Elezioni 2015 : La “brutta vittoria” del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Dopo il voto delle regionali il PD si sta interrogando, con forte tensione, sulle cause di questa “brutta vittoria”. Ne parliamo con Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, il test elettorale delle regionali segna, al di là del dato numerico (5 a 2 a favore del PD), una battuta d’arresto della forza propulsiva di Renzi. La clamorosa sconfitta della Paita in Liguria e quella della Moretti in Veneto pongono problemi politici pesanti. Cosa non ha funzionato?

Lei dice “al di là del dato numerico”. E certo non possiamo fermarci al 5 a 2. Ma non possiamo neppure prescinderne. In qualunque paese del mondo, un partito di governo che, a più di un anno dal suo insediamento, a luna di miele col paese ormai dimenticata, nel pieno di riforme difficili, controverse e conflittuali, spesso proprio con la propria costituency elettorale, rafforzasse o anche solo mantenesse il suo primato nei poteri locali, verrebbe considerato un vincitore e non uno sconfitto. Il Pd oggi governa 17 regioni italiane su 20. Abbiamo perso la Liguria, ma conquistato la ben più popolosa Campania. Molti vorrebbero perdere sempre così. I nostri cugini socialisti francesi, che con Hollande e Valls governano a Parigi, si sono svegliati terzi alle elezioni amministrative, dopo il centrodestra di Sarkozy e la destra di Le Pen. Noi ci siamo svegliati con qualche livido, ma ancora primi. Detto questo, è evidente che abbiamo avuto due sconfitte, certamente gravi. La più grave in Veneto, perché lì eravamo tutti uniti, mentre la destra si era divisa, e ciò nonostante siamo andati indietro, molto indietro, rispetto alle europee. L’altra sconfitta, quella in Liguria, è invece in gran parte figlia delle nostre divisioni interne: divisi, siamo stati battuti da un centrodestra che, per quanto unito, si è fermato sotto il 35 per cento. Due sconfitte e cinque vittorie. Io la chiamo, vista nel suo complesso, una brutta vittoria, una vittoria ai punti, rispetto alla bella vittoria per ko delle europee. Ma una brutta vittoria è sempre meglio di una bella sconfitta.

Qualunque vittoria sarebbe peraltro una vittoria dimezzata, in presenza di un così elevato tasso di astensione, che ha sfiorato stavolta il 50 per cento. Non crede che il Pd abbia fin qui sottovalutato questo fenomeno? Non sarebbe ora di interrogarsi su di esso in modo meno rituale e superficiale?

Sono d’accordo con lei. Penso anche che a poco servano recriminazioni e lamentazioni. A mio modo di vedere, nell’astensione di domenica scorsa si sono saldate tre componenti. La prima, quella di fondo e di lungo periodo, ha a che fare con la secolarizzazione della politica. Su questa questione, che da decenni interroga i filosofi e i sociologi della politica, c’è poco di nuovo da dire e forse anche poco da fare. La seconda componente, più recente (in Italia la sua comparsa ha coinciso con la crisi della seconda Repubblica e della guerra civile fredda tra berlusconismo e anti-berlusconismo), ha alla base la protesta contro la “casta” dei politici, più che la politica come tale. Su questo versante i rimedi sono chiari: bisogna completare l’opera di disboscamento della gìungla dei privilegi dei politici, sapendo peraltro che neppure questo sarà sufficiente, se non si riuscirà a dimostrare che la politica può riuscire a cambiare in meglio le cose, la vita concreta dei cittadini. Il Pd e il governo Renzi su questa scommessa si giocano il futuro. Infine, la terza componente, misurabile in un buon 10-15 per cento, esprime il distacco radicale rispetto all’istituzione regione in quanto tale. Non a caso, nelle città dove si votava per i sindaci, la percentuale di partecipanti al voto è salita ben oltre il 60 per cento. E oltre il 60 era stata la partecipazione alle europee, segno che l’Europa, nel bene e nel male, coinvolge le menti e i cuori degli italiani più delle regioni. Credo che in particolare su quest’ultima componente del non voto sia urgente una riflessione e un piano d’azione, per rilanciare la credibilità dei governi locali, la loro funzione democratica, che oggi se forse non è ancora compromessa, è indubbiamente assai appannata. La riforma del Senato e del titolo V deve essere l’occasione per questo rilancio.

Quello che si è notato, prendendo i due casi emblematici (Campania e Liguria), è la distanza tra la realtà nazionale e il livello locale. Insomma il gruppo dirigente nazionale è parso debole nell’imporre i criteri della rottamazione. Così siete andati al voto da una parte (Liguria) con un candidato debole, Paita, che rappresentava la continuità con Burlando, e dall’altro con “l’impresentabile” De Luca che vi creerà, con la sua vittoria, non pochi problemi. Insomma oltre al dato politico emerge una “insipienza” politico-organizzativa. Non è venuto il tempo di superare la “cultura dell’uomo solo al comando”?

Se davvero ci fosse, nel Pd, un uomo solo al comando, Renzi avrebbe potuto scegliere i candidati a sua immagine e somiglianza. Come faceva Berlusconi. Ma il Pd non è Forza Italia. Lì, per statuto, è (o era) il leader a scegliere i candidati, tutti i candidati. Noi siamo un’altra cosa. Da noi i candidati li scelgono i cittadini con le primarie. E così è stato anche stavolta. A parte i due uscenti, che non sono stati sottoposti a primarie perché nessuno li ha sfidati, Rossi in Toscana e la Marini in Umbria (peraltro né l’uno né l’altra definibili come renziani, ma semmai lealmente e apertamente collocati nel partito su opposte sponde rispetto al segretario), tutti e cinque gli altri sono stati scelti con la partecipazione decisiva di centinaia di migliaia di nostri elettori. Neppure le primarie sono un sistema perfetto. Vincere le primarie non garantisce la vittoria alle elezioni. Ma noi non ci chiamiamo Partito democratico per finta. E Renzi, e con lui tutti noi, ha fatto campagna elettorale per sette candidati che, alle primarie nazionali del 2012, avevano tutti sostenuto Bersani e non lui. E lui li ha sostenuti, tutti e sette, perché erano i nostri candidati, i candidati del Pd, scelti dai nostri elettori con le primarie. Detto questo, è evidente che c’è un problema, grande come una casa, di rinnovamento della classe dirigente diffusa: un rinnovamento che per ora si è in gran parte fermato a Roma e ha solo lambito i territori. Bisogna dedicarsi con più energia a questo lavoro, assolutamente fondamentale. Ma nel rispetto del nostro modello di democrazia, dunque formando e selezionando una nuova generazione di dirigenti, capace di farsi valere nel confronto democratico, non imponendo o eliminando qualcuno attraverso un di più di dirigismo.

Veniamo al quadro interno al PD. Anche qui ci sono problemi a non finire. Ovvero il ruolo della minoranza interna. Non le pare che un’altra lezione di queste elezioni sia quella di recuperare il “metodo Mattarella” (ovvero la ricerca delle scelte condivise)? Ha qualcosa da dire alla minoranza?

Come è normale che sia, fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. L’albero ligure è caduto, sotto il peso delle nostre divisioni, e ha fatto molto rumore. Ma in tutte e sei le altre regioni, il Pd è stato unito, vincendo in cinque casi e perdendo in Veneto. Dunque, quello che lei giustamente chiama il “metodo Mattarella”, ovvero la ricerca delle scelte condivise, se non nel merito, almeno nel metodo (democratico), è il modo ordinario di vivere e di decidere dentro il Pd. Perché questo metodo possa funzionare, c’è però bisogno di richiamare una precondizione: tutti devono sentirsi impegnati dalle decisioni che, democraticamente, si prendono insieme. Una parte della minoranza, forse perché non le era mai capitato di non essere maggioranza, questo principio fa fatica ad accettarlo e rivendica il diritto di votare come crede nelle assemblee elettive e addirittura di presentare candidati alternativi alle elezioni. Il problema è che nessun partito democratico può funzionare così. Su questo punto, dunque, un chiarimento fra noi è necessario e urgente. Non c’è, peraltro, solo un problema di metodo. Le vicende interne al Pd hanno messo in evidenza anche un problema di sostanza, vorrei dire politico-culturale. Il mito fondativo del Partito democratico non è l’unità delle sinistre, ma l’unità, si potrebbe dire il ricongiungimento, dei riformisti, storicamente divisi in partiti e perfino in schieramenti diversi, in un riformismo nuovo, capace di confrontarsi in modo positivo con i grandi cambiamenti del nostro tempo. Per una parte della nostra minoranza, rischiare (e sottolineo la parola rischiare) un riformismo nuovo, non è adempiere alla nostra missione di democratici, ma tradire la nostra storia. Così come sfidare le pigrizie della sinistra conservatrice, politica e sindacale, è infrangere il mito, duro a morire, nonostante la nascita del Pd, la lezione di Veltroni e la rivoluzione di Renzi, dell’unità delle sinistre e del “pas d’ennemis à gauche”. Su questo crinale, per così dire “ideologico”, è raccomandabile il massimo rispetto reciproco e un modo di argomentare e discutere pacato, ma non si può chiedere a Renzi e a tutti noi di diplomatizzare le differenze, fino a ridurre un sano perché vero conflitto politico ad una questione di buone maniere.

E veniamo alla vicenda della Presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi. Lunedì sera, a “Piazzapulita”, ha chiesto le scuse da parte del PD per come è stata trattata da alcuni esponenti del suo partito. Un episodio che brucia sulla “pelle” del suo partito…

Non saprei, può darsi che qualcuno abbia usato nei suoi confronti qualche parola di troppo. Resta il fatto che Rosy ha gestito un passaggio delicato e difficile, come la prima applicazione di un codice di autoregolamentazione ad un processo elettorale, in modo assolutamente sbagliato. Non lo dico io, lo hanno detto in modo inequivoco personalità insospettabili come Saviano o Cantone. Mi permetto di aggiungere che nessuna delle vicende giudiziarie che riguardano De Luca ha a che fare con la mafia o la criminalità organizzata. E dunque la sua inclusione in quella lista di “impresentabili”, peraltro alla vigilia del voto, quindi negando di fatto a lui e al Pd, come agli altri coinvolti nella vicenda, qualunque diritto di replica efficace, è stato un colpo basso che ha inquinato in modo grave il confronto elettorale. Sarebbe stato inaccettabile nei confronti di un avversario. Nei confronti di un compagno di partito lascia senza parole.

L’idea del Partito della Nazione è uscita bocciata dall’esito elettorale. Lo sfondamento a Destra non c’è stato. E questo impone sicuramente un ripensamento verso una identità più “ulivista” del partito. E’ così per lei?

Dalle elezioni regionali il Pd esce confermato nella sua funzione di “partito del Paese”, non solo perché governa 17 regioni su 20, ma anche e soprattutto perché è l’unico partito che non si limita a dare voce alla rabbia e alla paura, magari alimentandole cinicamente, ma cerca di produrre risposte di speranza attraverso l’azione politica e di governo. È vero che, rispetto alle elezioni europee, in particolare in Veneto, ma anche, in misura minore, in Liguria e in Umbria, il centrodestra ha ripreso parte dello spazio elettorale che gli avevamo sottratto. Al contrario di tanti, anche nel Pd, che paventavano la nascita del regime del partito unico renziano, non ho mai pensato che il travaso di voti dal centrodestra verso di noi fosse irreversibile. Allo stesso modo, oggi non penso che noi democratici dobbiamo tornare a considerare irraggiungibili i voti di quel fitto tessuto produttivo, civile, sociale, culturale, che è la forza di molti nostri territori, in particolare ma non solo al Nord, e rassegnarci a rientrare nel nostro tradizionale recinto identitario. Le europee hanno dimostrato, un anno fa, che quei consensi sono contendibili. E noi democratici dobbiamo restare coi piedi ben piantati in quella contesa. Solo in questo modo, peraltro, il Pd può essere il degno erede della stagione fondativa dell’Ulivo, che fu animata proprio dallo slancio verso l’unità dei riformisti, alla conquista di consensi in tutta la società italiana.

Certamente iI vincitore politico è stata la Lega di Salvini e c’è stata anche la tenuta del movimento 5 stelle, che ha ottenuto risultati rilevanti. Chi deve temere di più Renzi?

Il politologo Salvatore Vassallo ha corretto l’analisi del voto proposta a caldo dall’Istituto Cattaneo e che confrontava le mele dei voti di lista alle regionali, con le pere di quelli alle europee. Vassallo ha ripreso la più convincente metodologia, da lui stesso elaborata nell’ambito del Cattaneo, del confronto tra le performance elettorali, non delle singole liste, ma di aree politiche omogenee (centrosinistra, centrodestra, M5S), in modo da tener conto delle diverse modalità tattiche adottate dalle forze politiche nelle diverse elezioni, regolate, come è noto, da differenti leggi elettorali. Sulla base di questo metodo di calcolo, Vassallo conclude che il Pd-centrosinistra ha avuto una flessione nazionale di circa 5 punti (più che fisiologica per una forza alle prese con difficili problemi di governo) e territorialmente concentrata in Veneto e Liguria, che lo ha portato dal 42,3 per cento delle europee al 37,1 delle regionali. Al contrario, grazie alla Lega ma non solo, il centrodestra ha riconquistato quasi 13 punti percentuali, riportandosi al 35,2 rispetto allo sprofondo del 22,4 di un anno fa. Sulla base di questi dati, è assai probabile che lo sfidante del Pd, alle prossime elezioni politiche, sia il centrodestra. Anche perché il M5S esce dalle regionali al 15,7 per cento, quasi 10 punti in meno delle politiche e quasi 20 sotto l’area di centrodestra. Naturalmente, per risultare davvero competitivo, il centrodestra deve trovare uno Zaia nazionale: un federatore capace di rappresentare una proposta di governo e di assorbire e metabolizzare la Lega di Salvini, utilizzandone la forza, ma senza cederle la guida. Un’impresa non impossibile, ma tutt’altro che facile.

Ultima domanda: la legislatura arriverà al 2018?

Non sono una chiromante e non mi avventuro in previsioni. Registro solo che il Pd ha tutto l’interesse ad arrivare al 2018 per cercare di trarre il massimo beneficio, in termini di consenso, dagli effetti delle riforme, in particolare in termini di ripresa della crescita e dell’occupazione. Ma anche il centrodestra ha bisogno di tempo, per gestire un’operazione difficile come l’uscita di scena di Berlusconi e l’individuazione di un nuovo assetto e una nuova leadership. Entrambi i principali schieramenti hanno interesse a completare la riforma costituzionale e in particolare quella del Senato, senza la quale potremmo trovarci di nuovo in un Parlamento senza un chiaro vincitore, alle prese con la formazione dell’ennesimo governo non deciso dagli elettori.

Il PD è ancora un partito di Sinistra? Intervista a Michele Nicoletti

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In questi giorni nel PD, e nell’opinione pubblica, si sta svolgendo un dibattito, molto polemico, sull’identità del PD: sul suo essere o meno un partito di sinistra. Ne parliamo con Michele Nicoletti, professore di Filosofia della Politica ed esponente di primo piano della cultura cattolica democratica. Nicoletti è attualmente deputato trentino del PD e Presidente della delegazione italiana all’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.

 

Onorevole Nicoletti, in questi ultimi giorni, dopo l’approvazione della legge, ha visto l’addio di Pippo Civati , dell’eurodeputata Elly Schlein e presto anche la sua collega Michela Marzano, stando ad una intervista su Repubblica, lascerà il partito. Anche Stefano Fassina sarebbe intenzionato a farlo. Chi lo ha fatto ha affermato la stessa cosa: l’allontanamento dell’attuale gruppo dirigente del Partito, in primis Renzi, dai valori della sinistra o, comunque, del centrosinistra. Per lei è così?

La decisione che alcuni hanno assunto o stanno assumendo di lasciare il PD mi spiace moltissimo. Capisco coloro che non si riconoscono nel PD perché appartengono all’area della sinistra radicale – che pure svolge una funzione essenziale di stimolo e di critica nei confronti di tutta la sinistra e più in generale di tutta la politica – ma quanti invece si sentono dentro la storia di una sinistra o di un centrosinistra di governo sbagliano a lasciare il PD. E’ la tragica debolezza della politica italiana quella di non riuscire a dare stabilità ai suoi soggetti politici e in particolare ai partiti. Si guardi agli altri Paesi: lì esistono partiti che hanno storie di cinquanta, cento, centocinquant’anni e con la loro stabilità, stabilizzano la democrazia stessa. All’estero i partiti vincono o perdono le elezioni, adottano linee più o meno discutibili, scelgono dirigenti più o meno capaci, ma non per questo si disfano ogni due o tre anni. Il PD è stato il frutto di una incredibile e straordinaria gestazione, lo abbiamo intensamente voluto per anni e sarebbe una follia ora lasciarlo o disfarlo perché non risponde a questa o quella aspettativa di una sua componente. La sinistra deve decidere se vuole un piccolo partito-setta o un grande partito popolare in cui, necessariamente, abitano anime diverse, ma la cui direzione spetta a chi vince il congresso. Io non credo affatto che il PD di oggi stia allontanandosi dai valori della sinistra. Solo che li vuole declinare dentro la grande famiglia dei “democratici” che è cosa diversa dalle socialdemocrazie tradizionali. Si possono discutere metodi o tattiche, ma le scelte di fondo di una più forte Europa politica al servizio della crescita, di politiche comuni sull’immigrazione, di europeizzazione delle nostre istituzioni, di tentativo di sostegno all’occupazione giovanile, di sforzo di una politica redistributiva, insomma l’intenzione che continua a muovere il PD è inequivocabilmente progressista.

Il panorama dei critici, di Renzi a sinistra è ampio: dalla Camusso, che ha addirittura proposto di votare scheda bianca alle elezioni del Veneto, passando per Landini fino ad arrivare a Eugenio Scalfari (che nel suo editoriale di domenica scorsa definisce il PD di Renzi come un partito di “centro”). Stanno esagerando secondo lei, oppure le loro critiche un fondamento? Non vede il rischio della deriva verso l’indistinto “partito della nazione”?

Molte voci critiche sono frutto di passioni personali: le rispetto, ma se il tema è la simpatia o l’antipatia del premier non andiamo da nessuna parte. Sul piano politico molte critiche vengono da chi avrebbe voluto una diversa evoluzione della sinistra italiana nel senso tradizionale del socialismo europeo. Ma da più di vent’anni a questa parte – dai democratici di sinistra all’Ulivo di Prodi al PD – la sinistra italiana sta facendo uno sforzo diverso cercando di fondarsi su un’idea di “democrazia” che supera e invera le aspirazioni di socialisti, cattolici democratici, liberaldemocratici. È un tentativo faticoso, anche perché poche energie vengono dedicate all’approfondimento teorico, ma si è rivelato assai più di successo dei modelli socialdemocratici tradizionali che non mi pare, in Europa, godano di buona salute. Oggi il tema è la democrazia, la democrazia, la democrazia. A livello locale, nazionale, europeo, internazionale. La sua capacità di produrre difesa dei diritti fondamentali e giustizia e benessere attraverso un nuovo compromesso con l’economia di mercato. Quanto al “partito della nazione” l’espressione non mi piace, ma la intendo nel senso di Gramsci, Gobetti, Degasperi: un partito che sappia portare a compimento il Risorgimento italiano. Oggi vuol dire non solo l’Unità d’Italia, ma il protagonismo italiano nell’Unità europea. E un nuovo Rinascimento che ridia dignità all’essere italiani nel mondo dopo anni di umiliazioni dei governi di centrodestra. Ma, ben inteso, rimanendo quello che siamo: il partito che occupa saldamente lo spazio del centrosinistra e che è capace di attirare a sé un ampio elettorato.

Cosa dovrebbe fare Renzi, secondo lei, per recuperare questo diffuso malcontento?

Dovrebbe prendere il toro per le corna e affrontare i nodi ideali, istituzionali, sociali e politici. Aprire una grande discussione sull’identità ideale del PD, su democrazia, cristianesimo, socialismo, libertà rilanciando una nuova passione ideale per la democrazia “senza aggettivi” e proponendo a tutti i nostri partner europei questa sfida. Affrontare in campo aperto la sfida di chi dice che siamo alla democratura e spiegare con quali istituzioni vogliamo rafforzare la democrazia a livello di comunità locali, nazionale, europea e internazionale. Si vedrà così che legge elettorale e riforma della costituzione – se lette sull’orizzonte europeo – rafforzano e non indeboliscono il potere dei cittadini. Aprire infine una grande discussione sul modello di società a cui vogliamo arrivare: quali idea di relazioni sociali, industriali, generazionali, interculturali vogliamo rafforzare e tornare così a dialogare con i mondi sociali interessati a politiche di emancipazione e non di conservazione. Il modo migliore per ritrovare l’unità della sinistra è affrontare i grandi temi, cercare le sintesi ideali. Le mediazioni politiche seguiranno.

 

Per Renzi ci sono, lui lo ha detto con la solita “brutalità”, ci sono due sinistre: una che vuole vincere, e una che vuole perdere (definita come “masochista”). Forse è troppo semplicistico così. Le chiedo: tutti vogliono vincere, ma come ? Cioè si vince proponendo valori, programmi, idee. Per lei è chiaro l’idea di società che ha in mente il Premier? Io vedo solo pragmatismo…..

Intanto diciamo che vincere non è una colpa. La ricerca del successo, della possibilità della realizzazione delle proprie idee, è parte integrante dell’etica politica come ricordava Bonhoeffer. Il problema non è cercare di salvare la faccia, ma portare un po’ più di giustizia nel mondo. E per questo servono anche le maggioranze oltre alle minoranze profetiche. La legge sull’obiezione di coscienza è stata fatta dopo che i primi obiettori – minoranza profetica – sono finiti in galera. Poi però è stato necessario creare una maggioranza parlamentare. Se la sinistra tornasse a pensare dialetticamente, non sarebbe male. Serve un’idea di società è chiaro. Vogliamo riconoscere però con molta onestà intellettuale che viviamo in un’epoca di grande povertà sul piano delle idee? Non mi pare che i filosofi, i teologi, i sociologi riescano a produrre in questa fase idee di società capaci di produrre correnti nella storia. Producono straordinarie analisi, denunciano spaventose ingiustizie, additano alcuni valori irrinunciabili. Ma idee di società nel senso organico dell’’800 e del ‘900 non ne abbiamo a disposizione. Ferve però nelle viscere della storia il lavorio del pensiero prodotto dalla sofferenza del presente e dalla speranza del futuro e sta tornando una stagione di “idee ricostruttive”. L’idea di democrazia – la più bella idea politica – è una di queste. Lavoriamoci attorno a partire dai grandi capisaldi delle rivoluzioni americana e francese, della grande stagione costituente italiana e tedesca nel secondo dopoguerra con il nostro bell’articolo 3. L’idea di società che vogliamo sta dentro queste radici.

Lei è un esponente importante del cattolicesimo democratico italiano. Studioso di filosofia della politica, viene dalla Fuci, ed è stato uno dei padri fondatori della Rosa Bianca. La sua storia parla chiaro. Quanto di questa storia è presente nell’operato di Renzi?

Il mio battesimo politico – esistenziale e ideale – è avvenuto con la morte di John Kennedy. Siamo cresciuti non solo con i grandi maestri del cristianesimo democratico europeo, italiano, tedesco e francese, ma anche con lo sguardo oltre l’Atlantico. Per lo stesso Maritain la meditazione sugli Stati Uniti è stato un passaggio decisivo così come per Rosmini e Tocqueville nell’’800. L’essere kennediani era un modo d’essere cattolici, progressisti e democratici libero dai conflitti ideologici e religiosi europei. A modo suo Renzi mi pare volersi ispirare a questa tradizione che diversamente da quella europea non ha l’angoscia di fronte al moderno. Il compito però è combinare questa tradizione con la grande tradizione politico-istituzionale dei cattolici democratici, con la lezione dei grandi giuristi e dunque con quella delicatezza nei confronti delle istituzioni, con quell’amore per il pluralismo giuridico e sociale, con quel forte senso dello Stato – sopra gli interessi di parte – che è tipico della tradizione europea. E poi con l’ansia lapiriana per la “povera gente”. Ognuno di noi e anche il premier deve essere stimolato sempre a ritornare alle proprie origini. Sapendo poi che ognuno di noi riesce a esprimere solo un pezzetto di questa e di altre grandi correnti ideali e per questo serve una buona orchestra.

Ultima domanda: Lei per ragioni istituzionali, è Presidente della Delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, gira spesso l’Europa. Come è visto il PD dalla “famiglia progressista “ europea? 

Dopo il risultato alle Europee, a Strasburgo hanno definito il PD “a shining light in Europe”. Quel risultato aveva salvato non solo il PD, ma anche i progressisti europei e tutti gli europeisti che, come è noto, non godono di buonissima salute. Il PD è guardato con rispetto e con curiosità. Rispetto per la sue dimensioni e le sue iniziative politiche sullo sviluppo contro il rigorismo e sulla necessità di politiche comuni sull’immigrazione. Stiamo segnando dei punti importanti e non dobbiamo mollare la presa. Secondo me dovremmo spiegare meglio la nostra scommessa “democratica” rispetto alle tradizioni socialiste: per tutti i nostri partner potrebbe essere una strada importante. E poi dobbiamo essere un partito ossessivamente europeista: più Europa politica, più difesa comune con un esercito europeo, più università e ricerca in comune, più asilo e assistenza umanitaria solidale, eccetera. Questa è oggi la sfida della sinistra: dare sostanza democratica e sociale all’Europa, nostra vera casa comune. Non certo il ripiegamento sulla dimensione nazionale.

Il PD dopo l’Italicum. Intervista a Giorgio Tonini

giorgio tonini

Dopo l’approvazione, da parte della Camera, della legge elettorale il PD è attraversato da forte tensione. C’è da registrare l’uscita di Pippo Civati dal gruppo del PD alla Camera. Altri lo seguiranno?  Ne discutiamo con Giorgio Tonini, vice-presidente dei senatori PD.

Senatore Tonini, Renzi vince la battaglia sulla legge elettorale. Ma secondo alcuni è una vittoria sulle macerie: il dissenso pesante di alcuni leader della “ditta”, le opposizioni che lasciano l’aula. Insomma vince smentendo se stesso (visto che aveva affermato che le regole dovevano essere condivise). Insomma, davvero non si poteva evitare la forzatura? L’ex direttore del Corriere, per questa forzatura, ha definito Renzi un “maleducato di talento”. Ha ragione De Bortoli?

Non so a cosa si riferisse De Bortoli. Non credo volesse esprimere un apprezzamento sul piano personale. Forse si riferiva al modo di fare politica di Renzi, che certo non lascia molto spazio ai formalismi e alle ritualità, ma va al sodo, al nocciolo della questione. E il nocciolo della questione è, in effetti, parecchio maleducato. Mi riferisco alla durezza dei problemi che affliggono il paese e all’urgenza di affrontarli con determinazione. Prendiamo il caso delle legge elettorale. Io ho ancora nelle orecchie la ramanzina che due anni fa, all’inizio di questa legislatura, il presidente Napolitano aveva rivolto a noi grandi elettori — deputati, senatori, consiglieri regionali — che lo avevamo appena rieletto Capo dello Stato. Napolitano ci bacchettava, in un modo che De Bortoli forse definirebbe maleducato, certamente in modo giustamente rude, per non essere stati capaci, in anni di inconcludenza, di trovare l’accordo su una riforma della legge elettorale e della seconda parte della Costituzione. Da quella ramanzina nacque il governo Letta, col preciso compito di fare le riforme. Ma la condanna di Berlusconi, il voto sulla sua decadenza da senatore e la rottura in seno al centrodestra, avevano riportato la situazione al punto di partenza, in quell’eterno gioco dell’oca, al quale tanto assomiglia la politica italiana. Renzi ha avuto il merito di riportare Berlusconi al tavolo delle riforme e di stringere un accordo di merito su di esse. Un accordo che è stato modificato e perfezionato in parlamento e che ha portato ad un voto largo al Senato sull’Italicum.

Poi, Forza Italia si è sfilata di nuovo, stavolta a causa dell’elezione del presidente Mattarella, a giudizio di quel partito non sufficientemente condivisa. A quel punto avevamo tre strade davanti a noi: arrenderci, gettare la spugna per l’ennesima volta, davanti agli incomprensibili bizantinismi della politica italiana; oppure andare avanti modificando il testo votato al Senato, nel senso richiesto dalla minoranza interna al Pd, così avallando l’accusa di Forza Italia di voler scrivere le regole da soli; o invece portare all’approvazione definitiva il testo frutto dell’accordo fatto al Senato, anche accettando di pagare un prezzo interno al Pd, ma lasciando tutta intera a Forza Italia la responsabilità di rinnegarlo, peraltro per motivazioni estranee al merito della riforma. Renzi, e con lui la stragrande maggioranza dei deputati del Pd, ha scelto questa ultima strada, la strada della serietà. Dopo anni, per non dire decenni, di rinvii e fallimenti, stavolta si fa sul serio. C’è un testo, un buon testo, che è stato votato dal Senato a larga maggioranza. Per noi si vota quello, perché “pacta sunt servanda”. Se per altri non è così, saranno loro a doverlo spiegare ai cittadini.

Io non penso affatto che in questo modo Renzi abbia rinnegato il suo impegno per riforme condivise, semmai è il contrario. E non penso neppure che il voto alla Camera sull’Italicum sia una vittoria sulle macerie: a meno che non ci si riferisca alle macerie dei tatticismi, dell’inconcludenza, della irresponsabilità.

Veniamo alla legge. Certo è che il Porcellum, dalla Corte dichiarato incostituzionale tra l’altro per le liste bloccate, ora ce le ritroviamo nell’italicum. Non c’e il rischio di incostituzionalità?

Le liste bloccate non ci sono nell’Italicum. I deputati saranno eletti in parte con le preferenze, in parte con l’uninominale. In entrambi i casi, sarà garantito il vero e unico vincolo posto dalla sentenza della Corte, quello della riconoscibilità degli eletti da parte degli elettori. La Corte non ha infatti bocciato il Porcellum perché non prevedeva il voto di preferenza: se avesse detto quello che le fanno dire molti commentatori male informati, la Corte avrebbe messo fuorilegge, per così dire, le leggi elettorali di quasi tutta Europa, posto che il voto di preferenza c’è in Grecia e poco oltre. La Corte ha condannato il Porcellum perché si basava su lunghe liste bloccate, che rendevano quasi impossibile per gli elettori sapere per quale persona stavano votando, quando votavano per un simbolo di partito. La Corte ha dunque chiesto al Parlamento di prevedere un meccanismo che eviti questo problema, scegliendo tra i vari possibili: liste corte, anche bloccate (sul modello Spagnolo o tedesco), collegi uninominali (come in Francia o nel Regno Unito), o anche liste corte miste, in parte bloccate in parte no. L’Italicum segue questo ultimo esempio proposto dalla Corte. E prevede un sistema per l’appunto misto, basato su liste corte all’interno delle quali l’elettore può scegliere due nomi, un uomo e una donna, ai quali dare la sua preferenza; e su un cosiddetto “capolista” bloccato, il nome del quale è stampato sulla scheda accanto al simbolo del partito che lo candida, sul modello del sistema uninominale. Si può condividere o meno questo meccanismo, che ha pregi e difetti come qualunque meccanismo. Ma non si può dire che non rispetti, in modo scrupoloso, il dettato della Corte costituzionale.

 Quali sono i pregi e i limiti di questa legge?

Il pregio principale mi pare la garanzia di un vincitore. Al primo turno, se la lista che arriva prima prende almeno il 40 per cento dei voti, o in caso contrario al ballottaggio tra le due più votate, un partito vince il diritto e la responsabilità di governare il paese, attraverso un (moderato) premio di governabilità che gli assegna 340 seggi su 630. Non sarà più possibile che si verifichi un risultato nullo, come quello del 2013. Naturalmente, perché questo obiettivo si realizzi appieno, è necessario completare la riforma elettorale con quella costituzionale, superando l’attuale bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in una Camera delle autonomie, con una importante funzione di raccordo tra l’attività legislativa statale e quella regionale, entrambe ricomprese in un quadro europeo, ma senza più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, che diviene prerogativa esclusiva della Camera dei deputati. Quanto ai limiti, piuttosto parlerei di rischi, il principale dei quali è che sull’Italicum si riversi un’aspettativa eccessiva per qualunque legge elettorale. A una legge elettorale si può chiedere, se si vuole, un vincitore chiaro e certo. E l’Italicum, abbinato alla riforma del Senato, questo risultato lo dà. A una legge elettorale non si può invece chiedere la garanzia della stabilità e della durata dei governi. Mi spiego meglio: al partito che vince le elezioni l’Italicum assegna alla Camera una maggioranza di 25 seggi, più che sufficiente per far partire un governo, il governo del leader del partito vincitore. Ma cinque anni sono lunghi. E basteranno 25 deputati, su 340, almeno 240 dei quali eletti con le preferenze, per mandare il presidente del Consiglio a dimettersi al Quirinale. Altro che strapotere del premier, uomo solo al comando, ritorno del fascismo, legge Acerbo e simili stupidaggini! Perché il rischio dell’instabilità non si verifichi, sono necessarie due condizioni. La prima è il rafforzamento della tenuta interna dei partiti e dei gruppi. Se si afferma la prassi, che si sta pericolosamente instaurando anche nel Pd, secondo la quale in un gruppo parlamentare di maggioranza ci si comporta “secondo coscienza” ogni volta che lo si ritiene opportuno, perfino sulla fiducia al governo, è evidente che nessun gruppo, per quanto vincitore delle elezioni e assegnatario del premio di maggioranza, potrà mai garantire la stabilità. Avremo quindi di nuovo crisi di governo, elezioni anticipate, o governi “non eletti dai cittadini”, come ci si lamenta siano stati i governi Monti, Letta e Renzi. Se non si vuole che questo si verifichi, bisognerà lavorare a ristabilire regole di disciplina interna ai gruppi, assistite e rafforzate da norme antiframmentazione da prevedere nei regolamenti parlamentari. In caso contrario, è bene sapere che l’unico rimedio alla precarietà dei governi sarà procedere ad una revisione della forma di governo, rafforzando davvero i poteri del premier, o addirittura optando per un modello semipresidenziale. Se non stiamo attenti, potrebbe nascere un forte movimento politico in questo senso…

Veniamo al PD. Il suo partito è continuamente attraversato da forti movimenti “tellurici “. Mai come questa volta la spaccatura è stata pesante. Riuscirà Renzi a recuperare un rapporto dignitoso con la minoranza, oppure passerà alla storia come il segretario della scissione? Quali potranno essere gli argomenti di Renzi, nei confronti della minoranza, per evitare traumatiche divisioni?

Un partito grande non può essere un monolite. E che in un grande partito di centrosinistra ci siano idee, proposte, perfino visioni diverse, è un dato di fatto assolutamente fisiologico. In particolare, nel Pd è comprensibile che ci siano due grandi filoni di pensiero. Da una parte, c’è chi pensa al Partito democratico come ad un partito nuovo, per cultura politica, modello organizzativo, insediamento elettorale e classe dirigente, rispetto ai partiti storici della sinistra italiana, a cominciare dal Pci, così come rispetto alla stessa componente di sinistra della Dc. Un partito, fu definito da Walter Veltroni, “a vocazione maggioritaria”, per significare la spinta ad uscire dai confini tradizionali, sociali, culturali e perfino territoriali, della sinistra italiana, da sempre minoritari, per proporsi invece, attraverso una nuova sintesi politico-programmatica, come “partito del paese” (espressione che ho sempre preferito a quella, di derivazione togliattiana, proposta da Reichlin, di “partito della nazione”). Dall’altra, c’è invece chi vede nel Pd la continuazione di quella storia, o di quelle storie, sotto nuove spoglie. Bersani vinse il congresso nel 2009 con lo slogan “diamo un senso a questa storia”, intendendo che nella versione, accusata di “nuovismo”, di Veltroni, il Pd aveva perso il senso della sua storia. Ma il Pd bersaniano, il Pd che più ha rilanciato la continuità con la storia della sinistra italiana, il Pd che ha pensato se stesso come figlio diretto dell’Emilia rossa e del compromesso storico, è un Pd che ha perso, prima nel paese, scoprendosi ancora una volta radicalmente minoritario, e poi nello stesso corpo del partito. Renzi ha riproposto e rilanciato, vorrei dire portato alle estreme conseguenze, con energia e freschezza e anche con una certa “maleducata” ruvidezza (la “rottamazione”…) l’idea veltroniana della discontinuità. Fin qui ha inanellato una serie sorprendente di vittorie tattiche, sbaragliando tutti gli avversari, sia interni che esterni e portando il Pd al risultato elettorale record, in Italia e in Europa, del 40 per cento. Ma lui per primo sa che molte altre prove lo attendono: la prova di governo, sui terreni difficilissimi della politica estera ed europea, del rilancio dell’economia e delle riforme; e la prova del consenso, nel Pd e nel paese. La partita è dunque aperta. Davanti alle attuali minoranze del Pd, che a lungo avevano fatto il bello e il cattivo tempo nell’attuale partito e in quelli che lo hanno preceduto, sta la scelta tra una strategia di ostruzionismo distruttivo, contro Renzi costi quel che costi, anche a costo di minare le regole fondamentali dello stare insieme, come la lealtà di chi perde il confronto democratico nei riguardi di chi lo vince, o invece quella di ricostruire una prospettiva alternativa a Renzi su basi nuove, che mi parrebbe non possa prendere le mosse se non da un franco interrogarsi sulle ragioni della duplice sconfitta del Pd bersaniano.

Parliamo di Enrico Letta. Dopo più di un anno è tornato sulla scena. Va a Parigi per insegnare. Eppure alcuni pensano che sarà il principale antagonista di Renzi nel partito. Cosa pensa di Letta?

Di Letta penso tutto il bene possibile da molti anni. Penso che, anche grazie alla giovane età abbinata ad una certo non comune esperienza, abbia moltissimo da dare al Pd e al paese. Penso che i toni scelti in questi giorni, per una uscita di scena che in realtà è un rientro, non siano stati del tutto all’altezza della stima che si è conquistato nel giudizio di tanti.

A vent’anni dall’Ulivo: l’eredità politica di Romano Prodi. Intervista a Marco Damilano.

 

prodimissioneincompiuta

Nel ventennale dell’Ulivo Marco Damilano, cronista parlamentare dell’Espresso, ha pubblicato, per Laterza, una lungo libro-intervista al suo “padre fondatore”: Romano Prodi. Il titolo del volume è assai significativo: “Romano Prodi, Missione incompiuta.Intervista su politica e democrazia” (pagg. 180, € 12,00). In questa intervista ripercorriamo i punti fondamentali dell’eredità politica del Professore.

Damilano, in questo suo libro-intervista a Romano Prodi, che lei stesso definisce come una “lettera ad un  partito mai nato”, ci offre l’occasione, tra l’altro, di comprendere meglio la figura del Professore. Ne esce un quadro di un riformista “solido”.Cita, al riguardo, Edmondo Berselli: «Romano ama i macchinari, gli strumenti tecnici, l’automazione, le gru, i carrelli elevatori, la verniciatura, il montaggio, l’assemblaggio, lo stoccaggio, l’imballaggio. Nelle sue parole, e anche nei suoi gesti, la piastrella di Sassuolo diventava un oggetto raggiunto da un soffio di vita che animava l’argilla. Ai politici, abituati ai giochi di corridoio per strappare un assessorato, offriva la sensazione irresistibile del ritmo e del rumore della modernità». Cosa intendeva dire Berselli con queste parole?

«Ho utilizzato questo bellissimo ritratto di Berselli per descrivere Prodi, riformista atipico, “empirico brutale”, come si definisce lui stesso. Con un qualche vezzo Prodi dice di essere incapace di fare un discorso teorico, filosofico, ideologico. “È stato per me un fattore di forza, ma anche di debolezza. La sistemazione teorica generale in questo Paese fa premio”. In realtà Prodi è stato un economista che già nel 1968 parlava del capitalismo renano, il modello tedesco di economia sociale, mentre gli studiosi vagheggiavano un nuovo modello di sviluppo di impostazione marxista, salvo poi rifugiarsi nei decenni successivi nella difesa del pensiero unico mercatista. Prodi è stato il presidente del Consiglio dell’ingresso nell’euro e il presidente della Commissione europea dell’allargamento dell’Europa ai paesi dell’Est, oggi se ne può discutere ma all’epoca furono due grandi progetti strategici, portati avanti con grande pragmatismo».

Veniamo, più in profondità, alle “radici” cattoliche di Romano Prodi. Lui stesso si è autodefinito un “cattolico adulto”, affermazione che gli ha creato non pochi problemi, in particolare con il Cardinale Ruini. Eppure la definizione di “cattolico adulto” è molto conciliare. Dove stava la ragione strategica del conflitto con Ruini?

«Nella ricostruzione che ne fa Prodi la rottura – lui nega che ci sia stata ma storicamente è difficile definirla diversamente – ci fu al momento della sua decisione di candidarsi alla guida della coalizione di centrosinistra, nel 1995, il nascente Ulivo. Il cardinale-presidente della Cei in quel momento e successivamente riteneva che i cattolici dovessero piuttosto impegnarsi in un polo moderato, per strappare in prospettiva a Berlusconi l’egemonia del centrodestra. Eppure il ritratto che Prodi fa di Ruini è davvero non banale. Una figura appassionata di politica e con un tratto pessimista, convinto in fondo che senza potere politico, senza un legame forte con la politica, il cattolicesimo italiano sia destinato a indebolirsi, a diventare irrilevante, come è successo in Francia dopo la fine del partito democristiano. C’è un filo nell’intervista, l’incontro di Prodi con grandi personaggi che hanno in comune una visione pessimista della realtà. Un altro è il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia: non crede nelle novità, esprime giudizi taglienti sugli homines novi, al fondo crede che senza il suo salotto buono il sistema sia destinato a crollare».

Certo è che tutto l’itinerario dell’esperienza di Prodi, dall’Università – passando per il grande impegno di Presidente dell’IRI – all’impegno di Premier italiano fino alla Presidenza della Commissione europea,  é stato  quello, che lui stesso ha definito, come la “politica del cacciavite”. Però questa politica era, ed è, animata da una profonda visione strategica e ideale. Qual’è questa visione ideale?

«Sul piano economico-sociale sicuramente l’impostazione keynesiana. La complessità del reale. Un ruolo del pubblico e dello Stato come leva dello sviluppo. Sul piano politico, l’intuizione di venti anni fa, l’Ulivo. Il più ambizioso tentativo di dare forza e soggettività politica al riformismo italiano. Un popolo e una cultura di governo. Il pragmatismo delle soluzioni e una visione complessiva delle riforme più urgenti. Il superamento degli steccati tra laici e cattolici, la difesa del bipolarismo che significa competizione tra proposte alternative di governo, qualcosa di più di uno schema politologico. Un valore in sé per un paese come l’Italia, condannato quasi sempre nella sua storia a dividersi tra un corpaccione moderato di governo e minoranze di testimonianza, più o meno nobili, ma incapaci di proporsi come alternative di governo, appagate dalla loro purezza di oppositori».

Nel libro viene fuori la figura di un grande europeista. E’ ancora attuale la visione sull’Europa di Romano Prodi?

«Nel libro c’è la scena della notte di capodanno del 2002, quando Prodi da presidente della Commissione europea comprò allo scoccare della mezzanotte a Vienna un mazzo di fiori per sua moglie Flavia con le prime banconote di euro. “Il mio ricordo più bello”, dice il Professore. Quella moneta sembrava il futuro, invece nel decennio successivo è diventata il simbolo della divisione. L’Europa di fine anni Novanta, la moneta unica e l’allargamento all’est, era un progetto politico, dalla guerra in Iraq in poi è stato sostituito dal ritorno degli egoismi nazionali: sotto forma di populismi, pronti ad approfittare della grande recessione per incolpare l’euro, o dei governi che difendono il loro territorio come quello di Angela Merkel. Ma quel progetto resta attuale, perché o si torna indietro o si va avanti. E se si va avanti con la costruzione dell’Europa politica non si può non ritornare alle intuizioni di quella stagione e dei suoi protagonisti: Kohl, Ciampi, Prodi…».

Il capolavoro politico di Prodi, come si sa, è stato l’Ulivo. Ovvero quell’incontro tra riformismi di diverse componenti (i riformismi storici dell’Italia) che ha consentito al centrosinistra di vincere su Berlusconi. Molte sono state le ragioni della sua fine. Ma se dovesse trovare una causa che inglobi le altre, quale potrebbe essere?

«L’Ulivo, ammette Prodi, “non ha fallito, è stato sconfitto”. Per resistenze esterne, aggiungo io, ma anche per contraddizioni interne, per gelosie di apparato, per la debolezza delle sue leadership, per l’incapacità di fondare una cultura politica condivisa che sorreggesse l’opera di governo. Prodi ammette di aver sbagliato a non fare una sua lista alle elezioni del 2006, dopo le trionfali primarie del 2005 che lo avevano eletto a candidato premier del centrosinistra, dice la verità, quel progetto era già stato logorato dal ritorno in campo dei partiti che non avevano mai accettato fino in fondo l’anomalia ulivista. L’altro fattore di debolezza è che non si è mai riusciti a dare un compimento istituzionale al bipolarismo: soltanto enunciato, con un paese in cui la cultura politica restava proporzionalista, profondamente ostile alla competizione in politica (e alla concorrenza in economia…)».

Rimaniamo sempre sull’Ulivo. Quell’esperienza aveva una carica ideale, davvero imparagonabile a quella dei giorni nostri, un “popolo” motivato. Insomma l’Ulivo scaldava i cuori e le menti degli italiani e in più proponeva un’idea di futuro. Oggi c’è il PD. Quanto Ulivo c’è nel PD? E ancora: Prodi esprime un giudizio duro su un ipotetico “Partito della Nazione”, perché?

«Il Partito della Nazione è l’opposto dell’Ulivo. L’Ulivo è il sogno di una democrazia della competizione tra schieramenti alternativi, il partito della Nazione ripropone il vizio della politica italiana, da Cavour in poi. Si governa dal centro, con un partito unico (o con un’area modello pentapartito) che raggruppa tutte le culture e tutti i personaggi che indistintamente si aggregano per restare al potere. Se così fosse, il Pd partito della Nazione si trasformerebbe in un motore immobile, un fattore di paralisi e non di modernizzazione».

Veniamo a Matteo Renzi. E’ figlio dell’Ulivo?

«Un amico ha ritrovato un foglio con i numeri telefonici dei comitati Italia che vogliamo di venti anni fa, i comitati prodiani e ulivisti: c’era anche Matteo Renzi, all’epoca ventenne. Di quell’esperienza c’è molto nell’intuizione originale di Renzi. Un leader competitivo che supera le culture del Novecento. Ma nell’Ulivo c’era molto altro: la partecipazione dei cittadini (il programma nel 1995 fu votato in assemblee popolari da migliaia di persone), le primarie, il dialogo tra culture diverse, il rispetto dei corpi intermedi… Tutte cose che non si vedono nel secondo Renzi, il Renzi onnipotente e egemone di Palazzo Chigi».

Ultima domanda: Lei chiude il libro affermando che l’eredità dell’Ulivo aspetta ancora di essere realizzata. Ovvero si tratta di una  missione che è rimasta incompiuta ma che è, su alcune cose, una missione in attesa di compimento?  Cosa intende dire?

«La costruzione di un sistema politico moderno è qualcosa di più della riforma del Senato e perfino della riforma elettorale. Richiede una cultura e una classe dirigente nuova. Da questo punto di vista tutto resta ancora da fare, da compiere».

I nuovi potenti al tempo di Matteo Renzi: da Bergoglio a Mattarella. Un libro di “Chiarelettere”

BisignaniMadron_piattoDa Berlusconi a Draghi, dalla Boschi al cardinale Scola… Il fuori scena della politica italiana. Tutto quello che “è così ma non si può dire ”.

IL LIBRO

Ritorna in libreria, domani nelle librerie dei capoluoghi di provincia, dopo il clamoroso successo con L’uomo che sussurra ai potenti, la “coppia” Bisignani – Madron. Questa volta passano ai “raggi X” i nuovi potenti dell’era renziana. Un libro che analizza il POTERE. In tutte le sue forme, i suoi tic, i suoi segreti, i suoi perché. Lo vogliono in tanti ma lo provano in pochi. La parola va a chi è informato sui fatti perché il potere lo conosce bene. Col libro precedente, Bisignani e Madron si erano fermati al 2013. Da allora molte cose sono cambiate. Dopo la morte di Andreotti e l’elezione di Bergoglio, la MAPPA DEL POTERE in Italia è tutta da ridisegnare.
Ora un uomo solo è al comando, MATTEO RENZI, e un altro Matteo, Salvini, si è affacciato alla ribalta del teatro politico. La commedia è stata allestita e i due autori provano a raccontarla tra le pieghe di una cronaca che giornali e tv propongono solo in parte. Dai retroscena dell’elezione di MATTARELLA e il vero perché della rottura del Patto del Nazareno alla crisi drammatica all’interno del VATICANO.
Ecco un Renzi sconosciuto, le storie inedite dei suoi collaboratori, l’improvvisazione e l’arroganza che ha stravolto ogni protocollo, gli affari in corso tra nuove nomine e gaffe internazionali (con BERGOGLIO e OBAMA).
Sull’altra sponda anche SALVINI è una vera sorpresa, a cominciare dal nuovo cerchio magico che comprende diversi GAY. Benissimo. Ma la Lega del celodurismo di Bossi? E la DERIVA FASCISTA dell’alleanza con CasaPound e l’amicizia con Putin?
Ecco la fotografia strappata e contraddittoria del potere oggi in Italia. Un’Italia che in parte non conosciamo, che fa ridere e anche un po’ piangere. Per salire sul carro di chi è più forte la gara è durissima, mentre i cittadini, disinformati, ignari, storditi, assistono fuori dai Palazzi.

GLI AUTORI

Luigi Bisignani ha lavorato per varie testate giornalistiche. È stato anche capo ufficio stampa per alcuni ministeri della Prima repubblica. Attualmente è partner di una società di consulenza. È stato al centro di clamorose inchieste giudiziarie. È autore di due spy-story: IL SIGILLO DELLA PORPORA e NOSTRA SIGNORA DEL KGB, uscite entrambe per Rusconi. Per Chiarelettere ha scritto il thriller IL DIRETTORE (2014) e con Paolo Madron L’UOMO CHE SUSSURRA AI POTENTI (2013).

Paolo Madron, giornalista, già corrispondente da New York di “Milano Finanza” e vicedirettore di “Panorama”, è ora direttore di Lettera43.it, quotidiano online da lui fondato nel 2010. Ha condotto importanti inchieste sul capitalismo italiano ed è autore di vari libri, tra cui IL LATO DEBOLE DEI POTERI FORTI (Longanesi 2005) e STORIA SEGRETA DEL CAPITALISMO ITALIANO (con Cesare Romiti, Longanesi 2012).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo una breve anticipazione del libro

Scusa Luigi, ma da uno a cento quanto piace Palazzo Chigi a Matteo Renzi?

Direi mille. Gode da impazzire a essere li e ormai ne apprezza anche tutte le diavolerie.

[…]
Abbiamo visto che cosa ama davvero fare Renzi.

Quel che ha sempre fatto: piazzare i suoi uomini, distruggere quelli che ritiene suoi avversari e tarpare le ali agli amici che emergono troppo e potrebbero rischiare di fargli ombra.

Si chiama potere. Se ricordi – la materia appassiona – io e te due anni fa ci abbiamo scritto un libro.

Adesso diranno che abbiamo scritto il seguito per battere il ferro finche e caldo.

Caldo lo e, ma e un altro ferro. Quando nel maggio del 2013 e uscito L’uomo che sussurra ai potenti (Chiarelettere), Renzi era ancora sindaco di Firenze e le primarie che lo avrebbero portato a diventare segretario del Pd erano ancora lontane.

Se e per questo anche Bergoglio era diventato papa da appena due mesi. E Matteo Salvini, il segretario della Lega che ora spopola su tv e giornali, non lo avevamo mai menzionato.

L’unico sempre rimasto in scena e Berlusconi.

I cui già seri problemi, nonostante la recente assoluzione della Cassazione, continuano a complicarsi. Insomma, in nemmeno due anni, la scena italiana, per non parlare di quella internazionale, con l’Isis alle porte, e completamente cambiata.

Eppure in cosi poco tempo ne sono successe di cose. Quindi ci sono un sacco di intriganti retroscena da raccontare.

Per esempio, la ricostruzione minuziosa e spiazzante delle trame che hanno portato Sergio Mattarella al Colle.

O i gustosi dietro le quinte sul cerchio magico di Berlusconi, racchiuso tra Arcore e Palazzo Grazioli.

Dove la «Scugnizza», come la chiama il capo, l’ha fatta da padrona insieme alla solita «Badante». I cerchi magici li trovi ovunque, quando si respira l’aria del potere.

Anche attorno a Salvini, la nuova star del centrodestra che si barcamena tra il Cremlino, le casse vuote del partito e i locali gay.

Guarda caso, comunque la giri, e sempre sul pruriginoso che si va a finire. Anche in Vaticano, dove oramai il sesso e diventato una perenne ossessione.

Tornerei a Renzi. Che il potere gli piaccia da matti e indubbio. Che sia un innovatore, magari spesso più nelle parole che nei fatti, altrettanto.

Innovatore di sicuro. Ora, per esempio, si sta battendo per avere sempre la connessione internet sui voli di Stato, in modo da twittare come Obama.

Be’, mi pare un’esigenza sacrosanta. Lui e il primo presidente del Consiglio della storia repubblicana interamente 2.0. Il problema e se e quanto durerà.

Tu che ne pensi?

Che avremo a che fare con lui per molto tempo, non foss’altro che per la desolante mancanza di alternative. Tu invece?

Se si ispirerà finalmente a Giorgio La Pira, illuminato sindaco della sua città degli anni Cinquanta e Sessanta, se baderà anche agli altri e non solo a se stesso, durerà molto a lungo. Altrimenti soccomberà. Ma lui si sente ormai come il Napoleone rignanese del «Prima ti butti e poi si vede».
Scusa Paolo, ma l’altro Matteo, Salvini, come si trova a capo della Lega «celodurista» di Bossi?

Alle prese con Flavio Tosi, circondato da gay, con tantissimi guai per i debiti del partito, che forse spera di risolvere a Mosca. A proposito di “omo”, in Vaticano papa Bergoglio come se la passa?

Vive asserragliato nel suo bilocale a Santa Marta, che sembra la stanza di un motel, mentre la curia e molti cardinali, soprattutto africani e statunitensi, sono in rivolta a causa di questa sua ossessione per il sesso e i diritti civili.

Visto che parliamo di sesso… L’«appassionato della materia» per eccellenza, il nostro (ex) Cavaliere, e ancora alle prese con il bunga bunga e la rivolta delle Olgettine che minacciano di
parlare?

Neanche più quello gli e rimasto, il cerchio magico l’ha ridotto a essere un uomo triste e sempre più fragile.

Il suo partito e dilaniato da più tribù di quante ce ne siano in Libia. Poi, da quando e arrivato Renzi, le sue extrasistoli, per il tradimento del Quirinale, sono impazzite.

Per il Quirinale? Mi spiace dirlo, ma ti sbagli, Paolo. Ti darò tutti gli elementi per dedurre che e stato Silvio a tradire Matteo, e non viceversa.

Sono curioso di conoscere da te i dettagli. E del fantomatico Patto del Nazareno che mi dici?

Un accordo di potere, un reciproco conflitto di interessi, forse inutilmente buttato all’aria. Ma vedrai che proseguirà, in forma riservata, su altri piani…
Luigi Bisignani e Paolo Madron, I potenti al tempo di Renzi
da Bergoglio a Mattarella, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 256, € 16,00