UNA SBERLA AL PD? INTERVISTA A GIORGIO TONINI

Giorgio Tonini, responsabile Federalismo, Territorio, Europa nella nuova segreteria del Partito democratico. ANSA/US SENATO - - NO SALES EDITORIAL USE ONLY - NO ARCHIVE.

Giorgio Tonini

Archiviato il primo turno delle amministrative, con alcuni risultati clamorosi, è già partito il secondo round. Un secondo round che si annuncia apertissimo (a Milano in particolare). Facciamo un’analisi, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio del Senato, sul risultato deludente del Partito Democratico.

Senatore Tonini, ieri il premier Matteo Renzi si è detto “non soddisfatto” dell’esito del primo turno elettorale amministrativo, ma continua a non riconoscere una rilevanza nazionale alla competizione. Mi scusi la provocazione, non è presuntuosa come posizione? Tutti hanno capito che il voto è stata una sberla per il PD e per Renzi. Per Lei?

Due anni fa, il 25 maggio del 2014, alle elezioni europee, il Pd guidato da Matteo Renzi conquistava il 40,8 per cento dei voti e 31 seggi al parlamento di Strasburgo, affermandosi come il primo partito d’Europa. Lo stesso giorno, il Pd perdeva comuni importanti, da decenni amministrati da sindaci di sinistra, come Livorno, Perugia, Potenza. Quel giorno dunque, migliaia di cittadini si sono recati ai seggi elettorali, hanno preso due schede, sono entrati nella cabina e in una scheda, quella per il parlamento europeo, hanno messo una bella croce sul simbolo tricolore del Pd, mentre l’altra, quella per le comunali, l’hanno usata per mandare a casa un sindaco del Pd. Non c’è nulla di provocatorio o di presuntuoso nel ricordare a tutti noi che una parte significativa e crescente degli elettori non vota più sulla base di un sentimento di appartenenza a questa o quella comunità politica, ma effettua le sue scelte sulla base di un giudizio politico circostanziato: che riguarda il governo nazionale, alle elezioni politiche generali, e invece il sindaco quando si deve eleggere il primo cittadino del proprio comune. Questa capacità di distinguere sì è vista in modo clamorosamente evidente quel 25 maggio di due anni fa. Ma si è vista anche domenica scorsa, con la vistosa multiformità del voto alle amministrative, nel quale ognuna delle grandi città che andavano al voto ha fatto storia a sé. Basti pensare a Napoli e Salerno: il peggiore e il migliore risultato per il Pd si sono realizzati a pochi chilometri di distanza. A Napoli siamo fuori dal ballottaggio, a Salerno vinciamo al primo turno col 70 per cento. Ho l’impressione che il governo c’entri poco sia col primo che col secondo risultato. Il Pd indubbiamente ha preso qualche sberla, peraltro annunciata, ma ha anche messo a segno qualche buon risultato. Tutte le forze politiche maggiori possono dire di aver vinto da qualche parte, ma nessuna può dire di aver vinto queste elezioni come tali. Tra le forze maggiori, il Pd è il partito che esce con più risultati utili da questa tornata elettorale: più eletti al primo turno, più candidati piazzati al ballottaggio.

Vediamo al dato politico: sul ballottaggio oltre a Roma e Milano anche Torino è a rischio, se dovesse esserci la confluenza del voto leghista sul candidato 5 stelle. Insomma a parte Roma, dove le cause del risultato del PD sappiamo quali sono, come mai invece a Milano e Torino, dove il centrosinistra ha governato bene, il PD rischia così tanto?

Sia a Milano che a Torino il candidato sindaco del Pd è al ballottaggio con più del 40 per cento dei voti. Ma non è affatto scontato l’esito finale di entrambi i confronti. A Torino, come per altri versi a Bologna, il centrosinistra governa da sempre e deve quindi fare i conti con la fisiologica voglia di cambiamento, tanto più forte in un contesto di disagio sociale, come ha giustamente ricordato Fassino. Non basta avere governato bene, bisogna anche riuscire ad essere e apparire “alternativi a se stessi”, come raccomandava Moro alla Dc. A Milano, la candidatura di Sala, che poteva dilagare in un centrodestra ridotto ad un disordinato campo di forze, ha invece provocato una riorganizzazione di quello schieramento, riproponendo un confronto bipolare classico centrodestra contro centrosinistra. Uno scenario virtuoso, che rende i milanesi giustamente orgogliosi. Grazie a Pisapia, grazie a Sala e grazie anche alla intelligente risposta del centrodestra. La differenza rispetto al passato è che stavolta è il centrodestra a inseguire. Ma il confronto è apertissimo.

Milano è strategica per il PD, Sala che carta può giocare per riuscire a vincere il “derby” con Parisi?

La candidatura di Parisi è espressione di un centrodestra che si è ricompattato sotto la guida di Berlusconi e su una linea di governo. Tanto di cappello, ma si tratta di un accordo tattico, dietro il quale permangono radicali divergenze strategiche, tra il lepenismo di Salvini e i moderati di Lupi e Albertini. Parisi, qualora diventasse sindaco, potrebbe trovarsi dinanzi a contraddizioni insanabili. Dietro Sala c’è invece uno schieramento molto più coeso e armonico, sotto il profilo politico e programmatico.

L’astensione ha pesato tanto per il PD, molti elettori di sinistra non sono andati a votare (sinistra italiana è stata una delusione). Insomma qualcosa dovra’ pur cambiare nel pd e nel governo per riconquistare quell’elettorato: è ora di ripensare il doppio incarico di Renzi?

Dalle prime analisi sui flussi emerge una perdita, da parte del Pd, di elettori tradizionalmente di sinistra, solo parzialmente compensata (e non dappertutto) dall’arrivo di elettori moderati. In parte questo è il prezzo inevitabile di politiche innovative, sia nazionali che locali, che non si possono fare a costo zero in termini di consenso, almeno nell’immediato. Il fatto peraltro che questi elettori non premino le piccole formazioni di sinistra a sinistra del Pd, ma si dirigano o verso il non-voto o verso il M5s, ci dice che il rimedio a questo problema non sta nel ritorno al passato, ma in un di più di innovazione, sia sul piano dei contenuti programmatici, sia su quello delle forme della politica. Una innovazione, beninteso, che non può vivere solo nei laboratori di ricerca, ma deve vivere nel rapporto quotidiano con il popolo. Non servirebbe a nulla quindi né tornare ai vecchi linguaggi della sinistra né farsi prendere dalla nostalgia per un vecchio modello di partito da lunga pezza superato dai fatti. È fuor di dubbio che serva un salto di qualità nel governo del partito, ma sarebbe una pia illusione cercarlo nella riproposizione di un vecchio dualismo “democristiano” tra segretario e premier: un dualismo che già nel 1970 un allora giovane Leopoldo Elia giudicava incompatibile con una politica riformista.

Il Boom dei 5 Stelle è stato sorprendente (roma e torino), anche se non tutti i candidati sono andati bene. Cosa ha reso competitivo questo movimento rispetto al PD? Non sarebbe ora di prenderli sul serio?

Ciò che rende competitivo il M5s è la sua natura esasperatamente post-ideologica, che gli consente di sommare elettori delusi sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Demonizzare non serve a niente. Semmai si tratta di sfidarli a maturare politicamente. In questi giorni, i leader del movimento stanno dicendo all’unisono che la “favoletta” che sarebbe un sentimento di mera protesta a gonfiare le loro vele, non regge più. È vero, ma solo fino ad un certo punto. Spetta a loro dimostrare di essere capaci di proposta e non solo di gridare un “vaffa” alla classe politica. Un banco di prova è proprio la riforma costituzionale ed elettorale.

Il Referendum è l’armageddon di Renzi. Non trova che è stato un CLAMOROSO errore politico far partire subito la campagna per il SI. O comunque non vede rischi, dopo questi risultati, per un esito positivo del Referendum?

I risultati delle amministrative, se letti con attenzione, dovrebbero rappresentare un potente incentivo a sostenere la riforma con un bel SÌ, forte e chiaro, al referendum. Dico questo per due ragioni. La prima è di sistema. In un contesto politico multipolare ad elevata frammentazione, che ne sarebbe dei comuni se non potessero avvalersi dei benefici della elezione diretta del sindaco col doppio turno? Immaginatevi cosa succederebbe a Roma se il sindaco dovesse eleggerlo un consiglio comunale espresso in modo proporzionale dal voto di domenica scorsa. Sarebbe, semplicemente, il caos. E invece, tra due settimane, i romani decideranno col loro voto se il sindaco sarà la Raggi o sarà Giachetti. E così in tutte le altre città. La riforma Boschi e l’Italicum, con i dovuti adattamenti, applicano al governo nazionale lo stesso schema: alla fine c’è uno che vince e governa per cinque anni, grazie ad una maggioranza certa, nell’unica Camera titolare del potere di fiducia. Senza minimamente intaccare il sistema di garanzie e contrappesi. Sento dire, anche nel mio partito, che bisognerebbe rivedere l’Italicum perché non siamo più in un contesto di bipolarismo politico, ma almeno di tripolarismo o forse di multipolarismo. E che il sistema previsto dalla riforma rischia di far vincere il M5s. A me queste sembrano due osservazioni che rafforzano le ragioni del SÌ alla riforma. Proprio perché siamo in un contesto multipolare c’è bisogno di un sistema che alla fine produca un vincitore, se non vogliamo condannare il paese all’ingovernabilità, che è anche, non dimentichiamolo, il vero pericolo per la democrazia. Il fatto poi che con la riforma tutti possano vincere, a cominciare proprio dall’ultimo arrivato, il M5s, è il più potente argomento contro la teoria di un Renzi uomo solo al comando che si disegna un abito costituzionale e una legge elettorale su misura.

Brasile reale e Brasile virtuale. Un testo di Leonardo Boff

 

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo questa riflessione sulla situazione sociale brasiliana.

Esistono due Brasili, ma con logiche e dinamiche differenti.

C’è il Brasile predominante, profondamente diseguale e perciò profondamente ingiusto che riproduce una società malvagia, non ha né compassione né misericordia verso le grandi maggioranze. Secondo l’IPEA, 71 multimiliardari , ossia 5 mila famiglie allargate possiedono gran parte della ricchezza nazionale e dimostrano un ridottissimo senso sociale, insensibili alla disgrazia di milioni che vivono nelle centinaia di favelas che circondano quasi tutte le nostre città. È da questi che ha origine, in gran parte, l’odio e la discriminazione che nutrono per i poveri e per i figli e le figlie della schiavitù. Cose che avvengono anche ai nostri giorni.

Non sono d’accordo assolutamente col pessimismo di Paulo Prado in un libro del 1928 dal taglio ironico: “Retrato do Brasil: ensaio sobre a tristeza brasileira”. Per lui, tristezza, pigrizia, lussuria e avidità sarebbero i tratti specifici del brasiliano. C’è gente che pensa ancora così, a dispetto di tutto quello che è stato fatto in campo sociale.

A fianco di queste distorsioni, vive un altro lato dello stesso Brasile, quello dei poveri che lottano coraggiosamente per sopravvivere, che in mezzo alla miseria fa trasparire una gioia che viene dal di dentro, che danzano e venerano il loro santi e le loro sante forti e non hanno bisogno di credere in Dio, perché lo sentono a pelle e ad ogni passo della loro vita. È il Brasile dei disprezzati dai settori conservatori, che hanno come bussola il PIL e i consumi. Questi disprezzati vengono considerati meno che zero, olio esausto, inservibili per il sistema, perché producono poco e consumano ancor meno.

Questo Brasile così spaccato, con lati contrapposti, costituisce una contraddizione viva e scandalosa. Possiede un’eredità tragica, che giunge fino a noi dell’eccidio dei nativi e che ancora persiste; del colonialismo, che ci ha regalato il complesso dei buoni a nulla e che penetrò in forma di archetipo psicológico nella casa Grande del Signore bianco e nella Senzala degli schiavi negri; si manifesta nel fossato che spacca il paese da cima a fondo e ci rende eredi di una repubblica con democrazia, più farsa che realtà, dato che è composta – ancora oggi – nella sua stragrande maggioranza da corrotti che approfittano del bene pubblico per realizzare fortune private (patrimoni).

Il popolo brasiliano, frutto dell’amalgama di individui provenienti da 60 paesi differenti, non ha ancora finito di nascere. È in corso il suo farsi nonostante le contradizioni, indica un meticciato ben riuscito, che potrà configurare il volto singolare del Brasile come potenza dei tropici. Il Brasile sopradescritto mi pare quello reale, pieno di ingiustizie e contraddizioni.

Ma c’è ancora un ulteriore Brasile, è il Brasile dell’immaginario, che vive nei sogni del popolo. Un Brasile grande, amata patria, benedetto da Dio, Brasile fatto di calda umanità, di musica popolare, di ritmi africani, di calcio, di carnevale, di belle spiagge, di bella gente. Questo smuove i sentimenti del popolo.

È l’utopia Brasile, che, come ha insegnato il maestro Celso Furtado che “è frutto di dimensioni segrete della realtà, di un affiorare di energie compresse che anticipa l’allargamento dell’orizzonte delle opportunità, aperto a una società che vogliamo giusta, fraterna e felice”. (cf. Em busca de novo modelo: reflexões sobre a crise contemporânea, 2002 p. 37).

Questo Brasile esiste solamente in sogno, ma sta nascendo; ci dà forza di sopportare le amarezze del presente. Il sogno e l’utopia appartengono alla realtà nel suo stato potenziale e virtuale.l dato è compiuto e non esaurisce le virtualità del reale. Se come realtà future sono queste le realtà che antevediamo e ci conservano la giovialità e alimentano la speranza che i corrotti di oggi, i nemici della democrazia, che votano l’impeachment della Presidentessa Dilma, non trionferanno. Saranno cancellati dalla memoria collettiva. Stigmatizzati, cenere e polvere copriranno i loro nomi.

La nostra sfida è far incontrare il Brasile reale con il Brasile virtuale, che contenendo più verità dell’altro modellerà la vera immagine del nostro paese.

(Leonardo Boff, scrittore e columnist del JB on line e ecoteologo)

Traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato.

Dal sito: https://leonardoboff.wordpress.com/2016/04/28/brasile-reale-e-brasile-virtuale/

Il Futuro del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Il Partito Democratico sta vivendo un periodo di forte turbolenza. Non passa giorno che non si assista a polemiche personali e politiche tra i diversi leader del partito. Polemiche che investono anche il livello periferico del PD (vedi, da ultimo, il caso della Spezia con la vicenda delle dimissioni di tre assessori della giunta Federici).  Lunedì prossimo, a Roma, si svolgerà una Direzione Nazionale molto delicata per gli equilibri interni del partito. Insomma un partito lacerato. Quale futuro per il PD? Ne parliamo, in questa intervista, con il Senatore Giorgio Tonini, Presidente della 5ª Commissione Bilancio del Senato.

Senatore Tonini, la scorsa settimana il suo partito ha vissuto momenti drammatici (le primarie a Roma e Napoli, l’immancabile discussione sulle regolarità, a Napoli poi con episodi gravi di mercanteggiamento). Senza contare l’intervista di D’Alema al Corriere, le risposte stizzite di Orfini e Serrachiani. Insomma un partito per niente pacificato. Il PD ha la capacità di continuare a farsi del male. Insomma Renzi non può continuare a dare la colpa alla minoranza, se poi non fa nulla per pacificare il partito. Un poco di autocritica non guasterebbe…Qual è la sua opinione Senatore?

La mia opinione è che in molti nei giorni scorsi si siano lasciati prendere dal gusto della polemica e  siano andati molto al di sopra delle righe, avvicinandosi pericolosamente ad una soglia oltre la quale, come ha opportunamente rilevato Walter Veltroni, si rischia di mettere in discussione l’unica alternativa credibile al populismo dilagante in Italia e in Europa. Al netto di questi eccessi, ci sono state le primarie con le quali il Pd, unico partito in Italia, ha selezionato i suoi candidati sindaci. Le primarie sono un metodo democratico per definire le candidature, come tale assolutamente imperfetto, ma comunque di gran lunga migliore del metodo monarchico tanto caro ai nostri avversari, si tratti di Berlusconi o della premiata ditta Grillo, Casaleggio e associati. Quanto a Renzi, come ogni leader ha pregi e difetti. Renzi, come è noto, non è un pacificatore, né un mediatore. È uno che gioca sempre all’attacco e forse proprio a questo deve la sua popolarità. Non si può avere tutto dalla vita…

Veniamo ai problemi politici. Nell’intervista al Corriere Massimo D’Alema aveva affermato che il Partito della Nazione c’è già. Frutto delle scelte di Renzi, arrivando a sostenere che Renzi assomiglia più a Berlusconi che all’Ulivo. Insomma cosa è rimasto dell’Ulivo nel PD renziano?

Quella del cosiddetto Partito della Nazione è una vicenda surreale. L’espressione, di chiara derivazione togliattiana, fu coniata da Alfredo Reichlin, non da Renzi. E stava a indicare la vocazione del Pd a porsi come asse centrale del governo del Paese, più ancora: della sua stessa tenuta democratica. Ora è divenuta un’espressione negativa, il sinonimo di partito pigliatutto, senza valori e senza principi, tutto intento a sostituire la diaspora di consensi di sinistra con il reclutamento di spezzoni di centrodestra. Una caricatura priva di qualunque significativo riscontro nella realtà. La verità è che noi siamo costretti, dai rapporti di forza in Senato, a governare sulla base di un’alleanza innaturale con il centrodestra. Con il centrodestra intero, con Berlusconi alla guida, all’inizio della legislatura, quando si dovette dare vita al governo Letta-Alfano, il governo dei due vice. E poi, dopo i rovesciamenti di tavoli da parte di Berlusconi, con aree resesi autonome di quello che era stato il PdL: il nuovo centrodestra di Alfano dopo la rottura segnata dal voto sulla decadenza di Berlusconi da senatore, a cui si è aggiunto il sostegno esterno del gruppo di Verdini dopo la rottura del patto del Nazareno, a seguito dell’elezione di Mattarella. Da questo punto di vista Renzi sta seguendo la stessa linea seguita da Bersani: una linea tracciata da Napolitano con l’obiettivo di salvare la legislatura e anzi di utilizzarla come occasione per fare finalmente quelle riforme istituzionali da troppo tempo rinviate. Proprio le riforme sono tuttavia la prova che Renzi non intende fare dell’accordo parlamentare col centrodestra l’orizzonte strategico del Pd: se collaboriamo oggi è per porre le condizioni istituzionali per non essere più costretti a farlo domani. Il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, previsto dall’Italicum, sta lì a dimostrare che l’alleanza col centrodestra è una necessità del presente e non una scelta per il futuro.

Come risponde alle critiche, da parte di Fassina e Civati, che parlano di “mutazione genetica” del PD?

Che il PD non sta subendo nessuna mutazione genetica, ma è in perfetta continuità con l’Ulivo, che nelle parole del suo fondatore, Romano Prodi, era la casa comune dei riformisti italiani. Semmai fu proprio l’Ulivo a chiedere una mutazione genetica alla sinistra italiana, che rendesse possibile il suo scioglimento in un progetto nuovo e più grande, prima la coalizione e poi il partito dell’Ulivo, il Partito democratico. Un partito che doveva e deve essere capace di ristrutturare i rapporti di forza nel Paese, conquistando al riformismo una parte significativa dei consensi che dopo la crisi dei partiti della Prima Repubblica erano andati a destra. A cominciare da quelli degli operai: alle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani si piazzò terzo nelle preferenze delle tute blu, dopo Grillo e Berlusconi. Alle europee, con Renzi, è tornato al primo posto. Mi piacerebbe mantenerlo questo primato… Semmai, in contraddizione con l’Ulivo sono quelli che pensano e agiscono in nome di un progetto autonomo della sinistra.

La minoranza PD non vuole la scissione e questo è sicuramente un gesto di buona volontà, se vuole anche di realismo politico. Perché non farsi carico di alcune proposte ragionevoli che vengono da quella parte. Invece è un continuo “dialogare tra sordi”. Esempio concreto: per la minoranza PD occorre puntare sulla ricostruzione del Centrosinistra. Non c’è il rischio che alle amministrative corra un partito sempre più centrista. Come pensate di vincerle se “terremotate” l’area di riferimento? Non vede questo rischio?

Non è stato il Pd a “terremotare” il centrosinistra di governo in regioni e città. Abbiamo confermato il sostegno ai sindaci di sinistra con cui abbiamo governato in questi anni: basti pensare a Zedda a Cagliari, o alle pressioni di Renzi su Pisapia perché si ricandidasse a Milano. Non è avvenuto il contrario: basti pensare alla candidatura di Airaudo contro Fassino a Torino, o alla fuga solitaria di Fassina a Roma. Tutte mosse disperate, che possono solo far perdere il centrosinistra.

Tra le critiche che vengono mosse a Renzi c’è quella di aver  LASCIATO il PD in stato di abbandono. In effetti la vita interna al PD langue, il tesseramento ha avuto un forte calo, e tanto altro. Il doppio incarico si è rivelato un fallimento. Un segretario di partito dovrebbe avere a cuore il destino della sua comunità politica. Lei è ancora convinto del doppio incarico?

Si, il doppio incarico, ossia il principio secondo il quale il premier è il leader del primo partito del Paese è una regola base della moderna democrazia parlamentare. Del resto è così in tutta Europa. E in tutte le grandi democrazie europee, il leader che vince le elezioni concentra tutte le energie sue personali e del partito che guida nello sforzo di governare il Paese. E trascura un po’ il partito… Il Pd ha problemi, ma non è un partito in crisi. Il tesseramento è in declino da molti anni, perché è una modalità di partecipazione sempre meno avvertita come attuale dai cittadini. Non a caso il Pd ha importato ìn Italia le primarie, una modalità anch’essa non priva di rischi e problemi, ma che rappresenta un grande elemento di vitalità democratica del Pd. E poi il 2 per mille: mezzo milione di cittadini-contribuenti hanno firmato per dare una piccola quota delle loro tasse al nostro partito… Il principale problema del Pd è il ricambio generazionale, nei territori più ancora che a livello nazionale. La generazione che, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, ha guidato il centrosinistra nella lunga transizione italiana dal 1989 ad oggi, la generazione alla quale io stesso appartengo, ha in gran parte fatto il suo tempo, a Roma come in tutto il Paese. Ma non sempre è facile rimpiazzarla. Non tutti sono fuoriclasse come Matteo Renzi o Maria Elena Boschi. E formare una nuova classe dirigente non è un lavoro che si improvvisa. Ma il Pd lo sta facendo. Come dice Renzi, il Pd è la somma delle primarie e della formazione. Nessun altro partito in Italia può dire altrettanto.

Una parola, infine, sul governo. La battaglia contro le politiche di austerità a livello europeo è certamente un punto di vanto per Matteo Renzi. Quali saranno le prossime sfide per il governo?

Sono le sfide che ha dinanzi l’Italia. Diventare più moderna, più forte, più competitiva e più giusta: a cominciare dai suoi apparati pubblici, dal Parlamento al più piccolo dei comuni. E farlo nel pieno di tre grandi crisi internazionali: la guerra civile che sta dilaniando il mondo arabo-islamico, dal cuore dell’Asia fino a quello dell’Africa, passando per il Mediterraneo; la nuova crisi fredda tra Occidente e Russia; fino alla crisi dell’Europa, incapace di uscire dalla trappola delle 28 sovranità nazionali.

Una certa idea di Roma. Un testo di Raffaele Morese

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Raffaele Morese (Ansa)

Domani mattina a Roma, presso l’Auditorium Antonianum , in via Manzoni 1, si svolgerà un forum, organizzato dall’associazione Koiné, su : “la primavera di Roma”. Sono previsti, tra gli altri, gli interventi di : Raffaele Morese, Fabrizio Barca, Pierre Carniti, Giorgio Benveuto, Innocenzo Cipolletta,  Pietro Barrera, Andrea Riccardi, Giuseppe Roma, Andrea Romano e tanti altri (vedi www. e-koine.com programma e documento di base).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione, il testo della relazione introduttiva di Raffaele Morese, Presidente di Koiné.

 

UNA CERTA IDEA DI ROMA

Le città non sono cose nostre di cui si possa disporre a piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture, delle quali nessuno può violare il diritto e l’attesa… Sono la casa comune che va usata e migliorata; che non va distrutta mai!…Per questo occorre riscoprire il valore e il destino delle città ed affermare il diritto inalienabile che hanno sopra di esse le generazioni venture: nell’affermare, perciò, che le generazioni presenti non hanno il diritto di dilapidarle o di distruggerle”

Così si espresse uno dei più famosi sindaci d’Italia, Giorgio La Pira il 2 ottobre 1955 nel salone dei Cinquecento, davanti ai sindaci di tutto il mondo. Così mi sento di condividerle e ripeterle. Abbiamo presente, infatti, il pericolo che corre Roma, sottoposta da anni ad un disordine organizzato, spesso a fini ignobilmente privati ed ora esposta ad un preoccupante logorio.

Ma non possiamo lasciare che il rumore assordante della deriva prosegua senza una reazione di quanti ritengono che le generazioni future non meritano questo lascito. Ci saranno le elezioni per il nuovo sindaco e il nuovo consiglio comunale. Evento che, ci auguriamo, rappresenti un’occasione per tutti di un’inversione di tendenza, di una presa di coscienza salda della necessità di affrontare le tante questioni irrisolte di questa città. Non solo chi l’abiterà in futuro, ma anche il contemporaneo ha diritto di vivere bene la città. Si tratta di un’impresa senza precedenti, ma neanche impossibile, specie se si realizzano alcune condizioni basilari.

La prima condizione. Un esplicito, ampio, costruttivo dibattito sulla Roma di domani. Le emergenze sono numerose, quasi tutte incancrenitesi nel corso degli anni. Esse sono state aggravate dal prevalere della logica della toppa e per di più, esasperate dalle insoddisfazioni popolari o dalle resistenze corporative o per la crescita della marginalità sociale. Roma deve ritrovare la sua anima di grande capitale europea, ospitale, solidale, creativa, aperta alle innovazioni, attrattiva di investimenti e intelligenze. Senza questo sforzo, le emergenze la travolgeranno. Ma non illudiamoci. Il miracolismo non è la ricetta giusta. Le questioni sono complesse e non ci sono soluzioni facili. La semplificazione non si addice all’agenda del risanamento morale, economico e civico della città.

Infatti, sarà necessario un duro e paziente lavoro di impostazione programmatica: dalle attività produttive agricole, industriali e turistiche, ai servizi pubblici e privati rivolti alle persone e alle imprese; dall’assetto urbano a partire dalle periferie, alla rigenerazione e riuso in chiave ambientalista del patrimonio immobiliare esistente; dalla valorizzazione dell’immenso giacimento culturale per il quale non basta né la pura conservazione, né il pur necessario supporto di tecnologie, alla ridefinizione di un welfare locale – integrato tra pubblico e privato – attento soprattutto agli anziani, alle donne, alle persone disabili, ed ai bambini. E’ un elenco denso, ma che in controluce fa vedere che c’è tanto lavoro da riqualificare e tanto lavoro da creare.

Soltanto un coinvolgente confronto tra tutti i protagonisti della vita concreta della città potrà favorire una qualità rassicurante alle priorità per le quali vale la pena spendere le molte o poche risorse umane e materiali disponibili. Soltanto in questo modo, i tanti interessi precostituiti, che hanno molte responsabilità per l’andazzo attuale, potranno essere ridimensionati e sopravanzati dal prevalere del bene comune.

Noi, oggi, avviamo un lavoro non facile di partecipazione al ridisegno del futuro della città. Come sollecita Renzo Piano, anche per Roma, c’è bisogno di un laborioso rammendo nelle relazioni umane e nella qualità della vita urbana, come antidoto al degrado, come vaccino per non passare dall’illusione alla delusione.

La seconda condizione. Far funzionare la catena di comando istituzionale. La compromissione e la confusione dei ruoli hanno sostituito, passo dopo passo, l’efficacia dell’impianto decisionale proprio di questo grande comune che non ha paragoni, per vastità, in Italia. Né la dimensione metropolitana è stata fatta propria dal sistema politico, al punto di andare con convinzione oltre il Campidoglio e dare corpo ad un inedito centro propulsore di una organizzazione più razionale della comunità.

La compromissione ha giocato un brutto scherzo alla politica. I cittadini se ne sono accorti e si sono allontanati progressivamente da essa o si sono rivolti ad offerte politiche improvvisate e inadeguate. La stessa istituzione comunale ha perso prestigio. Ad essa si è sommata una confusione chiassosa nel government. Specie nell’ambito delle aziende di servizio pubblico locale, si sono accumulati debiti, inefficienze e insoddisfazioni. La lista è lunga, ma per fare soltanto un esempio, nel sistema del trasporto pubblico, la sovrapposizione di centri decisionali, la provvisorietà delle soluzioni, la girandola dei cambiamenti manageriali (7 amministratori delegati negli ultimi 7 anni) hanno lasciato sgomenti e stremati sia chi vi lavora, sia chi lo utilizza.

Un nuovo ordinamento è inevitabile. Superare la dimensione comunale per quella metropolitana, privilegiare la struttura municipale, ripristinare la gerarchia, ciascuno nella propria autonomia, tra chi prende le decisioni strategiche, chi deve guidare la macchina gestionale dei servizi e dell’amministrazione e chi deve esercitare il controllo sui risultati, rendere equo ed efficiente il sistema fiscale e tariffario locale, abbattere sprechi e superfluo a vantaggio dei bisogni dei più deboli rappresentano le ragioni minimali per il buon governo dell’istituzione pubblica.

Soltanto in questo modo, anche l’apparato amministrativo può essere modellato a dimensione delle esigenze della cittadinanza. Non è vero che è tutto marcio; è vero che devono essere ripristinate le condizioni perché ciò che è sano emerga con dignità. Ma anche in questo caso, va detto con franchezza che le responsabilità apicali devono essere le prime ad essere sottoposte a revisioni profonde circa i meriti e i comportamenti. Il bandolo della matassa è da prendere da lì, con tenacia e lungimiranza. Soltanto così si può arrivare alla definizione di un vero e proprio patto tra chi vive nell’amministrazione e cittadini, i primi per assicurare efficienza ed efficacia; i secondi per saper coniugare, in una logica evolutiva di cittadinanza, i bisogni individuali con l’interesse collettivo.

La terza condizione. Far crescere coesione sociale e partecipazione dei cittadini. La società, come dice Zygmunt Bauman, è tendenzialmente liquida. Ma non può essere così scomposta da risultare dispersa. Anzi, occorre operare per non rendere irreversibili le solitudini, per far dialogare le culture diverse e trasformarle in ricchezza esistenziale, per responsabilizzare le persone nella gestione dei beni comuni a partire da quelli più a portata di mano, per avere quartieri a misura dei vecchi e dei bambini, per dare ai giovani occasioni di socialità e di comunicazione.

Per riannodare i fili della coesistenza tollerante, c’è lavoro per tutti. Il dialogo interreligioso e quello interculturale, sarà tanto più fecondo quanto più solleciterà alla convivenza pacifica, alla reciproca comprensione, all’integrazione nel tessuto cittadino. “La fede non genera odio, la fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo”, così si è espressa efficacemente Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), salutando alcuni giorni fa, Papa Francesco in visita alla Sinagoga e rivolgendosi a tutte le comunità religiose. La multi etnicità, come condizione normale della vita di una comunità come quella romana, si gioverà grandemente dell’impegno al confronto e all’ascolto che le comunità religiose ed in genere le comunità di ogni cultura sapranno continuare ad alimentare e sviluppare.

L’impegno dei cittadini a farsi carico della buona gestione della città è un altro spaccato della partecipazione. Non basta votare (e sarà fatica questa volta convincere la gente ad andarci), non basta dare una delega. Occorre sentirsi coinvolti nelle grandi scelte della città (la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2024 avrebbe meritato un coinvolgimento ben più ampio di un voto consiliare), ma anche nelle piccole, come tener pulito il marciapiede davanti al proprio negozio e non trattarlo da pattumiera che raccoglie la polvere accumulata all’interno. La responsabilità dei cittadini verso la cosa pubblica deve diventare un’eccellenza.

Milano ha dato recentemente un fenomenale segno di civismo. Centinaia di cittadini sono accorsi a ripulire le mura imbrattate dai Black Blocks nel giorno dell’inaugurazione dell’Expo. Ma non è solo merito dei singoli. Ci vuole spontaneismo, ma non è sufficiente. Senza lo “spintaneismo” dell’amministrazione milanese non ci sarebbe stata quell’organizzazione e quell’intensità di impegno a cui abbiamo assistito.

Con l’utilizzo di vecchi e nuovi strumenti di partecipazione, supportati anche dalle nuove tecnologie e dai nuovi mezzi di comunicazione, l’amministrazione della città deve dialogare con i suoi cittadini. In altre parole, la partecipazione va sollecitata, motivata, organizzata, fiancheggiata supportando l’estensione delle pratiche – spesso volontaristiche – già in atto e che rischiano di essere relegate a marginalità. E quindi, anche a Roma deve diventare un’abitudine, una normalità chiedere ai cittadini pareri, indicazioni, impegni.

Queste tre condizioni possono avere una ragionevole fattibilità se saranno accompagnate da due convincimenti. Il primo è che va archiviata l’idea, che ha avuto una discreta cittadinanza, per cui Roma può essere affidata soltanto a chi è estraneo alla politica e ha in spregio i partiti. Per quanto l’una e gli altri non volino abbastanza alto per essere guardati con ammirazione, una collettività non si governa sensatamente senza stabili organizzazioni di idee e uomini che si contendono la leadership. Queste organizzazioni e questa contesa vanno costruite attorno a una visione del futuro, non per l’accaparramento di posti. Il problema semmai è quello di alimentare tali organizzazioni perché le idee e soprattutto gli uomini siano meritevoli di essere votati, non solo perché sono onesti (ci mancherebbe!) ma perché hanno le capacità per ascoltare e per trasformare le visioni in fatti.

E questo si sposa con un altro convincimento. Che dalla società vi sia una continua sollecitazione verso la politica e i partiti. L’esercizio di questa pressione è tanto più efficace quanto più avviene con costanza, non in ordine sparso, con motivazioni molto forti. C’è stata una solitudine della politica negli ultimi anni, iniziata ben prima dell’ultima consiliatura, che ha avuto come interfaccia il mutismo civico che, benché incolpevole, ha subito passivamente devianze, inimmaginabili fino a qualche anno fa, nella gestione della Roma pubblica.

Sarebbe bene che, proprio dal basso – specie da parte di quelli che hanno da dire qualcosa perché fanno belle esperienze – emergesse un bisogno di protagonismo propositivo. “La politica sarà salvata soltanto dalla partecipazione dei cittadini” (Roberto Saviano, Il boss mascherato, Repubblica, 16/01/2016). Infatti, anche il migliore e più attrezzato personale politico non può gestire una realtà complessa soltanto in maniera illuministica. Il legame con l’opinione dei cittadini rappresenta la chiave per procedere con margini di sicurezza e di consenso.

C’è dunque bisogno che si attivino delle vedette, che si alimentino sensori, si formino antidoti per prevenire errori e per sostenere scelte avvedute. E’ un compito che vale per ciascuno di noi, ma che acquista valenza politica se è espressione di un atteggiamento collettivo. Di una comunità che si fa rete. Non ci si può limitare a denunciare o impedire illegalità, scorrettezze, imbrogli. Si devono indicare e sostenere percorsi virtuosi e scelte volte all’interesse generale.

I lavori di questa giornata vaglieranno la portata ideale e concreta di questa sollecitazione. La narrazione che raccoglieremo non dovrà essere ascritta all’antipolitica, bensì alla volontà di dare un senso robusto all’agire politico. E se lo faremo in modo cooperativo, senza burocratismi e con tanta passione, potremo dire di non aver perso tempo prezioso, ma di aver dato ragione a don Tonino Bello che amava dire che “ siamo angeli con un’ala sola e possiamo volare soltanto se restiamo abbracciati”.

La Leopolda della palude autoreferenziale. Intervista ad Alessandro De Angelis

Alessandro De Angelis (@deangelispost : Twitter)“La Leopolda? Ha dato l’immagine del renzismo come di una palude autoreferenziale”. Alessandro De Angelis, giornalista dell’Huffington Post, ha seguito la Leopolda per il suo giornale online. Di eventi politici ne ha seguiti parecchi. Nella kermesse che si è appena svolta a Firenze, vede un “cambio di fase del renzismo”.
Spiegati meglio.
C’è un elemento che rende questa Leopolda diversa dalle altre. Ed è l’autoreferenzialità della tre giorni, autoreferenzialità di cui il discorso finale di Renzi è un esempio straordinario. Te la dico senza girarci attorno: è ovvio che queste occasioni servono a gasare i militanti, a rafforzare l’orgoglio di appartenenza, appartenenza che i renziani vivono in modo quasi clanico e pre-politico. Ciò detto, al netto dell’autocelebrazione, è mancato il respiro, la progettualità.

Insomma ti dici: quella che doveva essere la celebrazione del renzismo al governo, con le sue “magnifiche” riforme, si è rivelata, al di là della propaganda renziana, come una manifestazione dei limiti del “renzismo”.
Diciamo che è emerso quello che, a mio giudizio, è il limite vero. Domando: perché Renzi replica con stizza e quasi arroganza ai critici? Perché è insofferente verso la stampa e verso i giornali sgraditi al punto da esporli alla gogna? Perché porta al parossismo la ricerca del nemico vedendo ovunque gufi e sciacalli? A mio giudizio perché la sua narrazione e la sua politica non fa i conti col principio di realtà e dunque risulta autoreferenziale. Quando parlo di principio di realtà mi riferisco, in questo caso, alle banche e al conflitto di interessi della Boschi denunciato da Saviano. Sono stati gli eventi di cui gli organizzatori non sono riusciti a liberarsi né ad esorcizzare. E alla fine gli eventi sono stati più forti della narrazione del “va tutto bene”. Guarda che la ferita che sanguina nel cuore del Pd – mi riferisco ai risparmiatori truffati nelle zone rosse – mica la rimargini con gli effetti speciali dal palco.

Un paradosso, non credi? Non ha funzionato la comunicazione che dovrebbe essere il terreno di maggiore forza del renzismo.
Vero: l’esitazione sulla presenza della Boschi dopo la denuncia di Saviano ha aggravato la situazione, per non parlare del discorso di bandiera della ministra, con tre fan a fare domande. I renziani, alla prima vera criticità, hanno mostrato di essere fragili nel reggere alla pressione. Conclusione: la realtà, questa volta scomoda e cruda ha ucciso l’evento. Infatti si continua a parlare di banche e di conflitto di interessi, non del messaggio di Renzi dal palco, appunto perché non ha affrontato la realtà. Questa volta il giovane premier mi ha fatto venire in mente Bettino Craxi, quando ringhiava contro i suoi avversari ammaliando la base socialista ma aveva perso il contatto con la realtà.

La “stella” di Maria Elena Boschi continuerà a brillare?
Dipende da come la gestisce. Per ora la sta gestendo malissimo. È stata la prima ad ammettere che c’era un conflitto di interessi non partecipando al cdm dove si varava il decreto che toccava la banca Etruria. Perché allora si arrabbia con chi parla di conflitto di interessi. Sarebbe bastato che qualcuno della famiglia desse una spiegazione per fugare ogni sospetto, cosa che una figura di spicco di governo dovrebbe fare. Invece, nel comportamento mi ha ricordato Berlusconi quando uscì Noemi. Prima ha evitato la realtà, poi andò da Vespa a fare un’intervista compiacente. E si beccò le dieci domande di Repubblica che lo inchiodarono. Lei ha evitato la realtà, poi è andata da Vespa a fare un’intervista compiacente e si è beccata Saviano… Questa vicenda fa molto male al renzismo perché getta una macchia sulla narrazione, rompe il mito della novità e della diversità. Il nuovo potere, come i vecchi poteri, ha i suoi intrighi, il suo familismo amorale, i suoi conflitti di interesse.

Nello stesso giorno le minoranze del Pd organizzavano una “convention” : linea politica “ulivista”, anche sulla scia dell’appello dei sindaci, linguaggi differenti. Un partito con gravi problemi indentitari.
Non c’è dubbio. Direi che pure la minoranza ha bisogno di Freud a proposito di realtà. Invece di parlare di banche e di offrire al paese un punto di vista sul sociale hanno dato i titoli sulla necessità di separare il ruolo di premier da quello di segretario, perché non hanno uno da contrapporre a Renzi…

Intanto le sezioni chiudono, il tesseramento langue. Il Pd è un partito svuotato?
Ti chiedo: il Pd è ancora un partito? A me pare che più che una comunità che sta assieme sulla base di valori, programmi, obiettivi di cambiamento il Pd sta diventando una macchina di potere che attrae trasformismi.

Se vogliamo fare una “previsione” per il prossimo anno per Renzi: quali saranno i “nodi” politici?
Vediamo come vanno i botti di fine anno… Nel senso di questa storia sulla Boschi. C’è un’inchiesta della procura di Arezzo, mi pare che il quadro sia in evoluzione. È un dato cruciale perché la Boschi è il volto dell’epoca renziana, del governo e delle riforme. Te la dico con un titolo: quando ci sarà il referendum un conto è se le riforme sono figlie del governo che “cambia verso” un conto è se hanno il volto di un ministro legato a una questione imbarazzante. Aspettiamo…

Ultima domanda: Il Movimento Cinque Stelle conferma, stando ai sondaggi la sua consistenza elettorale, ma il punto è un altro. Pensi che abbia acquisito anche  consistenza politica?
È in una fase di crisi di crescita. Nel senso che non c’è dubbio che rispetto all’inizio ci sia una maggiore consapevolezza, ma adesso siamo a un punto cruciale, perché come ricordavi tu, hanno i numeri per rappresentare una vera alternativa. E pare abbiano paura di vincere. Lo vedi sulle amministrative dove evitano di candidare i big, sulla guerra che è un tema divisivo non hanno preso una posizione. E poi ci sono amministrazioni, come a Livorno, dove stanno fallendo la prova del governo. Intendo questo per crisi di crescita. I numeri dicono che sono l’alternativa, ma trasmettono l’idea di non essere pronti. Anche in questo caso, stiamo a vedere.