“Navalny è la nemesi di Putin”. Intervista ad Anna Zafesova

Proprio nel giorno del compleanno dell’oppositore Aleksey Navalny, Vladimir Putin ha promulgato una legge che vieta a chi aderisce a organizzazioni “estreme” di partecipare alle elezioni: una misura che secondo l’opposizione è un mezzo per neutralizzare candidati scomodi, prima delle elezioni legislative di settembre.

La legge, passata alla Duma a maggio e mercoledì 2 giugno in Consiglio della Federazione, è stata pubblicata una volta firmata dal presidente russo. Questo testo vieta l’elezione a persone coinvolte in un’organizzazione “estremista”.

Uno stretto alleato di Alexey Navalny residente in Lituania, Leonid Volkov, ritiene che Putin abbia intenzionalmente firmato la legge il giorno del compleanno di Navalny.

Nel frattempo è già in corso una richiesta per classificare le organizzazioni di Navalny come “estremiste”, in particolare il suo Fondo per la lotta contro corruzione (FBK) che ha accusato il presidente russo di uno stile di vita “da zar”.

Continua, anche con questa “legge anti Navalny”, dunque la trasformazione, in senso dittatoriale, del regime guidato da Vladimir Putin. Ma che notizie abbiamo di Alexey Navalny? La Russia di Putin sta diventando una dittatura? Quale sarà il futuro della Russia?

Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con la giornalista Anna Zafesova, autrice di un bel saggio, appena uscito nelle librerie, “Navalny contro Putin” (Ed. Paesi, pag. 160. € 16,00). Anna Zafesova  è Giornalista e massima esperta in Italia di Russia e Putin, dopo esperienze con diversi giornali sovietici e italiani, dal 1992 scrive per La Stampa ed è analista politica per Il Foglio e Linkiesta.Fino al 2004 è stata corrispondente del quotidiano torinese a Mosca, dal 2005 vive e lavora in Italia. A lei si devono importanti libri tradotti dal russo, come I cinocefali e ha firmato la postfazione de Nel primo cerchio di Aleksandr Solzenicyn (Voland, 2018).

Per prima cosa ti chiedo se hai, per quanto è possibile, notizie sulle condizioni di Alexey Navalny?

Le notizie che possiamo avere sulle condizioni di Alexey Navalny sono, purtroppo, quelle che ci arrivano ormai quasi tutti i giorni dalla Russia, sulle nuove incriminazioni e processi contro di lui e i suoi seguaci. L’ultima volta, è apparso in aula qualche giorno fa in videoconferenza, collegato dalla prigione di Vladimir dove sta scontando la condanna. È riuscito a ottenere dalla prigione di ricevere i libri che ha chiesto e i giornali senza ritagli, mentre i giudici si sono rifiutati di revocare i controlli che impongono ai secondini di svegliarlo fino a otto volte ogni notte per verificare che non sia evaso dalla cella. Ma soprattutto sono i suoi seguaci a venire colpiti, con la proclamazione della sua Fondazione anticorruzione e dei suoi centri regionali come “organizzazioni estremiste, e il bando a chiunque avesse partecipato, finanziato o anche solo appoggiato la loro attività a candidarsi in qualunque elezione.

Appunto la scorsa settimana la Duma ha approvato una “legge anti Navalny” per impedire alla sua lista di partecipare alle elezioni. Insomma sempre più la Russia sta diventando una dittatura?

La Russia sta compiendo la transizione da un autoritarismo alla dittatura, avvenuta in pochi mesi, con una velocità sconcertante, sotto gli occhi della comunità internazionale. In questo momento, i giudici stanno mettendo fuori legge le organizzazioni di Navalny con la giustificazione che “volevano cambiare il potere politico” e “formare un’opinione pubblica favorevole a cambiare il potere politico”. In altre parole, fare opposizione è diventato un reato penale. Il Cremlino ha rapidamente smantellato quella parvenza di democrazia che esisteva almeno sulla carta: oggi, il diritto a manifestare, a esprimere opinioni, a partecipare ad associazioni, è stato tolto. Diversi media e ONG sono stati proclamati “agenti stranieri” e “organizzazioni indesiderabili”, e se la prima etichetta tecnicamente non proibisce l’attività – ma la rende impossibile perché collaboratori, partner e sponsor hanno paura ad avere rapporti con un’entità malvista dalle autorità – la seconda comporta condanne alla prigione, anche per chi ha partecipato ad attività “indesiderabili” all’estero. Migliaia di persone sono state arrestate, condannate, espulse dall’università o licenziate per un post sui social, o per essere scesi in piazza, o soltanto per essersi iscritti sul sito di Navalny. Gli oppositori che vogliono candidarsi alle elezioni vengono arrestati e incriminati, e secondo il politico Dmitry Gudkov – arrestato con un’accusa falsa e poi spinto a fuggire all’estero – “oggi fare politica in Russia è fisicamente impossibile”.

Come si spiega questa drammatica “evoluzione”?  Quali fattori stanno alla base di questo passaggio?

Il fattore principale è il sistema politico che si basa sull’assenza di democrazia. Minacciato, non fa che aumentare il grado di repressione. E viene minacciato, perché dopo più di vent’anni di assenza di alternative, i russi sono più poveri e meno liberi, i problemi sociali e la corruzione non sono stati risolti e l’isolamento internazionale è aumentato. Il consenso putiniano sta sparendo insieme alla generazione che in buona parte l’ha sostenuto, ma in assenza di meccanismi democratici invece di apportare cambiamenti il regime aumenta la pressione su coloro che non lo sostengono. Un’involuzione che la protesta guidata da Navalny ha drammaticamente accelerato: non erano più poche centinaia di intellettuali dissidenti moscoviti, ma un movimento vero, massiccio, trasversale socialmente e geograficamente, che ha mandato in crisi un autoritarismo che si basa sull’assenza di qualunque alternativa.
Veniamo al tuo libro. Abbiamo già detto che i protagonisti del libro sono Putin e Navalny. Parliamo per un attimo di Putin. I critici del suo potere lo chiamano “il vecchio nel bunker”. Perché?

Un “nonno nel bunker”, a essere precisi. È una rappresentazione brutale, ma efficace, del ruolo che ha assunto, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo di pandemia: un leader lontano dalla realtà, fisicamente e mentalmente, sempre più distaccato rispetto al Paese reale, sempre più assente dal Cremlino, sempre più ossessionato da ideologie e nostalgie sovietiche che lo rendono perfino più vecchio della sua non elevatissima età anagrafica. Una critica che prende di mira sia il regime personalistico del suo potere – dopo un ventennio, ha emendato la Costituzione per poter restare alla presidenza fino al 2036, affermando che la Russia è troppo fragile per potersi permettere l’alternanza al potere – ma anche la sua fragilità di un leader costretto ormai alla difensiva, rispetto a una Russia che vuole modernizzarsi.

Veniamo a Navalny. Un leader agli antipodi di Putin. Un leader giovane con grande capacità di comunicazione. Spesso è stato erroneamente definito come un populista. A me sembra una definizione sbagliata. Come lo definiresti?

Navalny è molto difficile da definire, perché è un leader talmente moderno da anticipare i manuali di politologia. Il termine “populista”, d’altra parte, è stato negli ultimi anni troppo abusato dai media. Navalny è un populista nel senso che la sua politica, e la sua comunicazione, sono rivolti all’opinione pubblica, alle masse e non alle lobby, il suo è un “potere dal basso”, e il messaggio di denuncia della corruzione lo accomuna a certi populisti occidentali, con la differenza che in Russia la corruzione è un fenomeno onnipresente, e non combattuto. Navalny è un politico 4.0, impossibile da immaginarsi senza Internet, lo strumento che oppone alla forza bruta del potere sono i like e le visualizzazioni, le parole d’ordine che corrono sul web, la condivisione del messaggio che si basa sull’ironia e l’organizzazione virale anche nell’offline. Dei populisti e sovranisti occidentali non ha la nostalgia: quella è l’arma putiniana, alla quale contrappone l’utopia della “splendida Russia del futuro”, che descrive come “un Paese europeo”, una definizione che dall’Europa può apparire vaga, ma che in Russia assume connotati ben precisi: elezioni libere, tribunali indipendenti, stampa senza censura, concorrenza politica e tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Qual è “l’arma” più forte di Navalny che ha messo in agitazione il potere russo?
Una comunicazione chiara e avvincente, di un messaggio che tocca tutti: Navalny ha abbandonato l’elitismo che contraddistingue molti liberali russi dei decenni precedenti. È stato il primo a capire che senza l’inclusione nel discorso politico di un’agenda sociale, di rivendicazioni di tutela dei deboli, di giustizia nelle retribuzioni e nell’accesso al welfare, di rispetto per tutti i cittadini, non sarebbe mai nato un movimento d’opposizione di massa, più ampio dei salotti di Mosca e Pietroburgo.
Indubbiamente Alexey Navalny ha carisma e una grande forza etica. Come si esprime questa forza etica? Con quale messaggio?
È un’etica della testimonianza: Navalny è in carcere, è tornato in Russia sapendo che andava incontro all’arresto. Nessuno lo avrebbe criticato se dopo l’avvelenamento avesse preferito rimanere al sicuro in Germania. Prima, aveva trascorso mesi ai domiciliari e in prigione, a più riprese. Aveva rischiato insieme a quelli che chiamava a scendere in piazza, la sua immagine era quella di un giovane di periferia, come i suoi sostenitori, e non di un raffinato intellettuale che trascorre il tempo nelle capitali europee. Il suo coraggio personale gli ha attirato le simpatie anche di persone che non condividono il suo messaggio politico: in un Paese dove la corruzione e il privilegio non vengono nemmeno nascosti, un personaggio che paga in prima persona il prezzo di quello che sta facendo è forse più dirompente di qualunque propaganda.
Che ruolo gioca la sua famiglia nel suo impegno?

Un ruolo molto importante. Navalny è un politico 4.0, e questo significa che l’immagine è parte imprescindibile del suo operato, in un mondo dove personaggio e messaggio non sono più distinti. I Navalny sono un modello di famiglia di ceto medio russo, e insieme al capofamiglia fanno da testimonial alla denuncia del privilegio di nomenclatura e oligarchi: il loro trilocale in periferia, le vacanze in Thailandia o sul Baltico, i pranzi in pizzeria la domenica, sono tutti momenti in cui tantissimi russi possono riconoscersi. Ma sono anche – tranne il teenager Zakhar- attivisti della politica. La moglie Yulia è diventata un’autentica First Lady dell’opposizione, molto seguita nel suo stile sobrio e nel rapporto di complicità che ha con suo marito, e mischia il ruolo di moglie tradizionale che segue il marito nella buona e nella cattiva sorte con una grinta da pasionaria: è stata lei a chiedere, direttamente e duramente, a Vladimir Putin di permettere a suo marito, in quel momento in coma dopo l’avvelenamento, di venire curato in Germania. La figlia Dasha, coetanea dei ventenni che scendono in piazza, ha esordito nella politica internazionale accettando per conto di suo padre il premio per i diritti umani che gli è stato conferito a Ginevra: il suo è stato un discorso appassionato e nello stesso tempo serio e composto, in un inglese disinvolto (sta studiando a Stanford), ma si sente anche a suo agio su Tik Tok. Il fratello di Alexey, Oleg, già reduce da quattro anni di carcere per un processo politico, è ora di nuovo agli arresti, e la loro madre Liudmila è scesa in piazza a Mosca.

Quali sono stati gli errori compiuti dal giovane leader russo?

L’errore principale viene forse dalla stessa radice della sua forza: è un politico che si appoggia non su lobby e strutture di potere, ma sull’opinione pubblica, e potrebbe aver sopravvalutato la sua potenza: quanto possono resistere i milioni di like ai manganelli e alle sbarre di una prigione? Lo schema di Navalny era quello di creare una corrente di opinione pubblica sufficientemente potente da influenzare l’esito delle elezioni, e da poter ottenere in piazza che queste su svolgano senza brogli. Oggi, protestare in Russia è illegale, e le elezioni non conservano più nemmeno una parvenza di democrazia. Un’involuzione probabilmente inevitabile, che lo scontro con Navalny ha accelerato. Il movimento di Navalny ora è ufficialmente fuorilegge, e si tratta di capire come tener viva la protesta, senza mettere a rischio migliaia di persone, nel lungo inverno della dittatura.

Siamo alla fine della nostra conversazione, tu hai affermato nel libro che “l’ora X della Russia contemporanea scatta all’alba del 20 agosto 2020, quando Alexei Navalny perde conoscenza” sull’areo. Pensi davvero che sia cominciato il conto alla rovescia per il regime nazionalista di Putin?

Il conto alla rovescia è iniziato molto prima, e il fatto che Navalny da “blogger” come la propaganda russa spesso insiste a chiamarlo sia diventato talmente pericoloso da mandargli dei killer lo dimostra. Però il tentativo fallito del suo avvelenamento è un punto di svolta: è il momento in cui il regime si gioca tutto, in primo luogo la reputazione internazionale, pur di eliminare un uomo che considera troppo pericoloso. E paradossalmente, cercando di ucciderlo, lo trasforma in un eroe agli occhi del mondo. Da quel momento in poi, il Cremlino gioca in difensiva, e anche nel momento in cui fa terra bruciata della protesta resta evidente come ormai il suo unico obiettivo sia quello di reprimere il dissenso, non più di proporre una propria agenda, ma di conservare uno status quo che gli sta sfuggendo di mano.

Quale sarà il futuro di Alexey Navalny? 

Il futuro di Alexey Navalny è quello che è il suo presente: è il leader e il simbolo di un movimento di protesta, il detenuto politico più celebre al mondo, l’alternativa a Vladimir Putin. Come Andrey Sakharov e Aleksandr Solzhenitsyn, come Lech Walesa, come Vaclav Havel e Alexandr Dubcek: è la nemesi del regime, il Davide che sfida Golia, il nome che i russi scrivono sui muri e sulla neve. Sarà la voce del dissenso, il simbolo del cambiamento e – se sopravvive – il garante della transizione. Questo è il suo destino politico. Su quello personale, ci sono molte più incertezze e timori: per il momento, la sua sopravvivenza dipende dal fatto che gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla sua prigione, e quasi sicuramente ne uscirà soltanto con la fine del regime.

Capire la Russia? Intervista Paolo Borgognone

capirelarussia4_1Quali sono le “radici” della prassi politica di Vladimir Putin? Come si sviluppa il dibattito politico in Russia? Lo abbiamo chiesto a un giovane studioso del pensiero politico russo contemporaneo, Paolo Borgognone. Autore di un grosso volume, pubblicato dall’Editrice Zambon: Capire la Russia (pagg. 680, € 25,00). 

Le sue risposte sono dichiaratamente filorusse, frutto di un’impostazione politica “patriotica anticoloniale” (così lui stesso la definisce). Sono tesi minoritarie in Occidente, ma che sono presenti, invece, nella politica russa. Questa è la prima di una serie di interviste sulla Russia, ne seguiranno altre con analisti di diversa impostazione.

Borgognone, la sua è una posizione marcatamente filorussa. Lei nel suo libro, tral’altro, analizza le “ragioni” storiche e culturali del “putinismo” nella storia politica recente della Russia. Quali sono queste “ragioni”?

In effetti non nego il mio interesse politico per le correnti nazional-patriottiche, neoeurasiatiste e “comuniste sostenitrici dello Stato” in Russia, così come in Jugoslavia e in Serbia ai tempi della guerra della Nato per lo smantellamento del piccolo ma valoroso Stato balcanico resistente, ma le mie opinioni politiche trascendono il lavoro di storico e sociologo della postcontemporaneità che porto avanti con fatica e passione. Infatti è proprio in base ai risultati di studi meticolosi e oggettivi che individuo ragioni storiche, culturali e politiche alla radice degli attuali processi di ricentralizzazione dei pubblici poteri portati avanti da Putin in Russia dopo il 2000. L’esecutivo di Putin, partito da posizioni indubbiamente liberali (Putin fu il successore designato di Eltsin, non scordiamolo mai…) ha maturato, sulla scorta di un’azione di governo caratterizzata dal confronto politico con la situazione di disfacimento nazionale, economico, militare, politico e sociale cui la Russia era giunta dopo 10 anni di capitalismo americano d’importazione, un approccio funzionale a recuperare allo Stato federale un certo qual grado di primazia politica nei confronti della pluralità di poteri oligarchico-mafiosi e di pulsioni secessioniste, spesso alimentate dall’esterno, contraddistinguenti lo spazio geopolitico russo di estrazione postsovietica dopo il 1991. In altri termini, contrastando fermamente gli oligarchi filoccidentali, recuperando al controllo statale i principali cespiti strategici dell’economia nazionale (petrolio, gas) e ponendo fine al secessionismo che allignava in varie entità territoriali della Federazione russa (Caucaso, Urali, Siberia), Putin ha parzialmente emancipato la Russia dalla condizione di servitù semi-coloniale nei confronti dell’Occidente (Usa in testa), caratterizzante il decennio eltsiniano.

Qual è la base sociale del “putinismo”?

Questa è una domanda molto pertinente e interessante. Pochi infatti si interrogano sull’effettiva base di consenso appannaggio di Putin e di quello che, in Occidente, viene definito il “partito del potere”, Russia Unita, quasi a voler dimostrare che l’attuale governo russo si trovi nella condizione di poter contare su di un consenso genericamente estorto, per via clientelare, mediatica o poliziesca, da parte di settori di popolazione “impauriti” e “manipolati” dal “regime autoritario di Putin”. Altri invece attribuiscono a Putin un consenso derivante dalla cosiddetta “atavica tentazione” a favore dello “stalinismo” coltivata dai russi. Naturalmente, le cose non stanno così. Oggi la base di consenso a Putin e a Russia Unita ha una connotazione descrivibile come l’alleanza strategica tra una borghesia “nazionale” di estrazione statale (soprattutto interna alle vaste aree provinciali della “Russia profonda”) e ampi strati popolari e periferici, pauperizzati dai processi di globalizzazione. Si tratta di un’alleanza patriottica, “nazional-borghese” a connotazione popolare, strumentale a integrare il percorso di emancipazione in chiave anti-coloniale della Russia post-eltsiniana. E’ molto importante ravvisare come questo tipo di alleanza dialettica tra una borghesia “nazional-statale” e gli strati popolari periferici, anche rurali, in funzione del recupero della sovranità politica dello Stato, sia diametralmente opposta al blocco sociale, se così lo si può definire, caratteristico degli odierni Stati coloniali postcontemporanei, le cui élite oligarchiche sono sostenute da una limitata classe media esterofila di estrazione privata e, a vario titolo, da settori sottoproletari di norma parcellizzati in indistinti atomi di consumo e desiderio (moltitudini biopolitiche globalizzate). L’alleanza pro-Putin respinge la struttura di classe, oligarchico-plebea, del capitalismo americano contemporaneo e tende alla costruzione, in Russia, di un moderno Stato postcoloniale (caratterizzato dalla coesistenza dialettica borghesia patriottica/proletariato patriottico) a ritrovata capacità di proiezione geopolitica autonoma. In sostanza, penso che Putin sia riuscito laddove i suoi predecessori comunisti hanno in qualche modo mancato, cioè nello stabilire una sorta di egemonia nei confronti dei ceti medi autoctoni.

Sia lei che Giulietto Chiesa (che ha fatto l’introduzione al suo volume) definite Putin un “democratico”. Francamente per un osservatore obiettivo è difficile pensare alla “democratura” di Putin come ad una democrazia di stampo liberale. Lei stesso afferma nel libro l’incompatibilità della Russia con l’Occidente: “Nessuna integrazione con l’Occidente è possibile”.  Quindi, per lei, sono due “mondi” destinati ad un perenne conflitto?

L’epiteto “democratico” in Russia, dopo l’esperienza politica del decennio eltsiniano, è perlopiù considerato alla stregua di un insulto per cui sia chiaro che non intendo offendere Putin nel momento in cui lo definisco “democratico”. Battute a parte, il nocciolo del problema sta proprio nel termine “democrazia liberale”. Io considero questa formula una specie di alibi dell’Occidente finalizzato a legittimare la Postmodernità Americanocentrica come religione identitaria unica di un mondo che si pretende interamente conquistato alle logiche della globalizzazione, del capitalismo sans frontières e della promozione, su scala globale, tramite guerre neocoloniali e “rivoluzioni colorate”, dei “diritti di libertà individuali” di un astratto individuo perfettamente addomesticato al cosmopolitismo del “consumo libero” occidentale. In altri termini, la “democrazia liberale” odierna non è che un’alternativa definizione caratterizzante la “Cultura McWorld” degli anni Novanta, evolutasi nell’attuale società della comunicazione multimediale globalizzata. La stessa categoria politica di democrazia moderna, intesa come ideologia e processo di emancipazione delle masse nell’ambito degli Stati nazionali a regime postcoloniale, è stata delegittimata e dissolta nell’ambito dell’odierna postdemocrazia di libero mercato e libero consumo (per chi se lo può permettere). La democrazia moderna ha chiuso il suo ciclo storico nel momento in cui, dopo il 1989, è stata decretata, dall’iperpotenza uscita vittoriosa dalla Guerra fredda, l’imminente fine capitalistica della Storia e il trionfo dell’“ultimo uomo” (volontario rimando di Fukuyama a Nietzsche), ossia l’individualizzato consumatore americanocentrico privo di qualsivoglia legame identitario a carattere collettivo (nazionale, politico, di classe, di genere). Il colonialismo dei nostri giorni si fonda appunto sull’estensione, su scala planetaria, del modello culturale della “società dei consumi e dello spettacolo” occidentale. E’ pertanto un colonialismo centrato sull’apertura di mercati e di “spazi di comunicazione” volti alla promozione del postmoderno cosmopolitismo del consumo e del desiderio. Oggi i gruppi strategici di riproduzione tardocapitalistica sono proprio le nuove classi medie giovanilistiche e americanizzanti che, in Russia, in special modo nelle città di Mosca e San Pietroburgo, esercitano una limitata ma rumorosa azione di opposizione al governo di Putin e che l’Occidente definisce, acriticamente, i “democratici” russi. Ponendo in discussione determinati postulati culturali tipici della postmodernità (marginalizzazione del ruolo degli Stati nazionali come organizzatori e gestori delle dinamiche di riproduzione sociale interna, società dell’Internet globalizzato, World Wide Web, esterofilia americanocentrica, gay-friendly inteso come affermazione di un nuovo tipo androgino unificato in luogo dei tradizionali generi sessuali maschio/femmina) il “putinismo” si pone in diretta continuità con una prospettiva di ripristino del moderno concetto di democrazia come processo di emancipazione e di liberazione collettiva da vincoli di derivazione coloniale.

Parliamo del partito di Putin “Russia Unita”. Un “partito conservatore e patriotico” . Così è visto dalla maggioranza dei suoi dirigenti. Vi sono altre “sensibilità”?

Il partito “Russia Unita” nasce nel 1999, con il nome di “Unità”, come braccio politico del declinante regime di Boris Eltsin, in funzione anticomunista. Negli anni successivi, questo partito ha integrato, all’interno delle sue strutture, importanti dirigenti di specchiata sensibilità patriottica, come l’ex ministro degli Esteri ed ex premier Evgenij Primakov. Nel corso degli anni, Russia Unita ha visto aumentare, al proprio interno, il ruolo degli esponenti maggiormente legati alla sensibilità patriottica, fuoriuscendo in parte dall’iniziale prospettiva sostanzialmente liberale. Russia Unita è un partito centrista, a direzione ideologica “nazional-borghese” e a forte connotazione elettorale popolare. Per questo definirei Russia Unita un partito conservatore (nell’accezione russa del termine) a vocazione popolar-patriottica. Vi sono certamente oligarchi sostenitori di Russia Unita ma oggi il consenso politico di cui gode Putin è talmente ampio che il ruolo esercitato dall’élite oligarchica nella direzione della cosa pubblica è sicuramente diverso rispetto al governo diretto degli oligarchi caratteristico del decennio eltsiniano. Con Putin la Russia ha in parte allontanato il rischio della plutocrazia senza mediazioni, riequilibrando il contenzioso dei poteri a vantaggio della frazione politica e a svantaggio di quella oligarchica. Soprattutto, gli oligarchi filoccidentali, largamente invisi alla popolazione, sono stati marginalizzati dal punto di vista politico. Nel novero di Russia Unita vi sono anche sensibilità politiche neoliberali che rendono questo partito indubbiamente caratterizzato da una pluralizzazione delle opinioni e degli interessi interni. Una pluralità interna sicuramente mediata dall’esercizio politico del carisma di Putin. Ma lo scenario politico russo non è solo Russia Unita. Il Partito comunista della Federazione russa è la seconda forza politica del Paese con il 20% dei voti e, stando ai dati del 2011, anno delle ultime elezioni parlamentari, con un numero crescente di giovani elettori. Vi sono poi i nazional-populisti di Zhirinovskij, rappresentanti la destra politica ed economica, con un seguito non trascurabile tra la piccola borghesia provinciale, i socialdemocratici di Russia Giusta e i piccoli gruppi neoliberali, sostenuti dall’Occidente ma con scarso seguito in patria. Questi partiti liberali ottengono infatti il 10-12% a Mosca e San Pietroburgo, metropoli caratterizzate dalla presenza di una consistente porzione di classe media occidentalizzante interna e percentuali da prefisso telefonico nella sterminata provincia industriale e rurale del Paese.

Che ruolo gioca la religione nel “putinismo”?

La spiritualità ortodossa ha, nel cosiddetto “putinismo”, un ruolo di mobilitazione delle masse funzionale al recupero, in chiave sovranista, dei valori tradizionali della Russia storica. Quella della spiritualità ortodossa è una funzione politica, non ha nulla a che vedere con una dinamica di confessionalizzazione della Federazione russa, che rimane uno Stato plurinazionale, plurilinguistico e multireligioso, dove ciascuna fede religiosa è riconosciuta come elemento costitutivo dello Stato-Nazione a vocazione geopolitica continentale. I valori tradizionali della Russia storica oggi fungono quale elemento di contraltare al dilagare della “società dei consumi e dello spettacolo” occidentale, costituiscono una risposta identitaria al tentativo di colonizzazione dell’immaginario pubblico russo verificatosi a seguito dell’imposizione del capitalismo americano quale religione idolatrica unica dopo il 1991. Non a caso, il ruolo della spiritualità religiosa (soprattutto ortodossa, ma non solo) quale cemento dell’unità politica nazionale della Russia in chiave di contrasto a determinati postulati culturali della globalizzazione americanocentrica, è contestato dai gruppuscoli libertari e radicaleggianti sponsorizzati e sostenuti dall’Occidente come attori politici della nominata “società dello spettacolo in Russia”, dalle Pussy Riot, anarco-capitaliste perfettamente interne, per loro stessa dichiarazione, alla cultura consumistica occidentale, fino ai “liberali 2.0” della “Rivoluzione dei Visoni” dell’inverno 2011-2012 ed è apprezzato dalle classi popolari, generalmente ostili alla globalizzazione e al liberalismo contemporaneo e per questo pesantemente invise alla media intellettualità euro-atlantica, che si ostina a considerare la spiritualità ortodossa, declinata in senso patriottico, come un retaggio “antimoderno” e “reazionario” da sostituire con l’idolatrico culto occidentale per il denaro, il successo individuale e il riconoscimento pubblico del singolo nell’ambito di una società interamente di spettacolo e in fase di crescente virtualizzazione.

Lei critica il globalismo occidentale e vede la Russia come “alternativa” a questa tendenza. Nell’esporre questa linea critica sia Eltsin, colpevole, secondo lei, di aver “venduto” la Russia all’ Occidente favorendo così la decadenza Russa. E critica pure Gorbaciov. Francamente non si possono mettere sullo stesso piano. Uno ha fatto crescere gli “oligarchi”, “oligarchi”, sia detto con chiarezza, presenti nella stessa gestione di potere di Putin, e l’altro, Gorbaciov, è un sincero democratico, un vero leader mondiale, che ha cercato di portare un rinnovamento etico politico in Russia. Per cui mi sembra non corretta, a mio modo di vedere, la sua posizione nei confronti di Gorbaciov…

La Russia è un Paese capitalistico, dopo il 1991 a regime capitalistico americano e solo negli ultimi anni, parzialmente e tra mille contraddizioni e nodi irrisolti, convertito a un modello capitalistico-nazionale e pertanto non rappresenta in toto un’alternativa al globalismo. Determinate correnti politiche e culturali interne al panorama politico russo, attualmente maggioritarie a livello di consensi pubblici, rappresentano invece tale alternativa. Personalmente, il mio auspicio è che queste correnti recitino, in futuro, un ruolo sempre più da protagonista nell’ambito del citato panorama politico russo. La mia disistima nei confronti di Gorbaciov come uomo politico e del suo sistema di potere è dovuta al fatto che la perestrojka, processo politico cui non credo estranei determinati settori liberaleggianti del Kgb, è stata pensata e attuata per realizzare un’integrazione dell’Unione Sovietica nella “comunità internazionale” in una prospettiva prettamente liberaldemocratica e, diciamolo pure, atlantista. L’apprendista stregone Gorbaciov ha tentato di integrare l’Urss in quello che l’allora élite “riformista” del Pcus definiva il “mondo civilizzato” mediante politiche di liberalizzazione strumentali a radicalizzare il processo di smantellamento dell’Unione Sovietica, un processo che il filosofo Costanzo Preve ha giustamente definito «controrivoluzione maestosa dei ceti medi sovietici» improvvidamente rivestitisi della forma mentis eurocentrica. Le stesse élite “riformiste” del Pcus hanno strumentalmente e interessatamente ravvisato nel liberalismo occidentale un mezzo politico attraverso cui portare avanti il proprio personale percorso di “redenzione democratica”. Non a caso, dopo il 1991, importanti esponenti “riformisti” del Pcus si sono prontamente riciclati come ceto politico “democratico” di complemento e come “imprenditori democratici” (leggasi, nuovi ricchi e oligarchi filoccidentali). Gorbaciov è stato altresì un attore politico propedeutico all’accelerazione del processo di ricolonizzazione, per tramite della Nato, dello spazio geopolitico ex sovietico. Non dubito che, in base a queste premesse, egli sia tuttora considerato, in Occidente, come un «leader democratico» fautore della “liberazione del proprio popolo” dai vincoli politici e ideologici del comunismo. Probabilmente, se Reagan avesse smantellato la Nato e favorito un processo di sovietizzazione degli Usa, oggi sarebbe onorato in Urss come un vero “padre del socialismo” occidentale…

Ovviamente non condivido questo giudizio su Gorbaciov come “apprendista stregone” . Ma torniamo a Putin. In questo periodo gode di grandi simpatie da parte di Partiti, e movimenti, di estrema destra europei e italiani (Lega Nord, ecc). Partiti e movimenti razzisti e xenofobi, che sono contro i diritti delle minoranze, omofobi e tanto altro di peggio. E Putin ricambia questa simpatia con il suo sostegno. Un sostegno che vuole far crescere l’euroscetticismo europeo. Non è una posizione cieca questa di Putin? Come può essere credibile, agli occhi dell’opinione pubblica europea, un leader che combatte i neonazisti ucraini e nello stesso tempo alimenta movimenti di tale natura?

Trovo perfettamente comprensibile che partiti e movimenti a vario titolo ostili al postmoderno e alla sociologia politica della open society dialoghino tra loro. Si è parlato addirittura di “Internazionale nera” dell’euroscetticismo per demonizzare tale esercizio dialogico tra forze politiche di varia estrazione e matrice culturale ma accomunate da una medesima vocazione a porre in essere meccanismi di comunicazione politica tesi al contrasto di significativi elementi culturali legittimanti l’odierno capitalismo speculativo. Il Front National, per esempio, negli anni Ottanta, più che un “partito fascista”, era un soggetto politico assai prossimo, ideologicamente, alla destra del Partito repubblicano Usa. Era un partito borghese, decisamente reazionario, filo-coloniale e atlantista. Dopo il 1992, il FN ha principiato a mutare i propri riferimenti concettuali, e oggi è un partito nazional-patriottico con un retaggio di destra, e un elettorato popolare. E’ un partito avversato dalla classe media cosmopolita parigina e sostenuto dagli strati borghesi e popolari provinciali, in non pochi casi ostili alla Ue. Lo stesso vale per il FIDESZ ungherese, un partito conservatore e di destra, di taglio nazional-borghese, ma non certamente un partito fascista. Nel momento in cui questi partiti “euroscettici”, che dispongono a oggi della maggioranza dell’elettorato operaio nei rispettivi Paesi, si pongono come elementi di contraddizione, in chiave sovranista, in un quadro politico europeo caratterizzato dal dominio dei partiti di riferimento delle classi medie cosmopolite di cui sopra e delle classi dirigenti oligarchiche transnazionali (popolari, socialdemocratici, liberaldemocratici e verdi europei), significa che hanno in qualche modo maturato una percezione politica corretta di quel che è la natura culturale del capitalismo contemporaneo. E il dialogo di queste forze politiche con Russia Unita si pone come conseguenza dell’elaborazione di siffatta analisi sociologica del capitalismo globalizzato. Un capitalismo che in primo luogo vede come suoi nemici la geopolitica, gli Stati e le nazioni resistenti. Tra l’altro, il dialogo di Russia Unita con questi partiti preserva il partito di governo russo da eventuali tentazioni “neodemocristiane” e costituisce una sorta di antidoto ad un ulteriore processo di imborghesimento di tale soggetto politico. Inoltre, questi partiti “euroscettici”, per quanto criticabili sotto vari aspetti (sono tutti partiti che propugnano, in economia, una qualche sorta di “liberismo temperato”), non possono essere in alcun modo assimilabili ai neofascisti ucraini. Il FN per esempio, chiede l’uscita della Francia dalla Nato, ponendosi in un’ottica di ostilità al principale fattore di colonizzazione geopolitica e militare dell’Europa, mentre i citati neofascisti e neonazisti ucraini sono favorevoli all’ingresso di Kiev nella Nato. Il FN, sotto la guida di Marine Le Pen, ha espulso dai suoi ranghi gli elementi riconducibili ad atteggiamenti estremisti e ha addirittura auspicato la vittoria elettorale di Syriza in Grecia, mentre la destra sciovinista ucraina inalbera la bandiera della Nato e ostenta apertamente una simbologia e pratiche politiche riconducibili al nazismo. Marine Le Pen ha capito molte cose relativamente alla natura del capitalismo odierno e per molti aspetti il suo partito svolge un ruolo di contrasto al dispiegarsi della filosofia destinalistica della fine capitalistica della Storia, i neonazisti ucraini sono più che altro degli accesi russofobici che caldeggiano l’ingresso di Kiev nella Nato in funzione anti-russa.

Veniamo al conflitto in Ucraina. L’espansionismo russo ha motivazioni geopolitiche di contrasto all’Occidente. Nella crisi ucraina l’Occidente ha commesso, certamente, degli errori. Ma c’è anche dell’altro. Ovvero la crisi economica che colpisce la Russia. Un sistema economico basato sulla potenza energetica che però, dagli ultimi dati, non garantisce il reale ammodernamento del Paese. Insomma non trova che l’aggressività nei confronti dell’Occidente sia una forma di “distrazione di massa” per coprire una crisi dell’operato del leader russo?

Nel 1989 la Nato aveva quale suo avamposto più orientale l’enclave di Berlino Ovest… Oggi i suoi missili sono a 400 km da Mosca. L’allargamento è frutto di una palese e dichiarata strategia atlantista di accerchiamento della Russia. Se oggi il Patto di Varsavia fosse arrivato in Messico, dopo aver inglobato tutta l’Europa occidentale, parleremmo di «espansionismo» statunitense? La Russia dal 1989 non solo non si espande, ma è sulla difensiva e vede sempre più in pericolo la propria sicurezza nazionale. Tutti gli alleati geopolitici rimasti a Mosca dopo il 1989 sono stati sottratti alla Russia dalla strategia occidentale delle guerre “umanitarie” e delle “rivoluzioni colorate”. Con la scusa che «là c’è un dittatore che l’Occidente ha il dovere di rimuovere per esportare la democrazia» sono stati illegalmente rovesciati i governi, considerati “filo-russi”, di Jugoslavia, Iraq, Libia, Georgia e Ucraina. Il tentativo di rovesciare il governo siriano è tuttora in corso e solo la crescente minaccia dell’Is (Stato islamico) lo ha momentaneamente rallentato. La Crimea ha deciso di ricongiungersi alla Russia a seguito di un referendum che ha visto il 97 per cento degli elettori recatisi alle urne (l’84 per cento del totale della popolazione) votare a favore della riunificazione. Ciò significa che hanno votato per la riunificazione anche gli ucraini residenti nella Penisola, e anche molti tatari di Crimea. La crisi economica che colpisce la Russia è il portato di una politica di sanzioni e di attacchi speculativi concertati tra Usa, Ue e Arabia Saudita. Qualcosa di simile era già stato realizzato nel 1985. L’economia russa va modernizzata e resa meno dipendente dal fattore energetico? Sicuramente, ma attraverso un percorso diametralmente opposto rispetto a quello portato avanti dai “democratici” eltsiniani a partire dal 1992… Una stagione di “riforme liberali” che i russi non rimpiangono affatto.

Ultima domanda : E’ possibile una coabitazione tra Occidente e Russia? Su che basi questo può avvenire?

Una coabitazione tra Europa e Russia è auspicabile, non solo possibile. Tale integrazione necessita il superamento dell’Unione europea come progetto transatlantico e il conseguente riorientamento geopolitico dell’Europa (che è cosa assai diversa rispetto all’attuale Ue) verso la Russia. Soltanto se riscopre la sua vocazione continentale, l’Europa potrà connotarsi come comunità di popoli indipendenti e nazioni sovrane, strategicamente alleati e culturalmente contigui alla Russia. Per il resto, la cultura politica e filosofica europea va sottoposta a un vero e proprio «bucato delle idee», una rivisitazione complessiva. Perché questo possa accadere è necessario, anzi, indispensabile, che l’Europa recuperi la propria sovranità geopolitica.