: Cossiga era un politico molto accreditato a Washington, soprattutto perché nel 1979 da Presidente del Consiglio aveva autorizzato gli euromissili. Al contrario, è nota la diffidenza americana nei confronti di Aldo Moro a causa delle sue posizioni giudicate troppo filoarabe. È nelle cronache politiche l’incontro del 25 settembre 1974 a Washington con il Segretario di Stato di allora, Henry Kissinger, che con toni diciamo perentori chiede allo statista italiano di cambiare linea. Ecco: in quel marzo 1986, Moro avrebbe con tutta probabilità rivendicato uno spazio d’azione autonoma nella gestione dei rapporti con la Libia.

 

Abbiamo parlato delle picconate di Cossiga. Nel sottotitolo, accanto al fragore metti i silenzi: perché al plurale?

Silenzi al plurale, perché c’è il Cossiga degli omissis legati alla ragione di Stato. Per molti ha detto solo alcune cose di quello che sapeva, lui ha sempre assicurato che nella tomba non si sarebbe portato segreti. C’è un silenzio dove l’aspetto politico si intreccia alla sofferenza personale: in tutti i 55 giorni del sequestro Moro, come ricorda nel
libro Marco Damilano, Cossiga non rilascia un’intervista televisiva, nemmeno semplici dichiarazioni. Una cosa inimmaginabile pensando ai politici di oggi; ma pensando anche
allo stesso Cossiga, insaziabile comunicatore a tutto campo, radioamatore e fruitore dei social. Poi però ci sono anche i silenzi dell’allontanamento volontario dalla vita pubblica, quelli legati alla riflessione, agli spazi interiori della preghiera, agli spazi verdi d’Irlanda, suo luogo dell’anima. Dove Cossiga, uomo di fede salda, ha tempo per dedicarsi ai
“suoi” santi: Newman, Rosmini e Thomas More. Figure che hanno in comune il concetto del primato della coscienza. Tema molto sentito e sofferto dal laico cristiano Cossiga, che da Presidente della Repubblica aveva condiviso la decisione del governo italiano di partecipare alla coalizione che intervenne contro l’Iraq, conoscendo la ferma contrarietà di Papa Giovanni Paolo II.

 

Tra i tanti aneddoti che racconti, quale ritieni quello più
significativo?

Ce n’è uno in particolare che rende l’idea del senso anche esasperato di Cossiga per lo Stato. Me lo ha raccontato Francesco Bongarrà, giornalista dell’Ansa, che ha seguito da vicino gli ultimi anni del Picconatore. Cossiga nel marzo 2006 restituisce il ‘Collare della Giarrettiera’ alla Regina Elisabetta per una questione di principio”. Due elementi per intendere la portata del fatto. Il primo: il Collare della Giarrettiera è la massima onorificenza che il regno concede, rende cugini della Regina. Il secondo: Cossiga era un malato di onorificenze. Cosa accade allora? Cossiga vuole andare in Inghilterra per partecipare al Consiglio mondiale della Società per il dialogo tra cristiani e musulmani, e notifica che partirà con la scorta armata come ex Presidente della Repubblica. Le competenti autorità britanniche, diplomatiche e di polizia, oppongono un rifiuto. In Inghilterra la scorta non ce l’ha nessuno, tranne la Regina, il primo ministro, il ministro dell’interno, forse ai tempi lo scrittore Salman Rushdie. Cossiga annulla la partecipazione all’evento. Prende una scatola in cui mette il Collare e la affida al capo scorta perché restituisca il regale contenuto. “La scorta non era per la mia persona, ma era per il rispetto che si deve allo Stato italiano”.

Il libro: Giampiero Guadagni, Tre minuti trentuno secondi.
Francesco Cossiga: il silenzio e il fragore, Marcianum Press,
2020, pagg. 176. € 17,20.

“Occorre contrapporre al sovranismo un europeismo riformato”. Intervista a Guido Formigoni

Quali sono le radici del “manifesto” dei sovranisti? Quale idea di Europa è alla base del “manifesto”? La presa di posizione della estrema destra europea ha fatto e continua a  far discuttere l’opinione pubblica europea. In questa intervista, con lo storico Guido Formigoni, approfondiamo alcuni punti del documento. Guido Formigoni è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano, dove è prorettore. Coordina il Comitato scientifico per la pubblicazione delle «Opere del card. Carlo Maria Martini». Partecipa alle direzioni delle riviste «Ricerche di storia politica» (di cui è stato condirettore tra 2013 e 2018), «Modernism» e «Il Mulino». Fa parte del Comitato scientifico internazionale di Civitas – Forum of Archives and Research on Christian Democracy (Roma-Berlin-Leuven). Tra i suoi libri recenti: Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (Il Mulino, 2016); Storia d’Italia nella guerra fredda 1943-1978 (Il Mulino, 2016); Storia della politica internazionale nell’età contemporanea (Il Mulino, 20183); I cattolici italiani nella prima guerra mondiale. Nazione, religione, violenza e politica (Morcelliana 2021).

Professore, lo scorso 2 luglio Matteo Salvini, Giorgia Meloni hanno firmato, insieme ad altri leader dell’estrema destra europea (tra cui Orban e Marine Le Pen) un manifesto sovranista. In questo manifesto si prende di mira, tra l’altro, la creazione di un superstato europeo (il termine usato è da autentici complottisti) che vorrebbe imporre, attraverso un “iperattivismo moralista”, un “monopolio ideologico”. Le chiedo: quali sono, secondo lei, le radicali politiche “culturali” di queste posizioni? 

 

Il manifesto è un prodotto di Marine Le Pen, da lei è stato firmato e presentato, e poi ha raccolto le firme di altri partiti. Lo sfondo culturale è chiaramente legato a una volontà di contrapporre l’esistenza di libere nazioni (intese a quanto sembra un po’ illusoriamente come corpi organici coesi e compatti) a un presunto cosmopolitismo europeo che appiattisce le diversità e crea difficoltà ai piccoli Stati. Lo spetto del «superstato» è quanto di più ideologico si possa mettere in campo: la comunità e poi l’Unione non sono mai state qualcosa di questo tipo. Si è sempre trattato di uno strumento gestito in un negoziato continuo dalle classi politiche nazionali, per ottenere alcuni risultati di vantaggi comuni. Lo sperimentalismo del modello integrazionista non ha mai messo in discussione l’aspetto inter-statuale dell’Ue (una sovranità messa in comune), ottenendo bensì livelli crescenti di interdipendenza (e costruendo anche istituzioni che esprimono una sovranità condivisa) senza (per fortuna) coercizioni di sorta. Lamentarsi per qualcosa di inesistente è tipico di uno schema ideologico nazionalista abbastanza tradizionale, non molto originale.

Nel loro mettersi di traverso alla evoluzione della UE come Stati Uniti d’Europa, il sogno federalista di Spinelli, propugnano, addirittura qualcuno di loro cita De Gaulle, la Confederazione tra stati. Le chiedo è corretto, da parte degli estremisti sovranisti, “arruolare” il Generale De Gaulle (antifascista e combattente contro il collaborazionismo di Vichy)? 

 

Mah, certo, de Gaulle avrebbe sempre conservato una barriera a destra in senso antifascista. E qui c’è un rassemblement di forze di varia ispirazione, con più di una punta fascisteggiante, anche se mascherata e nascosta. Attualmente, tra l’altro, i 14 firmatari – tra cui Fidesz di Orban, gli spagnoli di Vox, il Vlaams Belang, il partito Diritto e giustizia polacco – sono divisi in diversi gruppi politici europei. La novità che traspare dall’uso di una retorica «confederale» anti-federalista è però chiara: non c’è più un attacco frontale all’Unione, né all’euro, né una rivendicazione di uscita di qualche paese. Insomma, sembra quasi che il sovranismo si sia fatta una ragione sulla necessità di combattere una battaglia dentro un’Unione che probabilmente si percepisce abbia superato la sua crisi più radicale. E questa in fondo non è una notizia banale.

Nel manifesto si propone una “lettura” dell’Europa contemporanea sconcertante: “La turbolenta storia della Europa, in particolare nell’ultimo secolo, ha prodotto molte sventure. Nazioni che difendevano la loro integrità territoriale hanno sofferto al di là di ogni immaginazione. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei hanno dovuto combattere per decenni il dominio del totalitarismo sovietico prima di riottenere la loro indipendenza”. E il fascismo e il nazismo dove sono? A cosai mira questa manipolazione della Storia?

Beh, è indubbiamente molto ambiguo il riferimento al totalitarismo sovietico senza ricordare che l’Urss ha potuto dilagare nell’Europa centro-orientale solo a seguito della vittoriosa controffensiva contro l’espansionismo nazifascista. Alla radici c’è il fallimento del sovranismo di allora. Un mondo imperniato su imperi militari chiusi e contrapposti costruiti dagli Stati nazionali, a seguito della crisi degli anni ’30, è stato proprio il tentativo fallito dei regimi autoritari di destra. Su quel fallimento si è costituito il duopolio sovietico-americano. Si tratta ancora una volta di una lettura della storia strumentale, mirata a sollecitare un certo senso nazionale contro la memoria del comunismo, che paradossalmente dimentica proprio il sovranismo fallimentare del passato. E poi si traduce a volte in buoni rapporti con l’autocratico governo di Putin, che in quanto a logica soggettivamente imperiale (peraltro limitata dagli scarsi mezzi) non è secondo a nessuno.

 

Anche il Cristianesimo viene tirato in ballo come fattore unificante di questa “nuova” Europa. Ma che cristianesimo è? 

 

La retorica delle radici giudaico-cristiane dell’Europa serve a dare un tocco tradizionalista. Ci siamo abituati anche in Italia all’uso disinvolto dei simboli religiosi da parte di partiti di destra laica, estranei allo spirito evangelico. Del resto, qui non possiamo dimenticarci che abbiamo alle spalle un dibattito nato malissimo, ai tempi del trattato costituzionale del 2003: il laicismo europeo rifiutò la semplice menzione delle radici cristiane dell’Europa rischiando un controsenso storico (è del tutto evidente che l’Europa è stata unificata dal cristianesimo, che ha permesso l’incontro di diverse matrici fondanti, dal diritto romano alle potenzialità dei nuovi arrivati germanici). Ma questa chiusura era speculare a un uso, da parte dello stesso Giovanni Paolo II ma soprattutto di alcuni suoi seguaci, di questa rivendicazione in un modo rischiosamente esposto all’accusa di voler fissare un principio che si estendesse a motivare una sorta di primato nell’attualità. Primato che non ha senso rivendicare da parte della fede cristiana: oggi la sua influenza è ridotta a una minoranza tra le altre, ma la sua vivacità può e deve esprimersi ancora nel dialogo aperto con tutte le altre componenti religiose e culturali del continente.

 

Un’altra cosa che colpisce è che si parla di famiglia, ” unità fondamentale delle nostre nazioni”,non dei diritti umani della persona. La “famiglia” strumento di crescita demografica per contrastare l’immigrazione di massa. Sono affermazioni che ricordano pagine cupe dell’Europa. È così professore? 

 

Anche in questo caso niente di nuovo: la retorica sulla famiglia di tipo tradizionale serve a collocarsi di fronte a una tendenza della sinistra presunta moderna che ha fatto del pluralismo di modelli, dei diritti individuali e del rispetto delle differenze il suo nuovo ubi consistam. E poi viene utilizzato, ancora una volta piuttosto rozzamente, nella polemica contro l’immigrazione straniera, che resta invece una risorsa e non solo un problema. Vorrei però completare questo ragionamento con un’altra osservazione. Può non piacerci un richiamo al «Dio, patria e famiglia». Ma mi parrebbe un gioco suicida cedere a questa destra una considerazione seria della questione dell’invecchiamento e del declino demografico del nostro continente. Se l’Europa si chiude al futuro rinunciando a fare figli, perché non c’è fiducia basilare nella convivenza umana e nelle sue possibilità, questo è un problema di tutti, non certo dei sovranisti.

 

Il manifesto ha una sua pesante valenza politica. Basti pensare alla Polonia e all’Ungheria. Sono regimi illiberali. Non è preoccupante che l’abbiano firmato due forze politiche italiane?  

 

L’illiberalismo del manifesto è più nel non detto che nell’esplicito: ad esempio, nel parlare appunto dei diritti delle nazioni e non di quelli delle persone e del pluralismo interno alle società. Una concezione omogeneizzante e chiusa delle nazioni è senz’altro un rischio. D’altro canto, che i partiti di Salvini e Meloni si ispirassero a queste retoriche non è una novità. Se vogliamo, pur su questo sfondo preoccupante, emergono però nel manifesto alcuni accenti nuovi, favorevoli al progetto europeo e all’amicizia tra i popoli, pur ridimensionati dall’attacco ideologico al modello federalista.

 

Il futuro conflitto politico europeo, ormai è chiaro, sarà sempre più tra europeisti e sovranisti. Quale potrebbe essere una risposta efficace al manifesto sovranista? 

Il conflitto è nei fatti. Però, vorrei obiettare che c’è un modo sbagliato di intenderlo. A me pare – non da oggi – che non sia una buona strategia quella di contrapporre al sovranismo semplicemente un qualsiasi appello europeista. Infatti, il sovranismo degli ultimi anni è prosperato proprio sui limiti e i contraccolpi di un europeismo miope, tutto giocato sulla difesa del mercato, sull’austerità imposta dalla Germania e sulla mancanza di reale solidarietà. L’europeismo del Fiscal Compact, potremmo dire, che ha eroso il capitale di benevola convergenza tra i popoli costruito nei decenni. Occorre invece contrapporre al sovranismo un europeismo riformato, che tenga assieme l’idea di istituzioni democratiche favorevoli alla crescita, con la costruzione di legami sociali più forti tra i popoli. E questo per la banale ragione che nell’epoca dei giganti (Usa-Cina) nessun paese europeo, per quanto sia sovranista il suo governo, può far veramente da solo. Non a caso, i sovranisti riescono ad accrescere i consensi, ma faticano a esprimere a valle di questi consensi una linea di governo realistica ed efficace. L’Europa è una necessità: per farla amare, però, deve anche essere molto attenta al modo con cui la si presenta.

Franco Marini, il Popolare. Intervista sulla sua eredità politica con Giorgio Merlo

Sono passati più di cinque mesi dalla scomparsa di Franco Marini. Marini, come si sa, è stato un protagonista del sindacato e della vita politica italiana. Domani, Lunedì 12 luglio, alle ore 21, sulla pagina Facebook di Edizioni Lavoro, è stata riprogrammata la presentazione, rinviata lo scorso 7 giugno, del libro di Giorgio Merlo, «Franco Marini, il Popolare». Intervengono Pier Luigi Bersani, Pier Luigi Castagnetti e Domenico Tuccillo. Modera il dibattito Gennaro Sangiuliano, direttore del TG2. Sarà presente l’autore. Un confronto tra protagonisti politici che hanno accompagnato e apprezzato per molti anni la militanza e l’impegno pubblico di Franco Marini. Con Giorgio Merlo, ex deputato PD e giornalista professionista, approfondiamo alcuni punti del suo libro.

Giorgio, il tuo libro è sicuramente un testo interessante. Però, è lo dico con grande rispetto, ha il limite della fretta. Forse un pò di pazienza avrebbe giovato un pò di più alla comprensione della figura di Franco Marini. La prima domanda è questa : nel tuo libro si gustano sapori  antichi: la sinistra sociale dc, Donat Cattin, sindacato dottrina sociale della chiesa ecc. Nel tempo liquido di questa nostra contemporaneità politica cosa rimane di quei sapori antichi?
Certo, i “sapori antichi” come Tu Gigi li definisci, hanno sempre il loro fascino e il loro richiamo. Soprattutto in un’epoca dominata dalla desertificazione culturale, dal populismo, dall’opportunismo e dal trasformismo politico e parlamentare. Ma le mode, prima o poi, tramontano. E, non caso, la parabola del grillismo – il più pericoloso vulnus per la qualità e la salute della nostra democrazia negli ultimi anni – sta volgendo finalmente al termine. Ma, purtroppo, il populismo continua a scorrere nel sottosuolo della società italiana e non sarà facile rimuoverlo in fretta. Anche dopo la fine, speriamo presto, della triste e decadente parabola del grillismo. E in quel momento, non è difficile prevederlo, torneranno in campo quelle categorie politiche e culturali che sono state costitutive in altre stagioni della politica italiana: dal valore dei partiti popolari alla importanza delle culture politiche, dalla qualità della classe dirigente alla salvaguardia dei principi costituzionali, dalla credibilità delle istituzioni democratiche alla serietà e alla trasparenza del linguaggio. Categorie politiche spazzate via dall’ideologia grillina e da chi le ha tristemente assecondate. Ecco perchè il magistero politico, culturale, sociale, istituzionale di uomini come Carlo Donat-Cattin, il patrimonio della sinistra sociale della Dc o la perdurante attualità della dottrina sociale della Chiesa ritorneranno protagonisti. E lì dovremo essere pronti a raccogliere la nuova sfida che avremo di fronte dopo le macerie seminate dalla incultura devastante del grillismo.

Veniamo alla figura Franco Marini. Nel tuo libro lo leghi, indissolubilmente, alla figura di Carlo Donat Cattin. Per sostenere, alla fine della tua analisi, che Marini è l’autentico erede di Donat Cattin. È una conclusione che non mi convince. La trovo un pò meccanicistica. Per quali motivi tu pensi questo? Non pensi, invece, che quella di Donat fu una scelta per la sopravvivenza di Forze Nuove?
Donat-Cattin in un memorabile e profetico intervento a Saint-Vincent nel settembre 1990 – sei mesi prima della sua prematura scomparsa – indicò proprio in Franco Marini il “naturale erede della tradizione e della esperienza della sinistra sociale democristiana”. Non credo che lo fece solo per una burocratica e protocollare sopravvivenza di quella corrente. Al contrario, egli credeva nella Dc e credeva nel suo pluralismo politico e culturale interno. E sapeva bene, come disse molte volte Aldo Moro, che senza una “sinistra sociale di ispirazione cristiana” sarebbe stata la stessa Dc a pagarne duramente le conseguenze in termini politici ed elettorali. Certo, in quei tempi era ancora possibile avere un “erede” politico. E, in quel caso specifico, Franco fu veramente l’erede naturale di Donat-Cattin per la guida di Forze Nuove. Per storia personale, per cultura politica, per la sua biografia e anche, diciamolo, per il suo temperamento e coraggio.

Rimango sul punto: il patrimonio Ideale di Donat Cattin e Marini sono simili. Declinati in tempi diversi. Però consentimi di osservare che mentre Donat aveva visione politica, pensa al rapporto con Moro, Marini era un operativo. Per questo penso che il vero erede di Donat Cattin sia Guido Bodrato. Ovviamente non sarai d’accordo…
Guido Bodrato è un “maestro” del cattolicesimo democratico e popolare nel nostro paese nonchè un grande amico. E Guido è stato per molti anni il vero “delfino” di Donat Cattin, come si diceva un tempo. Poi c’è stato il “preambolo” del congresso della Dc del 1980 e tutto ciò che lo ha preceduto e seguito. E lì i rapporti, quelli politici come ovvio e mai quelli personali, si sono interrotti. Era inevitabile che dopo molti anni, se si voleva proseguire quella straordinaria esperienza politica, culturale ed organizzativa, ci voleva un leader riconosciuto da tutti. E Marini rispondeva, in quel particolare momento storico, a quella esigenza e a quella richiesta.

Parliamo del Marini politico. Divenne segretario del PPi. Di quella stagione delicata della politica italiana fu un protagonista sicuramente importante. Qual è stato il frutto più importante che Marini portò alla politica italiana?
Molti frutti ha portato. Ne ricordo tre, secondo me i più importanti. Innanzitutto la sua “riconoscibilità” politica. Quando parlavi di Marini sapevi di chi parlavi. Sapevi chi era. Era il “Popolare” per antonomasia. E questa sua caratteristica, decisiva per la qualità e la credibilità della stessa politica, lo ha sempre accompagnato. Dalla Dc al Ppi, dalla Margherita al Pd. In secondo luogo il suo coraggio. Certo, come per il carisma, in politica “o c’è o non c’è, è inutile darselo per decreto”, per dirla con Donat-Cattin. E Franco faceva del coraggio anche un atto di lotta politica e sindacale. E proprio nel sindacato come nella politica, Marini era conosciuto ed apprezzato per il suo coraggio e per la sua determinazione. In ultimo la lealtà. Marini era un uomo leale. E l’ha pagato pure a caro prezzo. È sufficiente ricordare l’esperienza, squallida e triste, della sua mancata elezione a Capo dello Stato quando buona parte dei parlamentari del Pd – partito che lui aveva contribuito a fondare – lo cecchinarono nel segreto dell’urna dopo aver fatto una regolare votazione per indicarlo come candidato. Un comportamento talmente squallido che poi portò questi miserabili, alcuni dei quali ancora presenti nelle aule parlamentari, a vantarsi pubblicamente di quel gesto vigliacco. Come reagì Marini? Con il suo consueto costume e stile. Con poche parole. Dicendo soltanto, come ricorda l’amico Castagnetti, “bastava dirmelo prima”. Ecco la lealtà e la trasparenza dell’uomo. Altrochè la rottamazione renziana e l’onestà grillina…

Del PD è stato, come hai ricordato, uno dei padri fondatori. Come ha vissuto il PD? Che idea aveva?
Il Pd, come ho detto poc’anzi, Marini ha contribuito in modo determinante a fondarlo. Certo, non era più in prima linea come con le altre esperienze partitiche. Ma lui credeva nel Pd ad una condizione. Essenziale e decisiva. Che non rinunciasse mai alla sua anima popolare, cattolico sociale e cattolico popolare. Credeva veramente in un partito plurale e detestava tanto i partiti personali quanto i cartelli elettorali. Ma l’ultima versione del Pd non lo convinceva più anche se continuava a frequentare le sempre più sporadiche assemblee nazionali e i pochi momenti di incontro collettivi. La visibilità politica, culturale ed organizzativa dell’area popolare la riteneva quasi una precondizione per poter garantire e coltivare la natura plurale del partito. Così non è più stato e così non è più. Ormai il Pd è un’altra cosa, ha un altro profilo e un’altra identità. Ma, per restare a Franco e al Pd, non posso non pensare che dopo il comportamento squallido ed indecoroso della vicenda Quirinale/2013, avesse un altro giudizio su quel partito. E non solo per la sua vicenda personale, ma per il modo di essere e di comportarsi nella concreta dialettica politica. In sintesi, e questo lo diceva apertamente negli ultimi anni anche se con garbo e discrezione, non era più il partito che lui, con altri, aveva contribuito a fondare nel lontano 2007.

Sulla stagione renziana come si è espresso?
Non nutriva risentimenti personali. Non rientravano nella sua concezione politica e della vita politica. Ma che il renzismo rappresentasse per lui il peggio della politica italiana non aveva dubbio alcuno. Prima dell’avvento del grillismo, ugualmente detestato. Sempre a livello politico, come ovvio.

Cosa ha da dire oggi, agli attuali dirigenti del PD, la figura di Marini?
Credo che il magistero politico, culturale, istituzionale e anche organizzativo di Franco Marini possa dire ancora molto alla politica italiana ma poco al Pd. A questo Pd. E questo perchè il suo modo di far politica, la sua cultura di riferimento e la sua stessa modalità di organizzare la politica e il suo progetto sono sostanzialmente estranei alle modalità concrete con cui il Pd si muove nella società italiana. Semmai, e questo lo credo profondamente, il suo magistero possa ancora dire molto, anzi moltissimo, a tutti quei cattolici che intendono intraprendere l’impegno politico. Nel pieno rispetto della laicità dell’azione politica senza alcuna deviazione clericale o confessionale e, soprattutto, nella coerenza con quella dottrina sociale cristiana che lo ha accompagnato in tutta la sua esistenza. Dall’impegno nell’associazionismo giovanile cattolico al sindacato, dalla politica al partito, dalle istituzioni alla vita normale di tutti i giorni. Aperto al confronto e al dialogo sempre. In ogni momento e in ogni istante ma senza rinunciare mai alla sua identità e alla sua cultura.

Ultima domanda. Torniamo all’inizio: perché hai dato quel titolo al libro? Sembra schiacciare politicamente Marini…
Per un motivo molto semplice. Marini era un uomo popolare perchè amava stare in mezzo alla gente. A tutta la gente. Indimenticabili, al riguardo, i suoi appuntamenti con gli alpini. E, inoltre, perchè Franco Marini era un Popolare autentico. Per la sua cultura e per il suo progetto politico.

“La scommessa più impegnativa per Letta è quella di dare credibilità ad un PD di sinistra”. Intervista a Fabio Martini

Enrico Letta (Ansa)

 

 

Enrico Letta è da pochi mesi Segretario Nazionale del Pd. Come si sta muovendo?
Quali sono i suoi obiettivi? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini
inviato e cronista parlamentare del quotidiano La Stampa.

Fabio Martini, negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la proposta di Enrico
Letta, segretario del PD, di dotare di un sussidio i giovani meno fortunati, da
finanziare con aumento di aliquota della tassa di successione per i redditi
milionari. Per alcuni settori di opinione pubblica la proposta, dati i tempi, è
scellerata. Eppure in altre democrazie occidentali, penso a Usa, Francia e
Germania, si torna a parlare, ma nel caso degli Usa è diventato un atto di
governo, di tassare grandi eredità e patrimoni multimilionari per aiutare la
ripresa, senza gridare al complotto neocomunista. Non trovi che quello di
Letta sia una battaglia di redistribuzione giusta? Oppure è stato un errore?
«La valutazione se sia un battaglia giusta o sbagliata, la faranno gli elettori. Si può
invece valutare se sia una proposta fondata, realizzabile, potenzialmente utile.  Noi
sappiamo, ma forse una parte dell’opinione pubblica ancora non l’ha capito, che
assieme alla fase acuta della pandemia sta per finire anche la stagione della spesa
pubblica a pie’ di lista e bisognerà tornare a produrre più ricchezza “reale” e a
distribuirla nel modo migliore. La proposta di tassare le eredità dei super-ricchi
anticipa i tempi: dunque è potenzialmente utile. Fondata? Gli esempi che vengono dai
Paesi più evoluti dell’Occidente – Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti – ci
dicono che la proposta è fondata. Realizzabile? Lo sarebbe dentro una riforma fiscale
più generale. Sull’utilizzo invece delle risorse (la dote da regalare al 50% dei
diciottenni e dunque anche a ragazzi abbienti), i requisiti di fondatezza, realizzabilità
e utilità diventano più controversi».

 

Fabio Martini (Contrasto)

Sappiamo la reazione della destra, alla proposta di Letta, è stata duramente
contraria. I renziani, con Rosato, addirittura hanno parlato di una proposta che
alimenta il conflitto tra ricchi e poveri. Ha sorpreso, per la modalità, la reazione
quella del Presidente del Consiglio. Ma lo stesso Draghi non aveva parlato di
progressività fiscale? Cosa non ha gradito?
«Da quel che trapela, Draghi ha considerato la proposta estemporanea, a lui
comunicata in “zona Cesarini” e inopportunamente diffusa da Letta nelle stesse ore
nelle quali il governo varava una manovra imponente da 40 miliardi, nella quale il Pd
ha avuto la sua parte».

 

Pensi che il rapporto tra Letta e Draghi sia sdrucito? 
«Assolutamente no. Ma nelle ultime settimane si sono capite due cose: da una parte, i
partiti devono imparare a rapportarsi meglio con un capo del governo obiettivamente
di una levatura superiore a quella media della politica dei partiti, ma dall’altra anche
il presidente del Consiglio deve calibrare le sue reazioni: leader come Letta, o come
Salvini, hanno tutto il diritto di avanzare proposte e d’altra parte è parsa originale
anche l’aspettativa da parte di Draghi di mettere la sordina sul dibattito pubblico sulla
successione al Quirinale».

Torniamo ad Enrico Letta. Lui si sta battendo per ridare spessore al Pd. La
parola spessore indica identità. Paradossalmente un PD più a sinistra di
Zingaretti. È esagerata l’affermazione?
«Gli indizi ci sono. Letta – personaggio notoriamente lontano dalla tradizione post-
comunista dei D’Alema, Bersani e Zingaretti – sta provando a ricostruire il palinsesto
di un partito tradizionale, quello che una volta Pier Luigi Bersani definì “la ditta”. Ha
svolto un inedito referendum tra i Circoli, ha varato in tempi stretti una
tradizionalissima Segreteria, ha lanciato una campagna per il tesseramento, saranno
presto presentate una “Radio Pd”, un’Università democratica e le Agorà del Pd,
occasioni collettive nelle quali Letta intende attrarre aree un tempo vicine e che ora si
sono demotivate: intellettuali e  associazionismo impegnato. Ma la scommessa più
impegnativa è capire se saprà ricostruire un senso e una missione ad una forza di
sinistra che sappia interpretare non soltanto i garantiti (la base attuale del partito) ma
una parte almeno di coloro che sono ai margini. Se non agli ultimi, quantomeno i
“penultimi”».

Massimo Giannini, sulla Stampa auspicava per la sinistra italiana un Biden
italiano. Un moderato capace di ricostruire un rapporto empatico con lo spirito
profondo dei democratici. Può essere lui, Enrico Letta, che ridà spessore al Pd?
«Il parallelo è centrato perché Biden è sempre stato un “centrista”, come lo è stato
Letta. E d’altra parte Democratici americani e italiani, mutatis mutandis, sono
chiamati a fronteggiare un fenomeno inedito: l’erosione dei propri elettorati da parte
di personalità e parole d’ordine populiste, che hanno mostrato di essere efficaci
contro le paure e nella raccolta del risentimento verso le elites. Con una differenza
fondamentale: i dem usa interpretano una coalizione sociale e “sentimentale” assai
vasta (ceti popolari “bianchi”, neri, middle class urbana, elite intellettuale e dello
spettacolo), mentre il Pd è lontano dalla sofferenza sociale più forte: quella
concentrata al Sud, che ha votato Cinque stelle e si sta spostando a destra. Il Pd
appare troppo “imborghesito” per interpretare una coalizione sociale larga come
quella dei dem Usa e le incursioni a sinistra serviranno a Letta per tenersi su quote
elettorali dignitose».

Il PD doveva essere l’anima del governo. Invece si vede l’anima di Draghi. Si
pone il problema della visibilità. C’è chi lo risolve come fa Salvini, con la tattica
del rialzo continuo, oppure come Renzi (appiattendosi sul premier e cercando, a
volte, la sponda leghista). Come si risolve il problema?
«Difficile coltivare una visibilità di partito dovendo convivere con una personalità
naturalmente carismatica come Mario Draghi. O immaginare di darsi un’identità,
affidandosi a proposte estemporanee. Enrico Letta avrebbe la maturità per conferire
al Pd una proposta politica con un’idea di Paese, un’identità meno generica, dalla
quale estrarre di volta in volta i jolly per tenere botta nella quotidiana battaglia a botte
di tweet. Che senza un background diventa effimera. La sfida di Letta? Saprà dare un
contenuto di sinistra alle battaglia ineludibile – quella per la competitività del
sistema-Italia – che serve per rimettere in piedi un Paese paralizzato da 20 anni?»

Per un partito di sinistra il banco di prova strategico sarà la fine della proroga
dei licenziamenti. Con gli annessi e i connessi. C’è consapevolezza di questo?
«Questione seria e angosciosa per migliaia di lavoratori, della quale si sono fatti
carico il sindacato e il Pd al governo. A settembre si faranno i conti e si verificherà se la “fame” di ripresa consentirà alle riprese di tenere più lavoratori possibile. Ma se il blocco dei licenziamenti aiuta sul breve chi lavora, ad libitum fiacca le imprese e può rivelarsi un boomerang. La soluzione, anche in questo caso, è nelle mani del Pd: spetta al ministro del Lavoro Orlando ridisegnare i nuovi ammortizzatori sociali».

A questo riguardo non pensi che Letta dovrebbe temere di più il populismo radicale della Meloni?
«E’ vero. Apparentemente non ci dovrebbero essere punti di contatti tra elettorati
così diversi. Ma Meloni, unica forza, di opposizione pesca ovunque. Anche per
questo ricostituire un’identità forte aiuterebbe la leadership pd a tenere botta meglio di quanto non accada ora»

Per ora la Pax interna al PD dura. Fino a quando durerà?
«Il Pd da più di tre anni vive una pace interna mai registrata prima. Una pace fondata sul principio del “quieta non movere”: i principali notabili garantiscono appoggio ai leader. chiedendogli di conservare assetti e posizioni in cambio di una relativa libertà di movimento politico. Se nelle cinque città più importanti dove si voterà il 20 settembre, i dem manterranno o andranno oltre i due sindaci già in dote, i notabili saranno rassicurati sul proprio personale futuro. E dunque Letta non solo continuerà a governare senza patemi , ma potrà dispiegare la propria impronta. Altrimenti partirà il logoramento».


Ultima domanda in realtà sarebbe la prima, ma hegelianamente la prima
contiene anche l’ultima. Come è il bilancio di questi mesi lettiani?

«Bilancio nitido, facilmente leggibile. Una partenza col turbo: imporre il cambio dei capigruppo conteneva un messaggio implicito: cari notabili e cari elettori, l’Enrico che sta sempre sereno non esiste più. Poi il “nuovo” Letta si è dovuto misurare con due realità poco conosciute al “grande pubblico”. Una macchina partito inceppata da 7 anni di non-governo da parte degli ultimi segretari e realtà locali – Torino, Roma, Napoli, Bologna – dove prosperano indisturbate camarille notabilari, insensibili al “bene comune”. Oltretutto, per stare al passo col “rullo” dei tweet, è capitato a Letta di snaturarsi. Come nel caso del suo appoggio a Fedez. Alla vigilia del traguardo dei primi 80 giorni da segretario, Letta sa di dover vigilare su un pericolo: quello di completare il suo “giro del mondo in 80 giorni”, ritrovandosi al punto di partenza».

“La competizione tra Salvini e Meloni c’è ma sull’Europa (e non solo) sono ambigui entrambi”. Intervista a Sofia Ventura

La competizione tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni è sempre più presente nella destra italiana. Come si evolverà questa competizione? Ne parliamo, in questa intervista, con la professoressa Sofia Ventura, docente di Scienza della Politica all’Università di Bologna.

Si è parlato, in questi giorni, della vittoria, nelle elezioni di Madrid, della popolare Isabel Ayuso. Che tipo di destra è quella della Ayuso? Si è parlato di un modello Trump…

È presto per dirlo. In Spagna l’analogia con Trump è stata fatta, ma Ayuso non ha mai negato né minimizzato la pandemia. Ha proposto, in particolare dopo la prima ondata, un modello diverso da quello del governo centrale, meno orientato alle chiusure generalizzate e più ai tracciamenti e alle chiusure ‘chirurgiche’. Con certamente anche un approccio più fatalista, questo bisogna ammetterlo. Con la sua pretesa di una destra senza complessi mi ricorda Sarkozy, del quale mi pare però più spregiudicata, nel rincorrere le diffidenze verso la politica e il crescente individualismo che interessa un po’ tutte le società europee. Ma il trumpismo è altra cosa.

Può essere un riferimento per la destra italiana?

Se guardiamo alla destra dominante in Italia, quella di Salvini e Meloni, Ayuso in fondo è moderata, nonostante la brutta, recente, uscita sugli immigrati, che avrebbero ‘comportamenti’ meno responsabili di fronte alla pandemia. Ma Salvini e Meloni sono oltre. E comunque non so se ha senso parlare di modelli. In fondo anche lei intercetta frustrazioni diffuse attraverso la dicotomia amico/nemico, ha basato la sua campagna sulla contrapposizione tra il socialismo – del quale ha fatto uno spauracchio – e la libertà: mi piacerebbe pensare che la politica, a destra come a sinistra, possa essere anche altro. E poi per quale destra dovrebbe essere modello? Per quella estrema no, quella guarda a Vox, come dicevo, è ‘oltre’. E tutto sommato è molto più legata ad una visione ‘assistenziale’ del ruolo dello Stato. Non è solo ‘oltre’, è proprio ‘altro’. Per quella più moderata, forse, pur proponendo uno stile polarizzante e spregiudicato del quale in Italia abbiamo già pagato i costi.

Guardiamo, appunto, alla destra italiana. L’unico partito che è in crescita, da più di un anno, è Fratelli d’Italia. Eppure nei temi identitari di destra (o per meglio dire di estrema destra) sono sovrapponibili. Cosa rende Meloni più di successo rispetto a Salvini?

È una professionista, più capace di adattarsi alle situazioni, ma al tempo stesso in grado di mandare un messaggio di coerenza. Pur avendo posizioni della destra estrema – basta guardare i suoi messaggi social e la sua ossessione nel contrapporre gli italiani agli immigrati, anche se lei aggiunge sempre ‘clandestini’, come se poi non fossero donne e uomini come gli altri, sino a rappresentarli come potenziali untori nella fase attuale di circolazione del virus – , ha l’abilità di mostrarsi come donna di buon senso e persona comune, ma non nel senso un po’ grottesco di Salvini, con i suoi improbabili piatti di pasta esibiti su Instagram. Questo avvicina le persone e fa dimenticare le sue posizioni più radicali, oltre che la natura del suo partito. Credo che il suo ultimo libro in uscita, almeno stando alle anticipazioni, punti a rafforzare questo aspetto.

Nonostante la Meloni sia a capo di un raggruppamento che siede nel Parlamento Europeo, non sembra che questo sia di conforto per chi si richiama ai valori fondativi dell’Unione Europea. E questo fa il paio con il gruppo sovranista di Salvini Orban. Chi temere di più?

Tra Salvini e Meloni? Oggi ho l’impressione che a sinistra si guardi con una certa condiscendenza a Meloni in funzioni anti-Salvini, la cui presenza al governo è probabilmente considerata disturbante. Ma credo sia un errore. Entrambi hanno costruito la loro fortuna sulle contrapposizioni forti, sull’individuazione dei nemici e la paura dell’ ‘altro’. Entrambi guidano partiti nei quali trovano spazio personaggi discutibili e nostalgici di una destra estrema e non fanno molto – uso un eufemismo – per liberarsene. Entrambi esibiscono simpatia e amicizia verso leader di governo che stanno stravolgendo il carattere liberale e quindi democratico dei rispettivi Paesi, parlo naturalmente di Orbàn e Morawiecki, dell’Ungheria e della Polonia. Entrambi flirtano con l’integralismo cattolico. Entrambi ogni volta che spiegano che non sono contro l’Europa, hanno sempre un MA da aggiungere che li rende perlomeno ambigui e poco affidabili. Ossessionati, poi, come sono, da un ‘patriottismo’ identitario escludente. Come si fa ad essere europeisti se accanto all’amore per il proprio Paese non si cura e coltiva con altrettanta determinazione l’identità europea? Sono da temere entrambi.

Spesso la Meloni si richiama a De Gaulle. Non trova azzardato questo richiamo?

È un vezzo che ha anche Marine Le Pen. Ricordo solo che de Gaulle fu il leader della Resistenza francese e combatté contro il nazismo e il fascismo di Vichy, il partito di Meloni ha nel proprio simbolo la fiamma tricolore. E i simboli contano. Ho sentito che ha richiamato l’idea dell’Europa delle patrie attribuita a de Gaulle (ma lui stesso negò di avere mai usato questa espressione, avendo invece parlato di un’Europa degli Stati). Ma chissà se Meloni avrebbe condiviso con il Generale l’idea che Dante, Goethe, Chateaubriand, pur essendo divenuti grandi nelle loro rispettive lingue, appartenevano a tutta l’Europa? E poi, de Gaulle parlava dell’Europa degli Stati, di una Europa confederale, quella che Meloni dice di volere, sessant’anni fa. Il mondo cambia, va avanti. Ciò detto, eviterei di richiamare visioni di grandi uomini per la propria piccola propaganda.

A ben vedere siamo ben lontani da una destra repubblicana ed europeista. Chi poterebbe essere un costruttore?

Oggi? In Italia? Nessuno. In questi decenni è stata fatta tabula rasa.

Ultima domanda: come si sta comportando Enrico Letta?

Lo dico con rammarico, perché è una persona che stimo: costringendo la sua azione dentro al perimetro di una alleanza con i 5 stelle credo che si precluda ogni possibilità di rivitalizzare un partito ormai senza bussola. Ma sinceramente, fare ritrovare la bussola al Pd, a questo stadio della sua crisi, temo sia ormai una impresa titanica.