Quali sono gli effetti dell’indagine della Procura di Roma su Mafia Capitale , che ha visto il coinvolgimento di Salvatore Buzzi (a capo della Cooperativa 29 giugno), sul mondo del “terzo settore” italiano? Ne parliamo con Giovanni Moro, professore ordinario di Sociologia politica alla Universita’ “Roma Tre”. Moro è anche Presidente di Fondaca. L’autore è molto attivo sui temi della cittadinanza attiva. Per Laterza ha pubblicato un saggio che ha fatto molto discutere: “Contro il non profit” (una analisi severa su quel mondo).
Professor Moro, secondo lei l’incredibile vicenda criminale del responsabile della “cooperativa 29 Giugno”, Salvatore Buzzi , può gettare un ombra sul mondo cooperativo e quindi più in generale sul “terzo settore”?
Temo proprio di sì, e del resto sta già accadendo. Il punto è questo: per due decenni attorno alla etichetta “non profit” o “terzo settore” (è lo stesso) è stato costruito, grazie al supporto decisivo dei media, un alone di benemerenza a partire da iniziative indiscutibilmente meritorie la cui benemerenza, appunto, è stata proiettata su tutto l’insieme. Chi era “non profit” o di “terzo settore” era buono a prescindere. Questa situazione, benché fosse evidente che premiava anche chi non lo meritava e metteva i migliori sullo stesso piano degli altri, in fondo è andata bene a tutti. Però quello che nel mio libro “Contro il non profit” ho chiamato “effetto alone” porta con sé un altro effetto, che ho chiamato “effetto boomerang”. Succede, cioè, che quando qualcuno si comporta male tutti vengono giudicati allo stesso modo. Se una impresa privata viola la legge, la responsabilità viene attribuita solo ad essa; invece nel magma del non profit si riversa su tutti, anche sui moltissimi che non avrebbero alcun motivo di essere stigmatizzati. Ma questa è solo la conseguenza di non aver voluto fare chiarezza sulla “invenzione” del settore non profit e non aver voluto vedere a che cosa questa invenzione stava portando.
Resta, comunque, il fatto che su quella cooperativa non vi sono stati controlli, e questo pone il problema della trasparenza nel mondo del “terzo settore”. E’ garantito questo? Come rendere efficace la trasparenza? La Legge delega del governo sul “Terzo settore” come garantisce questo?
In generale, in Italia come altrove, è impossibile fare dei controlli simili a quelli che immagina chi pensa a questa soluzione per un magma di 300.000 enti che comprende anche bar, ristoranti, sindacati, Confindustria, cliniche religiose, scuole e università non statali, enti previdenziali come quello dei giornalisti, ecc. Non basterebbe un esercito per questo compito. Il problema si deve porre in modo più articolato, a mio parere. La cultura pubblica deve essere più attenta e devono essere fissati degli standard di comportamento: nel caso in questione, ad esempio, il fatto di dare lavoro a persone in difficoltà non può giustificare nessun rapporto abnorme con la pubblica amministrazione e nessuno si deve sentire a posto se lo fa; ma in tutt’altra dimensione non ci deve essere bisogno di una legge per stabilire che negli oratori non ci devono stare le slot machine come invece avviene. C’è poi da togliere alibi come quello del ruolo di controllo dei propri associati da parte delle centrali cooperative: visto che evidentemente non lo svolgono, bisogna che nessuno si possa nascondere dietro a questa finzione. Certo, la trasparenza è importante e l’obbligo della pubblicità dei bilanci potrebbe aiutare, ma non ci si deve illudere che possa risolvere, come ci insegnano casi diversi come quello di Parmalat. Penso che la cosa più importante sia concentrarsi sulle attività che vengono svolte: è quello che concretamente si fa, il modo in cui lo si fa e i risultati che si producono, in quanto legati all’interesse generale, che deve essere usato come metro di giudizio principale. Questo vuol dire rendere i beneficiari di queste attività importanti almeno quanto i donatori preoccupati che i loro soldi vengano spesi bene. Spero che il Parlamento, che sta discutendo la proposta di riforma del governo, colga questo punto, anche per fare pulizia in un magma in cui c’è veramente di tutto, ben al di là delle organizzazioni criminali.
Parliamo dei rischi d’infiltrazioni della criminalità organizzata in questo ambito: quali i settori più a rischio?
Direi che i settori più a rischio sono quelli dove girano soldi pubblici, in particolare quello dei servizi di welfare. Ma, come abbiamo visto, anche le pulizie, la cura dei giardini o l’emergenza neve possono diventare un buon affare allo stesso titolo degli immigrati che, come diceva il capo della banda romana, rendono più del traffico di droga. Dal punto di vista del tipo di organizzazione, le cooperative sociali sono sicuramente il soggetto più a rischio, in quanto favorito in molti modi per accedere a fondi pubblici. Lo abbiamo visto non solo a Roma, ma ovunque la criminalità organizzata abbia i suoi business. Non dimentichiamo però che c’è chi questi appalti li delibera.
Quali sono i “dark side” (lati oscuri) del “non profit”?
Se per “lato oscuro” intende gli atti illegali, il loro numero è basso ma la tipologia è ampia: si va dalla sottrazione di soldi della organizzazione alle truffe ai danni dello stato; dai maltrattamenti agli utenti dei servizi fino alla estorsione. Ma il vero problema, a mio parere, sono le patologie che non costituiscono violazioni di legge: situazioni ingiuste ma perfettamente legittime, come l’accesso al 5 per mille ad esempio di fondazioni di proprietà delle imprese private, o il fatto che a Roma 2800 enti non paghino l’IMU e tra questi enti ci siano circoli sportivi esclusivi o alberghi a cinque stelle che magari erano conventi; concorrenza sleale, perché se un bar o una palestra sono un’associazione culturale o sportiva hanno meno costi dei loro concorrenti, senza contare le associazioni che accedono al 5 per mille ma nello stesso tempo gestiscono un centro di assistenza fiscale dove i cittadini compilano la dichiarazione dei redditi; costi inaccessibili per i più come ad esempio quelli di servizi sanitari o scuole e università di fronte alle quali è giusto chiedersi “non profit per chi?”; e infine fenomeni di “mercatizzazione”, perché il non profit è diventato un grosso business e genera concorrenza per la raccolta fondi, privilegia le relazioni e la comunicazione sulla importanza dei progetti così come le organizzazioni grandi rispetto a quelle piccole, favorisce la creazione di servizi a scapito del dare voce e fare valere esigenze e bisogni dei cittadini; e naturalmente favorisce anche rapporti di subordinazione alle pubbliche amministrazioni desiderose di togliersi la responsabilità dei servizi pagandoli di meno.
Comunque sia il terzo settore è una realtà consistente: è fatta, stando ai dati Istat, di 4,7 milioni di volontari e produce il 3 % del Pil nazionale. Una cosa di assoluto rilievo per l’Italia. Il 6 di Agosto di quest’anno, il governo ha approvato una Legge delega che porterà a breve, si spera, una positiva innovazione legislativa di regolazione del settore. Le chiedo: quali sono i punti positivi di questa Legge? E quali sono i punti deboli?
Premetto che questi dati sono scarsamente utili, proprio perché non si possono “contare” insieme una organizzazione di volontariato sanitario e una clinica religiosa, o un ristorante e una mensa per i poveri, o un circolo sportivo esclusivo e un’associazione che porta i disabili in barca a vela. Se ci riferiamo a quello che tutti immaginano che sia il settore non profit, cioè organizzazioni che si occupano di tutelare diritti, prendersi cura di beni comuni e sostenere soggetti in difficoltà, scendiamo a meno della metà. Quanto alla legge delega, essa contiene molti interessi e logiche in conflitto tra loro: una logica di mercato del welfare, una di pura filantropia e beneficenza, una amministrativo-regolamentare, una fiscale e una politico-costituzionale, che è quella che a me personalmente sembra l’unica che valga lo sforzo. La legge coglie il punto che citavo sopra, quello della priorità da dare alle attività in connessione all’interesse generale come criterio di valutazione delle organizzazioni. Ma contiene anche una visione formalistica in cui gli statuti sono più importanti di quello che si fa e una visione estremamente riduttiva della sussidiarietà, vista solo come erogazione di servizi nel welfare, nonché la previsione che capitali privati (e quindi remunerati) entrino nelle organizzazioni cosiddette non profit. Speriamo che il Parlamento faccia un po’ di chiarezza e che si produca una riforma che risolve i problemi anziché crearne di nuovi come spesso è accaduto in questo campo.
Ultima domanda: Professore, nei giorni scorsi il nostro Paese è stato il teatro della rivolta delle Periferie (vedi Tor Sapienza e Milano). Quello della “periferia” è una frontiera classica per il “non profit”. Come rendere più efficace la presenza del “terzo settore”? Quali le priorità?
Viviamo in un mondo in cui nessuno può risolvere problemi come questo da solo. Occorre una collaborazione tra soggetti pubblici, ma anche privati come le imprese, e organizzazioni di cittadini che sono la parte che ci deve stare a cuore del magma del non profit. Ognuno ha delle competenze da mettere a disposizione, delle risorse da investire, dei poteri da esercitare. E lavorando insieme si possono ottenere risultati che nessuno di questi soggetti da solo potrebbe conseguire. E’ il significato più forte della sussidiarietà, introdotta nel 2001 nella nostra Costituzione. Il nostro paese, anche a proposito dei conflitti che possono sorgere tra i migranti e la popolazione residente in aree abbandonate (i “bianchi poveri” come li chiama la letteratura scientifica), è pieno di esempi di successo di cui però non si parla. Certo, quando l’amministrazione locale si preoccupa solo di scaricare su qualcun altro l’onere di non aver previsto o pianificato la gestione di una emergenza come quella dei profughi il gioco non torna più. E la colpa, naturalmente, è da entrambe le parti. All’inizio di quest’anno ha fatto giustamente scandalo il caso di una cooperativa che annaffiava con il disinfettante nel cortile del centro di accoglienza di Lampedusa i migranti appena arrivati, che stavano nudi al freddo. I dirigenti della cooperativa si sono difesi dicendo che il comune aveva dato loro troppi pochi soldi per gestire il centro e non avevano altra possibilità. Ma allora perché quel contratto è stato accettato se non consentiva di garantire standard minimi di dignità umana?