“L’Italia ha ancora bisogno del riformismo di Renzi”. Intervista a Giorgio Tonini

Foto Roberto Monaldo / LaPresse20-11-2015 RomaPoliticaSenato - Legge StabilitàNella foto Giorgio ToniniPhoto Roberto Monaldo / LaPresse20-11-2015 Rome (Italy)Senate - Stability lawIn the photo Giorgio Tonini

Foto (Roberto Monaldo/LaPresse)

Sono giorni di grande fibrillazione per il PD. Dopo la sconfitta del 4 dicembre, la nascita del governo di “responsabilità” presieduto da Gentiloni , il Partito democratico si avvia verso una stagione congressuale assai complicata.  Oggi dal palco della convention “Italia prima di tutto” Roberto Speranza, uno dei leader della minoranza bersaniana, ha lanciato la sua candidatura, alternativa a quella di Renzi, alla segreteria del PD. Domani, sempre a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale del PD. In quell’occasione Matteo Renzi farà la sua proposta per lo svolgimento del Congresso. Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con il senatore Giorgio Tonini, Presidente della Commissione Bilancio del Senato ed esponente della maggioranza renziana.

Senatore Tonini, partiamo ancora dal Referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Qual è stato l’errore fatale, oltre alla personalizzazione, che ha commesso Matteo Renzi? 

A me pare che il risultato del Referendum abbia messo in evidenza due limiti della nostra strategia politica. Per un verso, l’isolamento: eravamo partiti, dopo la rielezione di Napolitano, con uno schieramento politico-parlamentare che superava il 70 per cento, al punto che, durante il governo Letta, ci si era posti il problema di come tenere comunque il Referendum confermativo, anche nell’ipotesi, data quasi per certa, di superare il quorum dei due terzi, previsto dall’articolo 138. Quell’ipotesi è tuttavia tramontata molto rapidamente. Già nel periodo lettiano, abbiamo assistito all’immediato formarsi di un fronte contro la riforma, costituito dalla sinistra a sinistra del Pd e dal Movimento Cinquestelle, con l’appoggio dell’area intellettuale guidata da Rodotà e Zagrebelsky e da quella sociale che si andava organizzando attorno alla Cgil e in particolare alla Fiom di Landini. Ma nel giro di pochi mesi, abbiamo dovuto assistere anche al rapido riposizionamento della Lega e poi dello stesso Berlusconi, uscito dalla maggioranza di governo dopo il voto del 27 novembre 2013 sulla sua decadenza da senatore, per effetto della condanna definitiva per frode fiscale. Con un’abile manovra parlamentare, Letta era riuscito ad evitare la crisi del suo governo, grazie alla scissione di Alfano e alla nascita di Ncd, ma non quella della larga maggioranza per le riforme, che di fatto, alla fine del 2013, erano tornate nell’affollato archivio dei progetti impossibili. Fu Matteo Renzi, che nel frattempo aveva conquistato la leadership del Pd con le primarie dell’8 dicembre, che provò e in effetti riuscì a ricomporre la frattura con Berlusconi, grazie al Patto del Nazareno, stipulato il 18 gennaio 2014. Ma anche quel patto venne disdettato da Berlusconi, dopo l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, il 3 febbraio 2015. Dico “dopo” e non “a causa” dell’elezione di Mattarella, perché ho sempre pensato che quello sia stato in larga misura un “casus belli”, utilizzato da Berlusconi per sottrarsi a un abbraccio, quello con Renzi, che stava diventando elettoralmente e politicamente soffocante. La morale di questa storia è a mio avviso chiara: in Italia è difficile, per non dire impossibile, fare riforme a larga maggioranza, perché le riforme richiedono tempi lunghi, mentre le larghe intese, nel nostro paese, a causa della debolezza dei partiti, hanno sempre e inevitabilmente vita breve. Francamente non saprei cosa rimproverare a Renzi su questo versante. Anche lui si è dimostrato abile nella tattica parlamentare e infatti la riforma è arrivata in porto con una larga maggioranza assoluta, anche se lontana dai due terzi. Ma poi, al referendum, ci siamo ritrovati soli, come la Francia di Napoleone contro la Santa Alleanza. Abbiamo aggregato attorno a noi più di 13 milioni di voti, gli stessi che aveva raccolto Veltroni nel 2008: tanti, tantissimi, ma del tutto insufficienti per vincere. 

Parlava di due limiti della strategia riformista di Renzi e del Pd. Qual è stato il secondo?

L’ennesima riproposizione del “riformismo dall’alto”, del riformismo “senza popolo”. Mi spiego meglio. Il risultato del Referendum, letto in chiave solo politica, ci consegna un’immagine apparentemente semplice, quasi scontata: un Pd rimasto solo coi suoi piccoli alleati di governo, che si ferma ad un perfino lusinghiero 40 per cento, contro tutti gli altri, che alla fine  mettono insieme “solo” il 60. Ma se guardiamo la composizione sociale, demografica e geografica del voto, quell’immagine si complica e di molto, perché il Sì prevale nelle aree forti del paese, quelle che guardano al futuro con un certo grado di fiducia e di speranza, mentre il No dilaga in quelle più deboli e sofferenti, tra le quali dominano la paura e la rabbia. Non credo che in questa frattura il contenuto della riforma abbia pesato, se non in minima parte: difficile credere che la differenza tra l’affermazione del Sì a Milano e il trionfo del No in Sicilia e Sardegna sia stata prodotta da come era scritto il nuovo articolo 70, dalla composizione del nuovo Senato, o dal “combinato disposto” con l’Italicum. La spiegazione di tale divario non può che essere molto più radicale e per noi ancor più dolorosa: se la parte più debole e dolente del paese ha votato No, è perché ha voluto bocciare il governo e la sua politica di riforme, istituzionali ma anche economiche e sociali. Ciò significa che il nostro riformismo non è riuscito a conquistare la fiducia del popolo e in particolare della parte di esso che, dal nostro punto di vista, più avrebbe dovuto beneficiare delle riforme: i giovani precari, i disoccupati, i meno garantiti in generale. E invece, abbiamo dovuto assistere al paradosso dei mandarini del Senato o del Cnel, “salvati” dai disoccupati del Sulcis. Come i Borboni difesi dai contadini di Sapri, che massacrarono i trecento, giovani e forti, reclutati da Carlo Pisacane. L’alleanza tra le plebi disperate e i conservatori, contro i riformisti, è un classico della storia d’Italia. Renzi ha sempre detto, giustamente, che la comunicazione è l’essenza della politica, che una buona politica non comunicata bene, semplicemente non è politica. E che contrapporre riforme e consenso è un non senso. Eravamo dunque consapevoli e avvertiti del rischio che correvamo, del riproporsi della frattura manzoniana tra buon senso e senso comune. Ma non siamo riusciti ad evitarlo. Da qui dobbiamo ripartire: dalla ricostruzione di un’alleanza riformista tra merito e bisogni, tra la maggioranza dei milanesi che ha condiviso la riforma, insieme ai nostri “cervelli in fuga” all’estero, e quella dei siciliani che, insieme alla generazione perduta dei 25-40enni condannati a una vita da precari, ha usato il No per esprimere la sua protesta e la sua rabbia. 

Giuseppe De Rita, tempo fa, parlava della visione morotea e andreottiana della politica. quella morotea era la politica come visione, quella andreottiana era la politica della somiglianza agli elettori. Su quale delle due si è mosso Renzi?

In effetti De Rita, in un’intervista molto interessante rilasciata qualche mese fa alla rivista “Pandora”, ha ricordato il dibattito che si aprì negli anni ’70, all’interno della Democrazia Cristiana, tra la visione “riformista” di Moro, secondo la quale la politica deve orientare i processi sociali, accompagnarli verso un fine, dare loro un orientamento, una direzione, e quella “realista” di Andreotti, per il quale compito della politica non è quello di orientare la società, ma solo di rassomigliarle, perché solo rassomigliandole si prendono i voti. Renzi, per carattere e per modo di fare politica, non è un “moroteo”, semmai un “fanfaniano”, non privo di tratti “andreottiani”, a cominciare dalla netta preferenza per il governo rispetto al partito. Ma se vogliamo utilizzare lo schema di De Rita, la battaglia di Renzi e del Pd per le riforme si è certamente ispirata alla ambiziosa e impegnativa visione di Moro ed è andata ad impattare contro l’eterno muro di gomma della cultura dell’adattamento, per decenni impersonata in Italia da Giulio Andreotti.

La valanga di No che ha sommerso la Riforma Boschi, come si sa, è stata, per molteplici fattori, un No a Matteo Renzi. La sensazione, che si percepisce nel Paese, è che Renzi e il “renzismo” siano da archiviare.  E’ sbagliata, secondo lei, questa affermazione?

Matteo Renzi è un grande combattente. La sconfitta lo ha certamente indebolito, ma la notizia della sua morte politica, avrebbe detto Mark Twain, “è fortemente esagerata”. Quanto al “renzismo”, non saprei dire esattamente cosa sia, se non la (ennesima) declinazione originale, proposta da un leader riformista, del riformismo stesso. L’Italia non ha mai conosciuto, in 70 anni di storia repubblicana, un ciclo riformista degno di questo nome. Ha conosciuto solo brevi stagioni riformiste: gli anni di De Gasperi e Vanoni, il primo centro-sinistra, alcuni aspetti della stagione della solidarietà nazionale o del governo Craxi, il primo governo Prodi e certamente il governo Renzi. Tutti tentativi bruscamente e talvolta brutalmente interrotti. Di solito dal comparire sulla scena della Santa Alleanza tra massimalisti e conservatori. Le conseguenze di questa triste anomalia italiana sono sotto gli occhi di tutti: siamo il paese col più alto debito pubblico, la crescita più bassa e la diseguaglianza più accentuata. Ma i nemici del riformismo non hanno una proposta per il paese, hanno solo il peso della loro forza, di solito messa al servizio della pura conservazione dell’esistente. Quando nei prossimi mesi questo vuoto di proposta emergerà in tutta la sua chiarezza, per le ragioni dei riformisti si aprirà una nuova finestra di opportunità. E Renzi ha ottime possibilità di essere ancora lui il leader riformista del quale il paese ha bisogno. A condizione, naturalmente, che sappia imparare e maturare dalla sconfitta.

Antonio Polito, sul “Corriere della Sera”, ha scritto che il Referendum ha segnato la fine della II Repubblica (quella basata sul maggioritario, sul leaderismo, sulla ipercomunicazione televisiva) e qualcuno palesa il ritorno alla I repubblica, ovviamente senza i giganti che l’hanno fondata. Come se ne esce Senatore?

La tesi di Polito è suggestiva, ma non del tutto convincente. Peraltro contraddice la previsione, da lui e da altri formulata durante la campagna referendaria, che poco o nulla sarebbe cambiato con la vittoria del No. La democrazia è in affanno in tutto il mondo, ma resta, oggi come ai tempi di Churchill, “il peggiore dei regimi, esclusi tutti gli altri”. E la democrazia, per funzionare, ha bisogno di alcune, semplici condizioni: stabilità di governo, pochi e grandi partiti, competizione per la leadership, contropoteri indipendenti, società pluralista. Si può dire, certamente, che la cosiddetta II Repubblica abbia fallito l’obiettivo di darci una “democrazia compiuta”. Ma non si può dire che non ci resta che rassegnarci a quella che, sempre Moro, chiamava la “democrazia difficile”. Certo, il fallimento della II Repubblica e quello del tentativo di uscirne in avanti, con la creazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria, e una riforma che rimodellasse il sistema politico in questa direzione, ripropongono una stagione di governi deboli, di frammentazione della rappresentanza e di complessiva instabilità e precarietà. Ma questa prospettiva è l’esatto contrario di quel ciclo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto e del quale avrebbe un disperato bisogno. Proprio per questo il No è una non risposta, che lascia intatti i problemi storici del paese. E la necessità di affrontarli.

Riuscirà il PD a tenere fermo il principio maggioritario? E se dovesse prevalere in Parlamento una legge proporzionale le ragioni profonde e organizzative del PD cambierebbero?

Per completare la transizione dalla democrazia proporzionale a quella maggioritaria era indispensabile la riforma del bicameralismo. Con due Camere entrambe dotate del potere di fiducia e un sistema politico multipolare, tenere fermo il principio maggioritario è molto difficile. Bisognerà cercare almeno di limitare il danno. Una via potrebbe essere il ripristino del Mattarellum: una via che la Corte costituzionale non ha voluto seguire, quando ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge Calderoli, preferendo correggerla in senso proporzionale. Vedremo se la sentenza sull’Italicum andrà nella stessa direzione. Certo è che se il “combinato disposto” tra bocciatura della riforma costituzionale e controriforma elettorale ci riconsegnerà nelle mani della politica proporzionalistica, sarà difficile fermare un movimento dal basso di segno presidenzialista. Non sottovaluterei il movimento in atto di protesta contro “l’ennesimo governo non deciso dagli elettori”. È vero che si tratta di una sgrammaticatura costituzionale, tanto più grottesca in quanto alimentata da forze che si sono opposte ad una riforma che aveva come principale obiettivo proprio la legittimazione popolare dei governi, attraverso la elezione, con un sistema maggioritario, di una sola Camera politica. Ma quando milioni di italiani si renderanno conto del paradosso e dell’inganno, la spinta popolare contro il parlamento e verso il presidenzialismo potrebbe farsi inarrestabile. La destra politica potrebbe in tal modo ritrovare una sua bandiera e un’occasione di riscossa. Questa è la vera “mucca nel corridoio” che Bersani farebbe bene a vedere. Altro che deriva autoritaria del “combinato disposto” tra riforma Boschi e Italicum…

Parliamo del governo. Governo di responsabilità per fare fronte alle emergenze (Europa, economia, terremoto. ecc). Non era il caso di cambiare la compagine governativa? La gente avrebbe compreso di più…

Inutile nascondersi dietro un dito: con la sconfitta della riforma, la legislatura è politicamente finita. Come ha giustamente affermato il presidente Mattarella, si tratta di portarla a conclusione in modo ordinato, salvando dalle macerie della riforma abbattuta dal Referendum, almeno una legge elettorale condivisa, possibilmente funzionale a garantire il massimo di stabilità possibile. Per fare questo lavoro c’è bisogno di qualche mese e dunque di un governo nella pienezza delle sue funzioni. Il Pd aveva proposto un governo istituzionale sostenuto da tutti i gruppi parlamentari. Le opposizioni hanno bocciato questa ipotesi dischiarandosi non disponibili. Non è restata dunque altra via possibile, che quella di un governo che garantisse al tempo stesso la discontinuità politica, espressa al massimo livello dal passo indietro di Renzi, e la continuità amministrativa, con la conferma della maggior parte dei ministri, tanto più opportuna nella prospettiva di una durata circoscritta a qualche mese. Il Pd si è fatto carico di questa responsabilità, assai probabilmente impopolare. Chiedere di andare subito al voto e al contempo lamentare la mancata svolta nella compagine governativa, come hanno fatto molte forze di opposizione, è talmente contraddittorio da risultare ridicolo.

Come si concilia la “responsabilità”  governativa con l’esigenza della rivincita di Renzi?

Il problema non è la rivincita di Renzi, ma la delegittimazione di questo Parlamento. Non possiamo barricarci nel bunker. Se non vogliamo essere travolti, non dobbiamo avere né mostrare paura del voto. Lo spazio della “responsabilità” sta nell’aver accolto l’invito del Presidente della Repubblica a formare un nuovo governo, nella pienezza delle sue funzioni, per il tempo necessario ad approvare una riforma elettorale coerente con i dettami della Consulta. Se si pensasse di andare oltre, almeno in questo contesto politico, significherebbe capovolgere la responsabilità nel suo contrario.

Intanto all’orizzonte si profila un referendum abrogativo proposto dalla  Cgil sul Jobs Act. L’infelice battuta del ministro Poletti non aiuta certo il PD. Quali iniziative pensate di mettere in campo per superare l’ostacolo? Sarà possibile trovare una soluzione ragionevole?

Se dopo la riforma costituzionale dovesse essere abbattuto a furor di popolo anche il Jobs Act, vorrebbe dire che l’Italia non solo è la grande malata d’Europa, ma a differenza della Germania dei primi anni duemila, è un malato che rifiuta di curarsi. Riforma previdenziale, riforma costituzionale e riforma del mercato del lavoro hanno rappresentato in questi anni le credenziali con le quali l’Italia si è ripresentata sulla scena europea e internazionale ed ha conquistato una rinnovata credibilità. Senza quelle riforme e quella credibilità, Mario Draghi non avrebbe potuto varare il programma di politica monetaria espansiva che ha sostenuto quel po’ di crescita e di ripresa occupazionale che abbiamo avuto in questi ultimi anni e la crisi dell’Euro sarebbe diventata ingovernabile. Senza quelle riforme e quella credibilità, l’Italia non avrebbe potuto presentarsi come alfiere di una possibile “terza via”, tra la versione più radicale dell’austerità, propugnata dai falchi della Bundesbank, e la sterilità autolesionistica della protesta populista, inutilmente applaudita ad Atene come a Madrid. La credibilità dell’Italia e della sua terza via è stata già pesantemente indebolita dall’esito del Referendum e dalle conseguenti dimissioni di Renzi. Manca solo la bocciatura popolare del Jobs Act per completare il capolavoro. Questo non significa che il Jobs Act vada considerato immodificabile. Un tagliando per verificare cosa abbia funzionato e cosa invece vada messo a punto, è non solo possibile, ma anche opportuno. Soprattutto, andrebbe attuata la parte, in gran parte finora rimasta sulla carta, che riguarda le politiche attive del lavoro, a cominciare dai centri per l’impiego e dai contratti di ricollocamento. Ma il Referendum proposto dalla Cgil sembra ignorare tutto questo e ispirarsi alla linea massimalista di Bertinotti di estensione generalizzata dell’articolo 18, culminata nel Referendum malamente perduto nel 2003. La Cgil deve decidere se seguire questa strada, contraddittoria con la sua grande storia, o se invece dare seguito alle positive pagine scritte con l’accordo sulle pensioni, recepito dalla legge di Bilancio, e con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che è parso annunciare una nuova stagione, unitaria sul piano sindacale e innovativa nelle relazioni industriali italiane.

Oggi la minoranza bersaniana ha lanciato la candidatura di Roberto Speranza alla segreteria, e domani, a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale deciderà sul prossimo Congresso. Un congresso che Renzi vuole che sia rapido. Non trova che sia un altro clamoroso errore questo di Renzi? Il partito è a pezzi Senatore…

Forse non è a pezzi, ma certamente il Pd, l’unico vero partito italiano, è in affanno. Un Congresso vero è dunque necessario e urgente. Per ridare al partito una linea politica, una leadership legittimata e anche una forma organizzativa pensata e strutturata in modo innovativo. In questo caso, fare bene e fare presto sono due facce della stessa medaglia. Prendere tempo non significherebbe infatti approfondire la riflessione, ma abbandonarsi al gioco suicida delle correnti. E far mancare al paese l’ultimo appiglio a cui aggrapparsi per non finire nella riedizione della I Repubblica. E come è noto quando una pagina grande e tragica si ripete, di solito assume le sembianze della farsa. Stavolta sarebbe anche una farsa con ben poco da ridere.

C’era una volta la Sinistra Sociale. Intervista a Giorgio Merlo

carlo-donat-cattin-1In tempi di crisi della sinistra, non c’è solo la sconfitta del referendum, che è una crisi di progettualità culturale e politica. In altre parole è una crisi di senso per la Sinistra. Il libro, pubblicato dalla Studium, che qui presentiamo, La Sinistra Sociale. Storia, testimonianze, eredità, si inserisce in questa congiuntura. Ora lo sguardo del libro è uno sguardo lungo, lo sguardo della memoria e della storia dei protagonisti che hanno militato nella sinistra sociale della DC. Quali valori la ispiravano? Ha ancora un senso oggi una sinistra sociale? Proviamo a trovare delle risposte in questa intervista con Giorgio Merlo. Merlo è stato un allievo politico di Carlo Donat Cattin. Ex Deputato PD, in quel partito è vicino alle posizioni di Gianni Cuperlo.

Giorgio Merlo, il vostro libro (lo hai scritto insieme a Gianfranco Morgando) ha un merito di gettare,  finalmente, una luce sull’esperienza politica della corrente di  sinistra sociale della Dc: Forze Nuove e del suo leader Carlo Donat Cattin. Come si spiega questo oblio? Quali pregiudizi stanno alla base di questo?

9788838244032_0_190_0_80In effetti l’esperienza e il magistero politico di Carlo Donat-Cattin e della intera sinistra sociale della Dc sono stati clamorosamente e misteriosamente archiviati. Mi colpisce come autorevoli giornalisti e commentatori politici ancora oggi quando fanno l’elenco dei principali leader della Democrazia Cristiana dimenticano puntualmente Donat-Cattin. Che e’ stato, come molti sanno, uno degli esponenti piu’ autorevoli e piu’ rappresentativi dell’intera storia democratico cristiana. E questo libro, se ha un merito, e’ quello di rileggere una storia che e’ stata decisiva ed essenziale non solo per la Dc ma per l’intero movimento cattolico italiano.

Parliamo di Forze Nuove.  È stata una vera e propria scuola di politica all’interno della Dc. Quali erano i punti fermi di Forze Nuove dal punto di vista dei valori e del programma? In che misura è stata importante per la Dc? 
Forze Nuove, e prima ancora Forze sociali e Rinnovamento, hanno segnato in profondità la storia della Dc e della intera politica italiana. Forze Nuove rappresentava un pezzo autentico di societa’. Societa’ reale e non societa’ virtuale. Del resto, la Dc era un partito interclassista e la rappresentanza concreta, e trasparente, di interessi della società ne rappresentava il suo tratto caratteristico. Forze Nuove era la voce degli operai, dei ceti popolari e del sindacalismo di matrice cristiana nel partito. E la figura di Donat-Cattin ne rappresentava la voce più autorevole e più qualificata. Una presenza, quella di Forze Nuove, che Aldo Moto riteneva essenziale per lo stesso profilo popolare ed interclassista della Dc. Altroche’ corrente di potere. Forze Nuove e’ sempre stata una corrente di idee e una componente che rappresentava autenticamente un pezzo di società.

Nel tuo libro citi Sandro Fontana, storico e Grande dirigente della corrente, che parla di differenza “antropologica” di Forze nuove rispetto alle altre correnti di Sinistra della Dc. Il termine è assai forte, in cosa consisterebbe?
Sandro Fontana, oltreché fine intellettuale e grande storico, e’ stato anche un autorevole e qualificato dirigente politico. Memorabili le sue pagine sul profilo politico, culturale, sociale e anche etico della sinistra sociale della Dc. La diversità “antropologica” era un termine volutamente forte, nonché provocatorio, per sottolineare le ragioni esclusive e specifiche della corrente di Forze Nuove. Del resto, Forze Nuove nella Dc non ha mai avuto un peso di potere significativo. Nei congressi contava a malapena il 5-7 per cento della intera rappresentanza del partito. E questo tanto a livello nazionale quanto a livello locale. Ma esercitava un peso politico di grande importanza. E questo era dovuto quasi esclusivamente alla produzione politica, alla elaborazione culturale e alla qualità della sua classe dirigente. La diversità antropologica richiamata da Sandro Fontana era un po’ questa. Una diversità che la faceva essere una “corrente” profondamente diversa dalle altre componenti e dalle altre correnti democristiane.

Come spieghi l’anticomunismo di Donat Cattin? La competizione con il PCI di allora era  molto forte, eppure per una visione di sinistra sociale sarebbe stata  una base per una possibile collaborazione? Invece arrivo’ il “preambolo”….
L’anticomunismo di Donat-Cattin fu forte, netto, spietato ma sempre trasparente e chiaro. E non fu mai un anticomunismo ideologico o pregiudiziale, ma sempre e solo un anticomunismo politico. Basato sui fatti e sulle politiche concrete. Nella bella testimonianza rilasciata da Diego Novelli nel mio libro, storico sindaco comunista di Torino e amico di Donat-Cattin, scrive che “Donat e’ sempre stato un anticomunista che, pero’, ha sempre difeso i ceti popolari”. Ecco, miglior definizione non c’e’ per descrivere Donat-Cattin. E questa sua posizione lo rende effettivamente un personaggio quasi unico nel panorama politico italiano per molti anni. Un personaggio, cioè’, che non rientra nel cliché classico del democristiano. A volte contestato nel partito perché’ “troppo di sinistra” e contestato violentemente anche dal Pci dell’epoca perché’ concorrenziale e competitivo nella difesa dei ceti popolari ed operai. E anche questa, comunque, e’ stata la grandezza e la complessità’ della figura politica di Carlo Donat-Cattin.

Il rapporto tra Moro e Donat Cattin è stato molto stretto. Pensi che Donat Cattin si sentisse l’interprete più” ortodosso” della Terza Fase morotea (tanto da fondare una rivista “Terza Fase”). Insomma per lui cos’era la terza fase?.
Il rapporto tra Donat-Cattin e Aldo Moro e’ sempre stato molto stretto e profondo. C’era grande stima e grande rispetto tra i due. E Donat-Cattin ha sempre avuto in Moro un punto di riferimento politico di primaria importanza. In tutte le principali fasi politiche vissute da questi grandi statisti Donat-Cattin ha sempre visto in Moro la bussola politica per eccellenza. Certo, poi e’ arrivato il “preambolo” dopo la stagione della solidarieta’ nazionale. Apparentemente una contraddizione per un uomo come Donat-Cattin. Ma cosi’ non e’. Donat-Cattin, come ricordavo poc’anzi, non e’ mai stato animato da un anticomunismo ideologico. Non a caso, nel documento che ispirava il “preambolo” scritto di pugno proprio da Donat-Cattin, si parlava della impossibilita’ di una alleanza con il Pci. Ma, e qui sta il segreto e la ragione di quella grande operazione politica, si diceva “allo stato dei fatti”. Cioè’ tenendo conto delle ragioni politiche di quel momento e di quella particolare fase storica. Non a caso, proprio dopo la stagione del preambolo, Donat-Cattin da’ vita alla bella rivista “Terza Fase”. Che voleva, anche nel nome, non disperdere la grande lezione politica, culturale ed umana di Aldo Moro.

Gli anni 80,  in particolare la seconda metà, sono gli anni della egemonia socialista (il famoso CAF) e sono anche gli anni dell’inizio della fine della prima Repubblica. Donat Cattin aveva sentore della crisi della Repubblica (ovvero della questione morale)? 
Donat-Cattin muore nel marzo del 1991, l’anno prima dello scoppio di tangentopoli. Ma nei suoi scritti su Terza Fase, nei convegni di Saint-Vincent, nei suoi innumerevoli interventi alla Direzione nazionale e nei Consigli nazionali della Dc, non mancava di ricordare il profondo decadimento morale ed etico della politica italiana. La profonda ed intollerabile presenza dei partiti in tutti i gangli della società’ italiana e una classe dirigente sempre piu’ onnivora erano argomenti sempre al centro delle sue profonde riflessioni politiche. Intuiva, quindi, le avvisaglie di un uragano che prima o poi poteva scoppiare. Certo, la sua esperienza terrena e’ finita prima di questo terremoto ma il leader politico di razza aveva capito che, forse, eravamo alla vigilia di profondi cambiamenti.

Un’altra lezione di Donat Cattin è stata la grande attenzione al movimento sindacale. È ancora attuale? 

Il sindacato, le sue battaglie, il suo ruolo, la sua presenza sono sempre stati al centro della sua agenda politica. E, ieri come oggi, la difesa dei corpi intermedi non e’ una battaglia di retroguardia o meramente nostalgica. E’ la grammatica di una concezione democratica della società’. E io aggiungo anche di una concezione cristiana della società’. Laica, mai integralista o clericale della società’ stessa. Certo, difendere e valorizzare il ruolo del sindacato non passa di moda. Ieri come oggi. E questo per il semplice motivo che questa concezione che difende il pluralismo e la democrazia dei corpi intermedi affonda le sue radici nei valori e nei principi scolpiti nella Costituzione, frutto anche della cultura cattolica democratica e cattolico sociale. Anche per questo la “lezione” di Carlo Donat-Cattin e della sinistra sociale della Dc non può essere archiviata o banalmente storicizzata.

Tu militi nel PD, un partito che sta attraversando una crisi profonda (la sconfitta referendaria pesantissima). Cosa può insegnare la figura di Donat Cattin e la storia di Forze Nuove ai dirigenti del PD?
Lo dico con molta franchezza e sincerità’. Nel mio impegno, oggi come ieri, il magistero di Donat-Cattin continua ad essere la mia bussola di riferimento. Dalla concezione del partito alla cultura delle alleanze, dalla qualità’ della classe dirigente alla necessita’ di una continua elaborazione culturale, dalla centralità’ della questione sociale alla difesa dei ceti popolari. Rispetto al “nulla” della politica contemporanea, per dirla con Mino Martinazzoli, il pensiero, l’azione e il magistero di uomini come Donat-Cattin continuano ad essere punti di riferimento insostituibili per chi crede, ancora oggi, in una presenza laica del cattolicesimo democratico nella politica italiana.

“La vittoria di Trump è la sconfitta della sinistra blairiana”.
Intervista ad Alessandro De Angelis

 

Alessandro de Angelis (LaPresse)

La vittoria clamorosa di Donald Trump, alle presidenziali USA, contro Hillary Clinton sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale. Anche il nostro Paese, i partiti e gli analisti politici, si sta interrogando sulle conseguenze che la vittoria del “Cigno Nero” avrà sulla politica italiana. Ne parliamo con Alessandro De Angelis, cronista politico dell’Huffington Post.

Alessandro De Angelis, la vittoria di Donald Trump segna una svolta drammatica per gli Usa. L’onda populista investe l’America. Quale riflesso avrà per la politica italiana? Un aumento del furore anti-elites?

Drammatica? Non lo so. Perché, secondo me, è ancora presto per prevedere quale forma prenderà la presidenza di Trump. Farà davvero un muro con il Messico? Porterà Trump l’America a un nuovo accordo con la Russia di Putin? Allenterà il suo rapporto con gli europei? Difficile dire ora. Una cosa infatti è un candidato un’altra un presidente. Hai sentito il primo discorso, con toni più concilianti?

Però il tema della rivolta contro le elites c’è…

Siamo di fronte a un voto che porta al punto più alto un leader anti-establishment e con esso ci porta il rifiuto del sistema. È un fatto epocale che trascina tutti in una dimensione nuova. E questo è il punto che legittima e influenza le istanze in movimento negli altri paesi, compresa l’Italia.

Renzi proverà a cavalcarla questa onda?

Direi che la passarella alla Casa Bianca con Benigni lo colloca, simbolicamente, non dalla parte del surfista ma da quella di chi dall’onda viene travolto. Andiamo al dunque: ci vogliamo dire che Trump rappresenta la sconfitta della sinistra mondiale che cerca ancora di riprodurre lo schema della Terza via, in stile anni Novanta, quella della sbornia liberista?

Parliamo appunto di Italia. Tu sei stato alla Leopolda. Forse Renzi, indossando di nuovo i panni del rottamatore, ha provato a intercettare il vento anti-establishment?

Non la vedo così. A me sembra che il premier sia immerso in quella cultura della Terza via che rischia di essere travolta. Prima di Trump c’è stata la Brexit e prima ancora il voto in Austria. La crisi, drammatica e prolungata, ha cambiato il mondo facendo emergere un bisogno di protezione e di sicurezza, che la destra interpreta con i muri e la sinistra dovrebbe interpretare con un nuovo welfare. Ora tu mi chiedi della Leopolda. La Leopolda, in questo quadro, è apparsa come un “bunker del sì”, più un fortino dell’establishment più che la trincea avanzata del cambiamento.

Spiegati meglio…

Io non vedo la rottamazione come la intendi tu, vedo uno spostamento a destra dell’asse del Pd. Vuoi rottamare Bersani e non Verdini, la Cgil e non Marchione. Questa la chiami rottamazione? Parliamoci chiaro, se vince il sì al referendum il Pd diventa il Pdr, il partito di Renzi. Un partito che, oltre ad essere il partito del Capo, è un partito centrista nelle politiche e nel ceto politico – non ha caso imbarca pezzi di destra in tutta Italia – e un partito del potere più che del cambiamento. L’establishment appunto. O mi vuoi dire che le manovre economiche varate sono manovre che rispondono più ai bisogni della parte più sofferente della società che al consenso elettorale?

Però c’è un pezzo di sinistra che, almeno sulla legge elettorale, ha scelto Renzi. Proprio nei giorni della Leopolda Cuperlo ha siglato un accordo per modificare l’Italicum.

Quella bozza non vale nulla. L’hai letta? Pare scritta da Mariano Rumor. Si parla di “verificare le condizioni”, “approfondire”. Non c’è una proposta di modifica né una scadenza temporale. Insomma, quando si voterà il 4 sarà vigente l’Italicum. Non è un caso che Renzi non ha detto una parola sulla legge elettorale.

Cuperlo però ha firmato. Che obiettivo ha?

Secondo me Cuperlo ha colto l’occasione per cambiare schema politico. La legge elettorale non c’entra nulla. Diciamola così: ha in mente il modello Milano, a livello nazionale, con Zedda e Pisapia. Per capirci: metti Renzi al posto di Sala e proiettalo su scala nazionale. Non parlerei di alternativa al renzismo nel Pd. Ecco, al fondo della rottura con la minoranza c’è questo.

Dopo il 4 dicembre come sarà il PD? 

Il Pd è già qualcosa di diverso rispetto alla sua vocazione originaria. Il sì sarà il battesimo del Partito di Renzi e a quel punto la minoranza sarà costretta a fare i conti con questa realtà. L’hai sentiti i cori alla Leopolda “fuori, fuori?”. Se vince il no, si aprirà il congresso più feroce della storia del pd.

Parliamo del Referendum. Nonostante il tentativo di spersonalizzazione di Renzi, un tentativo assolutamente fallito, ho l’impressione che agli italiani di questo Referendum non importa granché. Colpa di Renzi ma anche degli altri partiti che lo vivono come l’opportunità di mandato a casa, o no?

Renzi non ha mai tentato di spersonalizzare. Non dice più “se perdo, lascio la politica”, ma come la vogliamo chiamare questa impostazione se non personalizzazione? È tutti i giorni in tv, parla in continuazione, lo schema è ‘io contro tutti”, evoca il “derby”, cioè la partita dove le tifoserie si odiano di più assoluto. Diciamo le cose come stanno: ha trasformato un referendum sulla Costituzione in un plebiscito. È chiaro che gli altri, lo vivono come opportunità per mandarlo a casa. Poteva tenere il governo fuori e favorire una discussione, pacata e non da derby, sul merito.

Che succede: vince, va a casa o si fa un governo tecnico?

Non faccio previsioni. Tu hai mai fatto previsioni su un derby?

 

“Lo scontro nel PD è tra democrazia dell’alternanza e democrazia consociativa”. Intervista a Giorgio Tonini

Oggi il PD compie nove anni. Per l’anagrafe è un partito giovanissimo. Eppure è lontano “anni luce” l’ entusiasmo di quei giorni. Nacquero comitati civici composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, per sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che “finalmente avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità”: il Partito Democratico appunto. Oggi il PD, come gli avvenimenti dei giorni scorsi hanno mostrato, è un partito diviso, lacerato. Per parlare della situazione interna, della lacerazione politica e della sua possibile soluzione, abbiamo intervistato il Senatore Giorgio Tonini. Tonini è stato tra i fondatori del PD. Attualmente è Presidente della Commissione Bilancio del Senato, ed è esponente di spicco della maggioranza renziana all’interno del partito.

Senatore Tonini, diciamoci la verità: l’ultima direzione del suo partito è stata come il “canto del cigno” del PD (così l’ha definita Marcello Sorgi). Insomma, nonostante le aperture di Renzi sulla modifica dell’Italicum, la minoranza non si fida del Segretario-Premier. Bersani smentisce scissioni, e così altri della sinistra dem. Cuperlo entrerà nella Commissione proposta da Renzi per cambiare la legge elettorale. Però il clima è degenerato. Insomma Renzi dovrà pur fare mea culpa se non riesce a tenere unito il partito. Certo anche la minoranza ha le sue colpe: quella, in primis, di vivere in perenne stato congressuale. Non è un bel compleanno (il nono) per il PD. Non è così Senatore?

Non mi convince un’analisi della discussione interna al Pd che si esaurisce attorno a questioni psicologiche (il brutto carattere di questo o il risentimento di quello), o anche solo ad uno scontro di potere e per il potere. Certo, c’è anche tutto questo: la politica è fatta da esseri umani e non da creature angeliche. Ma il nocciolo della questione è un altro: lo ha detto bene Bersani in un’intervista di qualche settimana fa, parlando di “idee diverse della democrazia”. E in effetti, nella discussione sulla riforma costituzionale e sul cosiddetto “combinato disposto” con la legge elettorale, sta riemergendo, in modo via via più chiaro, la frattura tra chi crede in un modello competitivo della democrazia e dunque tende a sposare sistemi elettorali e istituzionali di tipo maggioritario, e chi invece propende per una visione consociativa e consensuale e preferisce quindi sistemi di tipo proporzionale. Con tutta la buona volontà del mondo, e anche mettendo da parte asprezze e spigolosità, non è facile mediare tra queste due visioni. Si può temperare un impianto maggioritario con correttivi garantisti per le minoranze. O, viceversa, si può correggere un sistema proporzionale con soglie d’accesso e altri meccanismi stabilizzatori. Ma al dunque, si deve scegliere quale strada prendere. La via intrapresa dalla riforma costituzionale e da quella elettorale è la prima: è la via della democrazia dell’alternanza, della competizione tra alternative politico-programmatiche, incarnate da leadership riconoscibili; è la via che affida al cittadino elettore il potere di investitura di chi deve governare. Il superamento del bicameralismo paritario, in favore di un sistema nel quale la Camera abbia l’esclusiva del rapporto fiduciario col Governo e per questo eserciti anche un ruolo preminente nel procedimento legislativo, è il primo pilastro di questa visione della democrazia, quello contenuto nella riforma costituzionale. Una regola di elezione della Camera politica, che selezioni uno schieramento e un leader vincitori nella competizione per il governo, è il secondo pilastro, affidato alla legge elettorale, nel nostro caso all’Italicum. La riforma costituzionale, approvata dal Parlamento, è ora affidata al giudizio popolare e su di essa non si può più intervenire. L’Italicum, invece, si può cambiare: la strada è aperta, sia sul piano tecnico, perché si tratta di una legge ordinaria, sia sul piano politico, dopo l’apertura di Renzi all’ultima Direzione nazionale del Pd. Il problema è come cambiarlo: se per correggere alcuni aspetti, anche importanti (ad esempio preferenze o collegi uninominali…), ma senza rimetterne in discussione l’impianto maggioritario, come in molti nel Pd pensiamo, o se invece si vuole dare al paese una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere chi deve governare, ma vuole riaffidare questa decisione ai parlamentari e ai partiti ai quali essi appartengono. Nel primo caso, la Commissione costituita dalla Direzione su proposta di Renzi, potrà formulare alcune ipotesi sulle quali lavorare in Parlamento. Nel secondo caso, invece, sarà il referendum a sciogliere il nodo.

Dicevamo del nono compleanno , infatti il 14 ottobre 2007 nasceva il PD, di un partito che aveva suscitato grandi speranze. Che è riuscito a rompere un tabù della politica italiana: quello della Sinistra al governo. Pochi “anni dopo, quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta”. Questo è il duro giudizio di Ezio Mauro, in un editoriale di qualche giorno fa su Repubblica. Forse la “mistica” renziana della “rottamazione” non è riuscita a creare una nuova identità di sinistra democratica. Il punto è proprio questo: la radice dei dissensi politici interni al PD sta qui. Un partito che è scarsamente curato dal segretario. Troppo drastici questi giudizi?

L’identità di un partito, ama dire Alfredo Reichlin, è data dalla sua funzione. La funzione del Pd è stata in questi anni ed è oggi più che mai, quella di guidare l’Italia sulla base di una strategia riformista e democratica, unica alternativa di speranza alle suggestioni populiste e talvolta reazionarie che la più grave crisi economica e sociale del nostro tempo ha fatto sgorgare dal corpo provato e spossato del paese. Una strategia che si è segnalata in Europa come l’unico esempio di sinistra riformista al governo, mentre la socialdemocrazia in quasi tutti i paesi del vecchio continente sprofondava nella crisi più grave della sua storia. Altro che partito senza radici e senza orizzonte! La verità è che la storia di questi anni ha dato ragione alla intuizione culturale che sta alla base del progetto originario del Pd, concepito nell’esperienza dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, sbocciato con la leadership fondativa di Walter Veltroni e portato da Matteo Renzi al governo del paese in uno dei passaggi più drammatici della storia d’Italia: l’intuizione per cui solo dall’incontro tra le culture riformiste del Novecento si sarebbe potuto formare e strutturare quel pensiero nuovo, democratico senza aggettivi, che avrebbe potuto guidarci nell’affrontare le inedite questioni proposte dal mondo del Duemila. Certo, questa intuizione ha bisogno di essere coltivata e curata, tradotta in formazione culturale e in una innovativa forma di organizzazione politica. Su questo il Pd è in ritardo. Ma raramente i partiti al govern riescono a trovare energie sufficienti per occuparsi di se stessi: è normale che il nerbo dell forze disponibili sia usato nel e per il governo.

Ora infuria la battaglia sul Referendum. Lei è schierato per il SI. D’Alema ha accusato il vostro fronte di alimentare un “clima intimidatorio” e di essere espressione di un blocco di potere. Anche il vostro fronte non scherza in fatto di esasperazione e provocazione: sul sito “bastaunsi.it” è uscito un articolo che non lascia spazio a molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl 2013”. Con il clima che c’è nel vostro partito, una cosa così è un “capolavoro” all’incontrario di comunicazione politica. Il clima è davvero esasperato. Rischia di produrre, il giorno dopo il Referendum, macerie politiche, da qui il richiamo del Presidente Mattarella. Lei non è preoccupato?

Sono molto preoccupato. Come è accaduto in altri passaggi della tormentata vicenda della nostra democrazia difficile, vedo aggregarsi forze che hanno in comune solo la volontà di opporsi, di contrastare, di impedire al faticoso lavoro del riformismo politico e istituzionale di procedere e di produrre risultati, per quanto limitati, parziali e perfino imperfetti. Questo grande fronte trasversale può far perdere il riformismo, ma non può vincere, se vincere significa non solo battere l’avversario, ma promuovere una visione alternativa. Se vincerà il Sì, il progetto politico riformista e democratico riceverà dal consenso popolare la forza necessaria ad andare avanti nell’opera, al tempo stesso determinata e paziente, di cambiamento del paese. Se invece prevarrà il fronte del No, ci troveremo in un vuoto, di visione e di proposta, malamente colmato da un rassegnato ritorno, un ripiegamento in un sistema politico istituzionale neo-proporzionale, nel quale nessuno vince, nessuno perde e nulla può cambiare. Come si possa pensare di affrontare i grandi nodi strutturali del paese con un sistema politico-istituzionale così debole e frammentato è per me un mistero. Quanto all’accostamento della riforma costituzionale sottoposta al referendum, al programma del Pdl del 2013, non so dire se sia un capolavoro o un infortunio sul piano della comunicazione politica. Dico però che i nostri avversari devono decidersi: vogliono contrastare la riforma perché “approvata a maggioranza spaccando il paese”, o invece perché “copiata dal programma di Berlusconi”? La verità storica è molto più semplice: il percorso riformatore di questa legislatura è nato da un patto tra Pd, Pdl e centristi, lo stesso che ha dato vita, sotto la guida del presidente Napolitano, al governo Letta. Un governo che aveva proprio nelle riforme istituzionali il primo punto programmatico. E le riforme individuate come possibili erano quelle sulle quali si poteva registrare il più alto livello di consenso: la riforma del bicameralismo, la revisione del titolo V nelle parti che non avevano funzionato e la riforma elettorale. Si erano invece accantonati temi più divisivi, come quello della forma di governo (premierato o presidenzialismo), per non dire della questione della giustizia. Dire dunque che la riforma approvata era ampiamente contenuta nei programmi del Pdl, come per altro verso del Pd, è ricordare una ovvietà, come è un’ovvietà ricordare che la rottura con Forza Italia non è si è determinata sul contenuto della riforma, ma su questioni di quadro politico esterne alla riforma stessa. Raccogliere il giusto invito del presidente della Repubblica dovrebbe significare innanzi tutto non nascondere o addirittura mistificare queste elementari verità storiche.

Parliamo di Economia. Lei è presidente della Commissione Bilancio del Senato. Organismo importante. Avete ascoltato il Ministro Padoan. Il governo punta ad una crescita dell’1%. Cifra che viene contestata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ma anche da altri organismi. A parte i dati di agosto, sicuramente importanti, non è che l’anno 2016 sia stato all’altezza delle aspettative del governo. Insomma l’ennesimo spot ottimistico?

Portare il tasso di crescita dell’economia italiana all’1% nel 2017 non è uno spot ottimistico, ma un obiettivo programmatico che il Governo intende perseguire con grande determinazione. L’ufficio parlamentare di Bilancio, autorità tecnica autonoma, istituita grazie al nuovo articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, ha espresso dubbi sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo di crescita, con un deficit pubblico che voglia mantenersi entro il limite del 2%. Al momento tuttavia la Commissione europea non ha ancora accolto la richiesta, da parte delle’ l’Italia, di superare quel limite, anche se il Governo ha già chiesto al Parlamento di essere autorizzato a discostarsene di uno 0,4% di PIL. Qualora questo scostamento venisse in tutto o in parte accettato dall’Unione europea, anche la divergenza tra il Governo e l’ufficio parlamentare del Bilancio sarebbe destinata a ricomporsi. Accanto alla dimensione quantitativa della manovra, decisiva ai fini del raggiungimento degli obiettivi di crescita sarà la sua composizione qualitativa: in particolare è decisivo che una parte significativa delle risorse impiegate nella manovra venga utilizzata per sostenere gli investimenti, sia pubblici che privati.

Lei è ottimista sulla flessibilità di bilancio? Non le pare che stiamo grattando il fondo del Barile?

Penso che dobbiamo creare le condizioni per spingere la crescita oltre l’1%, per portarla verso il 2, se vogliamo che se ne avvertano gli effetti positivi nella vita concreta delle famiglie e delle imprese. Arrivare a questo obbiettivo, che è poi il senso del nostro lavoro, comporta due condizioni, la prima delle quali è nelle nostre mani solo fino ad un certo punto ed è riuscire davvero a cambiare verso alla politica economica europea, ristabilendo il primato politico della crescita rispetto alla stabilità. Abbiamo infatti bisogno che, accanto al lavoro di risanamento, che è necessario venga fatto dagli Stati nazionali, e che quindi accanto al fiscal compact – che non rinneghiamo, perché costituisce un principio d’ordine necessario in una federazione di Stati, che mantengono ancora una forte sovranità sulle politiche economiche e nello stesso tempo vogliono avere in tasca la stessa moneta – accanto a questo elemento di disciplina ci sia un motore espansivo, che si accenda a livello federale. Quando il nostro Presidente del Consiglio invita a fare come in America, intende esattamente questo. Negli Stati Uniti d'America, gli Stati che compongono l’Unione hanno il dovere del pareggio di bilancio: se non hanno il bilancio in pareggio, vanno in default e nessuno li assiste. Allo stesso tempo, però, c’è il motore federale che si accende e c’è un’enorme spinta espansiva, dovuta al fatto che l’azione del Governo federale e il Tesoro americano favoriscono la crescita e l’occupazione. Questo è il compromesso su cui si reggono gli Stati Uniti, che certamente ha i suoi problemi e i suoi limiti, ma i dati ci dicono che, pur con tutti i problemi, sta funzionando molto meglio del compromesso europeo, che spinge gli Stati a rispettare il rigore di bilancio, ma poi non ha il motore federale che si accende e spinge la crescita. Dunque è stata inventata la flessibilità, che ci tiene in vita in questo momento. Se ci togliamo questo ossigeno, soffochiamo. Altro è dire che questo ossigeno, quel poco che c’è, va usato in maniera intelligente. Qui le parole chiave sono due: una è la parola “riforme”, l’altra è la parola “investimenti”. Le riforme sono necessarie, perché sono gli scarponi che usiamo per camminare su quel crinale così sottile e scivoloso che separa i due precipizi che abbiamo ai lati del nostro cammmino: da un lato lo spread, dall’altro la recessione. Se indossiamo scarpe con le suole lisce, è facile scivolare e precipitare. Se abbiamo i ramponi, è più facile camminare con passo sicuro e possiamo anche accelerare il ritmo del nostro passo. Fuor di metafora, ciò vuol dire che gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica devono essere riqualificati, posto che non possono crescere, ma semmai devono diminuire un po’. Per farli diminuire un po’ e produrre crescita e uguaglianza sociale li dobbiamo riqualificare, ristrutturando la spesa pubblica, attraverso le riforme, cominciando dall’alto, ovvero dal Parlamento. Se infatti il Parlamento non funziona, non funziona lo Stato e, se non funziona lo Stato, l’economia va a farsi benedire. Questo è un concetto di normale buon senso: poi possiamo discutere sul merito di come si riorganizzano il Parlamento, il Governo di un Paese e lo Stato. Dire però che questo sarebbe un diversivo non ha senso, perché sarebbe come dire che non ci importa nulla della qualità delle nostre scarpe, mentre dobbiamo camminare su un tratto esposto e quindi pericoloso.

Renzi a Ventotene ha provato a rilanciare il sogno europeo. Ma qualche giorno dopo si è frantumato. Quanto pesa Renzi in Europa?

Renzi si trova a governare l’Italia nel pieno della crisi più grave del progetto europeo dal 1957 ad oggi. Ventotene e Bratislava sono due eventi che insieme ci descrivono perfettamente lo stato attuale della questione europea. Innanzi tutto ci dicono entrambi che i paesi che hanno sulle spalle la responsabilità più grande rispetto al futuro dell’Europa sono Germania, Francia e Italia: se i tre grandi fondatori agiscono in modo solidale e coeso, gli altri seguono. Se invece si fermano, la forza centrifuga prevale su quella centripeta e il progetto europeo entra in crisi. A Ventotene, dinanzi alle radici della più grande utopia storico-concreta che il Novecento ci abbia trasmesso in eredità e di fronte alla vista del Mediterraneo, con le sfide gigantesche che i suoi precari equilibri devono fronteggiare, sembravano prevalere la consapevolezza, la responsabilità e la solidarietà. Viceversa, a Bratislava, sono riemersi con prepotenza i conflitti fra interessi nazionali, secondo il copione tipico del procedimento intergovernativo. La prossima primavera l’Italia ospiterà il vertice programmato per celebrare il 60º anniversario dei Trattati di Roma: anche per questo abbiamo bisogno che il nostro paese arrivi alla prossima primavera, forte di una confermata stabilità di governo e di un riaffermato indirizzo politico riformatore.

“Ci vuole un PD più di sinistra”. Intervista a Peppino Caldarola

Peppino Caldarola

Le ultime elezioni amministrative hanno provocato un vero terremoto politico. I risultati elettorali fanno segnare la crisi del partito guida della politica italiana: il PD. Venerdì ci sarà la direzione nazionale del partito. Lo scenario è molto complicato per il segretario-premier Matteo Renzi. La sinistra interna vuole un “cambio di passo”. Intanto nell’opinione pubblica ci si interroga sul futuro del PD. Lo facciamo in questa intervista con Peppino Caldarola, che è stato direttore dell’Unità ai tempi dell’Ulivo. Una voce storica della sinistra italiana.

Caldarola, questa tornata elettorale ha segnato una grave sconfitta del PD.  E’ il segnale , forse qualcosa di più di un segnale, che il “renzismo” sta perdendo attrattività.   Guardando i risultati il PD si trova in un cumulo di macerie (a parte Milano). Insomma siamo negli “ultimi giorni” del “renzismo”?

 

Non siamo agli ultimi giorni di Renzi ma una fase del renzismo è finita. E’ finita quella fase che vedeva il premier-segretario cavalcare l’onda della rottamazione, svolazzare da un tema a un altro annunciando riforme epocali, viaggiare per l’Europa per blandire e poi minacciare la Merkel, inseguire Putin irritando l’alleato americano, costruendo un castello di nomine in cui c’è stato posto solo per fedelissimi o per amici di fedelissimi. Il renzismo delle mance, della scelta pro-Marchionne e della porta chiusa ai sindacati, del segretario che considerava le minoranza gufi insopportabili. Quel renzismo ha avuto fortuna perché si è incrociato, come oggi accade al grillismo, col malessere di tantissimi italiani. Ma ormai gli elettori cominciano ad avere dubbi. Confrontano le parole ottimistiche con la vita concreta, gli annunci con i risultati e  vedono un partito di sinistra che non ha più un’anima, che è scosso da lotte interne feroci. Da qui la crisi del renzismo che può diventare la crisi finale di Renzi

 

I risultati di Torino e Roma sono un grande successo per il Movimento 5Stelle. Quello che è clamoroso è stato il risultato di Torino. Una amministrazione che ha fatto bene viene mandata via. E’ un PD senza radici?

 

Torino ha un significato semplice. C’era una buona amministrazione e c’è stata una opposizione vigorosa. Fassino è sulla prima scena da tanto tempo. Molti leader, anche onesti, bravi e generosi come lui, devono capire che arriva un momento in cui l’elettorato vuole il ricambio. Anche Torino non è più monarchica. La signora Appendino ha lavorato nel consiglio, è figlia della Torino bene, non è sembrata un salto nel buio. Fassino paga anche il prezzo del carattere nazionale del voto. Sicuramente paga il disancoramento del suo partito dalle radici popolari. Ma questa però è anche colpa sua, che di partiti ne ha diretti almeno un paio.

 

La strategia di Renzi è  stata quella dello sfondamento al centro. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Cosa rende il Movimento 5 stelle più attrattivo, per un elettore “moderato”, rispetto al PD?

 

Il Movimento 5 stelle rappresenta un voto di transito. Oggi ti voto domani no.  I grillini non chiedono chi sei e dove vai. Chiunque può arrivare dallo scontento piddino a quelli di casa Pound.  Il tema che si vince sfondando al centro, è tema utile di discussione se il partito che lo fa sa da che parte stare. Un partito ancorato a sinistra può porsi il problema di sfondare al centro. Un partito che  non è né carne né pesce non sfonda né a sinistra né al centro. Il centro non è come nel passato la zona elettorale della tranquillità, del “queta non movere”, è in atto un rivoluzionarismo dei moderati che si mette in moto contro la politica degli establishment. Se  insegui questi moderati arrabbiati, perdi. Se tieni il tuo territorio e da posizione di forza e radicamento apri discorsi verso aree nuove,  vinci.  Grillo lo fa più facilmente perché il suo movimento è un gigantesco taxi collettivo. Può sempre finire la corsa.

 

Renzi ha riconosciuto che questo voto non è stato un voto di protesta ma di cambiamento.  Volendo, sinteticamente, trovare una ragione profonda della crisi politica di Renzi e del PD qual è secondo lei? 

 

Non è un voto solo di protesta ma lo è ancora. La protesta riguarda un establishment che non dice all’Italia che cosa vuole fare di lei, dove la vuole portare. Nel dopoguerra una classe dirigente ,ancorchè divisa da fratture ideologiche,  disse al paese che lo voleva industriale e accettò  ferite sociali come l’immigrazione interna, ma riempì le fabbriche e le città del Nord, si costruirono autostrade, si inventarono la Cinquecento, la vespa e la lambretta, nelle case degli italiani entrarono frigoriferi italiani. L’Italia voleva essere una potenza economica nel mondo e lo diventò. Queste classi dirigenti di oggi, non solo Renzi, non sanno dove portare il paese. Si occupano solo di diritto del lavoro e di ingegneria istituzionale. Troppo poco.

 

Adesso ci sarà la campagna referendaria di Ottobre sulle riforme costituzionali. Questo per Renzi è l’armageddon. Il rischio di una “Waterloo” è altissimo. Che dovrebbe fare per evitare il fallimento?

 

Il referendum va sdrammatizzato. Hanno ragione entrambi gli schieramenti. Il SI dice che c’è bisogno di una riforma e che se anche questa viene bocciata l’argomento è chiuso per sempre. Il NO paventa soluzioni pasticciate, presidenzialismo mascherato e altri errori. Sarebbe ragionevole se le parti si incontrassero per concordare quali cambiamenti introdurre.  Il referendum poi non va più personalizzato. Se è un plebiscito per Renzi, il premier farà la fine di Giachetti. Il referendum non può diventare fatto interno al Pd. Se , come dice Renzi, i comitati del SI serviranno a creare il nuovo Pd, perché gli italiani dovrebbero andare a votare?

 

Una battuta finale sulla minoranza del PD. Certamente questo risultato accelera la ricerca di una alternativa credibile, in primis culturale, a Renzi. Quale potrebbe essere?

 

La minoranza sono “le” minoranze che devono unirsi. Niente più battaglia ideologica contro Renzi. Battaglia solo sulla visione e sui contenuti. Ci vuole un Pd più di sinistra,  più socialista. Ci vuole un congresso ravvicinato che separi segretario da premier. Serve  che Renzi licenzi la sua classe dirigente. E’ terribile dirlo, ma  è stato più lungimirante Grillo a scegliersi l’Appendino che Renzi a scegliersi alcune ministre o ministri. La  sinistra va riunificata e deve candidarsi a rottamare il renzismo, se poi Renzi resiste alla caduta del suo castello di sogni, tanto meglio per lui.