Riforme: Grillo-Renzi, un dialogo “impossibile”? Intervista a Stefano Ceccanti

UnknownQuali prospettive dell’apertura di Grillo a Renzi sulla legge elettorale? Ne parliamo con il professor Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università “La Sapienza di Roma”.

Professore, indubbiamente l’apertura di Grillo sulla legge elettorale fa ripartire il confronto politico. Lei però, in una intervista si è detto non molto ottimista sul sviluppo del dialogo, anzi quasi prospetta il rischio di un dialogo tra sordi. Perché?

Il dialogo sulle regole fa sempre bene a tutti, però il dialogo non è irenismo. Qui è evidente che almeno in partenza gli obiettivi sono opposti: Renzi e il centrodestra puntano a un sistema in cui, come nei comuni, alla ine gli elettori scelgano anche e soprattutto maggioranza e Governo. Il sistema deve quindi condurre a superare la suddivisione dell’elettorato in tre schieramenti maggiori per farne governare uno. I Cinque Stelle all’opposto, soprattutto ora che disperano di arrivare tra i primi due, vogliono un sistema che colpisca i piccoli ma che fotografi la forza dei primi tre oltre a quella delle minoranze concentrate come la Lega. In questo modo spingerebbero Pd e Pdl a una grande coalizione obbligata e quindi crescerebbero avendo il monopolio dell’opposizione. O cambiano questo obiettivo oppure il dialogo finisce subito perché le impostazioni sono opposte

Cosa non le piace del “Democratellum”? Non vede spunti positivi nella proposta dei “5 Stelle”? La Lega giudica questa proposta come ottima…

Si tratta di un sistema elettorale che, viste le condizionidi partenza non modificabili a breve del sistema dei partiti, tripolarizza portando a una Grande coalizione obbligata e contronatura. Quindi da bocciare. Qel sistema potrebbe avere effetti benefici solo le forze nettamente dominanti sul piano nazionale fossero già due, ma così non è. Insomma nel contesto dato sottorappresentiamo i piccoli per avere la governabilità, ma questo sacrificio dei piccoli non produce il bene della legittimazione diretta dei Governi.

Sull’Italicum, però, vi sono punti da correggere. Cosa dovrebbe correggere Renzi per arrivare ad una buona “mediazione”?

Alzare la soglia per il secondo turno al 40% in modo da dare una maggiore legittimazione a chi prende il premio e allineare tutti gli sbarramenti al 4%, sia dentro sia fuori le coalizioni e, se possibile, ridurre ulteriormente la dimensione dei collegi, avvicinandosi il più possibile agli uninominali.

Non bisogna dimenticare, però, il ruolo di Berlusconi. Per Renzi, secondo lei, deve essere ancora l’interlocutore indispensabile?

L’interlocutore si seleziona sulla base della comunanza degli obiettivi. E’ interlocutore chi persegue l’intento della democrazia governante e non lo è chi vuole invece impaludarci ancora nei poteri di veto.

Ultima domanda: qual è l’obiettivo politico di Grillo con questa apertura?

Avere il monopolio dell’opposizione futura oltre a bilanciare verso Renzi l’apertura fatta nei confronti di Farage. Poi, per carità, se cambia obiettivi e converge verso forme di democrazia governante, meglio per tutti.

il PD di Renzi: Una DC 2.0? Intervista a Marco Damilano

da forlitoday.itIl boom elettorale di Matteo Renzi continua ad alimentare il dibattito politico italiano ed europeo. Per alcuni osservatori, e protagonisti della lotta politica, il PD di Renzi è la nuova DC. E’ davvero così? Oppure è un’esagerazione? Su questo abbiamo intervistato Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.

Damilano, incominciano dalla sorprendente vittoria Del PD alle Europee. per molti osservatori è stata la vittoria più di Renzi che della “ditta”. per Lei?

«Lo è in termini quantitativi: alcune ricerche hanno provato a calcolare l’apporto di Renzi al risultato del Pd, almeno il dieci per cento. E questo nonostante, saggiamente, il premier avesse evitato di inserire il suo nome nel simbolo. La Ditta di Bersani nel 2013 si era bloccata al 25 per cento, non era riuscito a sfondare oltre il proprio bacino elettorale tradizionale, anzi, aveva perso voti che si erano posizionati su Scelta civica o nel Movimento 5 Stelle. Ora quell’elettorato è tornato a casa. E lo è, ancor di più, in termini qualitativi, politici. Perfino Stefano Fassina ammette di essersi sbagliato. L’ho scritto anch’io, l’ha sostenuto soprattutto Ilvo Diamanti: il Pd oggi è un PdR, il Partito di Renzi».

Il boom del PD, un risultato che è andato oltre il 40/%, ha scatenato nella pubblica opinione paragoni storici un poco azzardati. Ovvero il riferimento è quello, secondo Antonio Polito,con la DC di Fanfani.  Ora se è vero che il PD di Renzi ha fagocitato i centristi di “scelta civica”, stando allo studio dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, però lo sfondamento verso verso l’elettorato di Forza Italia è stato minimo. D’altra parte, però, in queste elezioni Renzi ha conquistato casalinghe,imprenditori e under 24. Insomma siamo davvero di fronte alla DC 2.0, ovvero ad un “interclassismo” aggiornato per la società liquida? 

«L’interclassismo era la parola magica con cui la Democrazia cristiana ha governato per decenni: rappresentare insieme contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico impiego, soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano. A questo blocco sociale si contrapponeva quello della sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli della Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a rappresentare un blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega, mentre, negli stessi anni, la sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da rappresentare. Ha confuso la conquista del centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con Casini, ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di vertice, della rappresentanza politica. Ora tocca a Renzi, che in tanti hanno raffigurato come superficiale e leggero, coltivare l’idea di ricostruire un blocco sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Una grande coalizione, non nel Palazzo, ma nel Paese. Non alla tedesca, tra partiti, ma all’americana, nella società. Nessuno può riuscirci meglio del post-ideologico Renzi».

Come si comporterà Renzi con l’ala sinistra, intendo con quelle componenti della Lista Tsipras? 

«Alla sinistra del Pd, in Sel, il dibattito è aperto: il raggiungimento del quorum dimostra che c’è un elettorato che si rifiuta di confluire nel Pd, ma non vuole neppure restare isolato rispetto a un progetto di governo, eternamente all’opposizione. Nichi Vendola rappresenta bene questa contraddizione. E il dilemma dei prossimi mesi sarà: fare la sinistra renziana, un po’ come Alfano si è posizionato alla destra, oppure testimoniare una presenza irriducibile della sinistra che non si contamina con la coalizione di governo? In Parlamento un pezzo di Sel è pronto a votare alcuni provvedimenti del governo, Gennaro Migliore parla già di federazione. Ma decisivo sarà quello che Renzi ha già individuato come il suo interlocutore privilegiato in quest’area: il segretario della Fiom Maurizio Landini. Un altro che come Renzi rappresenta un pezzo di società, e non di ceto politico o sindacale».

Adesso nel PD si assiste ad uno sport italico: “salire sul carro del vincitore”.  Insomma vige la “pax renziana”, una variante aggiornata del “doroteismo”, non rischia di diventare un limite?

«È un rischio che esiste. In Italia c’è la tendenza a trasformare una vittoria elettorale nell’alba di un regime. Il pensiero unico di un partito unico di un leader solo. La melassa di certi commenti, il conformismo, la gara a trasformarsi in renziani della prima ora, anzi, della primissima… Per evitarlo Renzi deve continuare a lavorare a uno schema della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo. Il primo ad augurarsi che nasca presto a destra o in 5 Stelle un credibile e competitivo anti-Renzi deve essere proprio Renzi: fa bene al suo governo, fa bene alla democrazia italiana».

Il governo sicuramente è uscito rafforzato, Renzi, come ha sottolineato Marcello Sorgi sulla Stampa, avrà da “curare” ben “4 Forni”. Riuscirà a giocare così a tutto campo?

«L’abilità politica del premier è ormai riconosciuta da tutti, i forni possono diventare anche più di quattro, in questo momento, a ben guardare, nessuno in partenza esclude di poter fare un pezzo di strada con Renzi. La forza di Renzi è di apparire, a un tempo, uomo di rottura del vecchio sistema, ma anche leader inclusivo, che in partenza non respinge nessuno. Ha detto di voler essere «il presidente di tutti», ma ancora una volta toccherà a lui stabilire i confini: più è largo il consenso, più diventano ambigue le risposte. Questa è una lezione che arriva da decenni di trasformismo italico».

Renzi , secondo alcuni, è il nuovo leader della sinistra europea. Non è una esagerazione?

«L’ha scritto perfino il francese “Le Monde”, dopo la catastrofe dei socialisti di Hollande. Di certo Renzi è un uomo fortunato: nella sinistra europea si muove nel vuoto, di leadership, di prospettive, di progetto. Per la prima volta la sinistra italiana, il Pd, più che la guida può aspirare a essere il modello delle altre formazioni europee».

Tornando alla Storia:  Renzi è il nuovo Fanfani?

«Ci sono molte analogie, la comune origine toscana, l’attivismo, il pragmatismo, il desiderio di portare al potere una nuova generazione, in fondo Fanfani rottamò la generazione di De Gasperi nel 1954. E poi la sensibilità sociale e una certa idea di interventismo della politica nell’economia. Detto questo, però, nessun paragone è possibile perché quella è tutta un’altra storia. Il Pd non è la Dc, Fanfani voleva essere il leader dello sfondamento, a sinistra e a destra, ma fallì nell’operazione perché c’era la guerra fredda e un mondo spaccato a metà dagli accordi di Yalta. Mentre Renzi vive in una società liquida in cui non esistono muri, fili spinati e confini. Per lui, lo sfondamento è possibile, sempre che non fallisca nella scommessa di governo».

 

Dove hanno sbagliato i “5 Stelle”? Intervista ad Andrea Scanzi

Nella “Rete” , tra i simpatizzanti e gli aderenti al “Movimento 5 Stelle”, c’è un forte dibattito sulla debacle elettorale del “Movimento”. Quali le ragioni della sconfitta? Quali prospettive per il “Movimento”? Su questi temi abbiamo intervistato il giornalista Andrea Scanzi, firma di punta del “Fatto Quotidiano “.Andrea Scanzi

Lei è un profondo conoscitore del “Movimento 5 Stelle”, ne conosce gli umori profondi, come è stata possibile questa  sorta di “ubriacatura” da vittoria certa (#Vinciamonoi!#) smentita, poi, dalla debacle elettorale?

“Il Movimento 5 Stelle si è clamorosamente sopravvalutato. Se non avesse imbastito una campagna elettorale anzitempo orgasmica, oggi potrebbe tutto sommato festeggiare una cifra depurata dal mero voto di protesta e rimasta comunque sopra il 20: un dato clamoroso, in un paese conservatore e tradizionalista come l’Italia. Invece l’hanno menata per mesi con ‘sta bischerata adolescenziale del #vinciamonoi: ma “vinciamo noi” de che? Adesso, giustamente, li sfottono tutti. Credo che si siano lasciati condizionare dall’affetto degli attivisti: piazze piene, urne vincenti. Ma non è sempre così, anzi. Le piazze piene vogliono solo dire che i 5 Stelle sono più partecipi dei piddini (Renzi, a volte, aveva le piazze semivuote). Anche Luttazzi riempiva i teatri, anche Santoro ha sempre fatto boom di ascolti: poi però vinceva Berlusconi. I 5 Stelle hanno convinto i già convinti, radicandone l’affetto, ma non hanno intercettato mezzo indeciso e hanno perso quasi tre milioni rispetto a febbraio 2013”.

Grillo è un grande uomo di spettacolo, questo non si traduce, però, automaticamente in un’efficace “comunicazione” politica. Quali sono stati, secondo lei, in campagna elettorale gli errori di “comunicazione” del Padre fondatore del Movimento? Non è stato un po’ troppo sottovalutato Renzi?

“Il problema della comunicazione di Grillo è eterno, se ne parlava già nel 2007 dopo il primo V-Day. Il suo parlare da comico crea continui cortocircuiti semantici, perché nel frattempo è diventato ormai un soggetto politico. Urlare e sfanculare andava bene, ora no. La narrazione di Renzi è da asilo nido, una roba tipo “noi siamo il bene e voi il male”, ma funziona. E la maggioranza degli italiani voleva essere rassicurata e “sperare”. Per questo ha preferito un bombarolo furbino come Renzi a un incazzato sincero come Grillo. Gli errori comunicativi sono stati tanti: il post su Auschwitz, la “peste rossa”, “oltre Hitler”, “la lupara bianca”, il “processo ai giornalisti”. Grillo provoca e non è certo un fascista, ma ha quasi tutta la stampa contro. Non appena presta il fianco, quasi tutti ci costruiscono un caso. Se il Pd regala 7 miliardi alle banche è normale, se il deputato 5 Stelle Sibilia contesta la Boldrini è uno “squadrista”. Ecco perché Grillo dovrebbe calcolare ogni parola e non regalare assist a chi vive per sputtanarlo, neanche fosse Mengele. Credo che il suo intento sia usare la violenza verbale per esorcizzare quella fisica: idea nobile, e senza M5S oggi avremmo Alba Dorata e Le Pen. Vaglielo a spiegare, però, alla casalinga di Voghera”.

Nel suo “messaggio”  Grillo, a commento dei risultati elettorali, se la prende con l’Italia dei pensionati che preferisce lo status quo invece che il cambiamento. Non è un po’ banale come analisi? Non è venuto il tempo, per il Movimento,  di pensare oltre la “rabbia buona” degli elettori?

“Certo che è venuto quel tempo. O i 5 Stelle fanno una seria riflessione autocritica, o rischiano come minimo un ridimensionamento drastico. Il video di Grillo che prendeva il Maalox era divertente e finalmente autoironico, ma l’analisi politica era debole. Se i pensionati non ti votano non è colpa dei pensionati: è colpa tua, perché non li hai convinti. I 5 Stelle furoreggiano tra gli under 30, tengono fino ai 45-50 e scendono addirittura sotto il 10% negli over 60. Vuol dire che quella fascia lì non solo non li vota ma ne ha pure paura, certo anche per colpa di una informazione  spesso disonesta intellettualmente. Grillo e i grillini devono cambiare i toni. Con la “peste rossa” e la claque urlante dei talebani duropuristi non vai da nessuna parte. Essere coerenti non significa essere integralisti: lo scazzo in streaming di Grillo con Renzi è stata una cazzata, il no a prescindere a Renzi sulla riforma elettorale è stata una cazzata (che ha consentito al Premier di consegnarsi a Berlusconi, uno dei suoi sogni di sempre). Questi errori, alla lunga, li paghi. Soprattutto tra gli elettori moderati e non più giovanissimi, che sono poi la maggioranza di questo paese”.

Resta, comunque, per i “5 Stelle” una percentuale rilevante, il 21 %. Come investire politicamente questo consenso in Europa?  E poi: come rispondere a Renzi che li ha invitati ad uscire dall’isolamento?

Il Movimento 5 Stelle ha preso quasi sei milioni di voti: una cifra enorme. Si fa passare per normale che Di Battista abbia più voti di Berlusconi, ma è un cambiamento storico. E’ un risultato figlio di Grillo, che ha demeriti come pure meriti enormi, ma è anche figlio di una nuova classe di senatori e deputati che hanno lavorato bene e si sono contraddistinti per competenza e passione. Non tutti, per carità: quando ascolti Fucksia o Lombardi, ti chiedi cosa diavolo hai fatto nella vita per meritarti condanne simili. Se però avessimo avuto tanti Di Maio in questi vent’anni di mancata opposizione del centrosinistra, invece dei Violante e degli Speranza, Berlusconi sarebbe politicamente finito dopo sei mesi. Cito Di Maio non a caso: nel salotto di Bruno Vespa doveva andarci – anzi tornarci – lui. Non Grillo. Avrebbe fatto meno ascolti, ma avrebbe portato ai 5 Stelle molti più voti. Aprirsi troppo tardi alla tivù è stato un altro errore. Il M5S deve continuare nella sua opera di opposizione rigorosa, ora poi che Renzi vanta consensi bulgari. Ma deve anche dimostrare di saper pure costruire e “dire sì”.  In Italia come nel Parlamento Europeo. Di Europa hanno parlato poco, al di là dell’allergia per l’Euro, le invettive contro i “figli di trojka” e il no al fiscal compact. Non conosciamo gli eletti, se non per un video youtube e il loro curriculum online. Non sappiamo accanto a chi sederanno, né chi appoggeranno come Presidente. Quanto al tentativo di Renzi di stanarli, il punto non è accettare tutto quello che lui gli propone, ma valutare la proposta. Se Renzi gli propone ancora l’Italicum o la schifezzina della riforma del Senato, fanno bene a sfancularlo: sono proposte orribili. Da solo, però, il Movimento non può fare nulla se non combattere battaglie nobili ma spesso di Pirro. Politica è anche strategia. Qualcuno dovrebbe dirgli che l’elasticità mentale non è un reato e che non tutti sono uguali: per esempio Tsipras non è uguale al Pd, e con Tsipras dovrebbero fare sponda. Sarebbe il presidente migliore, ma a Yoko Casaleggio non piace perché è “connotato ideologicamente”: sì, buonanotte”.

Qual è la “lezione” profonda di queste elezioni?

Nessuna lezione profonda. Sono elezioni che ci dicono ciò che già sapevamo: che i sondaggi non servono a niente; che larga parte dell’informazione italiana ama correre in soccorso del vincitore. Che la tivù è ancora decisiva (Renzi è andato ovunque, riverito oltremodo, e ha fatto bene ad andarci). Ci ribadiscono poi, e soprattutto, che la maggioranza degli italiani tutto vuole tranne il cambiamento reale. Non appena sentono parlare di “rivoluzione”, hanno un mancamento. Preferiscono la velocità da crociera, il mantenimento dello status quo e il gattopardismo un po’ alla moda. L’uomo della provvidenza che tutto cambia perché nulla cambi. Il leader nuovo per nulla nuovo, fanfarone e sparaballe, simpatico o presunto tale, vagamente carismatico. Ieri Berlusconi, oggi Renzi. Un po’ Silvio e un po’ De Mita, un po’ Fanfani e un po’ Moccia, un po’ Cameron e un po’ Jovanotti. Tutto e niente, soprattutto niente. E il nulla, anzitutto in Italia, è rassicurante.

 

 

 

 

 

Renzi e il Sindacato. Un “dialogo” tra sordi? Intervista a Raffaele Morese

ROME ENERGY MEETING 2004Forte è stata la polemica, nei giorni scorsi, tra il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e tutto il Sindacato Confederale (Cgil, Cisl e Uil) sulla “concertazione” e più in generale sul ruolo del sindacato. Su questa polemica abbiamo intervistato Raffaele Morese. Morese è stato per anni un protagonista del movimento sindacale italiano (prima, negli anni ‘80, come Segretario Nazionale della Fim-Cisl e, successivamente, negli ’90, come Segretario Generale Aggiunto della Cisl). Durante i governi D’Alema e Amato (1998-2001) ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario al Lavoro.

Morese, nei giorni scorsi, durante il Congresso della Cgil, abbiamo assistito ad una fortissima polemica tra la  Camusso, seguita a ruota da Bonanni e Angeletti, e Renzi sulla “concertazione”. Per Renzi la “musica è cambiata”, nel senso che per lui la “concertazione” è morta e sepolta: Lei che è stato, negli anni novanta, uno dei protagonisti della “concertazione” buona (con i governi Amato e Ciampi), qual è il suo giudizo su questo atteggiamento di Renzi? Non lo trova arrogante?

Quel “se il sindacato non è d’accordo, ce ne faremo una ragione” sa di sfida ed è irritante. Di converso, sostenere come fa Camusso che è espressione di “una torsione democratica” mi sembra altrettanto esagerato. Mi limito a dire che sulle questioni del lavoro una cosa è l’opinione via Internet di un pur ottimo impiegato dello Stato o di un intellettuale e un’altra è il pensiero del sindacato. La distinzione, anche nelle forme della consultazione, non può che essere diversificata. E tutto ciò senza scomodare la concertazione.

Lei è stato Segretario Generale della Fim-Cisl e successivamente Segretario generale aggiunto della Cisl, quindi ha una storia ricca nel Movimento Sindacale italiano. La Cisl, la sua antica “radice”, è il sindacato partecipativo e concertativo per eccellenza. La “concertazione” implica un “scambio politico” tra gli attori. Ora di fronte all’offensiva renziana non si riesce a cogliere bene però cosa contrappone Il Movimento sindacale italiano su questo punto.

E già. C’è una buona dose di confusione, piuttosto che un vero e proprio conflitto. Se fosse soltanto questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Il conflitto muove il progresso. Ma la confusione prevale e speriamo che non si trasformi in reciproca delegittimazione. Il dato fondamentale e importante è che il lavoro sta conquistando la prima fila nel dibattito politico e può  ritornare di attualità il conflitto tra primato della politica e primato del sociale. Era dai tempi della scala mobile, dell’inflazione a due cifre, della stagflation che non si assisteva ad una avvisaglia di contrapposizione tra politica e sociale, come quella che si profila. Ma non è un replay di quella fase. Neanche una sua brutta copia. Non ci sono più né un Berlinguer che non accetta di essere scavalcato da un’intesa tra un Governo – specie se a guida Craxi – e i sindacati, né un Carniti e Benvenuto che in nome dell’autonomia, interrompono l’unità con Lama. Non c’è più né il tentativo di realizzare una politica dei redditi concertata, né la scelta di dare un’alternativa al contrattualismo conflittuale, che aveva contrassegnato gli anni 70 e 80 e che tuttora aleggia nelle dinamiche tra le parti sociali.

Ma il Paese ha bisogno di migliorare la propria produttività complessiva, pena un irreversibile degrado. Il Governo ne ha fatto la propria cifra. Forse definendo non brillantemente le priorità, forse facendo dell’irruenza una bandiera inusuale. Ma ha posto una questione cruciale e di difficile contestabilità. Per di più, lo ha fatto caricando la molla più sulle inefficienze esterne alla produzione (istituzioni più snelle ed efficaci, pubblica amministrazione meglio organizzata, trasparenza nella gestione) che sulla solita ricetta della spremitura del lavoro per assicurare competitività al sistema delle imprese. Anche le definitive soluzioni sul contratto a tempo determinato e sull’apprendistato non sono ascrivibili alla cattiva flessibilità, indipendentemente dallo scambio proposto con gli 80 euro di sgravio fiscale a chi lavora e guadagna poco.

Il sindacato confederale  esca dal difensivismo. Non ragioni solo politicamente (“potere contro potere” fu slogan degli anni 70 dello scorso secolo). Non si faccia irretire da accuse strumentali di neolaburismo (sua  presunta etero direzione di almeno una parte del partito guidato dal Presidente del Consiglio). Non si rinchiuda nel fortino corporativo, aspettando che passi il cadavere dell’antagonista. Vada a bucare il palloncino. Faccia il suo mestiere, coniugandolo con i tempi attuali. Da una parte c’è la necessità di stare in Europa con un’ autonomia propositiva molto coesa e dall’altra occorre dare risposte alle voci che reclamano, in modi sempre più  perentori e rabbiosi, di ricomporre il mercato del lavoro. Ce n’è abbastanza per definire una strategia complessiva che convinca i propri iscritti e l’opinione pubblica. Una strategia che si collochi oltre il puro rivendicazionismo, oltre lo sterile opinionismo e sappia tenere insieme contrattazione e confronto istituzionale.

Il pendolo, finora è stato troppo esposto sul versante legislativo, risultato al dunque fragile e discutibile. Ci vuole una correzione più energica e innovativa verso la contrattazione, rivendicando ad essa il ruolo di primogenitura della ricomposizione del mondo del lavoro, in cambio di un sostegno senza riserve della crescita della produttività complessiva. Quindi, da una parte occorre accettare la sfida di ridurre le sacche di rendita politiche, burocratiche, professionali e finanziarie esistenti fuori dal sistema produttivo e dall’altra puntare  a rappresentare tanto i “ben occupati”, quanto “i male occupati” e i senza lavoro, ma anche i più deboli sul piano sociale (pensionati poveri, famiglie numerose, immigrati da integrare). Fare cioè il sindacalismo degli interessi generali, come si diceva una volta.

Maurizio Landini, con toni molto polemici nei confronti della Camusso, si è posto come un “rottamatore” della oligarchia sindacale in nome   della trasparenza e di un maggior protagonismo del sindacato. Dove ha ragione e dove ha torto il “conflittualismo” di Landini?

Non entro nel merito del conflitto interno alla CGIL sull’egemonia. Mi attengo ai fatti e da quel che emerge si può soltanto dedurre che quello di Landini non è un classico conflittualismo sindacale che presuppone che, se attivato, deve essere finalizzato ad un risultato contrattuale. Il suo è piuttosto un conflittualismo social politico, un po’ agitatorio che, nei limiti in cui non si traduce in una soluzione, rischia di trasformarsi in un puro e semplice “opinionismo”, legittimissimo, spesso applauditissimo ma sostanzialmente poco influente nella realtà dei fatti. Ovviamente, la FIOM firma anche accordi, anche importanti, come per ultimo quello alla Elettrolux, ma nell’insieme non favorisce un’azione incisiva del movimento sindacale, mette piombo nell’iniziativa della CGIL e ciò indebolisce oggettivamente la forza persuasiva del sindacato sia verso i lavoratori che verso le controparti imprenditoriali ed istituzionali.

Non sarebbe ora, per il Sindacato Confederale, di inaugurare una nuova stagione di unità mettendo da parte rendite di posizione ormai superate dalla storia?

Mi da fastidio la moda recente che tende ad associare il sindacato all’idea di conservazione. Al peggio, il sindacato negli ultimi tempi ha peccato di troppa rappresentanza dei propri iscritti, piuttosto che dell’insieme del variegato mercato del lavoro. Ma questo non è neanche corporativismo, figuriamoci se va iscritto nella casella conservazione. Detto questo, per il sindacato confederale c’è l’urgenza, come ho detto, di ricomporre il mercato del lavoro. Il decennio passato è stato quello di maggiore scomposizione del mercato del lavoro, senza incidere seriamente sul lavoro nero; con la conseguenza che la vertenzialità individuale giudiziaria ha registrato un boom senza precedenti, con i ringraziamenti del corpo forense.

Il risultato è che tutti sono insoddisfatti, dai cultori del diritto, agli osservatori economici, dai sindacati agli imprenditori ma soprattutto dalle persone che non riescono più a districarsi tra buona e cattiva flessibilità. Ora che si è trovato un punto di equilibrio (fragile) in Parlamento su contratto a termine e apprendistato, varrebbe la pena di fare il “tagliando” a tutta la regolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo della sua ricomposizione. Di conseguenza, la delega lavoro, presentata dal Governo, andrebbe ritirata o quanto meno congelata soprattutto per la parte relativa alla contrattualistica e rinviata ad una ampia discussione tra le forze sociali, professionali, economiche e culturali.

E’ in questo contesto che l’unità tra le centrali confederali può riprendere vitalità e prospettiva. Non è un problema di buona volontà dei gruppi dirigenti, ma di condivisione delle prospettive che si intendono perseguire e la fase ha bisogno di “visionari” piuttosto che di abili pattinatori nella congiuntura.

Il Si della Consulta alla Fecondazione Eterologa: Una scelta di civiltà? (2) Intervista a Padre Luigi Lorenzetti

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Luigi Lorenzetti

 

Concludiamo, con questa seconda intervista, la nostra piccola inchiesta sulla fecondazione eterologa. Padre Lorenzetti è tra i maggiori  italiani, docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna e collaboratore di varie riviste fra cui Famiglia Cristiana, dove cura la rubrica “Il teologo”.

 

 La Legge 40 sulla Fecondazione medicalmente assistita ha subito “smantellamenti” , in questi 10 anni di “”vita”, continui. Sono  state 30 le sentenze di tribunali civili,  frutto di un bipolarismo etico assai poco convincente. Qual è  stato il grande limite di questa legge?

La legge 40 del 2004, nel regolare la procreazione medicalmente assistita (Pma) intende conciliare due valori-base: il primo è il legittimo desiderio al figlio che è proprio della coppia sposata (e, per estensione, anche alla coppia di fatto stabilmente unita). Da qui il divieto della fecondazione eterologa (con ovociti o gameti fuori della coppia). Il secondo è il bene-diritto  del concepito (nascituro, embrione). Al riguardo, la legge 40 presuppone che l’embrione è, fin dall’inizio, un essere umano reale con potenzialità di sviluppo (e non già essere umano potenziale); è qualcuno e non qualcosa; ha valore finale  (bene per se stesso) e non strumentale sia pure in vista di alte finalità sociali. Da qui il divieto della diagnosi prenatale finalizzata alla selezione degli embrioni; della produzione di non più tre embrioni per evitare la crioconservazione e, quindi, la loro eventuale perdita, come anche di evitare gravidanze plurime.

La legge 40, in riferimento alla tutela dei due valori in gioco, è stata considerata (ed è) una buona legge, sebbene sia stata (ed è) criticabile per opposti pareri: alcuni sostengono che la legge si sbilancia eccessivamente a favore del concepito a danno della coppia; altri, al contrario, affermano il rovescio, in quanto favorisce la coppia a danno del  concepito (nascituro). Si può facilmente constatare  che la legge italiana è più restrittiva rispetto a quelle di altri paesi europei. D’altra   parte, nessun tipo di legislazione è criterio e misura di altri tipi. Ogni legislazione è giudicabile e giudicata in base ai valori (diritti) umani che tutela o mano. È piuttosto auspicabile un confronto critico tra le varie legislazioni.

Veniamo alla sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa. Per il Settimanale “Famiglia Cristiana” si tratta di una follia italiana in quanto potrebbe favorire una “fecondazione selvaggia per tutti”.  Qual è il suo parere?

La fecondazione eterologa, a differenza dell’omologa, compromette il diritto del nascituro a una famiglia, a genitori certi, a un’identità genetica chiara; inoltre equivoca il concetto di paternità/maternità e di filiazione.

La sentenza della Consulta “smantella” dalla legge 40 il divieto della fecondazione eterologa, accogliendo le critiche che, in questo decennio, sono state poste all’opinione pubblica: il divieto discrimina un gran numero di coppie per le quali l’omologa non è praticabile; favorisce il turismo procreativo di quanti se lo possono permettere e altre motivazioni ancora.

Come prima reazione: è palese che la sentenza non interpreta ma stravolge la legge 40 proprio nell’ intento di conciliare i due valori in gioco, di cui si è detto precedentemente. La sentenza è sbilanciata nel favorire il desiderio della coppia, compromettendo il bene-diritto del nascituro ad avere genitori certi. Il figlio è posto, per legge, di fronte all’ambiguità tra genitori biologici e genitori sociali.      

 

Dal punto di vista delle coppie  sterili questa sentenza è una buona notizia. Ma la maternità e la paternità biologica sono ancora un valore per la società secolarizzata?

Sono insostenibili due visioni estreme: quella che sostiene principalmente se non esclusivamente la dimensione biologica; ugualmente l’altra che sostiene che la vera genitorialità è quella di chi fa crescere il figlio. In verità, la dimensione biologica e la dimensione  affettiva sono distinte, ma non separabili. La genitorialità biologica e la genitorialità spirituale non sono realtà, ma due dimensioni dell’unica realtà.

 

E’ giusta l’esclusione di single e per le coppie omosessuali ?

Il criterio primario da seguire non è il desiderio dell’adulto, ma il bene del minore. Nel caso della coppia o unione omosessuale, il minore parte oggettivamente svantaggiato per una serie di controindicazioni: il necessario ricorso alla fecondazione artificiale e, quindi, la violazione del diritto del nascituro ad avere genitori certi; inoltre, per crescere umanamente, il minore ha  bisogno, anche secondo le acquisizioni delle scienze umane, di due genitori nella versione maschile/femminile e non di due padri o di due madri. È vero che tanti minori, di fatto, sono in condizioni proibenti la crescita psicologica e umana anche in coppie eterosessuali, ma questo non giustifica introdurre, per legge, scelte e decisioni così cariche di problematicità.

 

Anni fa il filosofo laico tedesco Jurgen Habermas  metteva in guardia verso lo “scivolamento di una genetica liberale, vale a dire una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta”. Adesso con questa sentenza cade l’ultimo mattone su cui reggeva la legge 40, quindi si torna indietro di 10 anni. Quindi si porrà il problema di una nuova normativa. E’ possibile un cammino più laico di quello fatto con la legge 40? Ovvero raggiungere una mediazione alta su questo tema delicatissimo?

La legge civile non è né religiosa né atea, deve essere giusta; e lo è in riferimento a valori(diritti) umani.

Nel contesto sociale e culturale pluralista, è necessario ripensare il rapporto tra morale (norma morale) e diritto (norma giuridica). Le leggi civili non sono giuste/ingiuste perché conformi/contrarie a una morale di tipo confessionale. Sono, invece, giuste/ingiuste in base alla morale fondata sui valori (beni, diritti) umani, che tali sono a prescindere da appartenenze culturali, religiose, etniche.  

 

Nel 2005 la Chiesa italiana entrò con forza nella battaglia referendaria sostenendo l’astensione. Ma era la  Chiesa del Cardinale Ruini. Oggi con Papa Francesco quale sarà secondo lei l’atteggiamento della Chiesa?

I proponenti il referendum del 2005 intendevano condurre a cancellare i quattro divieti: la fecondazione eterologa, la diagnosi-preimpianto; la crioservazione; la sperimentazione degli embrioni. Il referendum non ha avuto seguito, perché non ha raggiunto il quorum richiesto. L’astensione è stata sostenuta dalla Chiesa, tuttavia, si deve riconoscere che, tra i 73% degli astenuti, non c’era soltanto il mondo cattolico ossequiente al card. Ruini.

Con Papa Francesco, i cattolici, da cittadini si sentono impegnati, in modo democratico e laico, per una legislazione sulla fecondazione artificiale che sia conforme o la più conforme possibile ai valori (diritti) umani. Non si tratta, infatti, di una questione religiosa, ma umana, laica. Il confronto, pertanto, deve avvenire tra una posizione ragionevole, meno ragionevole o più ragionevole.

Non è superfluo osservare che prima di una questione legislativa c’è una questione morale. Il fenomeno della procreazione medicalmente assistita evidenzia il desiderio profondo della paternità/maternità che viene raggiunto di frequente con grande dispendio di energie, anche economiche. È un evento che merita rispetto e ammirazione, ma questo non giustifica ogni modalità per ottenerlo: il fine buono (avere il figlio) esige che siano buone anche le modalità per averlo. Quando queste oggettivamente mancano, perché non pensare a forme alternative di vera paternità/maternità, quali l’adozione, l’affidamento? La Chiesa si sente impegnata nel formare le coscienze sul senso dell’apertura alla vita, così che agiscano non per costrizione (nemmeno per costrizione di una norma morale), ma per convinzione e consapevolezza personale.

 

 

(la foto di Padre Lorenzetti è tratta dal sito www.famigliacristiana.it )