La crisi e “l’uomo di superficie”. Intervista a Vittorino Andreoli

Spesso nelle analisi sulla crisi che sta vivendo il nostro Paese non sempre si ha la consapevolezza della sua “radicalità”. Una crisi che non è solo economica ma tocca le profondità della nostra società. Ne parliamo con Vittorino Andreoli, grande psichiatra, che nel suo ultimo libro, daltitolo provocatorio, “L’Uomo di superficie” (ed. Rizzoli) analizza la condizione dell’uomo contemporaneo.

Professore, c’è un pensiero nelle pagine iniziali del suo ultimo libro (“L’uomo di superficie”)
che dà il senso a tutto al suo volume. La frase è questa: “L’uomo di superficie galleggia sulla
società liquida spinto da un desiderio morto”. E’ una frase che non lascia scampo…

La frase che riporto è proprio una sintesi apocalittica. Le devo dire che io avverto che c’è un reale pericolo,
che si possano proprio dimenticare, perdere i principi che hanno dominato nella nostra società e che ci sia
effettivamente il rischio che l’uomo che dominerà sia l’uomo di superficie, che è proprio messo insieme a
quell’espressione “società liquida” che è una delle frasi di Bauman che è diventata un’icona sociale. Io sono
un “pessimista attivo”, cioè sono uno che vede la realtà rabbuiata, ma tuttavia non sta lì ad aspettare, mi dò
da fare, e in questo mio libro cerco di dire che è possibile riconquistare la dimensione del significato della
persona, e quindi ritrovare una profondità e non perdersi sulla grande superficie della cute su cui abbia legato
la bellezza. Però la fine di una civiltà , cioè un modo di pensare, di un modo di comportarsi, del rispetto
dell’altro sia proprio vicino d una forma di oscurantismo, di possibilità di perdersi. Quindi descrivo anche
con toni neri ma nella speranza che ci possa essere un giro di boia, altrimenti questo libro termina con una
specie di letteraria apocalisse. Il termine uomo di superficie vorrebbe descrivere una tipologia di uomo
analogamente ad altre, Marcuse ha parlato di “uomo ad una dimensione”, Bauman di “società liquida”.
L’uomo di superficie è una tipologia, un homo che c’è adesso e non c’era prima. Ecco perché la differenza
tra “uomo di superficie” e “uomo superficiale” è enorme. Quando dico che l’uomo è superficiale penso che
egli potrebbe essere profondo, quando dico ad un uomo “il tuo discorso è superficiale” è come invitarlo a
fare delle considerazioni molto più critiche, più profonde. Quindi l’uomo, il superficiale è uno che può
diventare profondo. L’uomo di superficie no, perché tutto è stato collocato ormai sulla sua cute, perché è lì
che ha attaccato tutto ciò a cui dà valore. L’elemento primo a cui dà valore è la bellezza, la forma della cute,
le cose che sono cutanee. L’uomo di superficie è l’uomo che sa scivolare sulla cute. Ci tenevo subito a dirle:
ma perché io ho avvertito, vedo questa fisionomia dell’uomo di superficie? Perché comincio a conoscere le
malattie da bellezza, quella che è bella, ma teme di perdere le caratteristiche del seno, le labbra che si
spengono. Quindi quello che non è bello/a cerca di raggiungere la bellezza attraverso il trucco, la chirurgia.
Allora l’uomo di superficie non ha più niente dentro, per scherzare, dico che non hanno più neppure gli
organi interni, perché se si chiede ad un giovane cos’è al milza, non lo sanno, al più sanno qualcosa del
fegato, perché è responsabile del colesterolo che va sulla cute, sanno qualcosa dell’intestino perché non
devono mangiare. Non c’è più la mente, questa è solo qualcosa che serve a misurare la bellezza. Ecco
perché, vedendo qual è il ruolo che la bellezza legata alla cute ha nelle persone di oggi- non solo i giovani o
le donne, stiamo attenti, ma anche i vecchi, che sono malati di giovanilismo, che vogliono nascondere i loro
limiti, prendono il viagra- questo è l’uomo di superficie, non ha più valore, l’unico valore è la bellezza, che è
anche ricchezza, potere. Naturalmente non ce l’ho con la bellezza, non voglio demonizzarla, non si può
dire “che bella cute hai”, ma bisogna dire “che bella persona sei!” e la persona è fatta anche di corpo, ma è
fatta di mente, di anima, per chi crede.

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“Gli ultimi saranno i primi”. Intervista a Dominique Lapierre

Tutto quello che non viene donato va perduto” così insegna Madre Teresa di Calcutta. E’ questo è anche il messaggio di un suo grande “allievo” : Dominique Lapierre. Lapierre è stato un grande giornalista, inviato di guerra per “Paris Match” (dalla guerra di Corea alla guerra dei sei giorni, dalla Russia della “guerra fredda” agli Usa, fino alla “scoperta” dell’India poverissima della “Città della gioia”: la Calcutta di Madre Teresa. E qui avviene la svolta radicale della sua vita. Scrive un libro, “La Città della gioia”, che diventa un bestseller mondiale (12 milioni di copie vendute) e gli da molta notorietà. Continua a leggere

Sandro Pertini: la passione e l’onestà della politica

Sono passati ventidue anni dalla morte di Sandro Pertini (avvenuta il 24
febbraio del 1990 a Roma). In occasione di questo anniversario, e di quello di
Tangentopoli, la casa editrice Chiarelettere pubblica un prezioso “Istant Book”,
una bella antologia di scritti politici (che copre un ampio periodo storico: dalla
Resistenza alla Presidenza della Repubblica), dal titolo emblematico: La politica
delle mani pulite (pagg. 100, € 7,00). Il volume è curato dall’ex magistrato
Mario Almerighi, uno di quei, allora, giovani magistrati che indagarono, nella
seconda metà degli anni ’70, sul così detto “scandalo dei petroli” (ovvero sul
sistema corrotto di tangenti che le multinazionali del petrolio, insieme ai petrolieri
italiani, avevano pagato ai partiti di governo, pari al 5% dei vantaggi conseguenti
all’approvazione di provvedimenti legislativi in loro favore).

A leggere queste pagine si respira un’aria antica di passione politica coniugata da
un grande rigore morale. Non per niente il settennato di Pertini al Quirinale, per
il suo stile fatto di rigore costituzionale e umanità, è ancora vivo nella memoria
degli italiani.

La Presidenza di Pertini, il primo socialista a ricoprire quell’incarico, sono
coincisi con gli anni più tormentati della prima Repubblica (divenne Presidente
della Repubblica nel Luglio del 1978, appena due mesi dopo l’omicidio di Aldo
Moro, vennero poi i giorni della lista della loggia massonica P2, del terremoto
dell’Irpinia e lo scandalo del post-terremoto. Qui si consumò un vero e proprio
assalto deleterio alla finanza pubblica).

Si potrebbe, senza dubbio, affermare che l’opera di Pertini è stata una
declinazione rigorosa del legame necessario tra legalità e democrazia. Nessun
vuoto formalismo ispirava lo stile di Pertini. Il rigore morale era la conseguenza
dei suoi valori umani e politici:

“Amici miei – affermava Pertini – io non resto un minuto di più su questa sedia
se la mia coscienza si ribella. Non accetterò mai di diventare il complice di coloro
che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione”,
e concludeva con un monito: “la corruzione è nemica della democrazia”. Parole,
allora, inascoltate. E parole anche oggi attuali.

La “politica delle mani pulite” di Pertini, quindi, non era moralismo ma era
l’inveramento di quei valori centrati sulla Resistenza e sulla Carta Costituzionale.

La sua adesione al socialismo non aveva nulla di ideologico, nel senso deteriore del
termine, anzi! In una intervista, data a Enzo Biagi, affermava: “Per me il socialismo è
soprattutto l’esaltazione della dignità umana, della dignità del singolo. Quindi si sintetizza
in due istanze: la libertà e la giustizia sociale. Ma soprattutto la libertà: la mia e quella
dell’avversario , cioè di tutti. Un concetto che m’insegnarono uomini come Filippo
Turati e Claudio Treves. Poi la giustizia sociale. Senza di essa, la libertà diventa una
conquista molto fragile e vuota”. Parole “antiche”, certamente, come “antico” era il sogno
di Pertini di una Europa unita, nel solco dell’insegnamento di Altiero Spinelli, federale.

Europa come “patria della memoria”, come “fattore di equilibrio planetario e strumento
di coesione nel tormentato mondo attuale”.

Rigore morale e umanità è la lezione di Pertini. Per questo l’irruente Sandro torna a
parlarci anche oggi.

Tangentopoli: la vittoria del “gattopardo”? Intervista a Marco Damilano

Tra qualche giorno, precisamente il 17 febbraio, si compirà il ventennale di “Tangentopoli”. Su quella stagione i giudizi sono contrastanti: c’è chi dice, ipocritamente, che erano i giorni del “Terrore” (per via delle carcerazioni),  e c’è, invece, chi afferma che è stata una “rivoluzione”. Tra questi antipodi c’è spazio per una riflessione più articolata. Un punto però è acquisito: in quei giorni, crolla un sistema ormai esausto incapace di rinnovarsi. Di tutto questo parliamo con Marco Damilano, cronista politico di punta dell’Espresso, autore del libro, appena uscito in libreria, “Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica” (Ed. Laterza, pagg. 328 € 18,00). Continua a leggere

La frugalità felice. Intervista a Serge Latouche

Serge Latouche, professore emerito all’Università di Parigi, è il “profeta” della teoria della “decrescita felice”. Il suo è un pensiero “alternativo”, critico dell’ideologia dominante di stampo ultraliberista. Certo le sue sono tesi provocatorie, però fanno riflettere sugli effetti devastanti del “pensiero unico” e sulla follia consumistica. La casa editrice Boringhieri ha pubblicato il suo ultimo libro: Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita.

Professore, la crisi che stiamo vivendo, ormai da troppo tempo,   ha messo in discussione un modello di “sviluppo” centrato sulla crescita. Lei afferma che “l’unica via all’abbondanza è la frugalità”. Non è contraddittorio?

Sembra una contraddizione, anche un ossimoro, perché abbiamo ancora il “software” della crescita. Siamo totalmente colonizzati dall’ideologia della crescita. L’ideologia ci ha fatto credere che viviamo in una “società dell’abbondanza”,infatti non viviamo in una società dell’abbondanza  ma, invece,siamo in una società di scarsità. La società dei consumi è una società della frustrazione  perché dobbiamo sempre consumare. Questo lo sanno bene i pubblicitari. Dobbiamo sempre essere scontenti di ciò che abbiamo per desiderare ciò che non abbiamo e per consumare sempre di più. L’unica possibilità per riconoscere l’abbondanza è di limitare i nostri bisogni e desideri, questa si chiama frugalità. Se siamo frugali allora possiamo soddisfare i nostri bisogni. L’ha spiegato bene il grande antropologo americano Marshall Sahlins nel libro “Economia dell’età della pietra”. Per lui l’unica società dell’abbondanza è quella dei cacciatori del paleolitico, perché con una attività di due o tre ore al giorno potevano soddisfare i loro bisogni e dedicare il resto del tempo alla festa, al gioco, all’ozio.

Eppure di fronte a questa crisi i governi occidentali continuano ad affermare, l’ultimo vertice europeo di Bruxelles ne è la conferma, che bisogna puntare sulla crescita (specialmente per economie gravate da un forte debito pubblico come quella   italiana). Quali sono i limiti di questo paradigma?

Puntare sulla crescita per uscire dalla crisi è una stupidità e mostruosità. Una stupidità perché da molti anni la crescita che conosciamo con un tasso del -2% e anche -3% non crea più posti di lavoro. Per creare dei posti di lavoro ci vorrebbe una crescita del 4% o del 5% oggi non è né possibile né auspicabile perché distrugge troppo l’ambiente. Non possiamo più consumare ancora macchine, macchine, non è possibile. E’, poi, una mostruosità perché con la crescita siamo arrivati ai limiti dell’ecosistema, la crescita distrugge ancora più velocemente il pianeta. Siamo già nei guai con il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la fine del petrolio, ecc.

Esiste una alternativa al “Turbocapitalismo” finanziario? Se si, su quali basi?

Si l’alternativa è la “società della decrescita” o dell’abbondanza frugale. Per costruire questa alternativa si deve, naturalmente, uscire dal capitalismo, da questa logica distruttiva del produrre sempre di più per consumare sempre di più, generare sempre più rifiuti e distruggere sempre più velocemente il pianeta.

I suoi critici affermano le sue sono “utopie antimoderne” e “tecnofobe”. Come risponde a questa critica?

Sicuramente siamo contro una certa modernità o contro gli eccessi della modernità, non siamo contro il messaggio iniziale della modernità che era quello di una cemancipazione, ma invece di emanciparsi la modernità ci ha resi servi dei mercati finanziari, invece di renderci “autonomi” ci ha reso “eteronomi”. Siamo ora “sottomessi”, basta vedere l’esempio della Grecia anche a loro è stato proibito di fare un referendum sulla politica dell’austerità, Siamo contro questa tecnoscienza pilotata dalle multinazionali, vogliamo un’altra scienza meno aggressiva (meno prometeica) più ecologica e una tecnologia che sia sottomessa alla decisione che le scelte tecniche siano fatte non dalle multinazionali ma dal popolo. Naturalmente per costruire la “società della decrescita” abbiamo delle tecniche, ma dobbiamo usare delle tecniche diverse: bisogna sviluppare la “medicina ambientalista”, l’ecologia, riciclare per ridurre il consumo delle risorse naturali, ecc. Ci sono tante ricerche da fare.

Parliamo della politica. E’ vero, secondo Lei, che viviamo in una “postdemocrazia”?

“Postdemocrazia” è un termine usato dal politologo inglese Colin Crouch. Sono d’accordo non viviamo più da molto tempo in una democrazia. Lui definisce la “postdemocrazia” una democrazia manipolata dai media e dalle “lobbies” e questo è sempre più verificato. Sono questi che fanno la politica non solo negli Usa ma anche da noi.

Quello che lei propone è una “rivoluzione antropologica”. Quindi una ridefinizione dei valori della nostra società. Cosa metterebbe al primo posto per l’inizio di questa  “rivoluzione”?

E’ difficile a livello teorico, naturalmente si tratta di una rivoluzione culturale, invece della guerra di tutti contro tutti che è la concorrenza, si deve mettere la cooperazione, la natura, nel senso di vivere in armonia. A livello concreto penso che la prima cosa da fare sia “rilocalizzare” non solo l’economia ma anche ritrovare il senso del “locale” che significa al medesimo tempo “demondializzare” e soprattutto “demercificare”, contro questo movimento di mercificazione del mondo.

Ce la farà la sinistra europea a rinnovare il cammino dell’Europa?

Purtroppo non c’è speranza. Anche la sinistra, quella dominante, ha bisogno di una “rivoluzione”. La speranza viene dall’Italia perché con le liste civiche, i movimenti della società civile – come a Napoli e Milano – che sono fuori dai partiti hanno indicato una strada che mi sembra va da nel buon senso per cambiare le cose.