La solitudine del lavoratore

La solitudine del lavoratore

Un testo di Pierre Carniti
(Dal sito : www.eguaglianzaeliberta.it )

Pesante è la situazione del mondo del lavoro in questa epoca di crisi economica.  Pubblichiamo questa intensa riflessione, sulle paure e le ansie di questo periodo,  dell’ex Segretario generale della Cisl Pierre Carniti. Carniti è stato uno storico protagonista della lotta sindacale nel nostro Paese.  L’articolo è uscito sull’ultimo numero della rivista on line “Eguaglianza&Libertà”.

(…) Paure, ansie, afflizioni di quest’epoca non riescono a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Il rischio è che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e la sfiducia sulla possibilità di soluzioni democratiche ai problemi.

È facile capire perché la modernità propria dello sviluppo industriale abbia coinciso con l’epoca dei grandi capitalisti e la nascita del “proletariato industriale”. Ed anche perché essa sia stata costruita sul legame tra capitale e lavoro, fortificato dalla reciprocità della loro dipendenza. In effetti, la sopravvivenza dei lavoratori dipendeva dall’avere un lavoro. A sua volta la accumulazione e riproduzione del capitale dipendeva dalla capacità di impiegare mano d’opera. Per di più, il loro punto di incontro aveva un indirizzo stabile. Anche perché nessuno dei due poteva trasferirsi facilmente altrove. Per questo motivo le massicce mura delle fabbriche stringevano i partner in una sorta di prigione comune. Lo stabilimento era la casa di entrambi ed, al contempo, il campo di battaglia per una guerra di trincea.

Ad obbligare al faccia a faccia capitale e lavoro ed a legarli in qualche modo l’uno all’altro era la necessità di trovare una conciliazione nella compravendita. Una transazione nella quale i proprietari del capitale dovevano essere costantemente in grado di comprare lavoro ed i proprietari del lavoro dovevano  essere disponibili e stare all’erta. Cercare cioè di essere possibilmente sani, forti ed in condizione da non scoraggiare i potenziali acquirenti. Ciascuna parte aveva i propri interessi nel tenere l’altra in buona forma.

Non sorprende quindi che, in quella stagione, la “mercificazione” del capitale e del lavoro sia diventata la principale funzione e preoccupazione della politica e quindi dello Stato. Questi era infatti chiamato a provvedere a che i capitalisti fossero in grado di acquistare il lavoro e pagare il prezzo stabilito e che i lavoratori fossero alfabetizzati ed in relativa forma fisica. Pronti ad essere impiegati tutte le volte che se ne sarebbe manifestata la necessità. Perciò lo Stato assistenziale, vale a dire uno Stato dedito appunto ad assolvere questa funzione, serviva tanto alle aziende che ai lavoratori. Perché si trattava di un sostegno senza il quale né il capitale né il lavoro avrebbero potuto restare vivi e tanto meno crescere.

Naturalmente all’inizio alcuni considerarono lo “Stato Sociale” una misura temporanea. Destinata a sparire una volta che l’assicurazione collettiva contro le disgrazie avesse reso l’assicurato abbastanza audace e dotato di risorse da sviluppare appieno il proprio potenziale. O anche di trovare il coraggio di affrontare i rischi necessari per riuscire a reggere sulle sue gambe. Osservatori più scettici hanno invece visto nello Stato sociale un servizio sanitario finanziato e gestito collettivamente. Una operazione igienico-sanitaria da portare avanti almeno fino a quando l’iniziativa capitalista avesse continuato a generare spreco di risorse umane e sociali. Spreco che però questa non aveva le intenzioni, ed in alcuni casi nemmeno i mezzi, per riciclare. Il che significava per un lungo tempo. Tuttavia tutti (più o meno) concordavano sul fatto che lo Stato assistenziale fosse uno strumento volto a fronteggiare le anomalie. Ad evitare cioè le deviazioni dalla norma. Impegnandosi ad alleviarne le conseguenze qualora queste si fossero verificate. In effetti la concezione mai contestata, se non da minoranze eccentriche ed irrilevanti, era di favorire un funzionale rapporto reciproco tra capitale lavoro. Cercando di risolvere le più importanti e fastidiose questioni sociali che potevano insorgere nell’ambito di tale rapporto.

In questo contesto l’aspetto da tenere presente è che l’orizzonte temporale nella fase del capitalismo industriale era quello di lungo periodo. Per i lavoratori tale orizzonte derivava dalla prospettiva di un impiego a vita nella stessa azienda. Azienda che, seppure non considerata immortale, poteva comunque contare su un ciclo vitale stimato in generazioni. Per i capitalisti il “gioiello di famiglia”, destinato a durare oltre l’arco di vita dei suoi stessi fondatori, era incarnato soprattutto dalle fabbriche che venivano costruite e che entravano nell’asse ereditario, insieme al resto del patrimonio personale accumulato. Per farla breve: la mentalità “a lungo termine” nasceva dall’esperienza comune. Cioè dalla constatazione che i destini di chi comprava e di chi vendeva il lavoro fossero strettamente ed inseparabilmente interconnessi. E poiché si riteneva che lo sarebbero rimasti per lunghissimo tempo, diventava realistico ritenere che elaborare un modo di coabitazione sopportabile fosse “nell’interesse di tutti”. Come, in definitiva, lo era la negoziazione di regole di convivenza civile tra gli inquilini di uno stesso stabile. Naturalmente, perché quella esperienza riuscisse a mettere robuste radici è stato necessario un discreto lasso di tempo. Secondo alcuni storici, solo dopo la seconda guerra mondiale l’originario disordine del capitalismo ha potuto essere sostituito (almeno nelle economie più avanzate) da grandi aziende, forti sindacati, serie garanzie dello Stato sociale. Che, messe insieme, hanno costituito un fattore di sufficiente relativa stabilità.

Stabilità che non escludeva certo una continua dialettica e la conseguente conflittualità. Che, a sua volta, era resa possibile e persino “funzionale” dal fatto che, nel bene e nel male, gli antagonisti erano consapevoli di essere legati gli uni agli altri da reciproca dipendenza. In effetti,  gli scontri anche aspri, le prove di forza ed i susseguenti negoziati, in una certa misura, hanno rafforzato le due controparti. Per la semplice ragione che nessuna di esse poteva permettersi di andarsene per la propria strada. Entrambe sapevano infatti che la loro sopravvivenza dipendeva dalla capacità di trovare un compromesso. Cioè soluzioni accettabili per tutti. Questo spiega  perché, fin tanto si è ritenuto che quel reciproco stare insieme era destinato a durare, le regole di integrazione-coabitazione siano state il centro di intensi negoziati. A volte di acrimonia, scontri e rese dei conti. Altre volte di tregue e di compromessi. Questa dinamica, seppure tra alti e bassi, ha comunque consentito ai sindacati di trasformare l’impotenza dei singoli lavoratori in un potere di contrattazione collettivo. E di battersi, con alterni successi, per correggere normative penalizzanti i diritti dei lavoratori e per contrastare la pretesa libertà di manovra dei datori di lavoro nella determinazione delle condizioni di lavoro e dei trattamenti retributivi.

Oggi, questa situazione è radicalmente mutata. Addirittura capovolta. Il principale ingrediente del processo di cambiamento in atto è infatti la nuova mentalità a “breve termine”. Che ha sostituito quella precedente a “lungo termine”. Così sta avvenendo nel campo del lavoro, come in tanti altri aspetti della vita sociale. Persino i matrimoni “finché morte non ci separi” tendono ad andare fuori moda. Tra le nuove generazioni incominciano infatti a risultare una rarità. E’ comunque in diminuzione il numero di coppie impegnate a tenersi compagnia per sempre. Non stupisce quindi che la stessa sorte si sia riflessa anche sul lavoro.

Secondo stime recenti, un giovane americano, con un livello di istruzione medio, si aspetta di cambiare lavoro almeno 11 volte nel corso della sua vita lavorativa. Con ogni probabilità questa frequenza è destinata a crescere prima che il ciclo lavorativo dell’attuale generazione sia terminato. Non a caso, “flessibilità” è diventata la parola d’ordine più gettonata. E quando essa viene applicata al mercato del lavoro preannuncia la fine del lavoro come è stato inteso e vissuto dalle generazioni precedenti. In concreto essa annuncia l’avvento del lavoro intermittente, con contratti a termine, falsamente autonomo, privo di qualsiasi sicurezza, regolato fondamentalmente dalla clausola “fino ad ulteriori comunicazioni”. La vita lavorativa è perciò sempre più caratterizzata dall’insicurezza.

Si può ovviamente cercare di minimizzare questo stato di cose osservando che la storia dell’umanità è stata largamente costruita sull’incertezza. Non ci sarebbe quindi nulla di radicalmente nuovo. In una certa misura questo può essere vero. Tuttavia non si può non rendersi conto che l’incertezza odierna è di tipo completamente nuovo. I costi umani, i tipi di disastri che possono rovinare la vita di una persona, non sono della specie che si può contrastare, respingere, alleandosi con altri che si trovavo nella medesima condizione. Cioè cercando di unire le forze e di adottare misure  concordate ed appropriate, con il proposito di neutralizzare le conseguenze più insopportabili. Anche perché oggi i peggiori disastri colpiscono per lo più alla cieca. Tant’è vero che le loro vittime sono spesso il frutto di una logica incomprensibile. Non a caso non sembra esistere alcun modo concreto per prevedere chi sarà condannato e chi invece si salverà. Questo spiega perché l’odierna insicurezza spinge in modo irrefrenabile all’individualizzazione. La ragione è semplice: essa divide, anziché unire. E proprio perché non è possibile sapere chi domani si sveglierà in una situazione insopportabile, l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa. Tende a perdere significati concreti, percettibili. La periodica esplosione di proteste e ribellioni da parte di questa o quella categoria, di questa o quella corporazione (in difesa di interessi particolari) non cambia assolutamente i termini della situazione del lavoro dipendente.

Perciò, per il lavoro paure, ansie, afflizioni di quest’epoca sono diventate situazioni che si vivono sempre di più in solitudine. Esse non riescono infatti a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica, che tanto ha contribuito al miglioramento delle condizioni dei lavoratori, di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Ma, con il venire meno del pilastro della solidarietà fondato sulla convinzione di un  destino condiviso, il rischio è quello che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e persino la sfiducia circa l’esistenza e la possibilità di soluzioni democratiche ai problemi.

In ogni caso, il dato con cui ci si deve confrontare è che la società industriale, quale l’avevamo conosciuta nel secolo scorso, ha  ormai concluso la sua parabola. Con la sua estinzione anche lo stesso concetto di lavoro oggi assume un significato profondamente diverso dal passato. Le ragioni di questa trasmutazione sono molteplici e chiamano in causa diversi fattori. Compresa l’antropologia culturale. Ma, volendo rimanere ai semplici elementi di fatto, uno dei motivi di fondo del cambiamento in atto é che siamo passati dalla “società dei produttori” (nella quale i profitti derivavano in primo luogo dalla quantità di lavoro dipendente impiegato), alla società dei “consumatori” (nella quale i profitti vengono invece soprattutto dallo sfruttamento dei desideri dei consumatori). In sostanza è intervenuto un mutamento radicale nel modo di essere della maggior parte delle imprese. La cui funzione è sempre meno quella di rispondere a domande reali, quanto piuttosto quella di suscitare desideri.

Detto altrimenti, una delle novità con le quali siamo alle prese, consiste nel fatto che mentre la società industriale funzionava sulla base del presupposto che l’offerta doveva corrispondere ad una domanda reale, ora si ritiene invece che sia compito dell’offerta suscitare la domanda. E questo rovesciamento, questa filosofia di business, viene applicata a qualsiasi cosa venga prodotta. Dai beni di consumo, come da quelli finanziari. I prestiti perciò non fanno eccezione. Al punto che la società dei “consumatori”, nel giro di pochissimi decenni, si è trasformata nella società dei “debitori”. Infatti, fino alla esplosione della crisi finanziaria, l’offerta di credito serviva anche a creare ulteriore bisogno (e domanda) di credito. Poco importa se per fare speculazioni, od acquisti a rate di beni anche oltre le proprie disponibilità di reddito. Il risultato comunque è stato che la formazione prima e lo scoppio della “bolla” finanziaria poi sono state il prodotto di questa dinamica.

Agli aspetti derivanti dai cambiamenti intervenuti sul piano economico e sociale, si è aggiunto lo sconquasso provocato dalle scelte scriteriate della politica. Che, per quasi un trentennio, è stata ottenebrata da una sbornia ideologica fondata sul “liberismo” e sulla “deregolazione economica e finanziaria”. Quelle scelte dissennate ed avventuriste hanno pesantemente influito, tra l’altro, sul conto salato che siamo ora chiamati a pagare. Conto che include le conseguenze sia del “lavoro che cambia” che del “lavoro che manca”. Ci ritroviamo quindi nella situazione che Hannah Arendt aveva previsto già mezzo secolo fa. Con la formula profetica: “Alla società del lavoro viene a mancare il lavoro”. Nel senso tanto del significato, che della quantità del lavoro disponibile. Per altro, la Arendt interpretava giustamente questo sviluppo come una sorta di ironia della storia. Ironia riconducibile al fatto che nel più lontano passato nella società occidentale al lavoro era riconosciuto un valore minimo, in quanto gli si preferivano un mucchio di altre attività considerate più utili e sensate. Come: l’agire politico, la creazione artistica o la produzione artigianale. Con le quali, oltre tutto, potevano essere creati valori ed oggetti destinati a durare. Mentre, dopo che il lavoro dipendente ha incominciato ad assumere un significato preminente di appartenenza di identità, esso ha anche iniziato a diventare più rarefatto. Sia in termini di significato che di possibilità concrete di accedervi. Per di più con il passaggio dalla società “solida” a quella “liquida” (secondo la definizione di  Zygmunt Bauman), con la cultura dell’ “usa e getta”, il lavoro ha cominciato a cancellare immediatamente sé stesso nel consumo del proprio prodotto. E, poiché il lavoro dipendente ha pure iniziato a diradarsi (basti pensare ai tanti che vorrebbero lavorare, ma non riescono a farlo), la “società del lavoro” non ha più saputo che fare di sé stessa. Questo spiega perché la “società del lavoro stabile e retribuito”, predicata e promessa nel secolo scorso, sia diventata sempre meno credibile. E’ diventata meno verosimile per la decisiva ragione che il lavoro “stabile e retribuito” è da tempo in continua ed  inesorabile decrescita.

Dal sito : www.eguaglianzaeliberta.it

Nozze Gay? Un Si e un No (1). Intervista a Padre Luigi Lorenzetti

Vogliamo offrire ai lettori due riflessioni su un tema che divide, trasversalmente, la politica e l’opinione pubblica italiana: quello delle nozze gay. Oggi pubblichiamo l’intervista a Padre Luigi Lorenzetti, sacerdote dehoniano. Padre Lorenzetti è laureato in teologia, con specializzazione in teologia morale, alla Pontificia università S. Tommaso d’Aquino di Roma; è stato presidente dell’Associazione teologica italiana per lo studio della morale (Atism); insegna teologia morale allo Studio teologico S. Antonio di Bologna affiliato alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna; e all’Istituto superiore di scienze di Trento; dirige la Rivista di Teologia Morale; partecipa al comitato di direzione di Famiglia Oggi; collabora a riviste teologiche e a Famiglia Cristiana con la rubrica Il teologo. Continua a leggere

Alberto Tridente, la passione internazionale del Sindacato

Alberto Tridente, grande sindacalista torinese della Fim-Cisl e della Flm (la Federazione unitaria) dei metalmeccanici, è morto questa notte dopo una lunga malattia. Aveva da poco compiuto 80 anni. Tridente è stato un protagonista delle lotte operaie nella Torino degli anni ’50-60 e 70. Un innovatore nella cultura sindacale di quegli anni. Fece fare, infatti, un salto di qualità all’internazionalismo sindacale. Grazie a lui il sindacalismo italiano strinse rapporti di solidarietà con il sindacalismo dell’America Latina (in particolare con Lula – futuro Presidente del Brasile – cui divenne grande amico) e di altri parti del mondo.

E’ stato anche parlamentare europeo (venne eletto come indipendente nelle liste di DP).

Il suo impegno è stato sempre dalla parte degli oppressi e degli ultimi della società.

Alberto è instancabile nella promozione di coordinamenti tra i lavoratori e i sindacati delle imprese

transnazionali, per l’estensione dei diritti sindacali, sollecitando al massimo le centrali internazionali come la Fem (Federazione europea dei metalmeccanici) e la Fism (Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici).

Al cuore del suo impegno è la battaglia per la riconversione, parziale e progressiva, delle produzioni belliche in produzioni civili. Qui si scontra con molte resistenze, anche interne al sindacato,

ma Alberto non demorde, anzi provoca apertamente il sindacato e gli stessi lavoratori. In una assemblea tenuta nel 1974 alla Oto Melara, fabbrica bellica di La Spezia che aveva inviato cannoni  al Cile di Pinochet senza che nessuno del sindacato o della sinistra locali avesse avuto da eccepire, Alberto lancia una provocazione che diventa uno slogan da lui ripetuto in ogni occasione:

“produrre armi nella settimana e poi manifestare il sabato per i popoli contro i quali quelle armi

saranno usate è semplicemente incoerente e vergognoso”.

Alberto è anche l’animatore di una gigantesca operazione di boicottaggio del rame cileno, che

coinvolge aziende e sindacati di Italia, Francia e Olanda. Propone alla Fem (Federazione europea

dei metalmeccanici) e al Coordinamento dei delegati del settore bellico di affrontare gradualmente

il problema della riconversione; la questione entra anche in un discreto numero di piattaforme rivendicative, segno di un crescente interesse per il problema tra i lavoratori. Entra a far parte del Tribunale Russel.

“La sua storia di importante sindacalista – scrivono i suoi amici sindacalisti tra cui Pierre Carniti e Raffaele Morese – , soprattutto negli anni in cui i diritti dei lavoratori erano negati e si dovettero costruire del nulla, dice tanto ma non tutto della sua umanità e della sua dedizione a confrontarsi ed impegnarsi con gli altri e per gli altri; della sua amicizia che metteva a disposizione soprattutto di chiunque avesse bisogno di sostegno; del suo ottimismo che rifletteva tanto la sua origine di povero ed operaio, quanto il suo convincimento che l’impegno sindacale e la solidarietà cristiana sono riferimenti decisivi per il possibile riscatto sociale e per la resistenza ad ogni sofferenza”.

Così ci  è sembrato doveroso ricordalo in questo blog di “confine”.

Quello che pubblichiamo è una parte della sua biografia, uscito per la casa editrice  “Rosenberg & Sellier” Dalla parte dei diritti (pp. 360, euro 25.50, presentazione di Gian Giacomo Migone).

I luoghi dove ho lavorato

“Scorrendo questi decenni di storia vado spesso con il pensiero ai luoghi dove ho lavorato, sofferto per la fatica, e al solo ricordo provo ancora pena e sgomento, forse perché si tratta di posti abbandonati, senza più vita. Eppure lì ho lavorato, vissuto, ancora bambino, affrontando le dure realtà della vita, della guerra.

Ho già scritto di questi luoghi, forse non a sufficienza, specialmente di quelli che spesso rivedo perché su strade abituali o di altri volutamente rivisitati. Ho già parlato di Venaria Reale e della Reggia restaurata – in quella città sono nato e ci vivono una sorella, la vedova di mio fratello maggiore, i loro figli e altri parenti – e anche della cascina di Borgaro, nei pressi dell’uscita dalla Tangenziale nord, dove lavorai alcuni mesi nell’estate-autunno 1944. Ho anche scritto del Morin, il barbiere di Viale Buridani, dove ho incominciato a lavorare come “ragazzo spazzola” nel 1941: la bottega, prossima alle Case Operaie della Snia Viscosa, dove ha lavorato tutta la mia famiglia, genitori e fratelli e sorelle, non c’è più. Rimangono invece i vecchi estesi stabilimenti riutilizzati per altre attività. La cascina di Borgaro è ancora lì: abbandonata e silenziosa. Si intravedono solo dei silos, chissà che cosa contengono. I campi dove nell’autunno 1944 guidavo i buoi nell’aratura sono quasi del tutto scomparsi. Non si può immaginare che in quei campi un ragazzino di soli dodici anni lavorava duramente, scalzo e affamato, conducendo anche le pecore al pascolo. Da quella cascina fuggii di notte, in pieno coprifuoco, calandomi nel torrente Stura. Seguì il primo lavoro in fabbrica, la Giuntini, una quindicina di operai in Via Don Bosco, al Martinetto, uno dei quartieri popolari della città. Di quella piccola fabbrica rimane la sola targhetta della famiglia che vi abita a ricordarmi che lì ho lavorato per due anni, il mio primo ingresso in una fabbrica vera dal 1945 al 1947. Poco lontano, in Borgo Vittoria, c’era l’altra fabbrica, dove lavorai dal 1947 alla fine del 1953: la Fonti Luigi Eredi in Via Carlo Lorenzini, l’inventore di Pinocchio, meglio noto come Collodi. La fabbrica della Fonti Luigi Eredi è anch’essa silenziosa: non filtrano luci e i riflessi violetti dell’arco elettrico delle saldatrici al lavoro sono solo un ricordo. Fa tristezza la fabbrica muta; senza vita, morta, Fa tristezza come la cascina e la “boita” di Via Don Bosco, la fabbrichetta Giuntini. Anche la Fonti non era grande: una cinquantina di lavoratori tra meccanica e falegnameria, tutti amici i giovani, guardati con riverenza gli anziani. Ci lavorarono fraterni amici della Ceseta: Mario Barletta, Gualtiero Marangon, e altri di diverse comunità parrocchiali con i quali andai per montagne negli anni successivi. I tre fratelli Fonti l’avevano ereditata dal padre Luigi: erano professori alla Casa di Carità Arti e Mestieri, la scuola dove tornai a studiare dopo l’abbandono del 1941 per frequentare i corsi serali di orientamento professionale. In quella fabbrica imparai a saldare banchi per scuole, tralicci per appendere il tabellone con il cesto del gioco della pallacanestro e altre attrezzature ginniche per palestre. Infine ci furono le Ferriere di corso Mortara, il settore siderurgico della Fiat, dove lavorai per tre anni. In origine si chiamavano le Ferriere Piemontesi, prima che la Fiat le acquistasse per rifornire di lamiera le carrozzerie del Lingotto e poi di Mirafiori. In Via Livorno vi è ora la Ipercoop e dell’acciaieria di corso Mortara non rimangono che tralicci verniciati di rosso e l’immenso tetto che ricopriva la fila dei forni di rifusione dei metalli ferrosi. Lavoro duro, faticoso, caldo insopportabile: era però un mestiere importante. A seconda del rottame e degli ingredienti aggiunti, l’acciaio era trasformato in nobile metallo, anche inox, per i molti prodotti di uso quotidiano. Di quel mondo non è rimasto più nulla. Saranno pochi gli operai sopravvissuti all’usura, alle malattie, agli anni, soprattutto i miei più anziani compagni di lavoro, che mi insegnarono a lavorare, a saldare, a capire i processi chimici che avvengono durante la fusione dei metalli. Meno nobili, naturalmente, le patologie causate da quel lavoro: la silicosi era una di quelle più micidiali e frequenti, colpiva i polmoni degli operai e mieteva vittime nelle acciaierie e nelle fonderie. Era ed è ancora la malattia professionale più temuta, apre infatti la strada ad altre non meno gravi, come i tumori polmonari. Quelle malattie mi erano state risparmiate dalla provvidenziale proposta di andare alla scuola sindacale di Firenze, il ritorno alla scuola vera, quella che mi avrebbe aperto le porte agli incarichi e alle responsabilità da dirigente sindacale. Nonostante tutto quegli anni di lavoro manuale mi avevano dato molto, sempre accompagnati dalla professionalità e dalla conoscenza della vita operaia, dall’umanità dei compagni di lavoro, lottatori sindacali onesti, laboriosi padri di famiglia. Nella loro umiltà mi hanno insegnato molto, non solo professionalmente. Le grandi opportunità di crescita culturale e politica, che mi sono state offerte nel corso del tempo e che mi hanno portato lontano, sono state permesse anche dalla loro preziosa capacità di offrire esempi di vita ricca di validi insegnamenti. A tutti questi indimenticabili compagni di lavoro, di cui ricordo solo i soprannomi – come tali erano quasi sempre conosciuti – debbo molto, per tutto quanto è poi stato negli anni successivi della mia vita.

A Roma la Fim e la Flm sono rimaste in corso Trieste. Seppure nuovamente separate, le organizzazioni dei metalmeccanici coabitano nello stesso edificio di sempre, che vide nascere la Fim. Lì nacque anche il sindacato unitario di polizia, il Siulp. Ricordo con emozione la sera che tornando in sede vidi numerose auto della polizia ferme con le radio gracchianti. Erano le sollecitazioni che pervenivano dalla Centrale, ma gli equipaggi delle volanti non rispondevano: si erano riuniti nella sede sindacale dei metalmeccanici per costituire il loro sindacato, il primo sindacato di polizia, autonomo, democratico. Era stato uno straordinario passo in avanti nella democratizzazione del paese e si compiva nella sede del mio, del nostro sindacato!

Termina qui la storia, ma non la corsa. Questa continua nel tentativo di aggregare strutture di servizio pubblico ed enti amministrativi territoriali per realizzare altre iniziative da inserire nel programma di cooperazione, al quale sto dedicando immutata passione e gran parte del mio tempo. Non sento stanchezza né vivo delusioni di sorta, nonostante difficoltà non facili da superare. Il mio inesauribile ottimismo mi sorregge sempre, affidato non solo al mio carattere naturale, ma basato su quanto di nobile esiste nell’essere umano, che al meglio si esprime nella solidarietà e nel dono. Traggo fiducia ed energia dai molti e generosi esempi di dedizione di quanti si applicano ogni giorno all’attività nel volontariato, nelle ong, nelle cooperative sociali, negli ospedali. Traggo fiducia dagli onesti operatori dei servizi pubblici dei vari campi di attività e da quant’altro viene offerto alla cittadinanza da credenti e laici, uomini e donne dagli alti profili civili, e anche, nonostante tutto, dai molti altri onestamente impegnati ogni giorno nella politica e da semplici cittadini che, nel privato e nel pubblico, svolgono con rigore il proprio lavoro e dovere di cittadini. Dall’impegno dei singoli e dei gruppi, che non badano al proprio tornaconto personale o alla sola carriera, traggo questi stimolanti esempi.

Le carriere sono possibili e lecite, opportunità che non vanno ricercate come fine a se stesse, come del resto l’ascesa sociale spesso offerta dalle circostanze, senza per ciò dover vendere la propria anima a chicchessia. Basta fare il proprio dovere ed essere disponibili a servire ideali”.

Dal sito www.sbilanciamoci.info

La “Sanità di Dio”. Intervista a Ferruccio Pinotti

Le recenti cronache giudiziarie hanno portato alla luce fatti gravi di corruzione nell’ambito della Sanità nella regione Lombardia. Questo ci offre lo spunto per parlare della “Sanità di Dio” (ovvero del complesso sanitaria che fa riferimento direttamente o indirettamente al Vaticano). Ne parliamo con Ferruccio Pinotti, giornalista d’inchiesta del “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per Rizzoli il libro-inchiesta “La Sanità di Dio” (pagg. 442 – € 12,00). Continua a leggere