“Questa Legge di stabilità è da sinistra riformista”. Intervista a Giorgio Tonini

 

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Torna la tensione nel PD. Questa volta la polemica, tra sinistra Dem e la maggioranza renziana , riguarda la manovra finanziaria (legge di stabilità). Ne parliamo con Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, parliamo della “manovra” (legge di stabilità). Il Presidente del Consiglio, in un eccesso di trionfalismo, ha affermato: questa è una “manovra” di sinistra (!?). francamente, senatore, non è un po’ troppo propagandistico fare una simile affermazione quando, per esempio, i sindacati hanno espresso forti critiche. Per non parlare, poi, della sinistra del suo partito. può spiegarmi come sia di sinistra una “manovra” che ha il trionfale appoggio di Alfano e Verdini?
Altrettanto francamente: questo giochino sulla manovra di sinistra o di destra sta diventando stucchevole. Anche perché si basa sul giudizio su alcune misure, prese singolarmente e non linquadrate in un contesto strategico complessivo. Del resto, come diceva Deng-Xiao-Ping, non conta il colore del gatto, conta che prenda il topo. Dunque, quel che conta è se la manovra fa bene o no all’Italia, agli italiani e in particolare ai più deboli. Detto questo, se proprio vogliamo sottoporci al giochino, io penso che quella annunciata da Renzi sia una manovra di sinistra, beninteso di sinistra riformista, per il semplice fatto che è la manovra più espansiva possibile, restando dentro le regole europee: sia quella del deficit, che quella del debito. Ed essere di sinistra (riformista) oggi concretamente significa proprio essere europeisti e battersi per una politica economica europea di segno espansivo e non restrittivo. Tutto il resto, dal punto di vista politico, sono dettagli. Importanti quanto si vuole, ma dettagli.

Veniamo al capitolo molto controverso: l’abolizione della tassa sulla prima casa a tutti, con il rischio assai elevato di favorire i più ricchi e con scarse ricadute sui consumi. Per non parlare delle pesanti ricadute sui bilanci comunali. Insomma un poco di prudenza non guasta…
L’abolizione della tassa sulla prima casa presenta indubbiamente qualche controindicazione. Non tanto sul terreno dell’equità sociale (il grosso dell’impegno finanziario si concentra sul ceto medio, non di certo sui ricchi), quanto su quello del federalismo fiscale. La tassa sulla prima casa dovrebbe infatti rappresentare una componente del finanziamento ordinario dei comuni, particolarmente importante in termini non tanto quantitativi, quanto qualitativi, perché su di essa si basa il patto fiscale tra amministratori e amministrati a livello comunale. La tassa sulle seconde case, o i trasferimenti statali possono certamente compensare il mancato gettito dalla prima casa (che è una quota-parte in definitiva modesta della imposizione sugli immobili), ma difficilmente possono surrogarlo in termini di qualità della relazione democratica tra i sindaci e i loro cittadini. Ma in questa fase il governo è alle prese con tutt’altra emergenza, quella di sostenere una ripresa economica ancora flebile. E dopo aver concentrato gli sforzi su impresa e lavoro (15 miliardi di sgravio tra 80 euro e taglio dell’Irap), quest’anno punta ad alleggerire il peso fiscale sulle famiglie, cancellando per tutti la tassa sulla prima casa: un provvedimento che costa relativamente poco (3,5 miliardi) e dovrebbe rendere molto in termini di fiducia e dunque di propensione al consumo.

Non parliamo, poi, delle risorse sugli statali e sul mezzogiorno. Anche questa è una beffa…
Non è vero che manchino le risorse per il Mezzogiorno: basti pensare che 7 degli 11 miliardi del piano infrastrutture saranno destinati a opere da realizzare nel Sud. Quanto agli statali, in tempi di inflazione vicina o addirittura sotto allo zero, c’è poco da recuperare su quel versante. Ci sono invece ampi margini di incremento salariale se si punta sulla produttività: cifrando i risparmi da ottenere con la riforma Madia e con la spending review e distribuendone una quota significativa ai dipendenti pubblici che se ne rendano protagonisti.

Insomma Senatore, Renzi andrà pure come un treno, ma resta sempre la voglia di entrare in conflitto con la sinistra. Giova tutto questo?
Una dialettica, a volte anche aspra, tra sinistra riformista e innovatrice e sinistra tradizionale e conservatrice, c’è in tutti i grandi partiti di centrosinistra, in tutto il mondo. Ma come da ultimo ha dimostrato il caso greco, la sinistra vince e governa solo quando in essa prevale la cultura riformista e di governo. In caso contrario, la sinistra si riduce ad un ruolo di testimonianza…

Veniamo al partito. Richetti e Del Rio hanno messo sul chi va là di trasformare il PD Partito della Nazione. Clamorosa poi l’intervista di Cicchitto all’Huffington Post, con la proposta dei moderati per Renzi… Insomma non trova che si sia superato il limite?
Quale limite? A me risulta che nel Pd siano entrati solo esponenti di Sel e di Scelta Civica, questi ultimi in gran parte di provenienza già pd. È vero invece che c’è un gran movimento nell’area ex-PdL. Un vero e proprio via vai tra chi esce (pochi) e chi pensa di entrare (molti) nell’area della maggioranza di governo. E tuttavia, non si deve mai dimenticare che all’inizio della legislatura, quando Bersani e Berlusconi diedero vita al governo Letta-Alfano, tutto l’allora PdL era in maggioranza e al governo. Poi si sono divisi e continuano a dividersi tra loro, tra chi è pro e chi è contro il governo col Pd. Noi dobbiamo guardare con grande rispetto a questo travaglio, che probabilmente segnala una metamorfosi profonda del bipolarismo italiano. Una metamorfosi che il Pd deve guidare, come sta facendo, e non rassegnarsi a subire.

Ultima domanda: il Movimento 5stelle, stando agli ultimi sondaggi, si sta avvicinando al PD. A questo punto come pensate di contrastare l’avvicinamento dei “pentastellati”?
Come abbiamo fatto fin qui. Cercando il consenso di tutti gli italiani che vogliono il cambiamento, ma dentro un quadro affidabile e sicuro. E non sono disponibili a precipitare nell’avventura, facendo prevalere la rabbia sulla speranza.

 

 

“Renzi? Ha stravinto. Così chiude la transizione italiana”. Intervista a Alessandro De Angelis

k0ek8z1jj8f2imx86oq0“Ma dai, ancora a parlare di commi e di cammino delle riforme. Andiamo al punto: Renzi ha vinto, stravinto. È il dominus del nuovo sistema politico. Punto”. Alessandro De Angelis, giornalista dell’HuffPost ha il pregio della chiarezza. E anche il gusto della provocazione. A telefono gli chiedi come vede il cammino delle riforme, lui scherza: “Non vorrai mica parlare di emendamenti. Lo sai, mi piace andare all’essenziale”.

E quale sarebbe l’essenziale, che la minoranza ha perso?

Questa non mi pare neanche una notizia. L’alternativa a Renzi non c’era e non c’è. Meglio di chiunque altro li ha descritti Crozza: sembrano chihuahua doppiati da orsi. Tu li senti ringhiare nel bosco e ti spaventi. Poi li vedi spuntare e dici: Ma vaffa…. Ecco, hanno ceduto su tutto: sui licenziamenti collettivi, sulla scuola, non hanno detto una parola sugli “impresentabili” nelle liste del Pd. Non c’è da stupirsi se, sulle riforme, sono passati dal denunciare la torsione autoritaria ad acconciarsi su un comma. Per poi farsi pure sfottere da Verdini.

Sei molto severo.

E ora vedrai ringhieranno sulla Tasi per poi votare tutto. È una sinistra che  fa un po’ di testimonianza, ma che non al paese dice poco.

Torniamo all’essenziale che dicevi.

Ecco, l’essenziale è che Renzi ha vinto, stravinto. Lo dico da osservatore: può piacere o no, e secondo me tutto l’impianto delle riforme è pasticciato, ma per la prima volta si sta chiudendo la transizione italiana. Ci provarono D’Alema, Veltroni, tutti, e andò male perché Berlusconi allora era vivo, mica come oggi. Ora, per la prima volta, c’è un nuovo sistema politico all’orizzonte di cui Renzi è artefice e dominus. Ha la legge elettorale, ha la riforma del Senato, a ottobre del prossimo anno incasserà il referendum. È chiaro che a questo punto avrà tutto l’interesse ad andare al voto in primavera.

Senza congresso del Pd.

Può farlo o no, ma a quel punto non è un congresso. È un plebiscito, un secondo referendum dopo quello costituzionale. Tieni conto che il segretario del Pd è il candidato premier. Chi è che a quel punto sfida il premier che ha fatto le riforme. Suvvia, per questo ti dico che è il dominus di un nuovo sistema politico: al centro il partito della Nazione, attorno le opposizioni quasi anti-sistema: Cinque stelle da un lato, Lega dall’altro. Con Forza Italia terra di conquista. E infatti ora fa la Tasi…

Spiegati meglio.

Incassata la cornice istituzionale del nuovo sistema politico, ora Renzi è impegnato a costruirne il blocco sociale. Fa la Tasi, l’Ires, tutti provvedimenti per conquistare quello che fu l’elettorato di Forza Italia. Mica ha proposto di abbassare le tasse sul lavoro. Berlusconi con l’abolizione della tassa sulla prima casa ci vinse le elezioni. E Renzi sa bene che è una misura di grande consenso politico. Quanto serva alla crescita è un’altro discorso.

E secondo te quanto serve? Il suo messaggio sull’economia è persuasivo?

Secondo me la Tasi serve a fare voti più che alla ripresa. Del resto è stata già abolita e sono usciti studi a riguardo che dimostrano questo. Sull’economia? Sai, il paese ha ripreso a crescere, anche se poco e sotto la media europea. E questo giova al governo. Il paese dice “eppur qualcosa di muove”, c’è un governo che fa qualcosa, mica dice che è merito di Draghi e del quantitative easing.  Per questo credo che, da abile surfista, Renzi sfrutterà l’onda puntando al voto nel 2017.

Tu parli di partito della Nazione. Il l ministro Boschi ha affermato che l’alleanza con Verdini è “Fantascienza” e lo stesso Verdini a Skytg24 ha affermato “che con il PD non ha nulla a che fare” e che non vuole entrare in quel partito.

Che non entri nel Pd è ovvio. Ma non è questo il punto. Verdini ha votato le riforme, voterà la Tasi e la riforma della giustizia. Si muove da alleato e Renzi lo ha coperto e sdoganato. Non è solo un fatto tattico, perché gli serve per piegare la minoranza. Verdini è il simbolo della mutazione genetica, da partito riformista a partito della Nazione. Perché nessuno dice che non sarà mai un alleato alle amministrative? Perché si ostenta una complicità con uno dei volti più discutibili della stagione berlusconiana?

Perché?

Perché il paradigma è vincere, non cambiare. Per vincere, come dice Giachetti, i voti non “puzzano”. Se invece vuoi fare la rivoluzione democratica devi dire che alcuni voti “puzzano”… Hai visto il bel programma di Iacona, sul partito della Nazione. In Sicilia, per dirne una, quelli che stavano con Cuffaro sono entrati nel Pd mentre escono quelli che si iscrissero con Berlinguer. Sai cosa mi ha colpito? Che quelli di Cuffaro dicevano: “Entro nel Pd perché ora è il partito di Renzi ed assomiglia a me. Non sono io che ho cambiato idea è il Pd che è cambiato”.

La sfida della Lega alla Chiesa di Francesco. Intervista a Roberto Cartocci

Roventi, nei giorni scorsi, sono state le polemiche tra la Lega (del suo Segretario Matteo Salvini) ed esponenti di spicco della gerarchia cattolica italiana. L’oggetto delle polemiche è stato il tema dell’immigrazione. Ma se si guarda con un poco più di attenzione queste polemiche hanno radici “antiche”. Per cercare di capire la “genesi” della sfida che la Lega di Salvini lancia alla Chiesa di Papa Francesco, abbiamo intervistato il politologo Roberto Cartocci. Cartocci, che è docente di Scienza Politica all’Università di Bologna, è stato tra i primi studiosi ad affrontare il tema dei rapporti tra la Lega e la Chiesa Cattolica. Suo, infatti, è il saggio, pubblicato dal Mulino nel 1993, “Fra Lega e Chiesa”.

L’immagine è tratta dal sito www.bergamonews.it

 

Professore, il conflitto tra Chiesa cattolica e Lega in questo periodo è molto acceso. Lei alcuni fa scrisse un saggio sui rapporti tra Lega Nord e la Chiesa. Volendo prendere un arco temporale di media durata, il ventennio della II Repubblica, vede dei cambiamenti nella strategia leghista nei confronti della Chiesa?Se si quali sono state le fasi più importanti?

In questi 20 anni la Lega ha preso varie posizioni. Quando io scrissi il libro Fra Lega e Chiesa, il sottotitolo era “L’Italia in cerca di integrazione”. Scritto nella seconda parte del 1993, descriveva un’Italia orfana dei vecchi partiti – veri collanti del paese, interclassisti, con elettorati di tutte le regioni, con macchine organizzative ancora parzialmente efficienti allo scoppio di Tangentopoli.
Di fronte al crollo della “prima repubblica” vedevo nella Chiesa e nella Lega Nord due soggetti alle prese con lo stesso progetto politico: offrirsi come strumenti di integrazione per coprire il vuoto lasciato dai partiti. Ovviamente le proposte erano molto diverse. La Lega aveva come obiettivo il voto dell’elettorato moderato e anticomunista del Nord, in chiave esplicitamente antimeridionale. Reclamava la fine della spesa pubblica improduttiva al Sud e accomunava tutti i vecchi partiti nell’accusa di aver sperperato nel Mezzogiorno le risorse prodotte nel Nord in cambio del voto clientelare. In un certo senso era la prima manifestazione di massa di populismo antisistema e contro la “casta”, dopo la fugace apparizione dell’Uomo qualunque nel 1946-48. La vera novità era, al di là dei pittoreschi richiami a un’inesistente radice celtica, l’appello secessionista, comunque più proclamato che perseguito.

Il mondo cattolico si era anch’esso mosso in direzione di un rinnovamento morale della politica e con un’esplicita contestazione del malgoverno delle regioni meridionali, e relative contiguità mafiose: si pensi alla cosiddetta “Primavera di Palermo”, alla nascita della “Rete” e di Alleanza democratica e alle varie scuole di politica, a cominciare appunto da quella animata dai gesuiti a Palermo. La CEI del cardinale Ruini mise a punto nel 1994 un ambizioso “Progetto culturale”, che doveva supplire al venir meno dello Scudo crociato con una complessa strategia mirante a salvaguardare i valori cattolici in un contesto orfano della DC.

Ovviamente tra Chiesa e Lega non sono mancati gli attriti. Più dei riti del Po pesava il razzismo antimeridionali e la prospettiva secessionista, se non altro perché – nell’ottica della chiesa-istituzione – l’unità culturale del Paese è assicurata dalla profonda tradizionale cattolica.

Come sappiamo, queste tensioni sono state totalmente composte con l’avvento di Berlusconi. A parte la fase 1996-2000, la Lega è stata fedele alleata di Berlusconi, così come forte è stato il legame tra il Cavaliere e la CEI – basti pensare al caso clamoroso della legge sulla fecondazione assistita e del successivo referendum abrogativo.

Qual è il posto della religione cattolica nella “ideologia” leghista?

Difficile pensare ad un’ideologia leghista. Dalla difesa dell’Italia del Nord dai “terroni”, che rubavano il posto ai maestri veneti, siamo passati all’invocazione di un baluardo continentale a difesa dell’Europa cristiana. Naturalmente oggi non manca il terreno di scontro con la parola di Papa Francesco, che predica l’esercizio della misericordia cristiana verso migranti e rifugiati – richiamando la lettera del Vangelo. Più che di ideologia penso sia più opportuno parlare di una sintonia con gli umori più profondi e tradizionali degli italiani: la diffidenza verso gli altri, la sfiducia nelle istituzioni (oggi anche nelle istituzioni europee). La lunga crisi economica non ha fatto altro che aumentare questa sindrome di paura e di chiusura, che soffia contro la sinistra di governo e a favore della destra populista. Le invocazioni evangeliche di Francesco non sono facili da accettare, neppure per molti cattolici praticanti (che non superano il 20% della popolazione, e che in larga misura sono anziani, impauriti dalle immagini dei telegiornali). Salvini fa un altro mestiere, con altri argomenti.

Vi sono anche elementi “pagani” nella cultura leghista. Alla fine “l’ideologia” della Lega è un sincretismo?

Casomai si tratta di opportunismo, o più precisamente di semplice fiuto politico. Salvini è stato abbastanza abile per conquistare il vertice della Lega e rilanciarla dopo gli scandali che avevano coinvolto anche Bossi. Adesso, con la stella di Berlusconi appannata, ha la possibilità di presentarsi come il leader del centrodestra: volto nuovo, giovane, efficace in tv. E’ ovvio che non voglia lasciarsi scappare l’occasione: in politica il treno buono passa una volta sola. La questione globale dell’immigrazione e la collocazione dell’Italia come ponte naturale tra Europa e Africa rappresentano un tema ideale per un elettorato anziano come quello italiano, cui ogni giorno la tv racconta di migliaia di profughi e migranti (giovani, di pelle scura e spesso musulmani) da sistemare nelle varie regioni.

La Lega prende voti anche degli elettori cattolici. Eppure sui punti strategici della dottrina sociale della Chiesa (solidarietà, attenzione ai poveri e accoglienza) si colloca agli antipodi della cultura cattolico sociale. Che “tipologia” di cattolico vota Lega?

Dobbiamo essere chiari su questo punto. A parte il quadro di forte e crescente secolarizzazione, la quota dei cattolici che sono sensibili alle istanze evangeliche di Papa Francesco rappresenta una minoranza, altrimenti non potremmo spiegarci il basso livello di moralità pubblica che caratterizza, da secoli, gli italiani. Certamente i cattolici che votano, e voterebbero Lega, sono molto più numerosi di coloro che condividono l’imperativo evangelico della misericordia “a tutti i costi”. Per i paradossi di cui è ricco il nostro paese, le parole di Francesco fanno più breccia tra coloro che cattolici non sono, come simpatizzanti e attivisti di sinistra ed estrema sinistra, i quali su tematiche come le unioni tra omosessuali e l’eutanasia si pongono all’opposto della Chiesa cattolica.

Ilvo Diamanti, in un recente articolo apparso su Repubblica, afferma che La Lega “nazionale” di Salvini si vuole porre come la “vera” Chiesa dei “veri” Italiani. Insomma una Lega da “crociate”. Per lei è così?

Si tratta appunto di quanto dicevo prima. Il cattolicesimo degli italiani è in larga misura un cattolicesimo di moderati, abituati a contemperare le perentorie istanze evangeliche con i vincoli imposti dalla realtà effettuale.

Ultima domanda: I sondaggi portano La Lega al massimo pensa che avrà ancora una espansione?

La situazione politica è molto fluida, in un orizzonte geopolitico assai preoccupante per l’Italia. Sul piano politico-elettorale interno la risposta dipende da tre elementi: la capacità di Berlusconi di ricostituire un partito compatto, l’esito delle politiche economiche del governo Renzi e le mosse del Movimento 5 stelle. Il successo elettorale di Salvini sarebbe certo favorito dallo sgretolamento di Forza Italia e dal persistere della crisi economica. Ma, nelle stesse condizioni, se Grillo mantiene la sua posizione contro l’immigrazione la Lega trova un avversario duro, che le contende già adesso il voto anti-casta e contro l’Europa. Una bella sfida fra tribuni.

“Per rinascere l’Italia prenda esempio da De Gasperi”. Il testo della “Lectio Degasperiana” di Monsignor Nunzio Galantino

Convegno "L'amore che salva: dal volto sofferente ai volti della sofferenza

Ogni anno la Fondazione Trentina “Alcide De Gasperi” organizza a Pieve Tesino (TN), nel giorno della morte dello Statista democristiano, una Lectio degasperiana. Lectio che vuole attualizzare, ricostruire i punti chiave della grande opera politica di De Gasperi. Diversi, dal 2004, sono stati i politici, gli intellettuali e studiosi intervenuti (ricordiamo tra gli altri: Scoppola, De Siervo, Romano, Traniello, Vacca, Castagnetti). Quest’anno era stato invitato a tenere la “Lectio” Monsignor Nunzio Galantino, Segretario Generale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana). Ma come si sa all’ultimo momento, in seguito alle polemiche sulle sue prese di posizione sull’immigrazione, ha rinunciato a partecipare (vedi notizia) . 

Il tema sviluppato da Monsignor Galantino nella sua relazione, che è stata letta dal Presidente della Fondazione De Gasperi Beppe Tognon, tocca il tema della rinascita, per opera di De Gasperi, dell’Italia alla fine della seconda guerra mondiale. Una tematica ricca di spunti anche per il nostro tempo. La relazione, infatti, si colloca in un contesto politico segnato, come già detto, da una forte polemica leghista contro la Cei sull’immigrazione. Nel suo intervento, ricordando il vigore e la sobrietà politica di De Gasperi, Monsignor Galantino afferma che i populismi “sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati davanti a un popolo che chiede di capire i passaggi complessi della storia” e che non bisogna “cercare voti sulla pelle degli altri” . Inoltre ribadisce il valore alto della politica : “Senza politica si muore. La politica come ordine supremo della carità” in questo contesto riafferma la validità del sogno europeo di De Gasperi: “L’Europa non può diventare una maledizione. E’ un progetto politico indispensabile”.

Nella relazione non c’è solo la critica ai populismi ma anche ad un certo modo di far politica di Matteo Renzi. Citando Romano Prodi, monsignor Galantino afferma: “La risposta non va cercata solo in un singolo individuo – disse – ma nella forza delle idee. Alle quali si deve aggiungere la particolare capacità che un politico per essere qualificato come statista deve possedere: dire la verità alla propria gente; avere una visione coerente e competente della realtà; avere il senso supremo della responsabilità, al di là della propria convenienza di parte e della propria prospettiva personale; non vivere per se stesso, ma per una prospettiva comune».

Tutte indicazioni queste, secondo Galantino, utili e attuali per la rinascita italiana.

Tornando all’intervento la sua rinuncia a partecipare certamente è una cifra delle difficoltà, in questa fase, del rapporto tra la Chiesa e la politica in Italia. Un tema che sarà oggetto di un nostro approfondimento nei prossimi giorni.

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione della Fondazione Trentina De Gasperi, il testo integrale dell’Intervento di Monsignor Galantino.     

 

La «ricostruzione» italiana. Il modello e l’esempio

di Alcide De Gasperi

Premessa

Porgo un saluto sincero a tutti voi, che avete voluto impreziosire quest’appuntamento annuale con la vostra presenza: saluto i familiari di Alcide De Gasperi, i numerosi cittadini, i rappresentanti delle Istituzioni – le Amministrazioni, la Provincia di Trento e il Parlamento – e il caro Arcivescovo di questa Chiesa.

Quando, a nome della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, il prof. Giuseppe Tognon mi ha proposto la Lectio su De Gasperi sono subito stato tentato di rispondere di no; mi ha trattenuto dal rifiutare il pensiero che non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione, specie in un tempo come il nostro, tutt’altro che incline al confronto e alla riflessione; non mi dispiaceva nemmeno il desiderio di poter rendere onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di Giuseppe Di Vittorio e come Vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De Gasperi.

Se potete dunque perdonare la mia audacia, a maggior ragione vi chiedo di accogliere con benevolenza, sotto il nome di De Gasperi, le cose che porto nel cuore e che spero possano aiutarci a recuperare fiducia nella fede e nella politica, che è quello di cui parlerò oggi. Abbiamo bisogno di entrambe, sempre di più. Senza politica si muore. Le società si disgregherebbero e la prepotenza umana dilagherebbe. Nessuno ha inventato ancora un sostituto delle istituzioni politiche, del diritto, della democrazia. Le società hanno bisogno di essere governate; da cristiani e da cittadini consapevoli, dobbiamo aggiungere che dovrebbero essere governate prima di tutto secondo giustizia.

Le virtù personali e le virtù politiche di De Gasperi

L’esempio di De Gasperi è sotto quest’aspetto unico, dalle radici profonde. Sulla sua spiritualità ho letto nel testo di Maurizio Gentilinii l’ampio saggio di don Giulio Delugan, storico direttore di Vita trentina, che fu legato allo Statista da uno stretto e duraturo rapporto di amicizia. Emerge, in seguito all’avvento del fascismo, il lungo “periodo di umiliazione e di tribolazione” a cui De Gasperi fu costretto, periodo che “in certi momenti raggiunse dei toni veramente drammatici”. Proprio di quel periodo Delugan può scrivere: “Ho sempre trovato e ammirato in De Gasperi – e lo dico non per sciocca adulazione postuma, ma per rendere omaggio alla pura verità oggettiva – il cattolico guidato da una fede granitica, coerente, cristallina, di una condotta pratica esemplare e a volte veramente ammirabile”. E ancora: “Non ho mai notato neppure l’ombra del così detto sdoppiamento di coscienza, per cui nella vita privata si seguono certe norme di condotta e nella vita pubblica se ne seguono altre…”ii. A ben vedere, ogni commento è superfluo… Si capisce, invece, come De Gasperi abbia potuto attraversare alcuni tra i più difficili passaggi della storia contemporanea conservando una straordinaria serenità d’animo. Le sue virtù personali sono state anche le sue virtù politiche. Ha avuto il dono di una coerenza invidiabile: “La fede e la condotta religiosa di De Gasperi – è ancora Delugan che scrive – non è stata una bella facciata, che nasconde il vuoto come certe facciate di palazzi in città bombardate durante la guerra; non è stata un abito da cerimonia per certe solenni occasioni, o una luce tardiva sorta nel suo spirito solo negli ultimi anni, ma qualche cosa di intimo, di profondo, di incarnato nella sua anima, di sostanziale e di genuino, che ha informato, plasmato e guidato il suo spirito fin dai suoi giovani anni e l’ha poi accompagnato ispirandone parole e azioni per tutta la vita”.iii

La professione politica ha quindi condotto De Gasperi là dove non avrebbe mai pensato di arrivare. Prima suddito ai margini di un Impero, poi di un Regno che lo ha imprigionato e quindi finalmente cittadino di una Repubblica che egli ha contribuito in maniera decisiva a costruire e che, invece, non ne ha sempre riconosciuto i meriti.

La “Ricostruzione italiana”: la complessa esperienza degasperiana

De Gasperi non è solo un esempio, ma è un modello che merita di essere studiato come elemento centrale di una storia collettiva esemplare. L’esperienza degasperiana della Ricostruzione italiana è una cosa diversa e ben più complessa della formula del Centrismo con cui gli storici definiscono gli anni dal 1948 al 1954. Essa è un’esperienza popolare che va oltre le vicende politiche nazionali: è una forma alta di partecipazione e insieme una dimostrazione di ciò che si può realizzare quando la si assume davvero come una missione di servizio. Si può discutere se la Ricostruzione sia stata il compimento del Risorgimento -, ma non si può negare che ha costituito il passaggio storico in cui le donne e gli uomini italiani, popolo e Chiesa, hanno dimostrato una straordinaria capacità di resilienza, una autentica conversione alla forma democratica, a dimostrazione che la democrazia richiede sempre anche virtù eroiche perché non è mai un regime di comodo.

Durante la seconda guerra mondiale, la Chiesa, soprattutto il basso clero, ebbe la forza di schierarsi dalla parte del popolo e riuscì a non pagare prezzi troppo alti alla sua compromissione con il regime fascista. In cambio di questa benevolenza popolare (una fiducia antica che come Chiesa dobbiamo sempre nuovamente meritare) ha potuto chiamare alla politica un’intera generazione di giovani, la generazione di Moro e di Fanfani, e tenere unito il mondo cattolico. Ma questa nuova leva di deputati e senatori e quest’unità politica che abbracciava sindacati, associazionismo, organizzazioni religiose, e che qualcuno nella Chiesa pensava di poter manovrare a piacimento, non avrebbero avuto il loro successo se non avessero incontrato un capo come De Gasperi, uomo dell’Ottocento, certo, ma un maestro, esigente, lungimirante, libero. Nel 1954 il ventre della DC e i giovani leoni, impazienti, vollero scrollarsi di dosso l’ingombrante leader: credettero di poter fare meglio e in alcuni casi, forse, vi riuscirono, ma con la fine politica di De Gasperi si chiuse davvero un’epoca che ritorna attuale oggi.

Noi siamo in pieno nel passaggio verso una nuova intelligenza civile: il mondo è cambiato, nulla sembra uguale a prima, e la memoria di maestri come De Gasperi diventa ancora più attuale. Egli non volle mai essere seguace di dottrine sterili o antiliberali ed ebbe sempre la preoccupazione che i cattolici non apparissero coloro che operavano per la conservazione di una struttura sociale e statale non voluta, solo ereditata, e in molte parti ormai marcia.

I dieci anni che vanno dalla Liberazione alla morte dello statista, nel 1954, sono stati il decennio più eroico della storia politica italiana. Un decennio non idilliaco, pieno di problemi, di opere incompiute e anche di cose storte. La strategia politica degasperiana può apparire a qualcuno quasi scontata, vista la divisione del mondo in blocchi, ma non si tiene conto che nulla allora per l’Italia era scontato, che il Paese era radicalmente ignorante di democrazia e, soprattutto, che il blocco moderato era profondamente conservatore. Portare i cattolici verso una democrazia governante in una alleanza strategica tra classe operaia e ceto medio è stato per De Gasperi come una traversata del deserto o del Mar Rosso. Fu un decennio di scelte decisive, sbagliando le quali si sarebbe potuto rovinare tutto.

L’Italia che era entrata in guerra non esisteva più. L’Italia che avrebbe dovuto essere, nessuno ne conosceva con esattezza l’identità: il fascismo aveva in qualche modo corrotto l’anima di un intero Paese e le classi dirigenti antifasciste erano state messe all’angolo, se non al confino. Dal 1946 si navigò invece in mare aperto, con grandi partiti di massa che erano come delle grandi navi, potenti ma zavorrate da tante attese e da correnti, e che per entrare nel porto della democrazia domandavano piloti abili e coraggiosi. 

I cardini della “Ricostruzione” degasperiana

La Ricostruzione degasperiana rimane un modello perché De Gasperi l’ha ancorata intorno a tre cardini, che restano solidi e che hanno consentito che si aprisse la porta ad una nuova Italia.

Rispetto delle istituzioni ed esercizio di democrazia

Il primo cardine è il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del Parlamento. Basterebbe riprendere in mano quanto disse in questa stessa circostanza ormai dieci anni fa Leopoldo Elia, intervenendo su Alcide De Gasperi e l’Assemblea Costituente, per trovarvi spunti ed elementi al riguardoi. De Gasperi fu segretario di partito e poi presidente del Consiglio per otto anni, ma tutte le scelte fondamentali della sua politica interna e internazionale sono state elaborate dai partiti all’interno del Parlamento, nel rispetto più assoluto delle regole e con un faticoso quanto meticoloso lavoro politico svolto in profondità. Ciò ha comportato non poche difficoltà nel gestire sia le coalizioni di governo sia le diverse e vitali correnti di partito, ma mai De Gasperi ha ceduto alla tentazione di coartare il Parlamento, che era la sede in cui egli pretendeva il rispetto e in cui poteva riconoscere alle opposizioni il ruolo che meritavano. Quando nel 1953, preoccupato degli scricchiolii della propria maggioranza, propose una nuova legge elettorale maggioritaria, contro cui si scatenò una pesante campagna denigratoria, il suo premio di maggioranza sarebbe comunque scattato solo se la coalizione avesse raggiunto la maggioranza dei voti, il 50%!

Il Parlamento era la sede della legittimazione della volontà popolare, il luogo nel quale, soprattutto, si costruivano le riforme sociali, l’anima autentica di ogni democrazia, che non può ridursi a semplice politica fiscale e tanto meno a una politica economica meccanica. De Gasperi aveva ben chiaro che una crisi come quella del secondo dopoguerra non poteva essere vinta con la leva dei soli strumenti economici: era necessario che una rigorosa politica di bilancio fosse inserita in una visione politica internazionale ed europea e venisse sostenuta – vorrei dire incarnata – da una ferrea tempra morale.Nella relazione politica al Congresso nazionale della DC del novembre 1952 De Gasperi disse:

Lo Stato democratico deve essere forte. La forza è prima interiore, nella giustizia della legge, e poi esteriore e strumentale, nell’autorità di imporre la legge e di punire i trasgressori. La forza dello Stato è nel suo diritto, nella legittimità del potere, nella razionalità delle disposizioni, nella precisione dell’ordine. Lo Stato è forte se il legislativo è illuminato e se è stabile e forte l’esecutivo, anche per realizzare una politica di riforme sociali”ii.

Oggi siamo più vicini di quanto crediamo alle sfide che De Gasperi dovette affrontare, anche se esse a molti non appaiono oggi così drammatiche. Siamo di fronte alla necessità non solo di una nuova forma di convivenza fra i popoli, ma anche di un nuovo modello macro-economico, di una nuova politica industriale, di una politica dei diritti sociali più completa. Chi pensa, chi adotta, chi realizza queste riforme? Esse richiedono una democrazia costruita con un di più di ascolto, un di più di precisione e di attenzione ai dettagli, per adattare i grandi principi dell’uguaglianza e della solidarietà a regole sempre nuove di giustizia, che non può rimanere una questione confinata nelle aule dei tribunali.

De Gasperi è un modello. I modelli di un sarto o i prototipi di un’officina sono i materiali più preziosi di ogni impresa, sono semi d’intelligenza e d’esperienza, ed è su di essi che si fonda l’innovazione. Una politica senza memoria, che pretenda di ricominciare da zero, non ha futuro e rischia, nel migliore dei casi, di essere velleitaria. La politica, come le Istituzioni che ne sono il fondamento, ha bisogno di tempi e di spazi di manovra, soprattutto in democrazia, dove l’equilibrio tra i poteri non può ridursi al rispetto formale di regole. La democrazia non è soltanto una forma di governo, ma la condizione necessaria per esercitare in positivo le libertà individuali, civili e sociali. La democrazia è un metodo di vita, un’aspirazione al riconoscimento della dignità delle persone e dei popoli.

Il bene comune: ispirazione della politica e della religione

Il secondo cardine della Ricostruzione degasperiana è quello dell’ispirazione ideale della politica e della religione al bene comune. Oggi ci appare una cosa lontana, ma la politica che De Gasperi ha praticato era ben lontana dalla presunzione che la politica fosse tutto e che ad essa potesse essere chiesto ciò che invece non può dare: forza interiore, resistenza al male, disposizione interiore alla solidarietà. “Dirsi cristiani nel settore dell’attività politica – disse De Gasperi nel 1950 – non significa aver diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso di fraternità civica, di moralità e di giustizia verso i deboli e i più poveri”.iii

Il progetto attuale di un umanesimo autosufficiente e di una società senza regole e senza limiti non appartiene alla visione degasperiana. L’umanesimo presuntuoso e insieme superficiale che ben conosciamo è fallito o, meglio, sopravvive in una meccanica politica che non si preoccupa di distinguere tra ciò che ha un’anima e ciò che non ce l’ha e non sa riconoscere dove c’è ancora vitalità. Certo, non è ancora tempo di cure palliative – l’uomo e il creato non sono moribondi – ma nemmeno è tempo di cullarsi in false illusioni.

Recuperare la passione per la Ricostruzione di un popolo e di un mondo non è impresa facile, anche se necessaria. Pascal – ma lo farà in maniera illuminata anche Rosmini – in uno dei suoi frammenti più belli ha descritto un terzo ordine della realtà, quello della carità, che rispetto a quello dell’intelletto e delle cose materiali o dei corpi, ha una potenza soprannaturale che non conosce eguali.

Gesù Cristo – scrisse Pascal – senza ricchezza e senza nessuna ostentazione esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato; ma è stato umile, paziente, santo a Dio, terribile per i demoni, senza alcun peccato. […] Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme, tutte le loro produzioni, non valgono il minimo moto di carità. Questo è un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile, è di un altro ordine. Da tutti i corpi e gli spiriti insieme, non sarebbe possibile trarre un moto di vera carità: ciò è impossibile perché è di un altro ordine, di un ordine soprannaturale”iv.

Questo terzo «ordine della carità» non è effimero o invisibile perché anima ogni fibra del creato. E la politica può esserne la più alta traduzione nelle cose degli uomini. La politica come ordine supremo della carità: questa io credo dovrebbe essere la grande avventura per chi ne sente la missione. A questo penso si riferisse Paolo VI quando parlava della politica come della “forma più alta della carità”.

Credetemi, è questo che mi ha spinto a essere fin troppo chiaro (qualcuno ha scritto “rude”) negli interventi di questi ultimi giorni – almeno quelli non inventati – sui drammi dei profughi e dei rifugiati: nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla pelle degli altri e nessun problema sociale di mancanza di lavoro e di paura per il futuro può far venir meno la pietà, la carità e la pazienza. L’Europa che De Gasperi ha contribuito a fondare era più generosa di quella di oggi e i suoi capi politici farebbero bene a ricordarsi da dove gli europei sono venuti e dopo quali terribili prove. L’Europa non può diventare una maledizione; è un progetto politico indispensabile per il mondo, a cui la Chiesa guarda con trepidazione, come un esempio, un dono del Signore.

Rispetto all’ordine politico della carità o, se volete, del bene comune, è chiaro che il riformismo – di cui tanto si parla anche in questo tempo – non basta, o, almeno, non può essere fine a se stesso, quasi potesse risolversi in un esempio di movimento per il movimento. Esso è sempre necessario, è cura del quotidiano o pena per il presente, ma appartiene, come categoria, a una stagione della politica che è ormai superata, nella quale si avevano troppe speranze di progresso e si dava importanza ai ruoli, anche tra il clero.

Ricostruire, invece, è cosa diversa. È un evento che si realizza sulla spinta di una concentrazione di virtù, di passioni e di intelligenza che va preparata e che si manifesta solo a certe condizioni. Soprattutto è un passaggio che richiede sempre grandi uomini, figure capaci di interpretare il proprio tempo con quella tenacia che non proviene dall’aver frequentato le migliori scuole, le migliori sagrestie o dall’aver imparato tutte le astuzie della politica nelle segreterie dei partiti. Ci vuole altro… La politica come ordine della carità è un’impresa difficile eppure necessaria, un’esperienza del limite che il cristiano può comprendere come anticamera della salvezza. Ho letto nel testamento spirituale di uno storico importante, Pietro Scoppola, il primo dei miei illustri predecessori in questa tribuna degasperiana, una definizione della politica che a mio parere è molto degasperiana: “La politica mi ha appassionato, non strumentalmente come mezzo per un fine diverso dalla politica stessa, ma come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile, e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello che non riesce a essere molto di più che per quello che è”.v

Una sana laicità … oltre il fanatismo e lo smarrimento dei valori

Il terzo cardine della ricostruzione degasperiana è quello della laicità, tema che ancora infiamma il dibattito in Europa e nei Paesi democratici, alle prese da un lato con fenomeni terribili di fanatismo e d’intolleranza – ne sono stato testimone diretto nei giorni scorsi, durante una visita compiuta in alcuni campi di profughi iracheni – e, dall’altro, con uno smarrimento generale di valori, una mancanza di virtù che è più insidiosa di ogni laicismo.

L’Italia degasperiana è stata un’Italia diversa anche sul piano dell’esperienza religiosa. De Gasperi ha dato una dignità diversa al laicato cattolico – lo ha reso adulto, protagonista – e, pur rispettando la Chiesa e il papato, ha capito di che cosa era capace il popolo italiano e in particolare i laici cattolici. «Il credente -disse il 20 marzo 1954 – agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione e impegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo partito, non la chiesa»vi. Pio XII fu molto scontento di quel discorso e ordinò alla «Civiltà cattolica» di criticare e correggere De Gasperi, che per l’ennesima volta soffrì in silenzio. D’altra parte due anni prima Nenni aveva annotato nel diario queste parole di De Gasperi: «Sono il Primo Presidente del Consiglio cattolico. Credo di aver fatto verso la chiesa tutto il mio dovere. Eppure sono appena tollerato»vii.

E’ giusto dire ad alta voce, almeno oggi, come è stato fatto con Rosmini, che De Gasperi non è stato del tutto compreso dalla Chiesa e che ha patito più di quanto avrebbe dovuto. Nessuno è profeta in patria, e a De Gasperi, che tra i politici cattolici dell’Occidente è stato forse il più capace, ma che ha dovuto subire il condizionamento pesante da parte dei conservatorismi politici ed ecclesiastici, è toccato il destino di aver ragione anche davanti al sospetto e, per certi versi, alla resistenza di Papa Pio XII e di molti suoi consiglieri. Aveva ragione De Gasperi. La sua pazienza e il suo coraggio nella ricostruzione politica, economica e civile dell’Italia sconfitta fu il miglior regalo alla storia del cattolicesimo politico italiano: portare la Chiesa a confrontarsi con la democrazia e fare dei cattolici italiani il pilastro di quest’ultima. L’Italia, con De Gasperi, passò da essere «il giardino del papa» a uno dei Paesi fondatori dell’Europa unita. Non è poco, anche se a noi oggi appare quasi scontato.

De Gasperi: punti fermi contro altari vuoti e poteri assoluti

De Gasperi veniva da lontano. Aveva vissuto in prima linea il risveglio del cattolicesimo sociale e la stagione delle opere. Veniva da un Trentino che era stato un laboratorio per l’intera Europa di operosità cattolica, ma anche del rinnovamento della coscienza cattolica che, come in De Gasperi, si costruì intorno a pochi punti fermi: la preghiera personale, la Bibbia, la comunità. De Gasperi fu un uomo dai rapporti umani corti, cioè vicini alla realtà quotidiana, ma dai rapporti politici lunghi, proiettati su una scala e su un tempo che appartengono alla grande Storia. Realismo e prossimità da un lato, visione e disegno cristiani dall’altro. Al centro un’interiorità solida e fiduciosa. La laicità non è libertà individuale di fare ciò che si vuole, non concerne leggi che devono assecondare i desideri di ciascuno, e non è nemmeno una semplice morale laica, da piccoli borghesi garantiti dal benessere: in positivo, la laicità è un progetto di vita fondato sul rispetto della complessità dell’uomo, sulla tradizione storica e sulla fiducia nella capacità della politica di trovare un punto di mediazione che non sia la rinuncia a ciò che si crede. La laicità della politica è anche saper perdere con dignità per preparare tempi migliori; è anche comprendere che è sempre meglio lottare per convincere che protestare per sdegnarsi; da cristiano e da vescovo dico che laicità è anche fare chiarezza in mezzo al popolo e poi rispettarne la volontà. Gli esempi, legati alla cronaca di questa stagione, non mancano.

De Gasperi è un trentino come lo è stato Antonio Rosmini, che amo e che ho studiato con passione. I due personaggi hanno molto in comune: sono stati dei riformatori della società e della Chiesa, ciascuno nel proprio ambito, ed hanno patito entrambi l’ostracismo di tutti coloro che non concepivano che la storia fosse importante e decisiva anche nella Chiesa, perché solo la realtà vivente è capace di lottare contro altari vuoti e poteri assoluti. La storia non è monarchica o teocratica, come non può esserlo la coscienza, che è quell’abito interiore che ci richiama sempre alla nudità e alla mendicanza davanti al Signore, ma anche davanti ai fratelli, ai compagni del genere umano.

Va anche aggiunto che, grazie a De Gasperi e alla Democrazia cristiana, i cattolici italiani hanno avuto anche il merito storico di riconciliare la fede con la storia – uno degli esiti più alti del Concilio Vaticano II, che De Gasperi avrebbe vissuto certamente con grande gioia e trepidazione accanto a Montini, il futuro papa che gli era stato amico e consigliere e che in qualche modo ne prese l’eredità dopo la sua morte.

La ricostruzione italiana, compreso il capolavoro degasperiano e togliattiano di concedere al Concordato del 1921 di essere riconosciuto nella nuova Carta costituzionale, va ben oltre la riaffermazione del potere temporale della Chiesa. Con i Patti lateranensi la «questione romana» si era chiusa ancora all’insegna del potere temporale del papato e se non ci fossero stati uomini come Sturzo e De Gasperi, con i molti loro amici, per il cattolicesimo italiano le cose avrebbero potuto mettersi molto male. Invece, la lotta politica e la libertà di giudizio di laici come De Gasperi hanno fatto in modo che non fosse quello il piccolo Stato a cui guardare, lo Stato oltre Tevere, ma piuttosto la Repubblica degli italiani, uno Stato democratico nuovo, costituzionale, di pace, di sviluppo. L’Italia repubblicana è stata davvero un caso di successo a livello mondiale: lo era stata già al momento dell’unificazione cento anni prima che De Gasperi fondasse la Democrazia cristiana, ma con la Costituzione e con la Ricostruzione degasperiane, lo divenne su scala europea ed entrò così, con la sua grandezza e i suoi limiti, tra le nazioni a cui guardare con rispetto ed interesse.

Su questo principio della laicità e della religiosità della politica De Gasperi ha molto da insegnarci. La sua santità sta nella fecondità di ciò che ha fatto in una lunga e operosa vita politica. E a noi oggi appare più chiaro ciò che voleva dirci. Lo Stato vaticano dovrebbe essere come un’oasi, di pace e di accoglienza, dove tutti coloro che hanno problemi possano venire per farsi ascoltare e confortare. La Chiesa cattolica non ha bisogno di mura respingenti, di eserciti agguerriti o di burocrazie mortificanti. La Chiesa ha bisogno di donne e uomini agili e curiosi, rapidi nel comprendere e nel dimenticare le offese, forti nell’amare, ambiziosi nell’intelletto, coraggiosi nello sperare. Pensiamo spesso che il buon cattolico sia un uomo a metà, una via di mezzo tra gli ambiziosi e i disperati e non è vero. Pensiamo che un cattolico sia un uomo con il freno a mano, che non possa godere del successo della scienza o dei frutti della ricchezza, ma sono bestemmie perché non c’è nessun motivo che ci spinga a rinunciare ad offrire al Signore il meglio dell’intelligenza e dello sviluppo economico e tecnologico. Il cristiano è solamente colui che, anche in questi campi, mette tutto se stesso al servizio degli altri e nelle mani del Signore. E De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella società contemporanea non c‘era e non c’è nulla di altrettanto potente e forte di una politica ispirata da valori universali, da cui dipendiamo tutti e a cui tutti dobbiamo rispetto. Certo, la politica non è forse quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. La politica è ben altro, ma per comprenderlo è inutile prodursi in interminabili analisi sociologiche o in lamentazioni, quando è possibile guardare a esempi come quello degasperiano. I veri politici segnano la storia ed è con la storia che vanno giudicati, perché solo da quella prospettiva che non è mai comoda, si possono percepire grandezze e miserie dell’umanità. Il Signore è risorto in terra di Israele, tra il suo popolo, ma per l’intera umanità.

La Chiesa inoltre non ha bisogno di grandi organizzazioni materiali perché ha a disposizione la parola di Dio e l’intera fraternità umana; non ha bisogno di diplomazie esclusive, ma di uno spirito evangelico, come papa Francesco non si stanca di ricordarci.

Ma ciò che forse può valere per la Chiesa, seme nel mondo, non può valere per le società contemporanee che hanno sempre più bisogno di competenze politiche e d’intelligenze morali. Che cosa saremmo noi vescovi italiani senza l’Italia? La nostra missione non può essere disgiunta dal destino di questo nostro Paese, a cui siamo non solo fedeli, ma servitori.

Ciò significa allora che il papa, i vescovi e i presbiteri hanno bisogno di essere inseriti a loro volta in una comunità impegnata e solida che li ascolti, certo, ma anche che li aiuti e li sostenga. 

Una eredità … oltre gli individui

Chi sono oggi gli eredi di De Gasperi?”. Un anno fa, a Trento per ricevere il premio internazionale De Gasperi, Romano Prodi rispose in questo modo che faccio mio: “La risposta non va cercata solo in un singolo individuo – disse – ma nella forza delle idee. Alle quali si deve aggiungere la particolare capacità che un politico per essere qualificato come statista deve possedere: dire la verità alla propria gente; avere una visione coerente e competente della realtà; avere il senso supremo della responsabilità, al di là della propria convenienza di parte e della propria prospettiva personale; non vivere per se stesso, ma per una prospettiva comune».

Un popolo non è soltanto un gregge, da guidare e da tosare: il popolo è il soggetto più nobile della democrazia e va servito con intelligenza e impegno, perché ha bisogno di riconoscersi in una guida. Da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia. Il significato della guida in politica non è tramontato dietro la cortina fumogena di leadership mediatiche o dietro le oligarchie segrete dei soliti poteri. La politica ha bisogno di capi, così come la Chiesa ha bisogno di vescovi che, come ha detto Papa Giovanni siano «una fontana pubblica, a cui tutti possono dissetarsi». Tra le luci della ribalta e il buio delle mafie e delle camorre non c’è solo il deserto: la nostra terra di mezzo è un’alta vita civile, che è la nostra patria di uomini liberi e che, come tale, attende il nostro contributo appassionato e solidale.

Nunzio Galantino

Vescovo emerito di Cassano all’Jonio

Segretario generale della CEI

 

I giorni da Berlusconi del governo Renzi. Intervista a Alessandro De Angelis

 

immagine da serviziopubblico.itTe lo dico con una battuta. L’altro giorno mi sono sentito più giovane di almeno cinque anni. Nella stessa giornata Renzi salva Azzollini, arrivano le truppe di responsabili di Denis Verdini e il governo annuncia le nomine Rai con la Gasparri. È stato il giorno da Berlusconi del governo Renzi. C’è tutta la risposta alle tue domande in questa fotografia o in questo deja vu, chiamalo come vuoi”. Inizia così, la chiacchierata con Alessandro De Angelis, cronista dell’Huffington Post. Con una battuta ma neanche tanto: “No – prosegue De Angelis – non è affatto una battuta. Ma al fondo di tutti questi passaggi c’è un dato politico e culturale: la maggioranza sta in piedi grazie a tutto quello che Berlusconi ha messo in campo in questi anni, sia in termini i persone, vedi Verdini, che in termini di “valori”. Non è stata forse sua la battaglia contro il giustizialismo?”.

 

E allora proviamo a capire il perché del marasma. Da un lato Azzollini, Rai, Verdini, poi il caso Marino e Crocetta. Pur nella diversità di episodi, resta, secondo me, una radice comune: ovvero l’incapacità di Matteo Renzi a gestire il doppio incarico (di segretario del Pd e di premier). È così?

Mi pare un dato secondario. Te la dico senza giri di parole. Secondo me la domanda non è se Renzi è capace di gestire o meno il doppio incarico. La domanda è se Renzi è in grado di governare e se interpreta la sua leadership sulla base di una missione di cambiamento o sulla base di uno schema di potere. Vedi, non è che il caso Marino puoi dire che è competenza del segretario e non del premier. È un caso che investe un leader della sinistra. Ti immagini Hollande tacere se Parigi rischiasse lo scioglimento per mafia?

 

E allora?

Vedo una deriva politicista del presidente del Consiglio. Avalla una operazione trasformista in parlamento con i pezzi più discutibili del mondo berlusconiano, come Verdini e gli amici di Cosentino. Imbarca di tutto sul territorio dove sta nascendo un partito della Nazione senza confini a destra. Il suo schema è il potere: vincere, non cambiare; governare per governare, non cambiare. E su questo schema ha costruito la sua narrazione: i gufi, la ricerca di un nemico a sinistra, un format per cui si tiene alla larga dalle difficoltà. Non mette la faccia su Roma, non la mette su Crocetta, così come ha evitato per paura dei fischi l’alluvione di Genova.

 

Insomma, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?

Una gigantesca macchina di potere che attrae trasformismi. E che perde progressivamente il legame con il suo popolo. Attenzione, c’è chi teorizza che conta il consenso, non il popolo. Secondo me il consenso senza un popolo dietro di cui interpreti valori, passione, senso di comunità e di una missione comune, è effimero.

 

Tu dici, la rottamazione è finita. E vedi limiti nell’azione di governo?

Molti: in questo momento non vedo governo…. Al netto del format di Renzi, la realtà è molto diversa dalla sua narrazione: immigrazione, lavoro, tasse. Non solo ci sono risultati scarsi, ma temo che la distanza, anche emotiva, tra il messaggio del premier e la sofferenze del paese sia a livelli di guardia. Suggerirei a Renzi di uscire dal format…

 

E nel frattempo la minoranza annuncia il Vietnam.

Ci manca solo l’odore del Napalm di primo mattino…. Torno al discorso accennato prima: che cosa è l’unità di un partito? È innanzitutto un fatto politico e culturale, non di statuti. Ora, seguendo le direzioni del Pd, mi ha sempre colpito che Renzi fa un intervento introduttivo lungo, poi parlano gli altri, e non replica, non fa quella che si chiamava sintesi. Come a dire: non me ne frega  nulla di quello che dite voi. Ha una visione del partito come suo megafono. Gli altri invece lo hanno sempre considerato un estraneo da cacciare di casa. Ecco, ti pare possibile parlare di unità?

 

Quale è il limite della sinistra Pd, secondo te?

Quello sottolineato da due grandi vecchi della sinistra come Emanuele Macaluso e Alfredo Reichlin. Appaiono spesso come la sinistra degli emendamenti e delle soglie di sbarramento e delle tattiche parlamentari. E non si capisce l’idea di società che hanno. Ti pare normale che fanno il Vietnam sull’Italicum o sulla Rai e non dicono una parola quando Roberto Saviano dice che “nelle  liste c’è Gomorra”? O tacciono sullo scandalo del cara di Mineo?

 

Ultima domanda: Quale sarà la partita fondamentale alla ripresa dell’attività politica, dopo la pausa estiva, per Matteo Renzi?

L’economia, sempre e comunque. Lì Renzi si gioca tutto in vista delle amministrative del prossimo anno che sono una tornata molto “politica”. Gli annunci che ha fatto costano. E secondo me non li copre con i tagli e la spending review. O sfora il tre per cento in Europa o sarà costretto a una manovra molto poco sviluppista. E su questa partita si misurerà la sua forza.