“Il destino della Libia, per ora, è quello di una ‘instabilità controllata’ “. Intervista a Michela Mercuri

Lo scenario libico è sempre più instabile Continue sono le violazioni della tregua. Anche ieri sono avvenuti scontri. Questi sono avvenuti nelle città costiere di Al Hisha, Wed Zumzum e Abu Qurain a sud della città situata a 200 chilometri a est di Tripoli. Lo riportano fonti delle milizie alleate al governo di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale. Le forze di Haftar stanno avanzando a circa 120 chilometri a est di Misurata, vicino alla città di Abugrain. Allo stesso tempo, un ufficiale delle forze di Haftar ha fatto sapere di aver strappato il controllo di due città, Qaddaheya e Wadi Zamzam, proprio sulla strada per Abugrain.  In questo contesto si fa sempre più complicata e difficIle la possibilità di una soluzione del grande marasma libilico Cerchiamo di fare il punto con la professoressa Michela Mercuri. Michela Mercuri è Docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro Incognita Libia – cronache di un paese sospeso (2017).

 


Professoressa  Mercuri, il dopo Berlino, cioè la conferenza internazionale dedicata alla Libia, si sta caratterizzando sempre più come una finta tregua tra le parti. Nei giorni scorsi vi sono stati combattimenti a sud di Tripoli, ma soprattutto il generale Haftar ha chiuso i rubinetti del petrolio (provocando finora danni per 318 milioni di dollari), ma sul ricatto petrolifero di Haftar torneremo dopo. Torniamo alla Conferenza di Berlino. Nel commentare i risultati del vertice, qualche osservatore internazionale aveva parlato di “bicchiere mezzo pieno”. A me sembra, guardando i comportamenti dei “signori della guerra”, che il bicchiere sia completamente vuoto. Esagero?

Direi ancor di più: il bicchiere è caduto e si è rotto in mille cocci e questo non dovrebbe stupirci. A Berlino, mentre i “grandi del mondo” approvavano il piano tedesco per un embargo sull’arrivo di nuove armi e per un percorso politico e istituzionale – con la creazione di un nuovo Consiglio presidenziale, preludio per elezioni e per una nuova costituzione- nella ex Jamahiriya si combatteva e le armi continuavano ancora a giungere indisturbate nel paese. La fragile tregua, mediata da Russia e Turchia qualche giorno prima, iniziava già a scricchiolare, mentre il generale Khalifa Haftar ordinava il blocco dei terminal petroliferi dell’est. Purtroppo la conferenza di Berlino è fallita ancora prima di cominciare e questo era prevedibile. Haftar a Mosca, solo 7 giorni prima, aveva rifiutato “il piano di pace” concordato da Russia e Turchia. Il suo obiettivo, nonostante la sua presenza ai vari vertici, era, è e sarà quello di entrare a Tripoli e Misurata. Detta in altri termini, chiudere il cerchio e conquistare tutta la Libia. Con l’aiuto degli Emirati che continuano a rifornirlo di armi potrebbe riuscire a farlo. Perché accettare il piano “onusiano” ed arrivare a patti con Fayez al-Serraj?

Parliamo, ora, del blocco dei rubinetti petroliferi da parte di Haftar. Un vero e proprio ricatto quello del generale della Cirenaica. Contro chi è rivolto e quali obiettivi vuole realizzare?

Haftar vuole dimostrare di avere il controllo del paese e i pozzi di petrolio rappresentano l’economia libica. Ne consegue che controllare i pozzi vuole dire controllare il paese. E’ una prova di forza e al contempo un’arma di ricatto nei confronti della comunità internazionale. E’ come se il generale stesse dicendo agli attori internazionali: “o sostenete me o l’economia libica rimarrà in ginocchio e i problemi si rifletteranno anche su di voi”. In effetti, da quando la Libia è stata privata di più di 800.000 barili al giorno, i prezzi del petrolio sono lievitati: in poco più di una settimana, il prezzo del Brent (il riferimento mondiale per il mercato del greggio che determina il 60% dei prezzi sul mercato) ha guadagnato quasi un dollaro, arrivando a 66 dollari al barile. Inoltre con questa mossa Haftar vorrebbe depotenziare la Noc (la compagnia petrolifera statale con sede a Tripoli) per ottenere un’autorità petrolifera anche nell’est, area da cui viene estratto il maggior quantitativo di greggio. Il generale ha più volte cercato di aggirare la Noc – che invia i proventi di petrolio e gas alla Banca centrale di Tripoli, che lavora principalmente con il governo di Serra- per ottenere un maggior controllo sulla distribuzione dei proventi.

La guerra libica, per certi versi, può diventare ancora più pericolosa della guerra siriana. È così?

In questo momento ci sono tutti gli elementi per preconizzare una grave escalation di violenze che potrebbe mietere ulteriori vittime tra la popolazione. La Turchia continua a inviare mercenari in Libia a supporto delle milizie dell’ovest, sull’altro fronte, in barba a qualunque rassicurazione di rispetto dell’embargo, “piovono armi” dagli Emirati e continuano a combattere mercenari russi. In queste ultime ore l’esercito di Haftar avanza verso Misurata, probabilmente per rompere l’asse militare Tripoli-Misurata, attaccando quest’ultima per far perdere alla capitale il suo massimo alleato. Il generale sta agendo in fretta, prima che gli strateghi turchi prendano il controllo delle operazioni a Tripoli. Gli scenari non sono facilmente prevedibili. O Misurata cadrà e Haftar avrà la possibilità di arrivare a Tripoli o avremo una energica risposta turca con un enorme bagno di sangue.  In questo caso la guerra che si gioca (anche) per procura assumerebbe sempre più le sembianze del conflitto siriano, con la Turchia da un lato, la Russia dall’altro e con il gioco sporco di alcuni paesi del Golfo. C’è un’altra similitudine con la Siria: la Russia e la Turchia, grazie ai loro interessi economici comuni (come il TurkStream) potrebbero continuare a tentare un’intesa. Tuttavia, come già accaduto, gli interessi di Haftar e dei suoi alleati del Golfo potrebbero prevalere. Inoltre, il caos prodotto potrebbe favorire la presenza di jihadisti che, si sa, si muovono alla ricerca di teatri instabili in cui trovare spazio per creare ulteriore destabilizzazione, funzionale alla loro espansione. Molti combattenti sarebbero giunti in Libia dalla Siria e molti erano già presenti nel sud libico in cui si erano riparati dopo la sconfitta subita a Sirte nel 2016. Anche la presenza di jihadisti sul terreno ci riporta, in qualche modo, seppure con le dovute differenziazioni, al teatro siriano. Per quanto concerne il fattore “pericolo”, ogni guerra è una storia a sé ed è un pericolo tout court ma, per l’Italia, avere un conflitto di tale portata alle porte di casa non è certo rassicurante.

Parliamo di due attori assolutamente fondamentali nello scenario libico:il Qatar e l’Arabia Saudita. Loro non hanno, ovviamente, problemi di petrolio. Cosa vanno cercando in Libia?

Partiamo, intanto, da una evidenza. Il Qatar supporta Serraj, assieme alla Turchia, mentre i Sauditi e, soprattutto, gli Emirati arabi unti armano Haftar. C’è una spaccatura nei paesi del Golfo ed è dettata da vari interessi che, naturalmente, hanno poco a che vedere col petrolio visto che si tratta di paesi produttori. In primo luogogli interessi sono di tipo geopolitico: per gli Emirati e l’Arabia saudita è vitale frenare l’avanzata dei Fratelli musulmani che si trovano nell’ovest. Per i sauditi, in particolare, è fondamentale espandere in Libia la corrente madkhalita (una corrente di stampo salafita ultraconservatrice fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, al soldo della casa reale saudita) in opposizione alla fratellanza musulmana. Anche per questo Riad sostiene il generale. Per gli Emirati, inoltre, l’idea europea secondo cui il conflitto libico deve essere risolto sul piano diplomatico e non militare non è accettabile. Da qui l’evidente impegno di Abu Dhabi nel non far mancare armi ad Haftar. Dall’altra parte c’è il Qatar che è stato uno dei principali sostenitori delle rivolte anti-gheddafiane. I motivi per cui Doha è vicina all’asse Tripoli-Ankara, sono di natura interna al Consiglio di cooperazione del Golfo in cui vi è stata una più di una “rottura” tra il Qatar e gli altri componenti, soprattutto da quando alla guida del paese c’è Tamim bin Hamad al-Thani, che ha costretto il padre ad abdicare, mostrando un atteggiamento assai più spregiudicato del predecessore. Da qui il sostegno ai Fratelli musulmani ma anche ad alcuni gruppi della galassia estremista per fare da contrappeso all’influenza degli ex alleati del Golfo, Emirati e Sauditi in primis.

Guardiamo a Macron. In Libia si sta dimostrando, forse non tanto paradossalmente, un sovranista assai duro. Qual è il vero obiettivo di Macron?Nello scenario estero la Libia è stata la massima espressione della politica ipernazionalista di Macron. Il presidente francese sostiene apertamente il generale Haftar per perseguire i suoi interessi in termini energetici ed egemonici, spesso in totale contrapposizione alla linea europea e dell’Onu. Per ben due volte ha convocato in via del tutto unilaterale delle conferenze sulla Libia invitando Haftar e Serraj e avvertendo solo a giochi fatti i membri dell’Unione europea, Italia in primis. Pochi giorni fa laFrancia si è rifiutata di votare una risoluzione europea, sostenuta anche dagli Stati uniti, che condannava il blocco della produzione del petrolio da parte di Haftar.Non servono ulteriori esempi per dire che Macron, nonostante la sua presenza a Berlino, sostenga solo ed esclusivamente Haftar e non abbia alcuna intenzione di scendere a patti con gli altri membri dell’Unione europea per una linea più inclusiva. Dirò di più: il presidente francese in questo momento, per quanto concerne la Libia, è l’elemento disgregante dell’Ue.

Erdogan e Putin, il neo Califfo e il nuovo zar, stanno giocando una partita parallela. Anzi, per usare un termine “antico”, stanno realizzando una convergenza parallela. Per entrambi il gioco è estendere la sfera di influenza a discapito della UE e degli USA. MA siamo sicuri che questo legame sia inossidabile?

Non ci sono legami inossidabili in un mondo in cui ogni Stato persegue solo ed esclusivamente il proprio interesse nazionale. Al massimo ci sono “alleanze a geometria variabile” tarate su singoli interessi comuni. E’ il caso di Russia e Turchia che in Libia (come in Siria) hanno tentato di trovare un accordo non per il bene dei libici ma perché hanno interessi che vanno ben oltre la ex Jamahiriya. In ballo non c’è solo l’affare miliardario della vendita alla Turchia da parte della Russia di sistemi missilistici S-400 ma anche questioni energetiche come il già ricordato progetto del TurkStream, il gasdotto che consentirà alle forniture russe di arrivare direttamente in Turchia attraverso il Mar Nero. La Russia è il secondo partner economico di Ankara, che nel 2018 ha visto aumentare le sue esportazioni verso Mosca del 50% rispetto agli anni precedenti. Non servono altre parole per spiegare quanti siano gli interessi in ballo e di quale portata. Anche se l’accordo per un cessate il fuoco in Libia, predisposto da Ankara e Mosca, ha avuto vita breve non credo che l’alleanza funzionale tra i due ne potrà risentire. Allo stesso modo, come ci ha dimostrato Berlino, questi player sono riusciti a marginalizzare un’Ue incapace di parlare con una sola voce e gli Stati uniti disinteressati al dossier libico. L’unico rischio che la Russia potrebbe correre nel quadrante libico è quello di essere marginalizzata dagli Emirati, i veri sostenitori di Haftar in questa sua avanzata.

Parliamo di due attori in cerca di autore. UE e Italia. per loro, dopo Berlino, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

Anche in questo caso devo dire che il bicchiere è rotto. Berlino è stata la cartina al tornasole dell’inconsistenza della politica italiana in Libia e nell’Ue. I nostri sforzi diplomatici, seppure tardivi, non sono stati premiati dall’Unione che ci ha relegati in seconda fila (in tutti i sensi). Tuttavia la stessa Europa si è dimostrata totalmente incapace di mediare una soluzione per la Libia, seppure avesse al tavolo i principali player qui coinvolti (Russia, Turchia, Emirati etc.).  La verità è che se l’Italia vuole avere una voce in Europa deve averla prima in Libia ma per ora tace. Tuttavia abbiamo ancora un buon capitale di fiducia con alcuni gruppi libici, al di là di Haftar e Serraj. Una fiducia sviluppata negli anni ma che si sta inesorabilmente affievolendo. Solo riaprendo a un dialogo con gli attori locali che conosciamo meglio di chiunque altro possiamo sperare di ritagliarci di nuovo un posto in Libia e, magari, di riflesso, anche in Europa.

E gli USA di Trump non hanno dire nulla?

Agli Usa non importa molto della Libia e agiscono di conseguenza. Hanno inviato a Berlino il segretario di Stato Mike Pompeo più per protocollo che per reale convinzione. L’ambasciata americana in Libia ha emanato un comunicato di condanna per la chiusura delle strutture petrolifere da parte di Haftar (peraltro su twitter) più per dovere che per reale convinzione.  E’ tuttavia evidente che, seppure a distanza, gli Usa tifino per Haftar poiché i suoi sponsor del Golfo sono i principali partner commerciali americani, specie per la vendita di armi.

Qual è secondo lei la via per stabilizzare la polveriera libica? 

Purtroppo non esiste una soluzione diplomatica in uno Stato in guerra. Esistono varie opzioni militari che, però, dovrebbero essere realizzate sotto egida europea o, meglio, delle Nazioni unite ma queste troverebbero l’ostracismo di molti Stati, tra cui ad esempio la Francia che vuole una vittoria tout court di Haftar. Dunque anche l’opzione militare appare lontana. Credo che, purtroppo, il destino della Libia, per lo meno per ora, sia segnato: una “instabilità controllata”con momenti di tensione più o meno intensi tra gli attori locali e i loro sponsor internazionali. E’ questa, per ora, l’unica soluzione win win per le grandi potenze regionali ma, purtroppo, non per il popolo libico.

 

 

I “calcoli” di Donald Trump sull’Iran. Intervista a Marina Calculli

Dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani il Medioriente ha vissuto giorni di grande tensione. Con le parole pronunciate, dopo il simbolico bombardamento iraniano, dal Presidente americano siamo in una fase di “tregua armata”. “Il precipizio non si è allontanato”, come ha scritto oggi su Repubblica,  Bernardo Valli, grande inviato di guerra. Le tensioni, infatti, nel mondo arabo sono  altissime (vedi Libia, Siria e Yemen). Ma quali sono stati i “calcoli” di Donald Trump sull’ Iran? Ne parliamo con la politologa, esperta di relazioni internazionali. Marina Calculli è Lettrice di “Middle East Politics”  all’Università di Leiden.

Marina Calculli  partiamo dall’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani – per ordine di Trump. Un uccisione che destabilizza ancora di più un’area che è piena di tensioni e di guerre. Le, “ragioni”, secondo gli USA, sono, da una parte, la rappresaglia verso le milizie che si sono rese responsabili dell’assalto alla ambasciata di Baghdad e dall’altra la prevenzione verso  possibili futuri attacchi. Una risposta, quella americana, non credibile. Qual è stato, secondo te, il vero “calcolo” di Trump?

L’idea di una guerra contro l’Iran è ben radicata in una parte dell’establishment neo-con di Washington che è lì da prima che arrivasse Trump alla Casa Bianca. Però mi sembra che nella contingenza Trump abbia preso una decisione ‘autoritaria’, dettata in buona parte dall’esigenza di distrarre l’opinione pubblica dalla questione domestica dell’impeachment. E’ in chiara polemica con il Congresso, che non era stato informato dell’attacco, la cui presidente Nancy Pelosi, è in prima linea sul fronte di coloro che vorrebbero l’impeachment di Trump. Per aggirare il Congresso Trump ha dovuto usare l’argomento, politicamente e soprattutto legalmente poco difendibile, dell’autodifesa contro un attacco imminente – poco credibile dato che Soleimani era in Iraq per incontri ufficiali ed è stato ucciso in un aeroporto civile.

E’ stata anche una decisione poco astuta, a giudicare sia dalle reazioni immediate domestiche sia da quelle degli alleati mediorientali degli Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita in primis, tutt’altro che giubilanti e che hanno evidentemente contribuito a spingere Trump alla moderazione, almeno per ora. Questo perché, nonostante gli amici-clienti di Trump in Medio Oriente abbiano in passato spinto Trump a far saltare il JCPOA, l’accordo nucleare firmato da Obama nel 2015, e a riprendere la politica classica di isolamento dell’Iran, una guerra contro l’Iran non è uno scenario ideale per nessuno nella regione. Persino Netanyahu ha detto che l’uccisione di Soleimani era una cosa ‘tutta americana’ e che ‘Israele non c’entrava nulla’. Nella visione cinica della destra israeliana e della casa reale saudita, molto meglio sarebbe la prosecuzione della cinica strategia che Trump stava già perseguendo: strozzare l’Iran lentamente con le sanzioni e indebolire contemporaneamente il Levante arabo. Una guerra potrebbe avere invece conseguenze disastrose soprattutto per i paesi del Golfo che l’Iran è certamente in grado di colpire.

Nella guerra all’Isis, il generale e gli americani erano dalla stessa parte…. E poi che è successo?

Erano tecnicamente, non politicamente, dalla stessa parte, anche se è vero che in molte occasioni gli americani hanno collaborato sul terreno con le milizie sostenute dall’Iran in Siria e in Iraq. Il problema centrale a mio parere è che, al di là della guerra all’ISIS, nessuno dei due ha mai pensato che questo potesse tradursi in un concreto riavvicinamento. E’ possibile che l’Iran sperasse di rendere l’ostilità di Washington più costosa sbandierando il proprio impegno contro l’ISIS – che è d’altronde un’arma che tutti hanno usato per cercare di ottenere credito presso le opinioni pubbliche internazionali per poi tradurlo in un vantaggio politico. Anche i curdi ci hanno provato però, come è noto, con scarso successo… Il problema dell’Iran però è più profondo per Washington. E’ intanto storico: l’odio americano contro l’Iran che trapela per esempio nelle minacce di Trump (seppur smorzate successivamente) di distruggere 52 siti culturali iraniani, simbolo dei 52 americani presi in ostaggio all’ambasciata americana nel 1979, mostra come l’impero americano abbia vissuto in modo traumatico la ribellione di uno stato che ai tempi dello scià era un fermo alleato degli Stati Uniti e che dalla rivoluzione del 1979 è diventato il principale sfidante della loro strategia mediorientale. Poi ci sono questioni più recenti: dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, l’America puntava a indebolire il regime iraniano e potenzialmente anche a provocare un cambio di regime a Teheran, cosa che G.W. Bush rese peraltro esplicita. Ma il risultato è opposto: l’Iran si è rafforzato nella regione, non solo contro le aspettative dell’America ma soprattutto capitalizzando sui limiti della ‘guerra al terrorismo’ americana in Medio Oriente. E’ questo che rende una parte dell’establishment di Washington, quello che rappresenta meglio la mentalità imperiale degli Stati Uniti, fanatica nelle manifestazioni di odio anti-Iran, almeno quanto fanatici possono essere i falchi anti-americani del regime iraniano.

Qasem Soleimani è stato definito, da qualche osservatore, come il “Machiavelli del Medioriente”. Trovi giusta questa definizione?

Le guardie rivoluzionarie iraniane e i loro alleati, come Hezbollah, hanno dedicato molte energie nell’elaborazione di un pensiero strategico militare. Certamente questo ha pagato, se si guarda agli indiscutibili vantaggi militari che l’Iran, anche grazie al suo principale alleato libanese Hezbollah, ha ottenuto nel Levante arabo e in Iraq, soprattutto dopo il 2003. Ma questa strategia militare ha delle falle politiche profonde, soprattutto perché a farne le spese sono state le popolazioni civili e in particolar modo i movimenti sociali nella regione: penso ai siriani anti-Asad in Siria, schiacciati direttamente e indirettamente dalla strategia iraniana in Siria. Penso alle recenti rivolte in Libano e in Iraq che rivendicano la fine delle ingerenze esterne, sia quella iraniana sia quella americana, che hanno sistematicamente impedito il consolidamento di un ordine politico domestico, sottoponendolo alle rispettive politiche di potenza.

Guardiamo la cosa dal punto di vista iraniano. Per la Repubblica islamica, l’omicidio di Soleimani, è una perdita grave. Che tipo di conseguenze politiche potrà avere per l’Iran?

Come diceva Conrad in Lord Jim, ‘nessuno è indispensabile’. Tanto più in un regime come l’Iran in cui, seppur ancora in grado di sfruttare la retorica della ‘guerra eroica’ e dei ‘martiri’, le transizioni vengono accuratamente pianificate. La forza dell’Iran nella regione non dipendeva da Soleimani, ma dalla strategia complessiva del regime e delle guardie rivoluzionarie in particolare. Per fare un parallelo, nel 1992 gli israeliani assassinarono Abbas al-Musawi, il segretario generale di Hezbollah in Libano, sperando così di sbaragliare tutta l’organizzazione. Il risultato fu l’elezione di Hassan Nasrallah, ancora oggi segretario generale di Hezbollah, forse persino più carismatico di al-Musawi, che ha portato avanti esattamente la linea che aveva prevalso nel 1992.

Teheran aveva detto che la vendetta sarà pesante…. E la risposta è stata il lancio di missili ballistici su una base americana in Iraq. Dopo il bombardamento sono arrivate le parole di Trump di ieri pomeriggio che rivendicando, ovviamente dal suo punto di vista, la giustezza della uccisione di Soleimani, si è detto disponibile a trattare un accordo di pace con l’Iran. Come giudichi le parole di Trump?

L’Iran ha voluto dimostrare simbolicamente e politicamente di non voler entrare in una guerra che comunque non potrebbe vincere, ma anche di poter dare filo da torcere all’America nel caso di escalation. L’attacco molto preciso alle due basi americane colpite in Iraq ha svolto questa funzione. Trump è tra due fuochi: da una parte, ha pensato di poter sfruttare una guerra contro l’Iran a suo vantaggio nell’anno cruciale delle elezioni, macchiato dal rischio di impeachment. Dall’altra sa bene che proprio un’ennesima e costosa avventura militare potrebbe alienare parte del suo elettorato che il presidente americano ha conquistato anche con la promessa di un ritiro dal Medio Oriente.

Donald Trump (Ap)

 

Brasile, verso una nuova dittatura? Intervista a Leonardo Boff

Leonardo Boff (ANSA)

Dopo 100 giorni di governo di estrema destra dove sta andando il Brasile
di Bolsonaro ? Ne parliamo, in questa intervista, con un famoso
intellettuale brasiliano: il teologo e filosofo Leonardo Boff. Leonardo Boff
è considerato uno dei padri fondatori della Teologia della Liberazione in
America Latina.

Leonardo Boff, sono passati i primi 100 giorni del governo
Bolsonaro. Il grande giornalista brasiliano Ricardo Kotscho si
domandava se il Brasile si muove verso una nuova dittatura. È
d’accordo con Riccardo Kotscho?

Sono d’accordo con Kotscho, uno dei migliori osservatori della
politica brasiliana. Viviamo in un tempo di post-democrazia e in uno
Stato senza legge. Lo Stato è militarizzato: ci sono 8 ministri militari e
più di 100 funzionari provenienti dalle Forze Armate nelle seconde fila
del Governo. In tutte le scuole è stato collocato un militare in
pensione come guardia. Il progetto d’imporre un ultra neo-liberismo fa
con che il Governo passi in cima della Costituzione e non rispetti
alcuna legge. Esiste nelle scuole la censura e io stesso sono stato
censurato per una conferenza all’Istituto Tumori di Rio de Janeiro,
per medici e infermieri sull’etica della cura e dell’importanza della
spiritualità nell’accompagnamento di malati terminali. Ma c’è stata
pressione sociale e, di conseguenza, l’istanza superiore dell’Istituto a
Brasilia ha cancellato l’evento. Solo questo fatto dimostra il livello
d’insicurezza che regna nella società e la presenza della censura in
tutti gli ambiti.

Quale direzione sta prendendo il Brasile?

La strategia del governo Bolsonaro, chiaramente di estrema-destra, è
associarsi ai regimi autoritari già visitati, come USA, Cile e Israele. E’
esplicito l’allineamento del governo Bolsonaro alle politiche di Trump,
facendogli molte concessioni senza aver ricevuto assolutamente
niente in cambio. La peggiore di queste è permettere che i capitali
nord-americani sfruttino l’Amazzonia e le terre indigene dove ci sono
ricchezze strategiche per gli interessi degli Stati Uniti. In questo modo
il Brasile entra come socio minore e aggregato al progetto di Trump
anti-globalista, nazionalista e bellicoso.

“Il mito”, così si fa chiamare Bolsonaro, ha vinto con un
programma di estrema destra con l’obiettivo di distruggere le
conquiste di Lula. A che punto è questo folle programma?

Bolsonaro utilizza un linguaggio che fu usato anche da Hitler:
distruggere tutto per costruire dopo qualcosa di nuovo. In effetti, sta
smontando tutti i progetti sociali dei governi Lula-Dilma che hanno
tirato fuori dalla fame 36 milioni di persone e permesso di costruire
abitazioni dignitose con i progetti “Mia Casa- mia Vita” e “Luce per
Tutti”. Oltre a ciò, la creazione di 17 nuove università federali e
decine di scuole tecniche con vari progetti che hanno permesso a
poveri e neri di inserirsi in percorsi scolastici superiori. Specialmente
il riscatto della dignità dei poveri, intenzione primaria di Lula, sta
essendo distrutto perché milioni dalla povertà sono ritornati alla
miseria. Il Brasile che era uscito dalla mappa della fame, è tornato
nuovamente, secondo la FAO, alla mappa della fame.

Sul piano economico si è affidato all’ultra liberista Gaudes.
Gaudes è un “Chicago Boy” (sono quelli che hanno sostenuto la
politica economica di Pinochet). Come si sta muovendo
Gaudes?

Guedes è un portavoce, non del liberismo tradizionale e
convenzionale. Lui, seguendo la scuola di Chicago, propone un ultra-
neo-liberismo, una specie di capitalismo selvaggio nello stile di quello
di Manchester, criticato da Karl Marx. Il capitalismo brasiliano mai fu
civilizzato, sempre è stato altamente accumulatore di ricchezza, non
ha permesso tantomeno la lotta delle classi, poiché subito la faceva a
pezzi. Guedes viene da settori che pensano cosi. Lui concentra tutte
le sue politiche nel mercato e nelle privatizzazioni dei beni pubblici
(petrolio, gas, terre, imprese nazionali), minacciando di privatizzare
tutta la Petrobrás, le Poste, il Banco do Brasil, la Banca ufficiale del
Governo). Propone una riforma della Previdenza (delle pensioni) che
pregiudica i più poveri, gli operai, i contadini, gli insegnanti e gli
anziani, trasferendo grandi fortune alle classi più agiate. Dietro a
Guedes sta un’oligarchia brasiliana che è considerata una delle più
egoiste, non solidale e che più si arricchisce al mondo.

Che rapporto ha Bolsonaro con la lobby delle armi?

Sono molti analisti e psicanalisti che vedono Jair Bolsonaro preso da
una paranoia: vede comunisti da tutte le parti, considera il nazismo
un movimento di sinistra e come simbolo durante la campagna elettorale e anche come Presidente usa le dita della mano a forma di
arma. Il primo decreto come capo di Stato ha stabilito il diritto di
ciascun cittadino di possedere fino a quattro armi, come forma per
diminuire la violenza in Brasile. Questo è un assurdo, poiché
favorisce la violenza ed effettivamente, si è legittimato a partire
dall’alto, una cultura della violenza da parte della polizia che uccide
molti giovani neri delle favelas, sospetti di traffico di droga, giovani tra
i 17 e 24 anni. Solo nel gennaio del 2019 sono stati uccisi 119 di
questi ragazzi. La paranoia si caratterizza per un’idea fissa che non
esce dalla testa anche quando si vede una realtà che la contraddice.
Bolsonaro ha visitato il museo dell’Olocausto a Gerusalemme che
mostra come 6 milioni di ebrei sono morti a causa del nazismo.
Uscendo ha riaffermato, scandalizzando le autorità ebraiche, che il
nazismo è di sinistra. In seguito, ha pregato che dobbiamo perdonare
lo sterminio nelle camere a gas, anche se non dobbiamo
dimenticarlo. Questa dichiarazione ha scandalizzato non solo gli
ebrei ma tutto il mondo.

I diritti civili della comunità LGBT sono in pericolo ora in
Brasile?

L’istigazione all’odio, le diffamazioni e l’utilizzazione di migliaia di
fake news e di bugie contro il Partito dei Lavoratori, e la dichiarazione
di perseguire i portatori di altre condizioni sessuali, i LGBT, ha fatto si
che la violenza, già esistente nel paese (solo nel 2018 ci sono stati
60 mila assassinati in Brasile), aumentasse e guadagnasse
legittimazione a partire dall’alto. Per questo molti omosessuali sono
morti in strada o perseguitati, generando una grande paura tra questa
comunità. Molti indigeni e quilombolas (abitanti di antichi rifugi di
schiavi) hanno visto le loro terre invase e molti sono morti, senza che
ci sia stata alcuna indagine, in una situazione di maggiore impunità.

Sappiamo che Bolsonaro sta mettendo a rischio le popolazioni
indigene dell’Amazzonia. Infatti il FUNAI (Fundação Nacional do
Índio) è stato depotenziato. C’è un grande rischio per
l’Amazzonia?

Bolsonaro non possiede nessuna comprensione di cosa sia l’indigeno
e la cultura indigena. Crede che debbano essere brasiliani come
qualsiasi altro, senza rispettare la loro identità, le loro tradizioni e i
loro territori. Non sa che il territorio appartiene all’identità indigena e
che, pertanto, deve essere rispettato. Lui crede che loro abbiano un

sovrappiù di terre. Non riconosce le demarcazioni ufficiali e sta
permettendo la penetrazione d’imprese straniere per lo sfruttamento
di risorse minerarie, di legname pregiato e altri minerali rari,
importanti per le nuove tecnologie. Bolsonaro è completamente
ignorante rispetto alle questioni ecologiche. Per questo è quasi certo
che soffrirà grande pressione mondiale dei principali governi che
sanno che alla preservazione dell’Amazzonia e della sua biodiversità
è legato il futuro della vita e dell’equilibrio climatico del pianeta Terra.
Dovrà fare marcia indietro, nonostante la pressione delle grandi
corporate globali che vogliono sfruttare l’Amazzonia all’interno del
paradigma della deforestazione e estrazione delle ricchezze naturali
in funzioni dell’arricchimento privato.

E l’opposizione a Bolsonaro come si sta comportando?

Tutti i politici sono perplessi. Le dichiarazioni di Bolsonaro d’elogio a
torturatori e la sua esaltazione del porto d’armi indiscriminato erano
considerate un vanto e l’eccesso di un paranoico, che non dovevano
essere prese sul serio. È successo che si è candidato. È stato
appoggiato per l’oligarchia nazionale, pensando che avrebbe potuto
facilmente manipolarlo. Ha approfittato della corruzione generalizzata
nel paese per colpevolizzare di ciò il PT, facendolo diventare il capro
espiatorio, appellandosi all’inaugurazione di una nuova politica, ha
fatto in modo da suscitare il senso di colpa nell’anima brasiliana e
conquistare i voti che gli garantirono la vittoria. È stato uno shock per
tutto il pensiero politico brasiliano, giacche mai abbiamo avuto un
governo di estrema-destra e totalmente sottomesso alla logica degli
interessi nord-americani. Jair Bolsonaro, di fronte alla crisi nazionale,
ha riconosciuto che non è fatto per essere presidente, ma per essere
un militare. É importante dire che nemmeno come militare vale, visto
che fu espulso dall’esercito per indisciplina e, solo dopo una dubbia
negoziazione con il Supremo Tribunale Militare, fu pensionato invece
di essere espulso. La previsione dei migliori analisti è che non resterà
a lungo al potere, perché i militari e gli stessi alleati e soprattutto
l'opinione pubblica, lo vedono come un impedimento allo sviluppo del
paese e, per le sue dichiarazioni di estrema destra, si è trasformato in
una vergogna internazionale. O ci saranno nuove elezioni o i militari
assumeranno il potere, senza trovare il cammino per tirarci fuori dalla
peggiore crisi politico-economica della nostra storia.

(Traduzione dal Portoghese di Gianni Alioti)

“Nella guerra in Libia tutti ‘giocano sporco’ “. Intervista a Michela Mercuri.

Libia, milizie governative in un sobborgo della capitale Tripoli (MAHMUD TURKIA / AFP / Getty Images)

Come si svilupperà il conflitto armato in Libia scatenato da Haftar? Quali sono gli interessi in gioco? Di questo parliamo, in questa intervista, con la professoressa Michela Mercuri. La professoressa Mercuri è docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro “Incognita Libia – cronache di un paese sospeso” (2017).

Professoressa, la Libia torna a bruciare. Come si è arrivati a questo punto?
Dopo l’ultimo vertice sulla Libia (la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre) sembravano essere stati realizzati alcuni minimi passi avanti nel dialogo politico per la “stabilizzazione” del Paese: una road map che prevedeva un percorso istituzionale per condurre a elezioni e una maggiore collaborazione tra le parti anche in tema di sicurezza. In quell’occasione, il generale Khalifa Haftar aveva addirittura accettato che al-Serraj potesse essere riconfermato alla guida del consiglio presidenziale almeno fino alle elezioni. Il percorso sembrava ormai tracciato. Eppure la Libia ci insegna che le cose possono mutare con una rapidità spesso sconosciuta alla storia. L’errore, per lo meno dell’Italia, è stato quello di sottovalutare le minacce di avanzata di Haftar di cui, invece, erano a conoscenza i suoi alleati, Francia compresa. Sapevamo da tempo che Haftar era oramai l’uomo forte della Libia, lo avevamo “agganciato” a Palermo, seppure con la probabile intercessione di Putin, ma poi ci siamo arroccati di nuovo sulle nostre posizioni per difendere i nostri interessi a Tripoli da cui l’Eni estrae circa il 70%del greggio e da cui partono (o per lo meno partivano) la più parte dei migranti diretti verso le nostre coste. Non riuscire a tessere la rete diplomatica per fermare l’avanzata di Haftar e aver continuato a guadare solo alla capitale, sono stati gli errori italiani che hanno favorito il caos che al momento regna nel Paese. Forse non avevamo gli strumenti per evitarlo, ma quantomeno avremmo dovuto operare qualche sforzo in più.

Il protagonista, il generale “gheddafiano”, Khalifa Haftar è stato da poco in Arabia Saudita. Ha incontrato il controverso principe ereditario bin Salman. E’ andato a battere cassa. Insomma Haftar ha cercato l’appoggio dell’ Arabia Saudita (ed anche degli Emirati Arabi) per estendere il suo potere. Per qualche osservatore internazionale, però, questo conflitto libico ha tutti i connotati di una guerra per procura…. Per lei? INSOMMA, CHI GIOCA SPORCO IN LIBIA?
In Libia tutti gli attori regionali e internazionali che sponsorizzano le varie fazioni “giocano sporco” fin dal 2011. Dalla caduta del rais, i fili della Libia sono tenuti dai gruppi di potere locale in una serie di alleanze a geometria variabile con vari player internazionali che oramai fanno affari con le singole milizie e a volte con gli stessi signori della guerra, perpetuando la divisione del Paese. Dalla Francia, alla Russia, all’Italia, passando per il Qatar, la Turchia, l’Egitto, gli Emirati arabi e l’Arabia saudita, tutti sembrano più interessati ad assicurarsi l’appoggio di leader locali che a progettare insieme un percorso per la stabilizzazione, parola che oramai è divenuta un mantra vuoto di significato. È una vera e propria guerra per procura che ultimamente sta vedendo come protagonisti soprattutto i cosiddetti attori regionali: sauditi ed emirati finanziano Haftar per estendere il loro potere nel paese e per affermarsi sulla fratellanza musulmana che sostiene alcune fazioni di Tripoli, a loro volta supportate da Qatar e Turchia. È uno scenario poco edificante che, per certi versi, ricorda quello siriano.

Che interesse ha l’Arabia Saudita in Libia? Un interesse politico e “religioso?
C’è un aspetto fin qui poco considerato. Riad è la culla del madkhalismo, una corrente di stampo salafita ultraconservatrice (Salafiyya Madkhaliyya), fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, considerato da molti al soldo della casa reale saudita. Insediatisi in Libia già negli anni Novanta sotto il regime di Muhammar Gheddafi, che li utilizzava strumentalmente in chiave anti fratellanza musulmana, i madkhalisti sono ancora forti e presenti in Libia. La longa manus saudita, attraverso i loro appartenenti, tra cui almeno uno dei figli di Haftar, influenza gli equilibri interni, fornendo ingenti somme di denaro ad alcuni gruppi dell’est e dell’ovest, manipolando gli assetti interni e bypassando le divisioni locali. Attraverso le forze fedeli al generale, i sauditi vogliono allargarsi nel Paese, per indebolire la fratellanza musulmana sostenuta, in particolare, da Qatar e Turchia. Il crescente potere dei madkhalisti in Libia dovrebbe portarci a una riflessione. L’influenza degli Stati del Golfo, e in particolare dei sauditi, negli affari di sicurezza dell’ex Jamahiriya è stata sottovalutata dagli attori internazionali concentrati sulla sconfitta dello Stato islamico e sulla riconciliazione delle divisioni politiche. Tuttavia, anche le crescenti fratture nelle fazioni islamiste meritano attenzione poiché potrebbero essere la causa di questa escalation di violenze.

Altre potenze, come ha detto prima, sono interessate alla Libia: la Russia di Putin, per ragioni geopolitiche, O per altri motivi?
Prima ho illustrato gli interessi del Golfo ma, in realtà, tutte le potenze internazionali e regionali sono interessate in qualche modo alla Libia per motivi diversi. In primis la Russia che ha fin qui sostenuto Haftar per interessi economici e geostrategici. Da un punto di vista economico Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio dalla Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie ai tanti impianti dell’est libico, ricco di petrolio. Inoltre, Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra contro la fratellanza musulmana e la Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea, poi, Haftar è il complemento ideale all’asse con l’Egitto di al-Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la questione dello sbocco sul mare. La Russia, intervenendo militarmente nel conflitto siriano, accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, vitale sbocco sul mare. Perché non approfittare del generale di Haftar per ricavarsi un altro “porto sicuro” nella Cirenaica? In questo momento, però, anche il Cremlino si trova in una fase di impasse. Il recente incontro tra Putin ed Erdogan (che sostiene Tripoli e dunque gli avversari dei russi) potrebbe placare gli animi. In ballo ci sono molti interessi: la fornitura ad Ankara dei missili russi S-400 e il gasdotto South Stream. Per questo Putin, per mettere in salvo gli affari con la Turchia, potrebbe aver chiesto al generale di fermare la sua offensiva. Sono ipotesi ancora tutte da verificare ma che potrebbero far pensare a un minimo passo indietro del Cremlino nel sostegno ad Haftar.

Al Sharrai ha dato del complice a Macron. Lei pensa che la Francia voglia destabilizzare Tripoli per li pozzi di petrolio? Per contrastare l’italiana Eni? Mi sembra una scelta suicida peggio di quella che fece Sarkozy contro Gheddafi.. Come vede il ruolo della Francia.
Oramai sappiamo bene che la Francia ha spinto per l’intervento in Libia nel 2011 per i propri interessi nazionali, soprattutto energetici, cercando di marginalizzare l’Italia ed ha continuato a farlo sostenendo Haftar che poteva garantire il controllo dei giacimenti dell’est e della sirtica. Nella situazione attuale, però, credo che anche la Francia rischi qualcosa. Se da un lato l’Eliseo conosceva senza dubbio i piani di “espansione territoriale “ di Haftar, dall’altro, ora, con una guerra civile in corso, che secondo molti potrebbe protrarsi ancora per un po’ di tempo e assumere le sembianze di una guerra “a bassa intensità”, rischia di perdere il suo alleato di ferro. Haftar, infatti, aveva fin qui giustificato la sua azione presentandosi come il “salvatore della patria” per fare perno su una popolazione stanca del caos e dello strapotere delle milizie e sull’incapacità di Serraj di controllarle e riportare la pace a Tripoli. Portando avanti una avanzata così aggressiva, però, rischia di perdere il consenso di una parte della popolazione e di alcune delle milizie che fin qui lo hanno appoggiato. Se Haftar perdesse parte del potere e parte del controllo del territorio, la Francia, sua alleata, perderebbe posizioni Libia, viceversa accrescerebbe la sua egemonia nell’area. Solo il tempo, dunque, potrà dirci se è una scelta suicida.

In tutto questo caos gli USA se ne lavano le mani, ritirano il piccolo contingente militare. Tutto è coerente la politica neoisolazionista di Trump. È così professoressa?
Gli Usa non hanno mai avuto a cuore la questione libica, specie con l’amministrazione Trump. A ben guardare, però, dietro a questa mossa potrebbe esserci di più. L’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina, ha posizioni divergenti da quelle americane sulle sanzioni alla Russia o sul destino di Maduro e questo infastidisce non poco Trump. Perciò, seppure il presidente americano sia stato uno dei principali alleati dell’Italia per la realizzazione della conferenza sulla Libia – tanto che l’idea era nata in occasione della visita di Conte a Washington nel luglio del 2018 – ora le cose sono cambiate e l’Italia difficilmente potrà contare su Trump. Inoltre, va ricordato anche che il presidente americano è molto più interessato alla partnership con i sauditi che a quella con l’Italia. Riad è tra gli alleati e finanziatori di Haftar e tra quelli che lo hanno aiutato in questa avanzata. Tuttavia, per mantenere le vitali relazioni economiche con Riad Trump potrebbe aver chiuso più di un occhio sulle minacce del generale. Gli americani, oltre al ritiro del contingente di Africom, hanno nominato un ambasciatore straordinario a Tripoli, ma questo non è tanto un segnale di vicinanza all’Italia quanto piuttosto un avvertimento al Cremlino.

L’Italia non sembra all’altezza della situazione. Per il governo italiano, o meglio per questo governo populista, la Libia è solo una diga contro l’immigrazione. Quali sono stati gli errori italiani in Libia?
Il governo italiano, come ho detto all’inizio, dopo il parziale successo della conferenza di Palermo ha preso un po’ “sottogamba” la questione libica. Si è forse accontentato di aver bloccato gli sbarchi senza guardare ciò che accadeva oltre la costa. Secondo alcuni analisti, tuttavia, i nostri servizi erano a conoscenza delle intenzioni del generale e avevano informato il governo. L’Italia, però, potrebbe non essere stata in grado di evitare tale escalation a causa del mancato supporto degli alleati, specie degli Usa fin qui vicini alla posizione del nostro governo in Libia e ora molto più distaccati per i motivi sopra ricordati.

C’è il rischio di una espansione del conflitto?
Credo che il conflitto abbia raggiunto la sua massima e (forse) inaspettata espansione. Nella migliore delle ipotesi si manterrà per un po’ di tempo, perlomeno finché le forze sul campo – le milizie di Misurata e l’esercito di Haftar- potranno giovare degli aiuti esterni. Viceversa, ipotesi forse più remota, si potrebbe giungere a un minimo compromesso, una sorta di “tregua armata”, mediata dagli attori internazionali, capace di portare alcune delle fazioni in lotta a Ghadames per la tanto agognata conferenza che dovrebbe svolgersi dal 14 al 16 aprile. Vorrei però evidenziare che al momento i segnali non sono positivi. Nelle ultime ore si è aperto un nuovo fronte per Haftar a Sirte, dunque da est e non dal sud rispetto a Tripoli, Ci sarebbero stati bombardamenti anche in questa zona, al momento circondata dalle forze del generale. Anche Sirte è difesa da Misurata e dunque potrebbe essere un nuovo “fronte caldo” capace di ostacolare qualunque tentativo di mediazione.

Ecco perché la Merkel vincerà le elezioni in Germania. Intervista a Udo Gumpel

Angela Merkel, cancelliere tedesco

Angela Merkel, cancelliere tedesco (Gettyimages)

La Germania il prossimo 24 settembre andrà al voto per eleggere i nuovi rappresentanti del Bundestag (il Parlamento Federale). Salvo clamorose smentite Angela Merkel, Cancelliere uscente, dovrebbe riconfermarsi, per la quarta volta, Cancelliere. Quali sono le ragioni della sua, molto probabile , vittoria? Ne parliamo  con il giornalista Udo Gumpel , corrispondente dall’Italia per RTL n-Tv.

Tra poco più di dieci giorni la Germania andrà alle urne. Stando ai recenti sondaggi dovrebbe vincere il partito di Angela Merkel, la CDU. Eppure, fino a poco tempo fa, si parlava di un “effetto Schulz”, candidato della SPD, in grado di impensierire la Cancelliera Merkel. Ma è davvero tutto così scontato?

L’effetto “Schulz” è esistito, per alcune settimane. Era (ed è) il chiaro segnale dell’elettorato  tedesco che desidera un’alternativa alla Merkel, ma non una di tipo radicale. Schulz ha avuto il “vantaggio” di esser stato fino a quel momento quasi “sconosciuto” alla politica nazionale tedesca, essendo stato per un lungo periodo Presidente del Parlamento Europeo. Ma Schulz non ha potuto inventarsi un nuovo partito, e una politica davvero nuova. L’SPD governa insieme alla CDU della Merkel ed è impossibile, come si è visto nel faccia-a-faccia in tv dei due, distinguersi troppo: la politica del governo tedesco era anche la sua, dell’SPD. Dunque l’SPD è tornato ai suoi valori da 10 anni, 20-25%, che sarebbe sempre un buon risultato, ma non sufficiente a sconfiggere la CDU che è tornata alle sue percentuali degli ultimi anni: 35-40%.

Quali sono,  secondo te, i motivi (ovvero i punti a favore) della possibile vittoria della Signora Merkel?

La Merkel ha svuotato sistematicamente il serbatoio degli argomenti forti degli avversari storici: è più sociale dell’SPD, o almeno alla pari, è più verde dei Verdi, avendo promosso una politica dell’uscita dal Nucleare, ed è anche abbastanza nazionale – nei confronti della Turchia per esempio o della Russia – per esser ancora attraente per molti conservatori. Aveva perso smalto con “l’accoglienza” dei profughi, ma questo tema è finito: oggi la Germania ha bisogno di immigrati, la natalità è da 5 anni in forte crescita, ma non basterebbe  di sicuro. Il cambiamento di opinione è in atto, lentamente, a favore della Merkel. Poi c’è l’argomento a suo favore più forte: Lei è “l’usato sicuro”, è rassicurante. È lenta, ma sicura, nelle sue decisioni. Sotto la sua guida la Germania è diventato un paese leader nel Mondo, un paese da “soft-power”, come piace ai tedeschi e fa molto meno paura ai partner europei.

Perché Martin Schulz non è riuscito a proporsi come reale alternativa di Angela Merkel?

No, perchéé il suo partito non è una vera alternativa, soltanto alcuni punti sono diversi, nel sociale, ma sono differenze meno importanti.

La Merkel, indubbiamente, ha dimostrato una grande capacitàà tattica. Per esempio, su un tema caldo come quello dell’immigrazione, che per altri governi europei invece è fonte di difficoltàà, la Cancelliera ha dimostrato di saperlo gestire. Un merito non da poco. Qualche osservatore politico tedesco afferma che questa capacitàà di gestione è dovuta al fatto che ha lasciato fare il “lavoro sporco” di contenimento dei profughi ad Erdogan. Sei d’accordo con questa affermazione?

Non molto, perchéé il vero lavoro sporco lo hanno fatto i paesi balcanici che hanno chiuso la rotta ben prima dell’accordo con Erdogan. Erdogan ha invece incassato

il dividendo dei cattivi, in questo la sua posizione è meno forte di quanto possa sembrare. Se lui “aprisse” i confini, come ha giàà minacciato in varie occasioni, i profughi arriverebbero in Grecia, e la finirebbero. E allora le sue minacce sono vuote. E lo sa pure lui.

Nell’opinione pubblica europea si dice che il “centro” (la Merkel) fa la “sinistra”. È un paradosso, visto dall’Italia. Ma, secondo te, ha un fondamento?

La CDU è da sempre stato un partito con una fortissima connotazione sociale, le etichette “centro e sinistra” non si applicano bene. Alcune delle misure più forti, colonne del sistema sociale tedesco, come per esempio il”Bafoeg” (sussidi agli studenti per lo studio, dato a più di un milione di giovani, fino a 650 euro al mese),sono state “inventate” dai Democristiani.

Parliamo della società tedesca. Alcune analisi fanno osservare che sotto la coperta di un benessere molto diffuso si intravedono crepe che possono mettere in crisi la stabilità tedesca. Qual è, secondo te, la più grave delle minacce alla stabilità?

Le crepe del sistema sociale sono insite nella diffusione della ricchezza nazionale, che non è molto difforme da quella italiana, un decimo della società possiede metà della ricchezza nazionale, ma il contesto è diverso: il senso di ingiustizia e di esclusione è più forte in una società che nel suo insieme cresce bene. Quando tutti stanno male, ci si lamenta di meno. Quel quarto della società che si sente – a ragione – escluso dalla distribuzione della crescente ricchezza è serbatoio di voti di protesta, sono spesso persone più anziane, meno acculturate, abitanti delle regioni ex-comuniste che, nonostante la decennale propaganda “internazionalista” ,vedono oggi un tasso di voti per partiti di estrema destra decisamente più alti della media.

Quanto pesa il populismo in Germania? Come si alimenta?

Anche in Germania i populisti sono riusciti a mettere i loro temi – migrazione, identità nazionale – al centro del dibattito. Elettoralmente sono però piuttosto deboli. Tutti gli altri partiti “tradizionali” Spd, Cdu, Fdp,Verdi, Die Linke rappresentano il 92% dei votanti, e sono ancorati ai valori della Costituzione. Da notare è l’AfD, che sarebbe l'”Alternativa per la Germania”, nasce come partito anti-Euro, anti Sud Europa, contro gli spreconi del “Club Med”, e solo a partire dalla forte migrazione verso la Germania trova nella lotta contro i migranti e l’Islam il suo nuovo tema.

La Merkel riuscirà a contenerlo?

Non la Merkel, ma la società tedesca che è sana al suo interno. Oggi 30 milioni di tedeschi sono, in qualche forma, impegnati nell’accoglienza dei 2,5 milioni di profughi che sono arrivati e rimasti in Germania. Ricordiamoci sempre che, del mezzo milione di profughi via mare che sono arrivati in Italia, meno di un quinto è poi effettivamente rimasto in Italia, gli altri sono migrati verso il Nord Europa.