Contratto Metalmeccanici: “Chiediamo una svolta al negoziato”. Intervista a Marco Bentivogli.

Il segretario nazionale della FIM CISL Marco Bentivogli (Ansa)

Il segretario nazionale della FIM CISL Marco Bentivogli (Ansa)

In settimana ci saranno incontri al tavolo tecnico per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. A che punto siamo con la trattativa? Quali le possibili novità? Lo chiediamo, in questa intervista, a Marco Bentivogli, Segretario Generale nazionale della Fim-Cisl.

Bentivogli, sono passati 6 mesi dall’inizio della trattativa e c’è stato anche uno sciopero generale unitario…. Mi scuso per la provocazione, ma ci sono un milione e seicento mila di metalmeccanici che aspettano qualche risultato. A che punto siete?
Con lo sciopero del 20 aprile, che ha registrato una grandissima partecipazione dei metalmeccanici di tutta Italia, abbiamo dato un segnale forte a Federmeccanica che era arroccata da oltre sei mesi e 13 incontri sulle stesse posizioni, proprio perché nessuno di noi – oggi meno che mai – bisogna accelerare i tempi, contrariamente a quello che ha dichiarato il Presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi.
Su molti aspetti della parte normativa (welfare, diritto soggettivo alla formazione, smart working, etc) si sono stati importanti passi in avanti, rimangono invece distanti le posizioni sul salario, con Federmeccanica “marmorizzata” sulla proposta del dicembre scorso.
Non possiamo perdere tempo, se non si entra nel vivo della trattativa, si guastano le relazioni e i contenuti del negoziato, anche gli obiettivi positivi finora raggiunti. E’ per questo che, dopo lo sciopero, abbiamo detto a Federmeccanica di cambiare passo: abbiamo chiesto un calendario di confronto serrato, quasi giornaliero. I prossimi incontri sono stati fissati per il 10, 11, 16 e 17 maggio per il confronto in sede tecnica sui primi testi e il 18 o 19 maggio per il confronto in ristretta con le segreterie nazionali. L’obiettivo è quello di accorciare le distanze che ancora ci separano nel minor tempo possibile, proprio per dare risposte certe e rapide ai lavoratori. I passaggi che abbiamo davanti sono stretti, la controparte, ha spiegato alle imprese che l’accordo sarà uguale alla loro piattaforma. Modalità non solo inaccettabile ma che rende tutto più lento e complicato.

Lei ha definito questo “rinnovo contrattuale” come il più “difficile della storia”. Quali sono le ragioni di questo sua affermazione?
Questo contratto si inserisce in un contesto delicatissimo e molto complicato, per molti aspetti inedito nella storia dei rinnovi contrattuali dei metalmeccanici.
In un contesto in cui rimane viva la crisi e alta la disoccupazione (soprattutto giovanile, al 38% contro il 22% della media europea), si aggiunge il fatto che il nostro Paese oggi sta vivendo un periodo di deflazione, tanto che gli imprenditori volevano addirittura indietro metà degli aumenti concessi con il contratto precedente. Tutto ciò in assenza di regole aggiornate sulle relazioni industriali. C’è poi un sistema industriale spaccato, tra chi non ha subito o sta superando la crisi e chi è stato invece falcidiato dalla recessione. In questa condizione la nostra controparte punta in sostanza ad azzerare il contratto nazionale, è per questo che ho definito la proposta di Federmeccanica “un contratto valigia in mano”.
In gioco non c’è solo il rinnovo del contratto, la vera sfida è innovare il sistema delle relazioni sindacali e industriali del nostro Paese, puntando in particolare sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali.

Veniamo ai punti della trattativa: Federmeccanica punta sul secondo livello, voi sulle garanzie del Contratto Nazionale”. Su che basi avverrà la mediazione? In tempi di “Jobs act” la vedo dura….
Le cose non stanno esattamente così. Se si vuole puntare sul secondo livello bisogna contemplare anche la contrattazione territoriale e premiare chi fa la contrattazione aziendale e non chi da’ salario individuale in modo unilaterale senza nessuna trasparenza meritocratica. Noi pensiamo che il contratto nazionale debba mantenere una forza di garanzia per tutti, fornendo un salario equo e che tuteli il potere d’acquisto e una cornice di regole e tutele condivise che valgano per tutti i lavoratori. Al contempo però sosteniamo che vada assolutamente rafforzata la contrattazione di secondo livello, laddove la ricchezza è prodotta, nella dimensione aziendale ma anche territoriale, per riuscire a fare sistema e raggiungere tutte le aziende, anche quelle più piccole, ridistribuendo perciò la ricchezza a seconda della produttività.
Il contratto dei metalmeccanici riguarda 1 milione e 600 mila di persone, è il più grande del settore privato: abbiamo la responsabilità di trovare – noi e Federmeccanica – un equilibrio che non lasci fuori nessuno.
Non è vero che la mediazione non sia possibile: occorre serietà, impegno e responsabilità da parte di tutti, insieme alla capacità di andare oltre pregiudizi e resistenze reciproche.
Se, come dicevo, questo è il contratto più difficile della storia, occorre coraggio per poterla scrivere la storia. La Fim, in questo, è pronta.

Quali sono gli altri punti strategici del rinnovo contrattuale dove maggiore è la distanza con Federmeccanica?
Sul welfare (previdenza e sanità integrativa), sul diritto soggettivo alla formazione, sul rilancio dell’apprendistato come strumento di alternanza scuola-lavoro, sulla conciliazione tempi vita/lavoro e sui diritti dei lavoratori migranti ci sono disponibilità da parte di Federmeccanica che chiedevamo da anni.
Distanti sono invece ancora le idee sulla partecipazione dei lavoratori, sull’inquadramento professionale (fermo al 1973) e quella relativa alla proposta salariale, rispetto alla quale Federmeccanica è “marmorizzata” sulla proposta fatta a Dicembre dell’anno scorso.

Sul salario la posizione di Federmeccanica è scandalosa: propone l’aumento dei minimi solo per il 5% dei metalmeccanici. come rispondete ? Qual è l a vostra proposta salariale? Ci saranno nuovi inquadramenti ?
Come dicevo, proprio per il contesto in cui si colloca questo rinnovo contrattuale e per la sua importanza, non possiamo permetterci (né noi, né Federmeccanica, a mio avviso) di lasciare fuori nessuno. La proposta salariale di Federmeccanica, invece, di fatto smonta la base del contratto nazionale perché si rivolge soltanto al 5% dei lavoratori, con aumenti posticipati di 15 mesi e senza retroattività.
Infine la proposta presentata non da’ alcuna garanzia di collegamento tra gli accordi aziendali e la produttività, che è ciò che serve invece per rafforzare gli investimenti, aumentare i salari e spingere l’occupazione. Ci sarebbe un minimo di garanzia fissato da Federmeccanica che cesserebbe di essere il contratto “prevalente” con tutto ciò che ne consegue sulla sua efficacia erga omnes.
Con questa ipotesi saranno solo le piccole imprese a pagarne il costo più alto, non si miglioreranno né salari né produttività e si avrà una “balcanizzazione” delle relazioni industriali.
Dobbiamo assolutamente preservare il ruolo di tutela del contratto nazionale, garantendo  potere d’acquisto per tutti i lavoratori del settore. Nelle aziende oggi viene erogato  un salario aziendale mensilizzato (contrattato e soprattutto non contrattato) che va ricondotto ad uno schema più evoluto di inquadramento professionale e di  contrattazione aziendale.
Gli inquadramenti professionali, cristallizzati da troppo tempo, devono essere rinnovati e aggiornati per rispondere meglio ai nuovi ruoli che svolgono oggi operai e impiegati nelle nuove fabbriche in quella che molti definiscono la quarta Rivoluzione Industriale.
In questo la formazione, al pari del salario e del diritto alla salute e sicurezza, diventa un elemento strategico all’interno delle richieste che stiamo facendo nel rinnovo del contratto.

Veniamo alla partecipazione dei lavoratori. Questo è un fattore importante, quale sarà il vostro modello di riferimento? 
In molti, anche tra gli imprenditori, sono affezionati al solo contratto nazionale perché non vogliono un ruolo attivo dei lavoratori e del sindacato in azienda.
Noi invece riteniamo che anche un semplice coinvolgimento oggi non basti più: la vera sfida sull’innovazione si può vincere solo concretizzando la piena e concreta partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali e a quelle organizzative. E’ un salto culturale di qualità che deve fare tutto il mondo del lavoro, in Industry 4.0 i lavoratori devono essere protagonisti, e non solo spettatori, di ciò che accade. Questo a vantaggio anche delle aziende.
Va poi superato il tabù di Federmeccanica contro i contratti territoriali; ancora oggi il 63% delle aziende metalmeccaniche italiane sono piccole imprese che non hanno il contratto aziendale. Fare sistema in Italia pare essere una cosa complicata, in realtà è l’unica strada per migliorare condizioni di lavoro, produttività e occupazione. Dico sempre che è il momento di fare poche cose, chiare, precise, ma di farle tutti insieme.

Ultima domanda: L’unità, finalmente tra voi, porterà ad una nuova FLM, ovviamente rinnovata? 
Il nostro è un tentativo di ricomposizione che deve stare alla larga da un ruolo difensivo. L’unità per scioperare e magari non fare il contratto non ci interessa. Bisogna tenere insieme protesta e proposta. L’FLM, quando fu costituita nel 1973, fu l’esito di un percorso di battaglie comuni degli anni Sessanta, ma soprattutto fu l’approdo di una sintesi alta di posizioni diverse, in un contesto di rispetto reciproco e di libertà di espressione da parte dei protagonisti del tempo.
Oggi purtroppo veniamo da un periodo di forti divisioni, in cui molto spesso il rispetto reciproco delle posizioni in molte fabbriche non c’è stato: i nostri delegati hanno subito molti attacchi e ferite, per i contratti firmati separatamente e per la responsabilità agita in quel contesto. Queste ferite non si cancellano in un giorno.
Lo sciopero unitario che abbiamo fatto il 20 aprile, il primo dopo otto anni, è stato preceduto da attivi regionali dei delegati in cui abbiamo tutti richiamato il rispetto di poter avere idee diverse e di esprimerle liberamente.
Oggi è stata Federmeccanica a riunirci, praticamente “invocando” uno sciopero per la rigidità delle sue posizioni. Il mio auspicio è soprattutto che il rispetto continui, in tutte le fabbriche,  e che sia la precondizione per arrivare a fare, domani, una sintesi alta.
In questi anni il punto di massima divisione del sindacato si è registrato proprio tra Fim e Fiom e tra me e Landini. Siamo molto distanti, se prevarrà lo spirito sindacale – e solo sindacale – la ricomposizione sarà più semplice. Altrimenti, confermeremo la nostra, autonomia e l’indisponibilità ad utilizzare i metalmeccanici su un terreno di opposizione politica. Parlarsi spero aiuti a non ripetere errori vecchi.

Cipolle e Libertà. Storia di un profeta – operaio. Un ricordo di Gelmino Ottaviani di Marco Bentivogli*

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Nei giorni scorsi, a Verona , è morto Ottaviano Gelmini storico leader dei metalmeccanici della Cisl di Verona. Un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti. In tempi difficili per il movimento sindacale, ricordare questo “profeta-operaio”, come lo chiama il Segretario Nazionale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, offre l’occasione per riflettere un poco sulle ragioni profonde del fare sindacato. Ragioni e ideali che Ottaviano Gelmini ha incarnato con grande rigore morale.

Pubblichiamo, per gentile concessione della Segreteria Nazionale della Fim, questo ricordo di Gelmini.

“Sono nato nel 1937. Per capire come le cose sono cambiate nella mia vita, basta pensare che mi chiamo Gelmino perché, quando mi hanno battezzato, questo strano nome era di moda”.

Comincia con questa intelligente ed ironica consapevolezza il racconto “Cipolle e Libertà” – a cura di un grande narratore di storie personali, quale è stato Federico Bozzini – della vita di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico veneto, poi storico dirigente sindacale della Fim, la categoria dei metalmeccanici della Cisl.

Gelmino e’ scomparso il 23 febbraio, ma l’insegnamento che ci lascia non scomparirà mai.

“Cipolle e Libertà” e’ un racconto intenso, che ha ispirato anche un bellissimo monologo del Teatro Civico di Marco Paolini, un libro che si legge tutto d’un fiato e da cui emerge tanto, sia della storia da cui veniamo, ma anche e soprattutto del presente che stiamo vivendo.

Infatti, la cosa che più colpisce delle parole e dei pensieri di Gelmino e’ la loro incredibile, straordinaria attualità, tanto da rendere questo uomo un “profeta” dei nostri giorni, una mente lungimirante che è stata e rimarrà sempre un punto di riferimento indimenticabile per molti di noi.

Attraverso la sua vita ripercorriamo la storia del nostro Paese dal Dopoguerra in poi, i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento, la Guerra, gli attentati terroristici, ma anche il boom economico degli anni Sessanta e le prime automatizzazioni industriali.

Situazioni che Gelmino affrontò con grande coraggio e determinazione.

“Cosa ti ricordi della guerra?

I bombardamenti, quelli me li ricordo.

Ma non mi ricordo di avere avuto paura”.

Il 6 settembre 1954 inizio’ a lavorare come tornitore alla Riello (“noi da operai stavamo bene”, “mi pareva di avere il vestito da sera”) vivendo, dall’interno della sua fabbrica a Legnago, in provincia di Verona, il boom degli anni Sessanta quando “la gente si è messa il riscaldamento in casa”.

Ma poi, come egli stesso ci ricorda (“Le sconfitte sono sempre iniziate il giorno dopo delle vittorie”), i suoi colleghi hanno “cominciato a lavorare il doppio guadagnando meno” e i giovani operai che Gelmino vedeva arrivare in fabbrica non avevano più quel senso di appartenenza che aveva contraddistinto il suo ingresso in Riello.

Poi iniziarono i licenziamenti.

Nel ’58 si iscrisse alla Fim e Gelmino ci racconta con grandissimo ed intenso realismo tutta la fatica di fare il sindacalista, di togliere tempo e spazio a moglie e figli per “insegnare” ai colleghi i concetti di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza, di democrazia, di senso del dovere (“non era tempo perso”, ci dice).

Non aveva paura di lottare, di scontrarsi con i superiori per difendere questi principi, per osteggiare i soprusi, lo sfruttamento, le ingiustizie.

Una volta, di fronte ad un capo del personale che “teorizzava la linea dura”, Gelmino gli rispose – per nulla intimorito:  “Senta, io a casa ho ancora una cassetta di cipolle. E, mangiando pane e cipolle, metto in ginocchio la Riello”.

Era faticoso “tenere assieme” i lavoratori, fare sintesi di opinioni diverse e spesso in conflitto tra loro, ma ne valeva la pena perché era l’unica strada per apprendere quella che forse è la lezione più grande che ci ha lasciato Gelmino, la libertà.

Perché la libertà non cade dall’alto, si conquista, si sceglie. Soprattutto la libertà di pensiero.

Sosteneva: “Si dice sempre che il tempo e’ denaro, ma il denaro non è tempo. Non è reversibile l’equazione. Il tempo e’ vita. E, se è vita, decido io dove investirlo: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in famiglia. Questa è liberta’. Lo so che è una parola grossa, allora la riempi di parole piccole e vai meglio”.

Gelmino e’ stato anche uno straordinario modello di semplicità e di sobrietà, valori che gli derivavano dalla sua umile famiglia di origine – quella in cui la ‘mansarda’ di oggi era ancora il ‘granaro’ –  ma che lui scelse di non tradire mai (“Quello che prendevo mi bastava. Bisogna aver fatto la fame per sapere quanto poco ti basta per campare”).

Ora, in una società che si ostina a rimanere egoisticamente, selettivamente opulenta e che non ha imparato la lezione neanche dopo la  crisi iniziata nel 2008, questi valori sono un faro che deve illuminare la nostra attività e il nostro impegno civico, così come lo sono stati nella vita di Ottaviani.

Suonano tristemente profetiche anche le sue parole riguardo alla pensione, ‘guadagnata’ dopo una vita di lavoro: “Io sono un privilegiato perché tutte le mattine in cui mi sveglio sotto al letto trovo le cinquanta mila lire che mi spettano di pensione”.

Gelmino non si è mai rassegnato, e in questo abbiamo il dovere di seguire il suo esempio fino in fondo, ad una società in cui i giovani non riescono neanche ad immaginare la pensione perché il futuro e’ stato loro rubato da chi ha scambiato la libertà del lavoro con il denaro, da chi ha pensato di sfruttare il presente e gli altri, ma ha scoperto di avere perso tutto, anche se stesso.

“Se la Repubblica e’ fondata sul lavoro, anche tu ti sei fondato sul lavoro. Hai capito che il lavoro non sempre rende liberi.

Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corso, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no sei un poveretto, anche se sei miliardario”.

Gelmino ci ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile di cui gli saremo sempre riconoscenti, ma che soprattutto abbiamo il dovere di non sprecare.

*Segretario Generale Nazionale Fim – Cisl

Pubblichiamo un estratto del libro Cipolle e libertà, ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, di Federico Bozzini, Edizioni Lavoro.

(…) Sono sempre stato curiosissimo di tutte le novità che incrociavo.

Mi interessava veramente osservare e capire. Da quel momento gli studenti hanno cominciato ad arrivare davanti alla fabbrica e a frequentare le sedi del sindacato. Noi della Fim aprivamo la porta a tutti: chi ci chiedeva di discutere ci invitava a nozze. Non avevamo nessuna paura degli extraparlamentari, forse perché anche le nostre idee sbrindellate non stavano in nessun partito. Diverso era l’atteggiamento dei compagni della Cgil. Loro un partito ce l’avevano e guardavano con sospetto a tutta questa ventata di nuove idee che sembravano ridiscutere tutto e tutti.
La Riello aveva una tradizione di operai comunisti. Se uno era comunista era della Fiom e della Cgil per forza. Noi siamo stati i primi a sgarrare questa regola. Ma per loro restavamo i “mocoletti”, ii ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro. Non me lo hanno mai dette in faccia queste cose, ma non c’è alcun dubbio che dietro le spalle la menavano alla grande. L’obiezione che ti facevano era semplice: ma come, tu sei socialista, perché non vieni alla Cgil? Sei socialista e allora perché perdi tempo a chiacchierare con questa gente che critica sindacato o partito?
Quando non si discuteva in fabbrica, c’erano riunioni di fuoco in sede. Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire. C’era tutto il mondo che si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione…
Avevo un figlio di 4 anni e uno di otto mesi. Mi ricordo l’8 dicembre del 1969 ero stato a Verona a un comizio di Bruno Storti, allora segretario generale della Cisl. Faceva freddo e per la fretta ho lasciato in casa la stufa a cherosene con i tubi staccati. Mia moglie, per non far battere i denti ai bambini, ha dovuto arrangiarsi a montare gli scarichi da sola. Quando sono tornato ne ho sentite di tutti i colori. Un giorno è scoppiata e mi ha detto: “se avessi saputo che avresti fatto una vita del genere, non ti avrei sposato”. In quei mesi i figli li vedevo e non li vedevo. Molto spesso ero lontano da casa anche la domenica. Al mattino arrivava la bianchina di Natali o la Prinz verde di Viviani e partivo.

“Giorni amari per la Cisl, ma ne usciremo più forti di prima”. Intervista a Marco Bentivogli

Infuria la polemica sullo scandalo dei megastipendi di dirigenti Cisl. C’è da registrare, oggi, la dura presa di posizione di Savino Pezzotta.

La «FURLAN FACCIA CHIAREZZA». “Sii radicale, ne va di mezzo la sopravvivenza stessa dell’intero sindacato», è l’appello che Pezzotta lancia al segretario Cisl attraverso Lettera43.it.

La richiesta è quella di segnare «una cesura netta con il passato recente», quello ‘macchiato’ a suo dire da Raffaele Bonanni. Bonanni replica a Pezzota così: “«Non sono affatto commentabili le dichiarazioni del mio predecessore», ha detto, «sanno tutti quanti che Pezzotta ce l’ha con l’organizzazione e con me, quindi non è commentabile perché le sue sono dichiarazioni irresponsabili». La situazione in Cisl sta diventando molto critica. Ne parliamo con Marco Bentivogli, Segretario Generale della Fim-Cisl.

 

Bentivogli, la denuncia del pensionato Cisl Fausto Scandola ha fatto esplodere lo scandalo dei “mega stipendi” di alcuni dirigenti, della Cisl. Così , dopo lo scandalo della “mega pensione” di Bonanni, il suo sindacato è di nuovo nella bufera. Possibile che non ve ne siete accorti? L’impressione, dall’esterno, è di un “sistema” vero e proprio. E’ così?

Non scherziamo, ma quale sistema?! La Cisl è un organizzazione sana con persone perbene e generose. Anche qualora dovessero accertarsi le responsabilità non superiamo le dita di una mano in un’organizzazione con decine di migliaia di operatori e molti di più delegati.

Le denunce di Scandola hanno dato luogo a ispezioni. Nessuno le ha prese sottogamba, un conto è accertare e sanzionare un conto è fare come si fa in politica: far volare gli stracci e poi ognuno al proprio posto. Da prima che arrivassero quelle lettere si ragionava ad un nuovo regolamento che vieta i cumuli di indennità (in politica è tutt’ora legittimo) e garantisce più trasparenza e sanzioni. Negli ultimi mesi abbiamo accelerato l’approvazione proprio a scopo preventivo.

 

Savino Pezzotta , ex segretario generale, in una intervista al quotidiano On line Lettera 43, lancia pesanti accuse. E’ d’accordo con l’analisi di Pezzotta?

Sulla periodizzazione l’analisi mi sembra un po’ imprecisa e sommaria. Savino se vuole bene ancora alla Cisl non può generalizzare. Anche prima di Bonanni è capitato che lo Statuto è stato applicato rigorosamente ai nemici e “interpretabile per gli amici”. Pezzotta lo sa bene. E sono state degenerazioni anomale sempre collegate agli unanimismi ma quanto mai lontane dalla nostra storia. In Fim e in Cisl la cultura delle regole è elemento fondante perché la democrazia non può essere solo un metodo ma una scelta strategica. Le regole devono sempre valere più del consenso. Sono sicuro che prima o poi, Pezzotta, che ne ha le capacità e la lucidità, metta da parte i rancori e non generalizzi, un’organizzazione che deve tornare a voler bene e a stostenere.

 

La Segreteria nazionale ha deferito ai probiviri il pensionato Scandola, ottenendo l’espulsione per “comportamento indegno” perché ha gettato discredito sull’organizzazione. Tutto ciò ha dell’incredibile. Come può essere credibile, agli occhi dei lavoratori e dell’opinione pubblica, un sindacato che si comporta in questo modo?

L’ho già detto, non starei in un’organizzazione che espelle chi denuncia le irregolarità. Ho chiesto ai Probiviri e il lodo sanziona Scandola proprio perché non ha fatto denuncia ai probiviri ma è passato prima dalla calunnia. La direttirice di rainews cosa farebbe se uno le scrive che è a capo di una cricca e se ne deve andare? Detto questo mi auguro che si metta via lo scandalismo mediatico e si apra un confronto. Scandola e tutti i nostri iscritti devono sapere che nessuno vuole tenere situazioni irregolari e che il nuovo regolamento metterà alla porta comportamenti e eventualmente dirigenti non corretti. Se Scandola vuole bene alla sua organizzazione, riapra il confronto sulle questioni aperte, metta via le calunnie.

 

La Furlan, il vostro Segretario Generale, ha detto che presto entreranno in vigore nuove norme che escludono la possibilità di cumolo delle indennità. Eppure, secondo Scandola, già nel regolamento del 2008 si escludeva questo cumolo. L’accusa è pesante : questo modus operandi è stato tollerato . A lei risulta?

No il precedente regolamento prevedeva che il 50% delle indennità poteva essere cumulato. Il problema è che non esistevano tetti massimali. Le nuove regole prevedono come già peraltro faceva la Filca(gli edili) e gran parte delle Fim che si versi tutto all’organizzazione.

L’onorevole Romano, del PD, invoca massima trasparenza per i compensi dei Sindacalisti. Cosa risponde?

Romano chiede quello che già c’è, la massima trasparenza. E’ già prevista dall’art.39 della Costituzione. Noi in Fim abbiamo mod.730 e Ecocert di tutti i dirigenti Fim, domani anche la Cisl lo applicherà. Molto più che gli stipendi. Tutti i redditi, di ogni natura, inclusi immobili. Romano lo chiede a noi ma non mi risulta che il PD abbia on-line come faccio io il 730 di tutti i dirigenti e parlamentari. Introducano come noi il divieto di cumulo di indennità. Forse la vicenda del Pd romano sarebbe venuta fuori prima. Non generalizzi e pensi ad abolire i vitalizi e pubblichi presto tutti i loro mod.730 come la Fim-Cisl. Altrimenti torneremo a richiederlo.

Gli stipendi d’oro dei sindacalisti non vanno bene certo, e quelli dei politici?

Questa triste vicenda non farà che aumentare la sfiducia nei confronti del sindacato. E parlando della Cisl Non è venuto il momento di una seria “rottamazione” della sua classe dirigente?

Rottamazione è un termine che non mi piace. Tutto il gruppo dirigente della Cisl è consapevole delle necessità di ricambio generazionale profondo. In Fim stiamo rinnovando tutti i gruppi dirigenti. E abbiamo rilanciato il Network Giovani Metalmeccanici perché il sindacato torni luogo pubblico delle aspirazioni dei giovani. Certo la credibilità si costruisce in anni e con fatica e si distrugge con un articolo o un talk-show, ma dove i delegati e gli operatori la bandiera dell’organizzazione la tengono alta tutti i giorni guardando le spalle ai lavoratori rispetto alle difficoltà, la fiducia è molto più forte e meno attaccabile. Vede, queste sono ore molto difficili e amare ma in cui viene fuori una fiducia in noi e un attaccamento all’organizzazione di molti che fa commuovere. Per questo non possiamo tradirli, fare chiarezza e uscire dalle difficoltà sempre più forti e credibili.

 

Il sindacato ieri e domani. A trent’ anni dal referendum sulla scala mobile. Una riflessione di Raffaele Morese.

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Nel pomeriggio, presso il Cnel, si svolgerà un convegno, organizzato dall’associazione Koiné e dalle fondazioni sindacali, sulle prospettive del sindacato confederale italiano. La data scelta non è casuale: oggi sono trascorsi trent’anni dal referendum sulla “scala mobile” . Un evento che provocò lacerazione tra i sindacati. All’incontro parteciperanno alcuni protagonisti storici del sindacalismo italiano e della controparte confindustriale , economisti, sociologi. Interverranno anche gli attuali segretari generali di Cgil, Cisl e Uil (Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, Raffaele Morese (Presidente dell’Associazione Koiné), il testo della relazione al Convegno.

Trent’anni fa, in questo giorno, si consumò un evento finora rimasto unico. Un referendum chiamava gli italiani a validare o non il decreto di S. Valentino (febbraio 1984) che dava forza di legge (perché nel frattempo convertito) ad un accordo tra il Governo Craxi e tutte le sigle confederali degli imprenditori e dei lavoratori, tranne la CGIL. Un referendum voluto con determinazione quasi testarda dal PCI di Berlinguer, nonostante i tentativi, intrapresi da più parti e dallo stesso Craxi, di trovare un compromesso che lo evitasse. Allora come adesso, pochi hanno creduto che la contesa riguardasse la predeterminazione dell’inflazione al 10,6% (pari a 9 scatti di scala mobile), anche perché l’inflazione, nel frattempo, scese all’8%, proprio per effetto dell’accordo.

Tanti, invece, si resero conto che in ballo c’era molto di più. C’era la necessità di un’inversione di tendenza dalla stagflation; c’era l’esigenza di una concreta politica dei redditi; c’era l’urgenza di non frantumare ulteriormente la coesione sociale. Ma soprattutto c’era in ballo l’equilibrio dei rapporti tra politica e sociale, tra partito e sindacato, tra Governo, opposizioni e parti sociali.

Il risultato è noto. Nonostante il clima arroventato dalle polemiche, gran parte dei protagonisti fece in modo che non si buttasse ancora benzina sul fuoco delle lacerazioni che si erano protratte tra il 1984 e l’85. Non va nascosto, però, che le divergenze di merito formarono lo zoccolo duro delle “diversità” tra le organizzazioni sindacali che tuttora perdura e che sono la ragione che indusse a pensare che un pluralismo virtuoso fosse meglio che un logoro processo unitario. In ogni caso, l’ effetto di quel referendum fu storico.

Si suggellò il definitivo superamento sia dell’egemonia della politica sul sociale, sia dei residui condizionamenti del partito sul sindacato e sia, conseguentemente, della reciproca autonomia nei rapporti tra Governo, opposizione e parti sociali. Una fase nuova si apriva nello scenario delle relazioni tra i vari protagonisti della politica e del sociale, anche perché – contemporaneamente – perdeva vigore ogni velleità pansindacale (il “salario, variabile indipendente”) che pure aveva caratterizzato un bel pezzo del periodo precedente quell’evento.

L’idea di una diversa e più consistente assunzione di responsabilità stava prendendo corpo attorno alla costruzione di un sistema di partecipazione che venne chiamata concertazione e che trovò la sua formalizzazione negli accordi del 1992 (Governo Amato) e 1993 (Governo Ciampi) sul superamento della scala mobile e la creazione di un nuovo sistema di regole contrattuali che Giugni definì “la nuova costituzione delle relazioni sindacali”. Fu un decennio (perché in realtà tutto incominciò con il “lodo Scotti”, Ministro del lavoro del Governo Spadolini nel 1983) di forte anche se dolorosa iniziativa riformistica del sindacato confederale.

Ma che senso ha rievocare quegli eventi, oggi? Il mondo è cambiato tantissimo. I problemi e le soluzioni non possono trovare nel passato ispirazione operativa. I protagonisti collettivi hanno subito mutazioni culturali e politiche profonde, finanche sul piano rappresentativo e nominalistico (la più recente aggregazione politica si chiama nientedimeno “conservatori e riformisti”). Soprattutto, c’è stato un progressivo svuotamento del concetto di massa, della compattezza culturale e di status degli strati sociali. La società si è fatta liquida, come ci hanno convinto le argomentazioni di Zygmunt Bauman e le condizioni di vita, di benessere, di lavoro, di espressione sociale e politica si sono sventagliate su un fronte vasto di identità.
Se così è, le cose si complicano non poco. E la rievocazione potrebbe essere archiviata a memoria storica. Il fatto, però, è che quell’evento non fu provocato da banali interessi e spicciole convenienze ma da scelte valoriali che anche nella nuova situazione mantengono intatto il loro influsso e la loro incidenza. Allora come oggi, la solidarietà emergeva come collante non effimero e predicatorio di una società impaurita dagli eventi, a disagio di fronte al futuro, incollerita per le disuguaglianze montanti e per una morale politica degenerata.

Allora ma ancora di più oggi, il conflitto è fra il capitale che è global e si dispiega con una disinvoltura spesso cinica nel cogliere le migliori opportunità nel mondo, mentre il lavoro è local, meno mobile e soprattutto è sottoposto a carichi di dolore e sofferenza e di travolgimenti personali e collettivi che i detentori di capitali né conoscono e né riconoscono.
E infine, allora e anche oggi, il valore della rappresentanza politica e sociale viene scosso anche violentemente ma non negato e la questione che si ripropone è la necessità di visioni convincenti e di soggetti che le sappiano trasformare in obiettivi praticabili e praticati. Ricondurre la soggettività dei singoli ad una identità collettiva è fatica molto più grande che nel passato, è la stessa fatica che occorre mettere in campo per ridefinire destra e sinistra.

E’ quanto mai urgente affrontare questo groviglio di questioni. Non tifando ma discutendo, senza pregiudizi, possibilmente. Con una premessa. La società nella quale ci riconosciamo è quella disegnata dalla Costituzione, con istituzioni, partiti e corpi intermedi che possano agire – ciascuno per il proprio ruolo – per migliorare la vita degli italiani.
In particolare, i corpi intermedi della società e le organizzazioni di rappresentanza, in particolare, non possono essere considerati da nessuno come un intralcio, un fastidio, un’ inutilità da parte delle istituzioni o dei partiti. Si può non essere d’accordo con le loro scelte, ma non si possono considerare degli ectoplasmi di una società.
Specie quando la questione centrale di una società come la nostra è il lavoro, il suo futuro, la sua capacità di far realizzare le persone, la sua ragione di sempre: la dignità. Ma è meglio essere più precisi. All’ordine del giorno si sta imponendo l’esigenza della ricomposizione del mondo del lavoro. Senza un’opera di lunga lena che riconnetta ciò che in questi anni è stato frantumato, è veramente difficile dare centralità al lavoro.

Il che vuol dire dare lavoro dignitoso a chi non ce l’ha. Dare stabilità a chi un lavoro ce l’ha ma è segnato dalla “cattiva flessibilità”. Fare in modo che chi un lavoro stabile ce l’ha, non corra il rischio di perderlo e di non trovarne un altro. In questi anni, queste varie sfaccettature del lavoro non hanno avuto la stessa importanza, attenzione, visibilità.
C’è bisogno di discontinuità nell’azione di tutti i soggetti che intervengono intorno a questo tema. Troppi anni sono stati spesi inseguendo una crescita della produttività agendo prevalentemente sulla componente costo del lavoro, in special modo forzando le maglie di una pur necessaria flessibilità dei contratti, usabili dalle aziende e dalle istituzioni pubbliche.
Infatti, in questi ultimi trenta anni, il salario reale è stato sostanzialmente e mediamente tutelato dalla contrattazione (smentendo quanti vedevano nell’abbandono della scala mobile l’inizio della fine della difesa del salario dall’inflazione). Il sindacato, come autorità salariale, ne esce vincente, anche se una buona quota della crescita è stata assorbita dal prelievo fiscale e para fiscale.
Ma è un successo zoppo. In questi trenta anni, la quota del salario rispetto ai profitti e alle rendite ha subito una compressione. Inoltre, l’azione salariale del sindacato non è stata sufficiente a stimolare la crescita della produttività industriale e di sistema, come avvenne negli anni 70 del secolo scorso. Infatti, non solo la contrattazione di secondo livello non si è estesa come auspicava l’accordo del 92/93 specie quella sull’organizzazione del lavoro, ma si è allargata in modo strutturale la fascia dell’occupazione non standard. Questa, assieme al persistere del lavoro nero e delle produzioni irregolari, hanno contribuito – ma, ovviamente, la responsabilità maggiore è di un’imprenditoria dimostratasi non lungimirante – ad infiacchire la spinta agli investimenti innovativi e quindi a mantenere bassa l’ efficienza delle produzioni di beni e servizi.

Ora che il Governo, indipendentemente dal giudizio che possiamo avere sul Jobs Act, dimostra di voler favorire la riduzione dell’area del lavoro non standard ben oltre il settore privato, come sembra di perseguire nella scuola, bisognerebbe smettere di fare nuove norme sul mercato del lavoro. Bisognerebbe dissuadere quanti vogliono mettere le mani sui contratti con regole lombrosiane (nel decreto per il riordino dei contratti gli articoli sono 57 di cui 11 riguardano soltanto il contratto a tempo determinato). Bisognerebbe convincere quelli che vorrebbero introdurre per legge il salario minimo che così non si tutelano i nuovi mestieri e le nuove professionalità, ma si favoriscono soltanto quegli imprenditori che vogliono uscire dalla cornice protettiva dei contratti collettivi nazionali.
L’impegno maggiore dovrebbe essere spostato sulle misure per far crescere la produttività e l’occupazione. E per praticare questa strategia, non servono scelte lineari, ma mirate a dare risposte a situazioni che sono oggettivamente articolate. Si insiste molto sulla stretta correlazione tra occupazione e crescita del sistema produttivo. Ma non si discute molto su come realizzarla.
Alla parte produttiva che vive di esportazioni, il basso costo del petrolio, l’euro premiato rispetto al dollaro, le iniezioni di liquidità della Bce bastano ed avanzano per rendere competitivi i loro beni sui mercati del mondo. Anzi, per alcune aziende va aggiunto che anche il costo del lavoro è fattore di vantaggio rispetto ai loro concorrenti. I dati lo confermano: nel 2014, l’export italiano della meccanica ha superato gli 80 miliardi di euro contro i 50 del 2002 (Istat).
Di conseguenza, le risorse pubbliche andrebbero mirate alla riattivare della produzione di beni e servizi destinati alla domanda interna. Ma anche su questo fronte, sarebbe inutile agire sul lato delle incentivazioni alle aziende. Al netto della stabilizzazione strutturale della decontribuzione dei nuovi assunti, per favorire la ripresa dei consumi, va privilegiata la riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi, obiettivo per il quale ci sono molte ragioni a favore, tante aspettative maturate ma scarse volontà a trasformarle in certezza.
Infine, investimenti pubblici ed incentivi per quelli privati andrebbero spinti per coprire il vuoto lasciato dal quel 25% della produzione industriale persa definitivamente nel corso degli ultimi 7 anni. Industrie e servizi efficienti e tecnologicamente avanzati dovrebbe essere la priorità per non perdere i contatti con il futuro e per allargare gli spazi occupazionali. Se bisogna sostituire la parte distrutta e sostenere quella sopravvissuta del tessuto produttivo italiano, la politica industriale che si deve affermare non può che essere “ricostruttiva” e muoversi su due livelli.
Quello della dotazione di progetti e di risorse. Hanno ragione quanti sostengono che non basta inondare di liquidità le banche. Il Quantitative easing della Bce è importante, sarà utile ma la risposta soltanto monetaria – specie con i vincoli che l’accompagnano – non è sufficiente per garantire la ricostruzione. Ci vogliono piani di investimenti pensati per il medio e lungo periodo, a redditività differita, riguardanti beni “reali” sulla falsa riga di quanto previsto dal Piano Juncker. Il quale, ha un serio tallone d’Achille: la sua dotazione finanziaria. All’Italia, ha scritto Vaciago, “i mancati investimenti (pubblici e privati) degli ultimi dieci anni (in molti casi, non sono state fatte neppure le manutenzioni, cioè si è mangiato il capitale) e la stessa capacità di sostituire il capitale che la crisi ha reso obsoleto, ci dicono che nei prossimi anni abbiamo bisogno di un volume d’investimenti dell’ordine di quanto il Presidente Juncker ha proposto per l’intera Unione europea “ (Il sole24 ore 18/04/2015).
Il secondo livello è quello della governance. Senza “Eta Beta” che guidano la pratica attuazione di una politica per l’economia della conoscenza, fatta di progetti e risorse, si rischia di fare la fine dei “tagli lineari”: dare corpo all’irrilevanza dei fini. Le erogazioni a pioggia hanno l’effetto di allocare risorse a caso. Può andare bene, ma anche male. Un sistema di regie è necessario. Specie ora che le grandi famiglie industriali, quelle del miracolo economico della metà degli anni 60 dello scorso secolo, sono praticamente sparite o trasferitesi altrove. Nessuno è nostalgico dell’IRI (specie quello dell’ultimo periodo), ma qualcuno che faccia da “pivot”, in una squadra di imprenditori privati e pubblici di media e piccola stazza ci deve pur essere. Di fatto è in campo soltanto la Cassa Depositi e Prestiti, ma non è un soggetto imprenditoriale, neanche se si fa un cambio della guardia al suo vertice in chiave industrialista. Gestendo il risparmio degli italiani che si affidano alle Poste, non può che camminare con un passo felpato lungo il sentiero, in parte imprevedibile, del futuro dell’industria italiana.
Soluzioni preconfezionate non ce ne sono. Esempi interessanti soprattutto negli Stati Uniti o in Germania sono a disposizione. L’importante è che si formino uno o più sistemi di governance capaci di rieducare i cicli economici e finanziari, abituandoli all’idea della redditività differita nel tempo e consentendo di mettere in sinergia l’imprenditorialità privata, le risorse delle università e i centri di ricerca pubblici e privati.
Anche se si pensa al Mezzogiorno, l’attuale economia della sopravvivenza può essere soppiantata dall’economia dell’innovazione se si riempie il vuoto di governance strategica. Le Regioni hanno dimostrato di non esserne capaci. Restituiscono soldi a Bruxelles. E quelli che riescono a spendere, se sottoposti a criteri di costi/benefici, molto spesso farebbero una cattiva figura. Sarebbe necessaria la creazione di tante “Fondazioni con il Sud”, capaci di orientare e sviluppare iniziative che nascano dal territorio e che devono essere sostenute nel loro progresso verso l’ampliamento dei mercati.
Come non bisogna escludere di utilizzare le potenzialità finanziarie dei Fondi Pensione contrattati, da orientare verso gli investimenti bisognosi di capitali pazienti, piuttosto che continuare a delegare ad altri soggetti finanziari, per quanto seri e affidabili, le strategie di allocazione delle risorse, che finiscono, semmai, per sostenere aziende estere e in alcuni casi anche eticamente discutibili (produttori di armi).
Ma nessun economista obiettivo può garantire che la piena occupazione, specie giovanile, possa essere soddisfatta, anche se si dovessero realizzare tutte queste condizioni. Essa resterà sempre sullo sfondo, lontano da visibilità normali. A meno che non si proceda verso una diffusa e strutturale ripartizione del tempo di lavoro. Ciò si potrebbe attuare finanziando i contratti di solidarietà passivi ma soprattutto attivi. La legge c’è già, ma allo stato, soltanto i primi dispongono di risorse, abbastanza risicate. Resta scoperta la possibilità di attivare contratti di solidarietà attivi, quelli che possono riguardare aziende che utilizzano al massimo gli impianti ma intendono ridistribuire il lavoro al fine di realizzare nuove assunzioni, possibilmente di giovani.
Ovviamente, questa ipotesi non può essere confusa con un surrettizio “imponibile di manodopera”; l’obiettivo è quello di non modificare il costo del lavoro complessivo e la sua realizzazione è lasciata alla libera volontà delle aziende e dei lavoratori. A tal fine, sarebbe un significativo segnale verso i giovani in cerca di lavoro se si pervenisse ad un’intesa tra Governo e parti sociali per definire la cornice negoziale per attivare l’utilizzazione delle risorse disponibili, fermo restando che la reale concretizzazione delle finalità della riduzione dell’orario di lavoro è affidata alla gestione contrattata della riorganizzazione aziendale del lavoro.
Un progetto come questo sarebbe ancora più apprezzabile se non si limitasse a prevedere soltanto la riduzione dell’orario di lavoro e le sue modalità decentrate ed articolate, ma anche e soprattutto se disegnasse un nuovo paradigma tra tempo di lavoro e tempo di vita per ciascuna persona, in relazione alle proprie necessità, interessi e persino desideri. Non riguarda soltanto la dimensione del tempo libero ma l’attivazione di servizi al lavoro, tra cui spicca con sempre maggiore importanza la formazione continua. Questo capitolo del futuro del lavoro lo devono proporre prioritariamente i sindacati confederali, senza attendere l’iniziativa delle aziende o del Governo. E lo devono fare partendo dalle esigenze e dalle aspettative sia di chi lavora che di chi è disoccupato.
Questo riferimento all’azione dal basso, consente di aprire una finestra su un altro aspetto della produttività: quello dell’organizzazione aziendale. Le imprese che si stanno impegnando per uscire indenni dalla crisi e quelle che stanno emergendo nella crisi puntano su forti innovazioni tecnologiche e organizzative per le quali la qualità del lavoro è condizione fondamentale e non facilmente fungibile. Anzi, scelgono con convinzione la strada della partecipazione dei lavoratori al miglioramento e alla gestione del lavoro quotidiano. Tutto questo è presente in molti accordi, quasi sempre unitari, che si sono succeduti in questi anni, ai margini delle cronache, giustamente infittite dalle vicende drammatiche e complesse riguardanti la perdita del lavoro.
Dove il lavoro c’era ancora, imprese e sindacati, management e lavoratori hanno imboccato la strada dello scambio tra miglioramento della produttività e ridistribuzione del valore aggiunto ai lavoratori. E spesso non solo in termini di salario ma anche in termini di partecipazione organizzata al cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Inoltre, non mancano accordi dove lo scambio ha riguardato servizi e prestazioni più corrispondenti alle aspettative delle persone. Si badi, non c’è niente di paternalistico da parte delle aziende in fatto di welfare aziendale. Lo dichiarano esplicitamente. Sono disponibili a venire incontro ad esigenze che il sistema pubblico non è più in condizioni di assicurare o che è in ritardo nel recepirle, individuando le risorse nei mutamenti efficientistici dell’organizzazione del lavoro.
Lavoratori e sindacati hanno risposto in maniera esemplare. Non parti uguali, ma selezione delle priorità. Non i soliti “pochi, maledetti e subito”(con riferimento ai soldi), ma individuazione degli interventi più efficaci per far star meglio quelli che hanno esigenze più pressanti. E’ significativo che bambini e anziani sono le preoccupazioni che spingono a definire tante forme di sostegno a quelle famiglie che li hanno semmai entrambi in casa, senza distinguere sui destinatari, perché si parla sempre di lavoratori e non di uomini o donne. Soluzioni che vanno oltre le agevolazioni di legge. Misure che travalicano le prescrizioni del contratto nazionale. Mezzi e strumenti che nascono dal confronto tra le parti, vengono riadattati sulla scorta dell’esperienza e si proiettano nel territorio, provocando, spesso, anche lì, un salto di qualità. Specie dove prevale la piccola azienda.
La contrattazione decentrata, piuttosto che il contratto nazionale, si sta rivelando la fucina dell’innovazione contrattuale e della misurazione dell’efficacia del ruolo del sindacato. Ed è ad essa che va affidata la migliore combinazione tra le esigenze di produttività, la massimizzazione dell’occupazione e i bisogni dei lavoratori. Questo non significa buttare a mare il contratto nazionale. Carsicamente, fa capolino il mantra del livello unico contrattuale. Piuttosto occorrerebbe ripensare ruolo, tempi di vigenza e poteri regolatori del contratto nazionale in una fase inedita ma non di breve periodo. Quella che mischia inflazione bassa, disomogeneità forti delle condizioni delle aziende, interessi convergenti o accentuati più sulla filiera della crescita del valore o del distretto produttivo che di quella settoriale e territoriale.
Ricomporre le tante facce del lavoro non standard con quello standard, significa scongiurare la radicalizzazione del carattere dualistico e diseguale del mercato del lavoro e la solidificazione di una tremenda faglia che può terremotare definitivamente il rapporto tra le generazioni: tra chi ha rappresentanza sociale e chi non ce l’ha; tra chi ha tutele decenti se non forti e chi non ce l’ha; tra chi ha avuto la possibilità di costruirsi un futuro dove passare decorosamente la sua vecchiaia e chi questa possibilità di “futuro” non ce l’ha.
Significa anche interrompere il vero ”accerchiamento”, per dirla con Guido Baglioni, che il sindacalismo confederale sta subendo da un tempo non breve. Premesso che questo non può essere ragione di frustrazione – ma la notevole adesione organizzativa fa da antidoto, nei gruppi dirigenti, a questa inclinazione – né che valga la pena di rintuzzare quanti vorrebbero amplificare il fenomeno a fini denigratori, la questione è sul tavolo.
Basta tener presente, tra i tanti elementi oggettivi dell’”accerchiamento”, il dato della proliferazione dei contratti collettivi nazionali. Non è il più eclatante, ma proprio per questo, significativo di una tendenza opposta a quella che si proclama: la loro semplificazione e riduzione. Infatti, se nel 2011 i CCNL depositati al Cnel per obbligo di legge erano 509, alla fine del 2014 erano diventati ben 708. Alcuni sono gestiti dai tradizionali soggetti contrattuali ma parecchi riguardano associazioni datoriali e sindacati dei lavoratori, non certificati sul piano della loro rappresentatività, che hanno firmano uno o più contratti fotocopia e hanno costruiscono attorno ad essi un’organizzazione, centri servizi, patronati, caaf, formazione, presenze istituzionali; in definitiva, si sono assicurati la possibilità di essere sul “mercato” a prescindere dalla consistenza rappresentativa.
Può darsi che una legge di sostegno agli accordi tra le parti sociali sulla rappresentanza possa dare una mano ad evitare le degenerazioni rappresentative. Ma la questione è politica ed espone il sindacalismo confederale alla riqualificazione della propria identità. Il passaggio decisivo è quello della rimessa assieme dei cocci, della necessità che i deboli siano tutelati come i forti del mercato del lavoro, della inclusione dei nuovi lavori nella rappresentanza consolidata di quelli di più lunga data.
Optare per questa non facile ma possibile prospettiva implica dare il giusto peso ad altre ragioni dell’”accerchiamento” che pur ci sono. Basti pensare al risorgente attrito tra il primato della politica e quello del sociale. La nostra società è talmente complessa – e le recenti elezioni regionali aggiungono indizio ad indizi, prefigurando una certezza – che è impensabile riprodurre uno schema di relazioni per cui i corpi intermedi siano subalterni alla politica o che le istituzioni sono per principio organizzatrici di consenso. L’autonomia propositiva e rappresentativa delle istituzioni, dei partiti e dei sindacati – ciascuno per proprio conto – è un dato costituente delle dinamiche sociali e politiche. Almeno dal quel referendum dell’85.
Nessuna forzatura reale è possibile. Certo, non è tempo per applicare a questi tre soggetti la teoria dei giochi del matematico Nash, recentemente scomparso. Ma neanche che, in alternativa ad un sistema a somma zero, si possa sostituire un’egemonia schiacciante di uno di essi. Ovviamente, il rischio è maggiore se il sindacalismo confederale si presenta in ordine sparso, specie in un momento in cui sembra che, soprattutto per ragioni politiche, gli accordi separati sono meno perseguiti che in altre fasi più recenti. Però non sembrano esserci motivi sufficienti per enfatizzare lo scontro tra politica e sociale.
C’è un altro tema che può risultare deviante: quello di un conflitto tra decisionismo e partecipazione. Ha avuto un’accelerazione sin dal Governo Monti ma ora è ancora più pressante, come se la necessità di assumere decisioni “toste” dovesse sempre avere la precedenza sulle ragioni della partecipazione. La realtà è che, per una lunga stagione, il pendolo non ha oscillato tra questi due poli, ma è rimasto drammaticamente fermo nella zona di nessuno della toppa, dell’aggiustamento, del rinvio, del veto incrociato, del dialogo ridotto a rito. Bisogna prendere atto che la gente vuole decisioni definitive e preferibilmente sensate. Le persone diventano sempre più intolleranti verso soluzioni blande e inefficaci.
La partecipazione, la creazione del consenso, però, non sono un fatto di forma. Decidere soluzioni robuste e in tempi rapidi e costruire un consenso il più vasto possibile devono per forza trovare le condizioni per convivere. La partecipazione è un processo di coinvolgimento necessario perché le soluzioni adottate resistano nel tempo. Gli accordi del 92/93 sul nuovo sistema contrattuale ha retto per un paio di decenni proprio perché fu largamente partecipato. Tutti i protagonisti, quindi, dovrebbero convenire su questo equilibrio e trovare le modalità per renderlo efficace, senza rinfacciarsi volontà di prevaricazione.
Né, infine, va data soverchia cittadinanza alla ventilata sfida tra conservatorismo e riformismo nella dialettica politica e sociale attuale. Il sindacato confederale è costituzionalmente riformista. Forse può indulgere in atteggiamenti para corporativi e sarebbe meglio che non scivolasse in chiusure controproducenti. Ma anche in queste circostanze, la negoziazione è sostanzialmente modalità di gestione del cambiamento, sia nei luoghi di lavoro che nella società, sia che riguardi il salario o il welfare o servizi fondamentali, come la scuola.
Inoltre, il sindacalismo confederale, ha dimostrato sempre di non essere ideologico, di non voler fare battaglie dottrinarie. Da Buozzi, Di Vittorio e Pastore in avanti, la storia del sindacato ha avuto sempre, come minimo, la stella polare del “marciare divisi, colpire uniti”. E allora, a dividere non il sindacato ma il mondo era lo scontro tra democrazia e comunismo, era la “guerra fredda”. Se si rimanesse sul solco di quel riferimento dei “padri”, le derive estremistiche o i tentativi di mettere nell’angolo dell’irrilevanza il sindacato potrebbero essere meglio evitati.
Ma occorre capacità di elaborazione e costruzione di una opinione diffusa che semmai anticipino e non subiscano gli eventi. Tarantelli aiutò tantissimo il sindacato ad affrontare con tempismo e sicurezza la drammaticità dell’alta inflazione e a costruire un nuovo sistema di relazioni sindacali. In un contesto del tutto diverso ma altrettanto difficile, com’è quello attuale, saper scegliere cosa conservare e cosa cambiare è il miglior modo per non essere sopraffatti dalle circostanze.
La questione vera, quindi, resta quella di una strategia di superamento del dualismo nel mercato del lavoro e di pieno coinvolgimento di tutti i lavoratori nella vita del sindacato. Per i gruppi dirigenti del sindacato la sfida di smantellare l’”accerchiamento” è aperta e sotto certi aspetti è inedita, investendo anche le caratteristiche della vita interna alle organizzazioni. Le difficoltà non mancano, ma sono affrontabili, se prevale la voglia di osare, piuttosto che quella di non sporcarsi le mani. “Il meglio che si può ottenere nella vita è di evitare il peggio”, scriveva Calvino ( Se una notte d’inverno un viaggiatore).
L’ottimismo sulla praticabilità di questo disegno a più livelli potrebbe sempre essere smentito dai fatti. Ma si fonda sul convincimento che non si può vivere a lungo spaesati. Non servirebbe a niente; anzi, farebbe prevalere la sfiducia. La ricomposizione del lavoro e di una visione comune del futuro del Paese, oltre che necessaria, deve diventare possibile. Ci vuole, quindi, un’impronta riformista nella quale si riconoscano le forze vitali del Paese. Ed essa non può che lievitare dalla concretezza delle situazioni di vita della gente.
D’altra parte, come è successo in altri momenti della storia del sindacato, è stato sempre nella “nottata” e non quando le cose andavano bene per l’economia e per l’occupazione, che il sindacalismo confederale ha dato il meglio di sé nel fornire ai lavoratori e al Paese certezze, prospettive, spinte al progresso. Anche con scelte costose, poco comprese da alcuni ma assunte con grande visione del futuro dai dirigenti sindacati dell’epoca. Penso, per citarne alcuni, all’accordo sui licenziamenti dell’inizio degli anni 50, a quello di San Valentino del 1984, al superamento della scala mobile del 1992/3. Furono grandi momenti di assunzione di responsabilità, apprezzate da gran parte dei lavoratori e non solo da essi. Una nuova occasione si sta profilando, una nuova fase si può aprire. Bisogna soltanto fare in modo che siano colte, da tutti, con determinazione.

Ecco perché Bonanni ha lasciato la Cisl. Intervista a Carlo Clericetti

imagesDa ieri Raffaele Bonanni è dimissionario dall’incarico di Segretario Generale della Cisl, una decisione imprevista. Per saperne di più, e per capire dove andrà la Cisl del dopo Bonanni,  abbiamo intervistato Carlo Clericetti, giornalista economico del gruppo editoriale “Espresso”.

 

Clericetti, Raffaele Bonanni ha rassegnato le dimissioni da Segretario Generale della Cisl con un certo anticipo. In una intervista Bonanni ha affermato che “non è uomo per tutte le stagioni”,  però, a leggere alcune voci giornalistiche, sembrano più dimissioni “spintanee” che spontanee. Che è successo, secondo lei?

Quello che mi hanno riferito varie fonti interne alla Cisl è che circolava un dossier da cui risulterebbe che da alcuni anni i versamenti all’Inps per la pensione di Bonanni corrisponderebbero a uno stipendio mai visto nei sindacati. Non è chiaro se ci siano state o meno irregolarità, e di fatto se così non fosse sembrerebbe un po’ poco per provocare una tale reazione, ma comunque questo avrebbe provocato la richiesta di dimissioni immediate da parte dell’esecutivo della Cisl. D’altronde fino a pochissimi giorni fa non c’era stato assolutamente nessun segnale dell’intenzione di passare la mano, quindi è credibile che la cosa sia stata provocata da un evento improvviso e imprevisto come questo.

La Cisl di questi anni (gli anni di Bonanni) non ha brillato molto nello scenario politico-sindacale. Qual è secondo lei il bilancio della Segreteria Bonanni?

 Premesso che anche la Cgil appare in difficoltà non indifferenti, Bonanni lascia un sindacato che dà l’impressione di non avere alcuna strategia né capacità di proposta, e si limita a giocare di rimessa preoccupandosi più di conservare un ruolo di interlocutore del governo e della Confindustria che di contrapporre un disegno alternativo alla politica di svalutazione del lavoro figlia dell’ideologia neo-liberista, che nonostante i danni prodotti continua ad essere egemone. Una volta il sindacato era un centro di discussione, elaborazione e proposta, ma di queste cose oggi non si vede neanche l’ombra, di dibattito interno non si vede traccia e i tempi di Ezio Tarantelli appaiono da libro di storia.

Qual è stato il suo limite? 

Aver assecondato il disegno di divisione del sindacato confederale e di emarginazione della Cgil, perseguito tenacemente dall’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e da alcuni manager come Sergio Marchionne. Un errore particolarmente grave in una fase di debolezza del mondo del lavoro, prima pressato dalle conseguenze della globalizzazione, poi messo in ginocchio dall’esplosione della crisi e dalla sua gestione in una logica profondamente conservatrice. La divisione del sindacato, peraltro, non è solo una questione di vertici, è diffusa anche in una parte della base e dei quadri: in particolare nella Cisl c’è spesso una forte animosità nei confronti della Cgil. Invece di lavorare per ricucire, Bonanni ha fatto di questa divisione la cifra della sua politica. Questo ha ancor più aggravato le difficoltà già pesantissime e oggi, se non ci sarà un radicale cambiamento di linea, i sindacati corrono il rischio concreto di diventare irrilevanti. Alcuni aspetti dei provvedimenti annunciati dal governo, se passeranno così come sono stati ventilati, potrebbero segnare un rapido declino dei sindacati, Cisl compresa. Non sembra che Bonanni l’avesse capito.

Come si presenta al suo interno la Cisl dopo le dimissioni di Bonanni? Ripartirà il confronto?

Al momento si può solo sperarlo. Come ho detto, finora non c’era una vera opposizione a Bonanni, ma questo abbandono improvviso e imprevisto potrebbe rimescolare le carte e riaprire un dibattito interno da cui potrebbe emergere un nuovo leader. Al momento la cosa più probabile e più logica è che al prossimo Consiglio generale, già convocato per l’8 ottobre, venga affidata la guida all’attuale numero 2, Anna Maria Furlan, ma quasi certamente si deciderà di anticipare il Congresso, che si sarebbe dovuto tenere fra tre anni. Ora i tempi sono troppo stretti perché possa svilupparsi una discussione sui temi di fondo, che probabilmente invece si svilupperà nel periodo successivo.

Il prossimo Segretario Generale della Confederazione sarà dunque, molto probabilmente, Anna Maria Furlan. Sindacalista genovese, proveniente dalla categoria delle Poste. Per alcuni non ha “robustezza” sindacale. Come sarà , secondo lei, la Cisl della Furlan?

E’ difficile che si possa assistere a svolte immediate e radicali, anche se vale sempre il vecchio adagio che a volte un papa è molto diverso da quando era cardinale. Sulla carta quella della Furlan non sembrerebbe una segreteria “forte”, ma questo forse non è neanche un male, perché potrebbe favorire la riapertura del dibattito e un rinnovamento reale della dirigenza Cisl. La sua potrebbe anche essere una segreteria “di passaggio”. Vedremo presto se nella Cisl ci sono ancora uomini e risorse intellettuali in grado di restituire al sindacato quel ruolo di protagonista della politica nazionale che in passato è stato più volte determinante.