“Le sardine possono intralciare il cammino di Salvini”. Intervista a Fabio Martini

Manifestazione delle Sardine a Bologna (LaPresse)

Dopo Bologna e Modena e in vista di domenica a Rimini, le ‘sardine’ sono pronte a farsi vedere anche a Reggio Emilia e Parma. “Reggio Emilia non si Lega”, questo il titolo dell’appuntamento di sabato 23 novembre alle ore 18.30 nel cuore della città, in piazza Prampolini. Presto, poi,  sarà la volta di Torino, Milano, Genova, Firenze, Puglia e altre città, tra cui Benevento, Reggio Emilia e Sorrento. Il movimento delle sardine (nato per proporre un’alternativa a Salvini e alla sua Lega) cresce e si moltiplica in tutta Italia, da Nord a Sud, con ritmi e numeri per certi versi inaspettati.  Con una strategia comunicativa  efficace: tallonare Salvini per togliere visibilità mediatica.  Così il boom di Piazza Maggiore nel capoluogo emiliano e poi il bis a Modena hanno creato emulazione, tanto che le manifestazioni già convocate in altre città hanno raggiunto in poche ore quasi migliaia  di adesioni. E il trend è in continua espansione, la controprova viene dalla pagina Facebook “Arcipelago delle Sardine” aperta in Puglia, che ha fatto segnare quasi 39mila iscrizioni in neanche 48 ore. Intanto la politica italiana, quella dei partiti di Governo, è alle prese con il problema dell’Ilva e della legge di bilancio. Con Fabio Martini, cronista parlamentare della Stampa, facciamo il punto sulle nuove dinamiche politiche.

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Un futuro sempre più incerto per il governo? Intervista a Fabio Martini

Il risultato delle elezioni in Umbria ha portato un surplus di instabilità del quadro politico. Il Parlamento nelle prossime settimane sarà chiamato ad occuparsi della Legge Finanziaria . E non saranno giorni facili per la maggioranza governativa . Come si evolverà la politica italiana? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

 Fabio Martini, siamo in una fase molto delicata per la politica italiana. Prima di procedere nell’analisi della prospettiva, penso che sia doveroso riflettere su un fatto molto grave, a mio giudizio, che è successo al Senato. Mi riferisco all’astensione del cosiddetto Centrodestra, o di quello che rimane, sulla Commissione contro l’odio e l’antisemitismo proposta dalla Senatrice Segre. Dicevo un fatto grave perché segna la capitolazione di una certa idea di centrodestra. Insomma l’egemonia salviniana è totale?

Temi delicatissimi sui quali ragionare a freddo e analiticamente. Che in certe aree politiche ci siano ancora pregiudizi antisemiti, questo è vero, ma la questione posta da alcuni esponenti del centro-destra è anche un’altra e alla lunga potrebbe essere condivisa anche in altri ambienti politici. La nuova Commissione principalmente si propone di snidare moltiplicatori di odio in un “luogo” fisiologicamente in movimento e sensibilissimo come il Web. E si propone di farlo, circoscrivendo i soggetti sui quali le espressioni di odio rischiano di produrre effetti pericolosi, perché soggetti sui quali nel corso della storia già si sono focalizzati sentimenti criminali. Ma in certi casi è difficile distinguere con certezza tra ciò che si può qualificare come odio, pur essendo penalmente irrilevante e ciò che è dissenso espresso in modo radicale. E infatti lo stesso Parlamento europeo non è ancora pervenuto ad una definizione chiara di hate speech. Stabilirlo a maggioranza – ecco il punto – può rappresentare un precedente pericoloso per tutti. Ma si tratta di materia incandescente, scivolosa, sulla quale sembra esagerato ogni atteggiamento lapidario ed è difficile individuare un “politicamente corretto”. Questo per dire che nel centrodestra oramai si esprime costantemente una egemonia salviniana, ma in questo caso la materia non è definibile a senso unico.

Che fine faranno personaggi come Mara Carfagna?

Mara Carfagna, che in questa occasione si è dissociata dalla Forza Italia salviniana, è tornata ad esprimere una voce liberal che in quel partito, dopo la stagione liberale degli esordi, era rimasta per anni soffocata. Ma resterà nel centrodestra. Matteo Salvini ha bisogno che le truppe parlamentari del centrodestra restino quantitativamente inalterate: a fine inverno il capo della Lega, facendo leva su transfughi pentastellati, darà la spallata per precipitare verso elezioni anticipate in primavera. Ma se in quello stesso frangente una massa di parlamentari, tra i quali i forzisti guidati da Carfagna, dovessero spostarsi verso Renzi, l’operazione fallirebbe. E’ possibile che si formi un contenitore-Toti destinato a catalizzare i diversi dissensi moderati del centrodestra, che da qualche giorno è tornato ad essere un carro vincente. Dal quale non è più conveniente scendere.

Una battuta su Matteo Salvini. Il “capitano” ha il morale alle stelle. Si sente “imbattibile “. Francamente quella in Umbria è stata una vittoria più che scontata. Trovi che almeno nei toni ha imparato la lezione del Papeete?

La vittoria del centrodestra in Umbria era probabile ma Salvini l’ha costruita nel modo migliore: credendoci. Con la voglia di esserci, di vincere. Pd e Cinque stelle, con l’alleanza tra “partito della clientele” e partito dell’anti-casta hanno provato a forzare il destino con un patto innaturale. E Salvini, nella distrazione generale, ha imparato la lezione del Papeete. Resta un duro ma non fa più le sparate. Si sta preparando alla rivincita con uno stile, se non opposto a quello che gli ha portato fortuna, certamente diverso.

Voci giornalistiche riferiscono di un tentativo di interlocuzione di Salvini con il PPE per uscire dal l’isolamento europeo. Ti risulta?

Si, risulta

Veniamo al governo. O meglio alle due forze maggiori che lo compongono: Movimento 5stelle e PD. Di Maio ha catalogato l’ennesima sconfitta. E francamente in un partito normale lo avrebbero dimissionato. Invece resta barcollante al suo posto. Non trovi che sia lui l’ostacolo alla maturazione politica dei 5 Stelle. Grillo lo lascerà ancora fare?

Luigi Di Maio incarna l’anima più profonda del Movimento ed ha dimostrato di essere di gran lunga il quadro politico più sveglio di quell’area politica. Le sue difficoltà e le sue sbandate riflettono un malessere più complessivo del Movimento Cinque stelle che è nato come forza anti-sistema, ma essendo l’unica forza stabile di governo, si trova in una postazione “contronatura”, ritrovandosi a gestire un declino che potrebbe essere irreversibile. E che potrebbe trasformare i Cinque stelle in una forza ad una cifra. Il timore istintivo di una propria, futura irrilevanza è il male oscuro che è destinato a portarsi dietro il Movimento fondato da Beppe Grillo, che per il momento ha ancorato la sua creatura a sinistra. Per il momento.
Zingaretti cerca di trasformare il PD. Sul Corriere della sera ha scritto che vuole trasformare radicalmente il partito. Francamente però non riesco a vedere il “disegno” del partito. Tu lo vedi?

Da quando è diventato segretario del suo partito, Nicola Zingaretti ha perso cinque regioni su cinque a guida progressista. Se a fine gennaio perde anche l’Emilia perde la segreteria e contestualmente si scioglie la legislatura. Per questo motivo sta cercando l’idea “giusta” per salvaguardare la propria leadership ancor prima che mettere in sicurezza il Pd. Zingaretti ha portato in poche ore il Pd al governo in una carenza palese di motivazioni (a parte lo stop alle elezioni con Salvini trionfante), senza un profilo programmatico, facendo propri i provvedimenti-bandiera dell’esecutivo precedente e ora con la stessa perentoria mancanza di motivi, sta cercando lo scontro con i Cinque stelle. Auspicando al tempo stesso un reset nel suo partito. “Svoltismo” fine a sé stesso? Prevalenza delle ragioni personali su quelle di partito? Un nuovo governo, più profilato con un nuovo Presidente del Consiglio? Nessuno lo sa, ma chiunque si rende conto di una palese carenza: quella di una classe dirigente capace di guidare i processi politici.

 In tutto questo Matteo Renzi come si giocherà la sua partita?

Matteo Renzi, a dispetto del suo palese “autolesionismo”, dispone di una qualità politica superiore alla media, ma nel nuovo scenario si trova in una “falsa posizione”, in un rischio serio: elezioni anticipate e dunque obbligo di trattare i posti in Parlamento con ex compagni che lo detestano.
Quindi bisognerà aspettare le elezioni regionali dell’ Emilia Romagna per sapere se arriverà alla fine della legislatura?

Una cosa almeno la sappiamo: questo governo non arriverà alla fine della legislatura.

 

 

DALLE PAROLE AI FATTI. LE PRIORITA’ PER IL SINDACATO PER UNA NUOVA POLITICA INDUSTRIALE. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Manifestazione dei lavoratrori Whirpool (LaPresse)

Oggi novemila lavoratrici e lavoratori riempiranno il Forum di Assago (Milano). Cgil, Cisl e Uil hanno infatti organizzato un’Assemblea nazionale di delegate e delegati dal titolo “Dalle parole ai fatti”. È un’iniziativa che dà seguito al percorso iniziato lo scorso gennaio con la definizione della piattaforma unitaria “Le priorità di Cgil, Cisl e Uil per il futuro del Paese”, e proseguito con le numerose mobilitazioni dei mesi scorsi. Ne parliamo con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Lavoro, ambiente, giovani, fisco e pensioni: sono queste le priorità del Paese come sostengono Cgil, Cisl e Uil? O manca qualcos’altro?

Sono le giuste suggestioni da dare ad una politica sempre più priva di una visione di Paese e di prospettiva. Il sindacato pecca certamente di agilità, è un soggetto che non brilla nella comunicazione con l’esterno. Tuttavia, il confronto continuo che ha con il mondo datoriale, in particolare, lo tiene ancorato ai problemi dell’economia reale. Non è poca cosa, visto che lo sviluppo economico è – o, meglio, dovrebbe essere – il cuore di qualsiasi agenda politica. Usciamo da una stagione, quella del governo gialloverde, per cui non è stato così: quasi non si parlava di sviluppo economico. E i risultati si sono visti.

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La sfida del nuovo governo: un europeismo popolare. Intervista a Giorgio Tonini

Matteo Renzi, con la sua scissione, sta agitando le acque della politica italiana. Ma non c’è solo Renzi. Anche Matteo Salvini, con la sua voglia di vendetta contro il Premier Conte.   Con quali conseguenze? Ne parliamo con Giorgio Tonini, Capogruppo Pd nel Consiglio della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

Giorgio Tonini, lei è stato un protagonista del PD “renziano” come altri dell’area liberal (penso a personalità come Morando e Ceccanti). Pochi giorni fa avete tenuto a Orvieto la consueta assemblea annuale dell’associazione “Libertà Eguale”. Concludendo quella manifestazione lei ha definito la scissione di Renzi in modo molto caustico: “è peggio di un crimine, è un errore politico, con l’aggravante dei futili motivi”… Perché non ha scelto di seguire Renzi?

Perché io credo nel progetto del Partito democratico, non in questo o quel leader. I leader passano, i partiti restano. Il nostro “fratello maggiore”, il Partito democratico americano, è lì dal 1828: quasi due secoli. Ed ha avuto come leader personalità della statura di Roosevelt e Kennedy, Clinton e Obama. A nessuno di questi giganti sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di fare una scissione per fondare un partitino personale. È il grande soggetto politico il campo da gioco nel quale si decide la partita. Si può vincere o perdere la battaglia interna, ma se chi perde se ne va, di solito combina poco o nulla e intanto indebolisce la credibilità del partito e in definitiva la stabilità della democrazia, che non può funzionare senza grandi e duraturi partiti politici. E tanto meno può funzionare, nella democrazia, il riformismo: non si fanno riforme senza grandi partiti, stabili nel tempo.

Pensa che la scissione recluterà altri elementi?

Non lo so, non sono più in parlamento e frequento poco il partito nazionale. Mi auguro di no. Purtroppo Renzi, come prima di lui Bersani e D’Alema, si è messo nella triste condizione di dover essere dannoso al PD per non essere irrilevante.

Senza il “renzismo” (inteso qui come la capacità di gettare lo sguardo oltre i confini classici della sinistra) il PD è ancora il PD? Pensate voi dell’area liberal di supplire a questo vuoto?

Ogni uscita rende il PD più piccolo e più povero. Finora tutte le scissioni sono state operazioni a somma negativa: hanno concorso a far perdere al PD molti più consensi di quelli che i partitini scissionisti sono riusciti a raccogliere. Le scissioni del resto mettono in discussione non questo o quell’aspetto politico o programmatico, ma la stessa ragion d’essere del PD, che non è genericamente un partito riformista, ma la “casa comune dei riformisti”, come ebbe a definirla Romano Prodi. Questa casa comune è il partito che non c’era nella Prima Repubblica, una lunga stagione segnata da tanti riformismi e poche riforme, perché i riformisti erano divisi e quindi minoritari. L’Italia ha pagato un prezzo altissimo, tradotto in numeri nel nostro gigantesco debito pubblico, per questa anomalia politica. Il PD è nato per questo, per far diventare il riformismo maggioritario, attraverso la fondazione di un grande partito, per una volta nato da una convergenza e non da una scissione. Naturalmente, come tutti i processi storici, anche l’unità politica dei riformisti e la sua vocazione maggioritaria conoscono alti e bassi. Ma con l’unità dei riformisti tutto è possibile, con la loro divisione tutto è perduto.

Guardiamo ai primi movimenti renziani. Sappiamo che tra le caratteristiche di Renzi c’è la spregiudicatezza e la velocità. Che, a mio modo di vedere, in questa fase aumenteranno ancora di più… E questo porterà il governo a ballare. Insomma tra

DI MAIO E RENZI, pur avendo obiettivi diversi, sarà una “bella” gara a giocare il ruolo che aveva Salvini nel precedente governo.. È così Tonini?

Non lo so. Spero di no. Ma quel che so è che i piccoli partiti, tanto più se dall’incerta identità politica al di là della fedeltà al leader di turno, sono costretti a diventare un problema per le coalizioni di cui fanno parte, se non vogliono sparire dalla scena politica e mediatica. Tutti i giorni devono trovare e, se necessario, inventare, un motivo di distinzione dagli altri, in particolare dai più vicini, se non vogliono sparire dai titoli dei giornali, dall’apertura dei tg o dai like dei social. Spero che stavolta questo non avvenga, ma la politica, come l’economia, ha le sue leggi, che spesso scavalcano e travolgono la stessa volontà dei leader.

Il PD soffre questo movimentismo. Come dovrebbe rispondere? Non vede un Zingaretti lento?

Penso che il PD debba rilanciare la sua vocazione maggioritaria nel Paese, attraverso l’apertura a tutte le componenti del riformismo italiano. Guai se il PD cedesse alla tentazione di assecondare gli scissionisti riproponendo la cosiddetta “divisione del lavoro” tra centro e sinistra. Una teoria (e una pratica) sbagliata in via di principio, perché separa artificiosamente le due facce del riformismo: la lotta per l’uguaglianza, che per Bobbio era la definizione migliore della sinistra; e la cultura di governo, il realismo delle compatibilità e della gradualità, che sono la declinazione nobile e non trasformistica del centro. Il riformismo è la sintesi di queste due componenti. Senza la sintesi non c’è il riformismo, ma tuttalpiù un cartello elettorale, fondato sull’idea di marciare divisi per colpire uniti: una strategia apparentemente realistica e che invece ha sempre portato al centrosinistra solo sconfitte. Nel 1994 la divisione tra Occhetto e Segni portò alla vittoria di Berlusconi; nel 2006 la lista dell’Ulivo alla Camera prese molti più voti della somma delle liste di centrosinistra al Senato, con le conseguenze che conosciamo sulla tenuta del governo Prodi; nel 2013 la “non vittoria” di Bersani fu anche la conseguenza della “divisione del lavoro” con Monti.

Anche grazie a Renzi, il PD è ora al governo insieme al Movimento Cinquestelle. Pensa che questa alleanza possa diventare strategica? Vede il pericolo di una “grillizzazione” del PD?

Il consenso generale nel PD alla decisione di dar vita ad un governo col M5S priva la scissione di una convincente motivazione politica. Non si può condividere una decisione così impegnativa e al tempo stesso sostenere che siano esaurite le motivazioni profonde dello stare insieme. Comunque la si giri, non sta in piedi. Per venire alla sua domanda, io penso che o l’alleanza saprà diventare strategica, o finirà per dimostrarsi velleitaria. A ben guardare, la potenzialità strategica dell’alleanza si può intravedere già nelle motivazioni dell’accordo: dopo la bocciatura da parte degli elettori, alle politiche del 2018, ma prima ancora al referendum del 2016, del nostro riformismo, e dopo il fallimento dell’alleanza tra i due populismi nel governo giallo-verde, il governo giallo-rosso nasce sul compromesso tra riformisti e populisti. Questo compromesso non può basarsi solo sulla comune avversione alla destra radicale di Salvini, ma deve esplicitare una ragione positiva e propositiva. Riflettendo sull’atto di nascita di questo accordo, il voto comune a sostegno della nuova Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, la ragione positiva e propositiva dell’intesa a me piace definirla “europeismo popolare”. Solo se riusciranno insieme a porre le basi di un nuovo europeismo, un europeismo che si dimostri, agli occhi degli italiani, una risorsa imprescindibile e non solo un vincolo incomprensibile, PD e M5S usciranno vincitori da questa difficilissima impresa. Altrimenti avranno solo ritardato la vittoria della destra.

Ultima domanda: Lei è stato Presidente della commissione bilancio del Senato, quindi di manovre finanziarie se ne intende. Ora quello che emerge è che è difficilissimo far quadrare i conti… Ha qualche consiglio da dare ai suoi amici romani?

La verità è che a Roma i conti non possono tornare senza un cambiamento strategico a Bruxelles. A Roma l’unico modo di far tornare i conti è il “sentiero stretto” teorizzato e praticato nella scorsa legislatura dal ministro Padoan: tenere basso lo spread e fare avanzo primario nella misura necessaria a rallentare e via via arrestare l’aumento del debito senza soffocare la crescita. Il problema è che questa nostra strategia, che io stesso ho condiviso nel ricoprire il ruolo che lei ha ricordato, è stata clamorosamente bocciata dagli elettori, che hanno dato alle forze populiste e antieuropeiste i due terzi dei consensi. E d’altra parte, queste stesse forze non hanno potuto trasformare  l’impressionante consenso elettorale raccolto, in una credibile e praticabile strategia di governo e, in particolare, di politica economica. Giunti sulla soglia dell’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione, per fortuna hanno esitato e si sono fermati, prima di portare il Paese al disastro e l’Europa in una crisi forse peggiore della Brexit. Da questo stallo si può uscire solo con una mossa di Bruxelles. Serve una svolta espansiva di politica fiscale europea, che si affianchi alla politica monetaria della Bce: una politica fiscale che non si limiti a concedere più flessibilità nell’applicazione del patto di stabilità, ma si spinga fino a dotare l’Eurozona di un propria capacità di bilancio, finalizzata a sostenere la crescita attraverso un ambizioso programma “federale” di investimenti, in infrastrutture materiali e immateriali. In un contesto di crescita, deficit e debito degli Stati nazionali farebbero molto meno paura e sarebbero contrastabili in modo efficace con misure sostenibili sul piano sociale e politico. La Francia di Macron è da anni su questa posizione, che sta gradualmente conquistando consensi anche in Germania. Col governo giallo-rosso e la nomina di Paolo Gentiloni nella Commissione europea, anche l’Italia si è posta su questa linea. Naturalmente ci vorrà del tempo prima che questo nuovo quadro europeo possa imporsi e produrre l’auspicata quadratura del cerchio per i conti pubblici italiani. La manovra di  bilancio di quest’anno è dunque inevitabilmente una manovra di transizione, che sarebbe bene non sovraccaricare di aspettative. Questo è anche il consiglio (non richiesto e non necessario) che mi permetterei di proporre al governo: non enfatizzare la portata della manovra in corso e piuttosto esplicitare, spiegare, comunicare agli italiani la strategia di medio periodo, l’unica che può portare l’Italia fuori dai guai.

Suicidio assistito: “Una sentenza liberale non libertaria”. Intervista a Stefano Ceccanti

Dj Fabo (Ansa)

 

Sta facendo discutere l’opinione pubblica, ed anche la politica, la sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Quali sono le ragioni di questa sentenza della Corte? Come evitare il “bipolarismo etico”? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del PD.

 

Onorevole Ceccanti, la Corte Costituzionale, con la sentenza di mercoledì, ha portato a termine la questione di legittimità dell’articolo 580 del Codice penale. La Corte ha dichiarato la non punibilità, a determinate condizioni, del “suicidio assistito”. Adesso bisogna attendere le motivazioni di una sentenza, che molti definiscono “storica”. Le chiedo, come costituzionalista, sulla base di quali principi costituzionali, secondo lei, la Corte ha emesso questa sentenza?

Con qualche necessaria cautela, perché stiamo in questo caso commentando un comunicato e non una sentenza definitiva, mi sembra che la chiave di lettura la possiamo capire sulla base di una ordinanza dell’anno scorso. La Corte legge senz’altro la dignità della persona in un quadro comunitario e quindi non considera un assoluto il valore dell’autodeterminazione dell’individuo singolo nella sua decisione di rompere il legame con gli altri, dando via libera a qualsiasi forma di aiuto. Non legge quindi in chiave libertaria, individualistica la Costituzione e si pone anche il problema della protezione delle persone più deboli e di un’effettiva volontà della persona, senza condizionamenti anomali. Tuttavia la Corte non adotta neanche un approccio unilaterale opposto, statalistico-paternalistico, che porterebbe a negare sempre e comunque qualsiasi valore dell’autodeterminazione individuale, che dissolverebbe l’autonomia della persona nella comunità. Diciamo, quindi, che ha adottato un approccio liberale: pur ritenendo il suicidio e l’aiuto al suicidio un ricorrere alle armi del diritto penale.

Quali sono i limiti posti dalla Corte, e perché non ha previsto l’obiezione di coscienza?

La Corte stabilisce che l’aiuto al suicidio vada depenalizzato nei confronti di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, come aveva già detto nell’ordinanza di un anno fa. Non ha parlato di obiezione di coscienza perché non si parla di un diritto soggettivo ad ottenere una prestazione, ma del riconoscimento a farsi aiutare in una scelta senza che nessuno possa essere condannato. Non essendoci un obbligo, almeno secondo quanto capiamo ora della sentenza, non c’è obiezione.

 

Lei ha definito la sentenza come “liberale” e non “libertaria”…Perché?

Perché è figlia di una concezione dello Stato che si ritrae, che si considera parziale, che a certe condizioni rinuncia a punire chi opera una scelta che considera comunque un disvalore e non un diritto. Peraltro è un linguaggio noto anche alla Chiesa: in materia di libertà religiosa la Dichiarazione del Concilio Vaticano II, pur non equiparando in materia relativistica le diverse scelte religiose, parla di immunità dalla coercizione, di autolimitazione dello Stato che non ha il monopolio del bene comune e che pertanto non deve esagerare con l’estensione del diritto penale.

La reazione, però, della CEI è stata negativa. La Conferenza Episcopale è preoccupata “per la spinta culturale implicita che può derivarne”: cioè che togliersi la vita è una cosa buona. Da cattolico democratico come risponde a questa preoccupazione?

In linea generale bisogna sempre capire che i vescovi ragionano soprattutto da educatori, non da giuristi o da politici. In questa chiave capisco il senso della preoccupazione. Ciò detto, mi sembra che presa alla lettera questa affermazione fraintenderebbe la sentenza che rinuncia appunto a punire in alcuni casi limite, non che riconosce un diritto al suicidio. Credo però che l’affermazione non vada intesa in senso letterale, ma che invece alluda a scelte che possano nascere sulla deriva di questa soluzione, col cosiddetto pendio scivoloso. Allora, se è così, l’argomento obiettivamente non fraintende la sentenza e come tale, in astratto, potrebbe avere una sua plausibilità. Però se il pericolo che si vuole sventare è questo, invece che polemizzare con la sentenza, che è comunque vincolante, e proporre di nuovo soluzioni impossibili tese ad eluderla (leggi che ripristinino una pena, che sarebbero sicuramente incostituzionali), sarebbe bene pensare a limiti seri che circoscrivano la depenalizzazione, che interpretino in modo rigoroso le indicazioni della Corte. Tanto più se si considera un altro fatto: vedremo la sentenza finale, ma in assenza di limiti di legge, dopo la certa assoluzione di Cappato, dato che un principio di non punibilità è stato comunque affermato, non è chiaro con quale latitudine il principio potrebbe essere applicato in via giudiziaria. Se invece si continuasse a polemizzare con la Corte, si renderebbe più difficile il varo condiviso e non troppo lontano da limiti seri.

Adesso il Parlamento dovrà, finalmente , legiferare…. Non sarà facile evitare il bipolarismo etico…Come evitarlo? La destra sovranista è pronta alle barricate… Quali potranno essere i punti di mediazione?

In realtà, se si capisce bene la sentenza che taglia le posizioni estreme, ossia da un lato l’approccio libertario assoluto e dall’altra quello statalistico-paternalistico, la scrittura di una legge risulta ora molto semplificata perché la questione è diventata chiaramente quella di quale depenalizzazione sia sensata e non più sull’opportunità di depenalizzare che ha paralizzato il Parlamento nei mesi passati. A dir la verità si sarebbe già potuto capire anche solo con l’ordinanza, ma va comunque bene se si parte anche ora con questa consapevolezza. Il Parlamento può ben individuare in questa chiave il bene possibile oggi, senza volontà di vittorie unilaterali di nessuno, senza affermare un dannoso bipolarismo etico.