“La grande menzogna” della I guerra mondiale. Intervista a: Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella

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Domani ricorrono  i cento anni dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali. Una scelta che ha segnato per sempre i destini del nostro Paese. Ne parliamo con tre studiosi, due giornalisti (Valerio Gigante e Luca Kocci) e uno storico (Sergio Tanzarella), autori di un bel volume, critico, dal titolo: La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla  I guerra mondiale, Ed. Dissensi, Viareggio 2015. (www.dissensi.it)

IL 24 maggio, nel nostro Paese, si fa “memoria” dei cento anni dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo grande conflitto mondiale. Tutti i protagonisti sono morti: vittime e carnefici. Ma non è morta la retorica “nazionalista” che mistifica, ancora oggi, la verità. L’ufficialità afferma che la “grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese, perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti gli italiani” (così l’allora sottosegretario Paolo Peluffo)”. Una tesi vuota e stantia. Al quale voi, nel  vostro libro, replicate che questa è la “grande menzogna”. Perché?

VALERIO GIGANTE: Si tratta di contrapporre ad un’ideologia e ad una retorica funzionale a trasmettere l’idea di una storia nazionale senza cesure e contraddizioni, vissuta nell’ottica dell’unità di intenti e della ricerca di una fantomatica unità, o “bene comune” (che il nazionalismo e l’idea di patria spesso suggeriscono), interclassista e irredentista, un approccio critico, che dia consapevolezza a chi non ha vissuto quegli eventi, ma ne è figlio sia per storia familiare che collettiva, che quella guerra ha drammaticamente segnato l’immaginario, la cultura, la politica e la storia del nostro Paese. E che ha inciso la carne stessa delle centinaia di migliaia di vittime, mutilati, feriti, prigionieri (terribile fu la sorte dei prigionieri italiani, che non ebbero dal nostro governo alcun sostegno materiale, perché considerati vili o disertori). La guerra ha colpito chi l’ha combattuta allo stesso modo delle famiglie a cui queste persone sono state sottratte per essere restituite cadaveri, o non essere restituite affatto; o restituite a volte con devastazioni fisiche e psicologiche inimmaginabili. Perché nella I guerra mondiale tutti gli strumenti di distruzione disponibili (gas, mitragliatori, aerei, artiglieria, lanciafiamme, proiettili dum-dum, sommergibili) furono utilizzati su larga scala e senza limiti.

Veniamo alla guerra. Ancora oggi non sappiamo, se non in modo  approssimativo, i numeri dei morti, dei feriti, dei civili deceduti (direttamente e indirettamente a causa della guerra), dei prigionieri abbandonati dall’Italia, dei soldati impazziti al fronte. E’ possibile dare qualche cifra?

LUCA KOCCI: In effetti i numeri non si conoscono con precisione, e già questo dà il segno della brutalità e della violenza della guerra. Secondo gli studi più attendibili, durante i 5 anni di guerra, su un totale di 74 milioni di soldati mobilitati dai Paesi belligeranti, vi furono complessivamente 10 milioni di morti (e dispersi), 21 milioni di feriti – fra cui 8 milioni di mutilati ed invalidi, quindi feriti permanenti – e 8 milioni di prigionieri su tutti i fronti. Per quanto riguarda l’Italia – e anche qui i numeri sono incerti, molto probabilmente sottostimati rispetto alla realtà – si contano oltre 650mila morti, di cui 400mila al fronte, 100mila in prigionia e i restanti a causa di malattie contratte durante la guerra. Inoltre in 500mila tornarono dal fronte mutilati, invalidi o gravemente feriti e oltre 40mila con gravissime patologie psichiche dopo anni di trincea.

L’entrata in guerra fu anche un “grande affare” per i gruppi industriali italiani che ha alimentato la grande truffa delle spese di guerra. Episodio, questo, totalmente occultato. . Un ignobile arricchimento fatto sulla pelle delle migliaia di italiani mandati a morire. Come si è sviluppata questa truffa? Chi sono stati i responsabili rimasti impuniti?

SERGIO TANZARELLA: Si trattò allora della prova generale della corruzione sistemica che avrebbe caratterizzato il nostro Stato. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese di guerra fortemente voluta da Giolitti raccolse, seppure a fatica, una documentazione imponente. Non ci fu un settore delle commesse di guerra che non fosse stato coinvolto dalla corruzione. Fatture pagate per materiali mai consegnati o solo in parte consegnati, fatture pagate due volte, forniture di materiali di pessima qualità e, finita la guerra, riacquisto a bassissimo costo di quanto non era stato nemmeno consegnato. La guerra costò in alcuni settori anche il 400% in più del dovuto, si può ben comprendere con che danno irreparabile per la casse dello Stato. Un debito enorme che l’Italia si sarebbe trascinata per decenni fin dentro la vita repubblicana. La cattiva qualità delle forniture provocò disagi gravissimi dagli armamenti fino alle stoffe delle divise che avide d’acqua ghiacciarono negli inverni di trincea o alle scarpe che duravano in media da 4 giorni a 2 mesi. La guerra si trasformò in una colossale truffa per lo Stato. Anche l’acquisto di quadrupedi negli Stati Uniti divenne occasione do corruzione, gli ufficiali addetti comprarono a caro prezzo migliaia di cavalli e di muli d età veneranda, pronti a morire ancora nel viaggio di consegna. La commissione fu di fatto neutralizzata da Mussolini, intanto arrivato al potere, e i risultati dei suoi lavori sconosciuti e inapplicati. L’industria italiana che tanto aveva sostenuto gli interventisti  trasse profitti illeciti ed enormi. Fra le industri più note l’Ansaldo che fatturò due volte e si fece pagare due volte una intera fornitura di cannoni o l’Ilva che aveva investito centinaia di milioni per finanziare la stampa nazionale e locale perché creasse nell’opinione pubblica un clima di complessivo consenso alla guerra.

La guerra è stata “preparata” anche dall’opinione pubblica di allora. Una enorme macchina propagandistica al servizio della politica interventista. Poche sono state le voci critiche. Chi si è distinto in questo è stato è stato il Pontefice Benedetto XV. Un profeta inascoltato…E’ così?

VALERIO GIGANTE: Tra la fine del 1914 e il maggio del 1915, in pochi mesi l’Italia passò dal più convinto neutralismo al più acceso nazionalismo. Trascinando gran parte dell’opinione pubblica su posizioni belligeranti. Un risultato del genere non può che essere attuato attraverso una capillare organizzazione del consenso, una delle prime attuate in maniera così sistematica e capillare in Italia, che coinvolgeva scrittori e testate giornalistiche, riviste letterarie e singoli intellettuali. Una circostanza che dovrebbe far riflettere sull’efficacia della propaganda nelle società di massa. All’interno di questo panorama culturale, intellettuale e anche religioso di sostanziale esaltazione, o almeno di acritica accettazione della guerra, emerge la figura di Benedetto XV…

SERGIO TANZARELLA: il quale ebbe il coraggio di esprimere da subito una condanna totale e ferma nei confronti della guerra di cui intuì le straordinarie capacità mortifere. Le righe da lui dedicate alla guerra nella sua prima enciclica del 1° novembre 1915 Ad beatissimi sono di una chiarezza esemplare. Scontentò tutti con questa posizione e ancor più con le proposte di pace o almeno di armistizio che più volte concretamente avanzò. Nessuno le prese in considerazione e per questa sua posizione fu condannato alla cancellazione nella storia del ’900 tanto che possiamo definirlo il papa sconosciuto. Ma non si limitò soltanto alla condanna e alla possibilità di tregua, armistizio e pace, promosse forme di assistenza ai prigionieri di guerra e di collegamento e informazione tra prigionieri e famiglie. Un’opera silenziosa e preziosa soprattutto quando l’Italia decise di abbandonare i propri militari prigionieri considerandoli disertori.

Nel vostro libro analizzate anche la figura molto controversa di Padre Agostino Gemelli. Un frate totalmente asservito alla propaganda guerrafondaia. Qual era il suo ruolo?

SERGIO TANZARELLA: Gemelli era capitano medico assegnato al Comando Supremo. In quel ruolo fu uno dei più ascoltati consulenti di Cadorna. Come psicologo si propose di trovare i modi per abbassare ogni forma di resistenza tra i soldati rispetto alla morte che li attendeva negli inutili assalti. Alla stessa morte Gemelli attribuiva una valenza religiosa in grado di convincere i fanti che si trattava della condivisione con la missione salvifica del Cristo. Gli articoli di Gemelli di quegli anni e il suo libro Il nostro soldato sono un’abominevole raccolta di pensieri raccapriccianti dove la fede viene posta a servizio di una causa di morte. Gemelli scriveva che la conversione del soldato si realizzava sul letto dell’ospedale prima di morire, ma era cominciata al fronte e ad essa aveva dato un contributo decisivo una singolare forza di catechesi, la catechesi del cannone. Pertanto la guerra era compresa come provvidenziale occasione di rinascita cristiana. Gemelli fu molto abile a preparare un intruglio di edificazione-rassegnazione di fronte alla catastrofe della guerra offrendo ad essa una mistica consolatrice come quando scrive: «Per noi che rimaniamo, per le spose, per le madri, per i figli, per le sorelle, per gli amici, per i compagni d’armi, per quanti siamo in lutto in queste giornate di prova la morte dei nostri giovani è ragione di conforto. Essi hanno accettato di morire, perché hanno sentito la bellezza cristiana del sacrificio per la patria. Essi hanno fatto di più: hanno fatto risuonare nella morte questa dolce voce della speranza cristiana che consola, che rende forte, che sprona al sacrificio, che ci fa degni insomma dell’ora della prova che oggi viviamo»

Altra figura negativa è stata quella del generale Cadorna (insieme al Comando supremo). In cosa si è “distinto”?

SERGIO TANZARELLA: Dal punto di vista strategico per la totale incompetenza a comprendere le caratteristiche della nuova guerra dove gli assalti ripetuti alle trincee nemiche erano destinati al totale fallimento, le nuove armi permettevano di difendere le trincee dalle ondate di fanti che egli mandava incurante a morire. Una scelta folle che mostrò progressivamente il totale disprezzo che aveva per la vita umana. Ma l’incapacità strategica apparve sin da subito quando, dichiarata la guerra da parte italiana, Cadorna temporeggiò tanto da lasciare agli austriaci tutto il tempo di rinforzare le fortificazione fino a renderle inespugnabili. A questo si accompagnò il ben più grave sistema repressivo per costringere con ogni mezzo i soldati ad andare a morire. Qualsiasi dubbio sulla guerra e ogni forma di protesta fu repressa nel sangue con processi farsa, con sentenze che ebbero immediata applicazione, con tribunali speciali fino alle esecuzioni sul posto (lasciando ai comandanti totale arbitrio di vita e di morte nei confronti dei sottoposti). Altro sistema largamente diffuso furono le decimazioni tra i soldati fortemente volute da Cadorna per instaurare un regime di terrore nella truppa. Cadorna era un cattolico devoto e assunse questo ruolo di spietato carnefice come personale missione a servizio della guerra. L’obbedienza cieca divenne elemento della una mistica di guerra nella quale il campo di battaglia e di morte divenne il luogo del pericolo e dell’onore.

Altro inganno fu la propaganda costruita sulla Vittoria. Perché?

LUCA KOCCI: Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati. Infatti i nuovi monumenti ai caduti spesso abbandonano le connotazioni troppo veriste per assumere quelle dei guerrieri nudi della classicità, rafforzando così i tratti eroici e trasformando il soldato-contadino in fante-guerriero, attorniato da fasci littori, scudi e daghe. A partire dal 1928, poi, il regime vieta la costruzione di monumenti di iniziativa locale e attribuisce al governo centrale la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il nuovo sacrario militare di Redipuglia – che sostituisce il precedente Cimitero degli invitti che a Mussolini non piaceva proprio perché poco eroico – è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei “martiri fascisti”, a cui quindi vengono equiparati i caduti della I guerra mondiale.

Ultima domanda: Quel conflitto è stato un orrore, tutta la tecnologia di allora asservita alla macchina infernale della guerra, eppure viene “celebrato”. A cento anni di distanza lo spirito critico fatica ad emergere. Come costruire una nuova memoria storica?

VALERIO GIGANTE: Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della I guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre. È per questa ragione che oggi l’ideologia dominante  celebra ancora il falso “mito” della I guerra mondiale. Per rendere le masse più disponibili ad accettare come l’orizzonte della guerra esista ancora. Che esso faccia in qualche modo parte del nostro dna. Che non è bella, ma a volte è necessaria.

Va invece suscitato – ed il nostro libro si pone appunto questo obiettivo – un orrore lucido e razionale nei confronti di quella guerra come di tutte le altre, un orrore generatore di pensiero e non unicamente emotivo – nei confronti della “grande menzogna” che continua anche oggi.

Certo, la memoria è corta. E la storia non ha quasi mai insegnato nulla a chi l’ha studiata distrattamente, accontentandosi di attingere al senso comune ed alle fonti di “sistema”. Ma l’esercizio critico è una delle (poche) armi che ancora abbiamo a disposizione se non per trasformare la realtà almeno per comprenderla, che è poi la pre-condizione per tentare di cambiarla.

Slurp. Il libro di Marco Travaglio sui lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati

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Una stampa cinica e mercenaria,

prima o poi, creerà un pubblico ignobile.

Joseph Pulitzer

“OGNI SERVO HA IL PADRONE CHE SI MERITA E VICEVERSA. I LECCACULO NON CAMBIANO IDEA: CAMBIANO SOLTANTO CULO. PER QUESTO VEDIAMO TANTE LINGUE TRASFERIRSI DA UN CULO ALL’ALTRO IN MANIERA COSÌ IMBARAZZANTE.” MARCO TRAVAGLIO

“DA QUALCHE GIORNO I GIORNALISTI RAI CHE VENGONO A INTERVISTARMI, PRIMA DI COMINCIARE, COPRONO IL MICROFONO E MI SUSSURRANO ALL’ORECCHIO: ‘OH, MATTEO, IO SONO SEMPRE STATO DALLA TUA PARTE, EH?! ’. IL BELLO È CHE IO NON LI AVEVO MAI VISTI PRIMA.” MATTEO RENZI

 

“A FURIA DI LECCARE, QUALCOSA SULLA LINGUA RIMANE SEMPRE.” ENNIO FLAIANO

 

IL LIBRO

Ecco perché l’Italia non è una democrazia compiuta: questo libro, appena uscito in libreria, ne è la prova. Marco Travaglio racconta come i SIGNORINI GRANDI LINGUE, giornalisti e opinionisti di chiara fama (e fame) hanno beatificato la peggior classe dirigente d’Europa. Basta dar loro la parola. Cronache da Istituto Luce, commenti da Minculpop, ritratti da vite dei santi… Un esercito di adulatori in servizio permanente effettivo.

Ecco un’antologia, a tratti irresistibilmente comica, di tutto quello che ha cloroformizzato l’opinione pubblica per assicurare consensi e voti a un sistema di potere politico-economico incapace, mediocre e molto spesso corrotto. A Silvio Berlusconi per cominciare, ma anche ai tanti capi e capetti del cosiddetto centrosinistra che hanno riempito i brevi intervalli tra un governo del Cavaliere e l’altro. Fino all’esplosione di saliva modello “larghe intese” per GIORGIO NAPOLITANO, MARIO MONTI e MATTEO RENZI .

Altro che giornalisti cani da guardia del potere. IL VIRUS DEL LECCACULISMO è inarrestabile e con la Seconda Repubblica si è trasformato in una vera epidemia. Dalla tv alle radio ai giornali: un esercito di adulatori in ogni campo, dal calcio allo spettacolo. QUESTO LIBRO PROPONE UN CATALOGO RAGIONATO DELLA ZERBINOCRAZIA ITALIOTA. Un dizionario dei migliori adulatori e cortigiani dei politici e degli imprenditori italioti che, a leggere i giornali e a vedere le tv, avrebbero dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci hanno rovinati. Con la complicità della cosiddetta informazione.

L’AUTORE

Marco Travaglio è direttore de “il Fatto Quotidiano” e collaboratore fisso del programma “Servizio pubblico” di Michele Santoro. I suoi molti libri, tutti bestseller, compongono insieme una controstoria dell’Italia della Seconda Repubblica, da L’ODORE DEI SOLDI (con Elio Veltri, 2001), MANI PULITE (con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, 2002 e 2012), REGIME (con Peter Gomez, 2004), ai più recenti AD PERSONAM (2010) e VIVA IL RE! (2013). Dopo i successi teatrali di PROMEMORIA , ANESTESIA TOTALE (con Isabella Ferrari), È STATO LA MAFIA (con Isabella Ferrari e con Valentina Lodovini), è in scena con il nuovo spettacolo SLURP (con Giorgia Salari, sempre per la produzione Promo Music).

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione dell’autore

Dante Alighieri li tratta peggio degli assassini e dei tiranni: li sbatte nell’ottavo cerchio dell’Inferno. Li chiama «ruffiani, ingannatori e lusinghieri». E li fa frustare sulla schiena e sulle chiappe da cornutissimi diavolacci. Ma, siccome quel contrappasso ancora non gli basta, li immerge pure fino alla punta dei capelli in un lago di sterco che pare lo scarico di tutte le fogne del mondo. Avete leccato culi per tutta la vita? Allora sguazzate nel loro prodotto tipico per l’eternità. Uno gli pare di conoscerlo: è Alessio Interminelli, nobiluomo di Lucca e noto lustrascarpe.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso / vidi gente attuffata in uno sterco / che da li uman privadi [latrine, nda] parea mosso. / E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco. / Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo / di riguardar più me che li altri brutti?». / E io a lui: «Perché, se ben ricordo, / già t’ho veduto coi capelli asciutti, /e se’ Alessio Interminei da Lucca: / però t’adocchio più che li altri tutti». / Ed elli allor, battendosi la zucca: / «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca».

Cioè stanca. Per Dante, che la lingua l’ha sempre usata per criticare il potere, non per leccarlo, e ne ha pagato le conseguenze, la ruffianeria è uno dei peccati più spregevoli. Ma non solo per lui. Sull’arte adulatoria c’è ampia, sterminata letteratura.

Moltissimi grandi scrittori – da Aristofane a Plauto, da Tolstoj a Proust, da Flaubert a Dostoevskij, da Mann a Kafka, da Dickens a Cervantes, da Goldoni a Verne, da Balzac a Beckett – vi si sono dedicati. Chi per descriverla, chi per sbeffeggiarla, chi per praticarla o addirittura teorizzarla.

Svetonio racconta che Nerone fece incetta di allori ai Giochi di Olimpia del 67 d.C. Per vincere tutto si era portato appresso una corte di cinquemila persone. Alla corsa delle quadrighe, un brusco movimento dei cavalli lo sbalzò giù dal cocchio imperiale. Ma gli avversari, anziché approfittarne per allungare il passo, si fermarono di colpo e attesero pazienti che risalisse dalla polvere a bordo e riprendesse la gara fino al trionfo finale. Del resto i leccapiedi erano di casa nelle corti di tutti gli imperatori romani: tant’è che il vizietto di Tiberio di immergersi nella piscina della sua villa a Capri circondato da ragazzini («pisciculi», pesciolini), che dovevano infilarglisi fra le gambe e vellicare le sue voglie con giochetti di lingua e piccoli morsi, diventò una metafora delle bassezze cui si piegavano i cortigiani. […]

Questo libro propone tutto il meglio del peggio dei loro emuli italici: giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, manager, scrittori e artisti o presunti tali), anch’essi pronti a scorticarsi le ginocchia, ma per stabilire primati molto meno nobili e disinteressati. Un catalogo ragionato della Zerbinocrazia italiota. Una storia in pillole del secondo mestiere più antico del mondo, il giornalismo, peraltro in spietata concorrenza con il primo. Un dizionario dei Signorini Grandi Lingue al servizio di tutti i padroni: non soltanto della politica, ma anche dell’economia, della finanza, della burocrazia, della Chiesa e di tutti gli altri poteri. Cioè della peggior classe dirigente di tutti i tempi che, a leggere i giornali di questi vent’anni, avrebbe dovuto regalarci benessere, prosperità e felicità. E invece ci ha regolarmente, scientificamente rovinati.

Ma ha potuto ingrassare, sopravvivere e autoperpetuarsi fino a oggi, scampando gattopardescamente a ogni cataclisma, anche con la connivenza e/o complicità di milioni di persone cloroformizzate da un’informazione che avrebbe dovuto illuminarle e svegliarle, invece le ha accecate e addormentate. Poi, con comodo, al risveglio, hanno scoperto che molti di quei geniali imprenditori, manager, banchieri e finanzieri di cui la stampa e la tv cantavano le lodi avevano violato leggi, pagato mazzette, rubato a man bassa, avvelenato l’ambiente, devastato le aziende, incenerito valore economico, distrutto posti di lavoro e talvolta anche vite umane. E che quasi tutti i governi magnificati dalla cosiddetta informazione non avevano azzeccato una mossa, una scelta, una riforma, lasciando l’Italia in condizioni molto peggiori di come l’avevano trovata.

Chi leggerà il libro scoprirà che – a parte poche eccezioni di lingue unidirezionali, che leccano ossessivamente lo stesso destinatario – i leccatori sono più o meno sempre gli stessi per tutte le stagioni. Dal 1992 a oggi sono riusciti a incensare la Lega di Bossi e poi Di Pietro e Mani pulite perché ci salvavano dai ladroni della Prima Repubblica (che, peraltro, avevano leccato fino al 1992), poi Berlusconi perché ci salvava dai ladroni della Prima Repubblica e anche da Mani pulite, poi Dini perché ci salvava da Berlusconi, poi Prodi perché ci salvava da Dini e da Berlusconi, poi D’Alema perché ci salvava da Prodi, poi Amato perché ci salvava da D’Alema, poi Berlusconi perché ci salvava da Prodi, poi Prodi-2 perché ci salvava da Berlusconi-2, poi Berlusconi-3 perché ci salvava da Prodi-2, poi Monti perché ci salvava da Berlusconi-3, poi Letta perché ci salvava da Monti, infine Renzi perché ci sta salvando da Letta (come no). Con l’aggravante delle larghe intese imposte da Napolitano (sempre sia lodato): tutti i grandi partiti al governo e tutte le migliori lingue dietro.

Gli sciuscià sono fatti così. Se ne stanno carponi giorno e notte a lustrare scarpe e, lustratòne un paio, passano subito a quello successivo, senza neppure alzare gli occhi per accorgersi che è cambiato il cliente. Chi ci ha ingannati tradendo il dovere di informarci ha le stesse colpe di chi ci ha sgovernati promettendo di salvarci. E se né gli uni né gli altri hanno mai pagato un centesimo per le proprie responsabilità, è perché leccatori e leccati sono indissolubilmente legati. Simul stabunt, simul cadent. Diceva Flaiano: «A furia di leccare, qualcosa sulla lingua rimane sempre».

Ps1. Può darsi che anch’io, in 32 anni di carriera, sia incorso in qualche leccalecca. Se è capitato, non me ne sono accorto, ma me ne scuso.

Ps2. Può darsi che vi sia incorso qualche giornalista del «Fatto». Se è capitato, non me ne sono accorto, altrimenti il collega sarebbe finito nell’apposita rubrica «Leccalecca» e, subito dopo, licenziato (in questi casi, e solo in questi, non c’è articolo 18 che tenga).

Ps3. Scandagliando gli archivi (non solo il mio) per questo libro, mi sono imbattuto in memorabili esemplari di leccatori d’annata: quanto basta per raccontare la storia delle lingue italiane dagli anni del fascismo a quelli della Prima Repubblica, molto più indietro dei confini temporali che mi sono imposto per Slurp (la Seconda Repubblica). Se questo libro vi piacerà, prima o poi diventerà il sequel di un prequel che ho già in mente. Come nella saga di Guerre – anzi di Lingue – stellari.

Marco Travaglio, SLURP. Dizionario delle lingue italiane lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati . ED. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 592. € 18,00

Il PD è ancora un partito di Sinistra? Intervista a Michele Nicoletti

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In questi giorni nel PD, e nell’opinione pubblica, si sta svolgendo un dibattito, molto polemico, sull’identità del PD: sul suo essere o meno un partito di sinistra. Ne parliamo con Michele Nicoletti, professore di Filosofia della Politica ed esponente di primo piano della cultura cattolica democratica. Nicoletti è attualmente deputato trentino del PD e Presidente della delegazione italiana all’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.

 

Onorevole Nicoletti, in questi ultimi giorni, dopo l’approvazione della legge, ha visto l’addio di Pippo Civati , dell’eurodeputata Elly Schlein e presto anche la sua collega Michela Marzano, stando ad una intervista su Repubblica, lascerà il partito. Anche Stefano Fassina sarebbe intenzionato a farlo. Chi lo ha fatto ha affermato la stessa cosa: l’allontanamento dell’attuale gruppo dirigente del Partito, in primis Renzi, dai valori della sinistra o, comunque, del centrosinistra. Per lei è così?

La decisione che alcuni hanno assunto o stanno assumendo di lasciare il PD mi spiace moltissimo. Capisco coloro che non si riconoscono nel PD perché appartengono all’area della sinistra radicale – che pure svolge una funzione essenziale di stimolo e di critica nei confronti di tutta la sinistra e più in generale di tutta la politica – ma quanti invece si sentono dentro la storia di una sinistra o di un centrosinistra di governo sbagliano a lasciare il PD. E’ la tragica debolezza della politica italiana quella di non riuscire a dare stabilità ai suoi soggetti politici e in particolare ai partiti. Si guardi agli altri Paesi: lì esistono partiti che hanno storie di cinquanta, cento, centocinquant’anni e con la loro stabilità, stabilizzano la democrazia stessa. All’estero i partiti vincono o perdono le elezioni, adottano linee più o meno discutibili, scelgono dirigenti più o meno capaci, ma non per questo si disfano ogni due o tre anni. Il PD è stato il frutto di una incredibile e straordinaria gestazione, lo abbiamo intensamente voluto per anni e sarebbe una follia ora lasciarlo o disfarlo perché non risponde a questa o quella aspettativa di una sua componente. La sinistra deve decidere se vuole un piccolo partito-setta o un grande partito popolare in cui, necessariamente, abitano anime diverse, ma la cui direzione spetta a chi vince il congresso. Io non credo affatto che il PD di oggi stia allontanandosi dai valori della sinistra. Solo che li vuole declinare dentro la grande famiglia dei “democratici” che è cosa diversa dalle socialdemocrazie tradizionali. Si possono discutere metodi o tattiche, ma le scelte di fondo di una più forte Europa politica al servizio della crescita, di politiche comuni sull’immigrazione, di europeizzazione delle nostre istituzioni, di tentativo di sostegno all’occupazione giovanile, di sforzo di una politica redistributiva, insomma l’intenzione che continua a muovere il PD è inequivocabilmente progressista.

Il panorama dei critici, di Renzi a sinistra è ampio: dalla Camusso, che ha addirittura proposto di votare scheda bianca alle elezioni del Veneto, passando per Landini fino ad arrivare a Eugenio Scalfari (che nel suo editoriale di domenica scorsa definisce il PD di Renzi come un partito di “centro”). Stanno esagerando secondo lei, oppure le loro critiche un fondamento? Non vede il rischio della deriva verso l’indistinto “partito della nazione”?

Molte voci critiche sono frutto di passioni personali: le rispetto, ma se il tema è la simpatia o l’antipatia del premier non andiamo da nessuna parte. Sul piano politico molte critiche vengono da chi avrebbe voluto una diversa evoluzione della sinistra italiana nel senso tradizionale del socialismo europeo. Ma da più di vent’anni a questa parte – dai democratici di sinistra all’Ulivo di Prodi al PD – la sinistra italiana sta facendo uno sforzo diverso cercando di fondarsi su un’idea di “democrazia” che supera e invera le aspirazioni di socialisti, cattolici democratici, liberaldemocratici. È un tentativo faticoso, anche perché poche energie vengono dedicate all’approfondimento teorico, ma si è rivelato assai più di successo dei modelli socialdemocratici tradizionali che non mi pare, in Europa, godano di buona salute. Oggi il tema è la democrazia, la democrazia, la democrazia. A livello locale, nazionale, europeo, internazionale. La sua capacità di produrre difesa dei diritti fondamentali e giustizia e benessere attraverso un nuovo compromesso con l’economia di mercato. Quanto al “partito della nazione” l’espressione non mi piace, ma la intendo nel senso di Gramsci, Gobetti, Degasperi: un partito che sappia portare a compimento il Risorgimento italiano. Oggi vuol dire non solo l’Unità d’Italia, ma il protagonismo italiano nell’Unità europea. E un nuovo Rinascimento che ridia dignità all’essere italiani nel mondo dopo anni di umiliazioni dei governi di centrodestra. Ma, ben inteso, rimanendo quello che siamo: il partito che occupa saldamente lo spazio del centrosinistra e che è capace di attirare a sé un ampio elettorato.

Cosa dovrebbe fare Renzi, secondo lei, per recuperare questo diffuso malcontento?

Dovrebbe prendere il toro per le corna e affrontare i nodi ideali, istituzionali, sociali e politici. Aprire una grande discussione sull’identità ideale del PD, su democrazia, cristianesimo, socialismo, libertà rilanciando una nuova passione ideale per la democrazia “senza aggettivi” e proponendo a tutti i nostri partner europei questa sfida. Affrontare in campo aperto la sfida di chi dice che siamo alla democratura e spiegare con quali istituzioni vogliamo rafforzare la democrazia a livello di comunità locali, nazionale, europea e internazionale. Si vedrà così che legge elettorale e riforma della costituzione – se lette sull’orizzonte europeo – rafforzano e non indeboliscono il potere dei cittadini. Aprire infine una grande discussione sul modello di società a cui vogliamo arrivare: quali idea di relazioni sociali, industriali, generazionali, interculturali vogliamo rafforzare e tornare così a dialogare con i mondi sociali interessati a politiche di emancipazione e non di conservazione. Il modo migliore per ritrovare l’unità della sinistra è affrontare i grandi temi, cercare le sintesi ideali. Le mediazioni politiche seguiranno.

 

Per Renzi ci sono, lui lo ha detto con la solita “brutalità”, ci sono due sinistre: una che vuole vincere, e una che vuole perdere (definita come “masochista”). Forse è troppo semplicistico così. Le chiedo: tutti vogliono vincere, ma come ? Cioè si vince proponendo valori, programmi, idee. Per lei è chiaro l’idea di società che ha in mente il Premier? Io vedo solo pragmatismo…..

Intanto diciamo che vincere non è una colpa. La ricerca del successo, della possibilità della realizzazione delle proprie idee, è parte integrante dell’etica politica come ricordava Bonhoeffer. Il problema non è cercare di salvare la faccia, ma portare un po’ più di giustizia nel mondo. E per questo servono anche le maggioranze oltre alle minoranze profetiche. La legge sull’obiezione di coscienza è stata fatta dopo che i primi obiettori – minoranza profetica – sono finiti in galera. Poi però è stato necessario creare una maggioranza parlamentare. Se la sinistra tornasse a pensare dialetticamente, non sarebbe male. Serve un’idea di società è chiaro. Vogliamo riconoscere però con molta onestà intellettuale che viviamo in un’epoca di grande povertà sul piano delle idee? Non mi pare che i filosofi, i teologi, i sociologi riescano a produrre in questa fase idee di società capaci di produrre correnti nella storia. Producono straordinarie analisi, denunciano spaventose ingiustizie, additano alcuni valori irrinunciabili. Ma idee di società nel senso organico dell’’800 e del ‘900 non ne abbiamo a disposizione. Ferve però nelle viscere della storia il lavorio del pensiero prodotto dalla sofferenza del presente e dalla speranza del futuro e sta tornando una stagione di “idee ricostruttive”. L’idea di democrazia – la più bella idea politica – è una di queste. Lavoriamoci attorno a partire dai grandi capisaldi delle rivoluzioni americana e francese, della grande stagione costituente italiana e tedesca nel secondo dopoguerra con il nostro bell’articolo 3. L’idea di società che vogliamo sta dentro queste radici.

Lei è un esponente importante del cattolicesimo democratico italiano. Studioso di filosofia della politica, viene dalla Fuci, ed è stato uno dei padri fondatori della Rosa Bianca. La sua storia parla chiaro. Quanto di questa storia è presente nell’operato di Renzi?

Il mio battesimo politico – esistenziale e ideale – è avvenuto con la morte di John Kennedy. Siamo cresciuti non solo con i grandi maestri del cristianesimo democratico europeo, italiano, tedesco e francese, ma anche con lo sguardo oltre l’Atlantico. Per lo stesso Maritain la meditazione sugli Stati Uniti è stato un passaggio decisivo così come per Rosmini e Tocqueville nell’’800. L’essere kennediani era un modo d’essere cattolici, progressisti e democratici libero dai conflitti ideologici e religiosi europei. A modo suo Renzi mi pare volersi ispirare a questa tradizione che diversamente da quella europea non ha l’angoscia di fronte al moderno. Il compito però è combinare questa tradizione con la grande tradizione politico-istituzionale dei cattolici democratici, con la lezione dei grandi giuristi e dunque con quella delicatezza nei confronti delle istituzioni, con quell’amore per il pluralismo giuridico e sociale, con quel forte senso dello Stato – sopra gli interessi di parte – che è tipico della tradizione europea. E poi con l’ansia lapiriana per la “povera gente”. Ognuno di noi e anche il premier deve essere stimolato sempre a ritornare alle proprie origini. Sapendo poi che ognuno di noi riesce a esprimere solo un pezzetto di questa e di altre grandi correnti ideali e per questo serve una buona orchestra.

Ultima domanda: Lei per ragioni istituzionali, è Presidente della Delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, gira spesso l’Europa. Come è visto il PD dalla “famiglia progressista “ europea? 

Dopo il risultato alle Europee, a Strasburgo hanno definito il PD “a shining light in Europe”. Quel risultato aveva salvato non solo il PD, ma anche i progressisti europei e tutti gli europeisti che, come è noto, non godono di buonissima salute. Il PD è guardato con rispetto e con curiosità. Rispetto per la sue dimensioni e le sue iniziative politiche sullo sviluppo contro il rigorismo e sulla necessità di politiche comuni sull’immigrazione. Stiamo segnando dei punti importanti e non dobbiamo mollare la presa. Secondo me dovremmo spiegare meglio la nostra scommessa “democratica” rispetto alle tradizioni socialiste: per tutti i nostri partner potrebbe essere una strada importante. E poi dobbiamo essere un partito ossessivamente europeista: più Europa politica, più difesa comune con un esercito europeo, più università e ricerca in comune, più asilo e assistenza umanitaria solidale, eccetera. Questa è oggi la sfida della sinistra: dare sostanza democratica e sociale all’Europa, nostra vera casa comune. Non certo il ripiegamento sulla dimensione nazionale.

Monsignor Enrique Angelelli, il “martire proibito” dell’America Latina verso la beatificazione

imagesLa notizia è di questi giorni: dopo trentanove anni dalla sua morte, ucciso dai militari criminali del regime dittatoriale di Videla, la Santa Sede ha concesso il nulla osta (Ex parte Sancta Sedis nihil obstat) alla causa di Beatificazione di Monsignor Enrique Angelelli, vescovo martire della diocesi argentina La Rioja . La richiesta formale era stata appena tre mesi fa dall’attuale vescovo di La Rioja, Marcel Daniel Colombo. La causa è per martirio in odium fidei.

Monsignor Angelelli venne ucciso, non, come la versione “ufficiale” (quella del regime e accettata, per complicità, anche dalla gerarchia cattolica argentina) ha tentato di far credere per quasi quarant’anni, da un “tragico incidente stradale”, ma, come ha stabilito il processo, che ha condannato i mandanti dell’omicidio, Luciano Menéndez e Luis Fernando Estrella (entrambi alti ufficiali della Forze Armate del regime di Videla), quell’ “incidente” fu “conseguenza di un’azione premeditata ed eseguita nel quadro del terrorismo di Stato”.

Questa verità è stata raggiunta anche grazie alle “Carte” giunte dal Vaticano, su richiesta dell’attuale Vescovo della diocesi.

Fra le tante testimonianze (le riprendiamo dall’Agenzia di stampa Adista) contro i due imputati, due scritti a firma di Angelelli, a pochi giorni dalla morte. Innanzitutto una lettera del 5 luglio 1976 indirizzata all’allora nunzio apostolico in Argentina, card. Pio Laghi (scomparso nel 2009), nella quale scriveva: «Mi hanno consigliato di dirglielo: sono stato di nuovo minacciato di morte» da alcuni membri dell’organizzazione cattolica di ultradestra “I crociati della Fede della Costa”, proprietari terrieri che attaccavano pubblicamente il vescovo (fino a cacciarlo a pietrate, nel 1973, da Anillaco, in provincia di La Rioja) e che sulle pagine del quotidiano El Sol, lo chiamavano «il vescovo rosso», «comunista», «satanelli». Angelelli documenta tutto a Laghi allegando le pagine del giornale. Ed inoltre enumera in dettaglio la crescente ostilità che dovevano sopportare lui e i suoi preti da parte di Osvaldo Bataglia, capo del Battaglione del Genio civile.Il secondo documento è una memoria puntuale e particolareggiata degli eventi che precedettero – e “motivarono” – l’omicidio di Longueville e Murias. Entrambi i documenti erano custoditi in Vaticano e sono stati prontamente consegnati da papa Francesco su sollecitazione, come già scritto, dell’attuale vescovo di La Rioja, mons. Marcelo Daniel Colombo, al quale il sacerdote francescano Miguel Ángel López aveva raccontato di aver consegnato personalmente in Vaticano a luglio del ‘76 il dossier confidenziale di Angelelli.

Documenti effettivamente ricevuti dato che portano il numero di protocollo in italiano e, come data di archiviazione, quella del 30 luglio 1976. Laghi fu ripetutamente accusato dalle Madri di piazza di Maggio di complicità con la dittatura. “Non sapevo”, fu l’eterno refrain del cardinale (v. fra gli altri, Adista n. 7/99). «Le carte provano la mendacia di Pio Laghi, che si sottrasse alle sue responsabilità rasentando la copertura», ha dichiarato a Infojus Noticias Bernardo Lobo Bugeau, avvocato della Segreteria argentina dei Diritti Umani, uno dei soggetti querelanti. «Nel 2000, in un’intervista alla giornalista Olga Wornat, Laghi – ha aggiunto – si scandalizzò perché lo si accusava di simili delitti. Ora sappiamo che era perfettamente a conoscenza di quanto stava succedendo».

Alla vigilia della sentenza, il 3 luglio dello scorso anno, nella cattedrale di La Rioja mons. Marcelo Colombo ha officiato una messa «in omaggio a mons. Enrique Angelelli». «Trentotto anni fa, in questi stessi giorni – ha ricordato nella sua vibrante omelia – Angelelli soffriva per gli attacchi e le ingiuste accuse e perché gli veniva impedito [dagli uomini della dittatura] il libero esercizio del suo ministero pastorale. Non poteva accettare il “suggerimento” di mantenersi distante, di fare attenzione alla sua pelle, di lasciare il suo gregge. Presentiva i pericoli che si addensavano sulla sua testa, ma agiva mosso dal Vangelo di Gesù Cristo nel suo impegno personale irrinunciabile a favore degli esseri umani. Intravide che le morti di Gabriel Longueville e Carlos Murias e del laico Wenceslao Pedernera preannunciavano la sua. Ma continuò a rimanere sulla breccia, a sostenere fino alla fine il bastone del buon pastore».

«Come Chiesa di La Rioja – ha detto ancora – vogliamo portare avanti la missione di Gesù fra gli esseri umani e percorrere senza titubanze quei cammini che mons. Angelelli ha risolutamente proposto: il rinnovamento ecclesiale come compito di ognuno di noi; il servizio come contenuto e metodo del nostro agire pastorale», «l’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi, la conversione pastorale delle nostre istituzioni, la ricerca della volontà di Dio per la sua Chiesa. Questi aspetti di importanza sostanziale che la vita e la dedizione fino alla morte di mons Angelelli hanno proclamato profeticamente costituiscono per noi una eredità sacra fermamente radicata in Gesù Cristo». 

Così, dopo ben 40 anni, questo “martire proibito” dell’America Latina, come lo chiamava il vescovo brasiliano Dom Pedro Casaldaliga, fa la sua irruzione nella grande storia contemporanea della Chiesa dell’America Latina. Con Monsignor Romero, Ignacio Ellacuria, e i tanti martiri (preti e laici) che rendono luminoso la testimonianza cristiana per la liberazione integrale dei poveri nell’Immenso continente Latinoamericano.

Con un oido en el pueblo y otro en el evangelio” (con un orecchio al Popolo e l’altro nel Vangelo). Ecco questa era la prassi evangelica e storica liberatrice di Enrique Angelelli. Figlio di emigrati italiani, figlio della Chiesa del Vaticano II e della Conferenza di Medellin (la Chiesa estroversa che fa sua integralmente l’opzione per i poveri), figlio dell’America Latina e del suo sogno di liberazione e giustizia, figlio della “teologia del popolo” (una corrente della più ampia teologia della liberazione).

Angelilli, quindi, incarna alla perfezione quell’ ideale storico concreto, proposto da Papa Francesco, “del pastore che ha l’odore delle pecore”. Infatti, come scrive il pontefice nella Evangelii Gaudium,“l predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo”. 

Così è stata la vita del Vescovo martire Enrique Angelelli.

 

 

 

Il PD dopo l’Italicum. Intervista a Giorgio Tonini

giorgio tonini

Dopo l’approvazione, da parte della Camera, della legge elettorale il PD è attraversato da forte tensione. C’è da registrare l’uscita di Pippo Civati dal gruppo del PD alla Camera. Altri lo seguiranno?  Ne discutiamo con Giorgio Tonini, vice-presidente dei senatori PD.

Senatore Tonini, Renzi vince la battaglia sulla legge elettorale. Ma secondo alcuni è una vittoria sulle macerie: il dissenso pesante di alcuni leader della “ditta”, le opposizioni che lasciano l’aula. Insomma vince smentendo se stesso (visto che aveva affermato che le regole dovevano essere condivise). Insomma, davvero non si poteva evitare la forzatura? L’ex direttore del Corriere, per questa forzatura, ha definito Renzi un “maleducato di talento”. Ha ragione De Bortoli?

Non so a cosa si riferisse De Bortoli. Non credo volesse esprimere un apprezzamento sul piano personale. Forse si riferiva al modo di fare politica di Renzi, che certo non lascia molto spazio ai formalismi e alle ritualità, ma va al sodo, al nocciolo della questione. E il nocciolo della questione è, in effetti, parecchio maleducato. Mi riferisco alla durezza dei problemi che affliggono il paese e all’urgenza di affrontarli con determinazione. Prendiamo il caso delle legge elettorale. Io ho ancora nelle orecchie la ramanzina che due anni fa, all’inizio di questa legislatura, il presidente Napolitano aveva rivolto a noi grandi elettori — deputati, senatori, consiglieri regionali — che lo avevamo appena rieletto Capo dello Stato. Napolitano ci bacchettava, in un modo che De Bortoli forse definirebbe maleducato, certamente in modo giustamente rude, per non essere stati capaci, in anni di inconcludenza, di trovare l’accordo su una riforma della legge elettorale e della seconda parte della Costituzione. Da quella ramanzina nacque il governo Letta, col preciso compito di fare le riforme. Ma la condanna di Berlusconi, il voto sulla sua decadenza da senatore e la rottura in seno al centrodestra, avevano riportato la situazione al punto di partenza, in quell’eterno gioco dell’oca, al quale tanto assomiglia la politica italiana. Renzi ha avuto il merito di riportare Berlusconi al tavolo delle riforme e di stringere un accordo di merito su di esse. Un accordo che è stato modificato e perfezionato in parlamento e che ha portato ad un voto largo al Senato sull’Italicum.

Poi, Forza Italia si è sfilata di nuovo, stavolta a causa dell’elezione del presidente Mattarella, a giudizio di quel partito non sufficientemente condivisa. A quel punto avevamo tre strade davanti a noi: arrenderci, gettare la spugna per l’ennesima volta, davanti agli incomprensibili bizantinismi della politica italiana; oppure andare avanti modificando il testo votato al Senato, nel senso richiesto dalla minoranza interna al Pd, così avallando l’accusa di Forza Italia di voler scrivere le regole da soli; o invece portare all’approvazione definitiva il testo frutto dell’accordo fatto al Senato, anche accettando di pagare un prezzo interno al Pd, ma lasciando tutta intera a Forza Italia la responsabilità di rinnegarlo, peraltro per motivazioni estranee al merito della riforma. Renzi, e con lui la stragrande maggioranza dei deputati del Pd, ha scelto questa ultima strada, la strada della serietà. Dopo anni, per non dire decenni, di rinvii e fallimenti, stavolta si fa sul serio. C’è un testo, un buon testo, che è stato votato dal Senato a larga maggioranza. Per noi si vota quello, perché “pacta sunt servanda”. Se per altri non è così, saranno loro a doverlo spiegare ai cittadini.

Io non penso affatto che in questo modo Renzi abbia rinnegato il suo impegno per riforme condivise, semmai è il contrario. E non penso neppure che il voto alla Camera sull’Italicum sia una vittoria sulle macerie: a meno che non ci si riferisca alle macerie dei tatticismi, dell’inconcludenza, della irresponsabilità.

Veniamo alla legge. Certo è che il Porcellum, dalla Corte dichiarato incostituzionale tra l’altro per le liste bloccate, ora ce le ritroviamo nell’italicum. Non c’e il rischio di incostituzionalità?

Le liste bloccate non ci sono nell’Italicum. I deputati saranno eletti in parte con le preferenze, in parte con l’uninominale. In entrambi i casi, sarà garantito il vero e unico vincolo posto dalla sentenza della Corte, quello della riconoscibilità degli eletti da parte degli elettori. La Corte non ha infatti bocciato il Porcellum perché non prevedeva il voto di preferenza: se avesse detto quello che le fanno dire molti commentatori male informati, la Corte avrebbe messo fuorilegge, per così dire, le leggi elettorali di quasi tutta Europa, posto che il voto di preferenza c’è in Grecia e poco oltre. La Corte ha condannato il Porcellum perché si basava su lunghe liste bloccate, che rendevano quasi impossibile per gli elettori sapere per quale persona stavano votando, quando votavano per un simbolo di partito. La Corte ha dunque chiesto al Parlamento di prevedere un meccanismo che eviti questo problema, scegliendo tra i vari possibili: liste corte, anche bloccate (sul modello Spagnolo o tedesco), collegi uninominali (come in Francia o nel Regno Unito), o anche liste corte miste, in parte bloccate in parte no. L’Italicum segue questo ultimo esempio proposto dalla Corte. E prevede un sistema per l’appunto misto, basato su liste corte all’interno delle quali l’elettore può scegliere due nomi, un uomo e una donna, ai quali dare la sua preferenza; e su un cosiddetto “capolista” bloccato, il nome del quale è stampato sulla scheda accanto al simbolo del partito che lo candida, sul modello del sistema uninominale. Si può condividere o meno questo meccanismo, che ha pregi e difetti come qualunque meccanismo. Ma non si può dire che non rispetti, in modo scrupoloso, il dettato della Corte costituzionale.

 Quali sono i pregi e i limiti di questa legge?

Il pregio principale mi pare la garanzia di un vincitore. Al primo turno, se la lista che arriva prima prende almeno il 40 per cento dei voti, o in caso contrario al ballottaggio tra le due più votate, un partito vince il diritto e la responsabilità di governare il paese, attraverso un (moderato) premio di governabilità che gli assegna 340 seggi su 630. Non sarà più possibile che si verifichi un risultato nullo, come quello del 2013. Naturalmente, perché questo obiettivo si realizzi appieno, è necessario completare la riforma elettorale con quella costituzionale, superando l’attuale bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in una Camera delle autonomie, con una importante funzione di raccordo tra l’attività legislativa statale e quella regionale, entrambe ricomprese in un quadro europeo, ma senza più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, che diviene prerogativa esclusiva della Camera dei deputati. Quanto ai limiti, piuttosto parlerei di rischi, il principale dei quali è che sull’Italicum si riversi un’aspettativa eccessiva per qualunque legge elettorale. A una legge elettorale si può chiedere, se si vuole, un vincitore chiaro e certo. E l’Italicum, abbinato alla riforma del Senato, questo risultato lo dà. A una legge elettorale non si può invece chiedere la garanzia della stabilità e della durata dei governi. Mi spiego meglio: al partito che vince le elezioni l’Italicum assegna alla Camera una maggioranza di 25 seggi, più che sufficiente per far partire un governo, il governo del leader del partito vincitore. Ma cinque anni sono lunghi. E basteranno 25 deputati, su 340, almeno 240 dei quali eletti con le preferenze, per mandare il presidente del Consiglio a dimettersi al Quirinale. Altro che strapotere del premier, uomo solo al comando, ritorno del fascismo, legge Acerbo e simili stupidaggini! Perché il rischio dell’instabilità non si verifichi, sono necessarie due condizioni. La prima è il rafforzamento della tenuta interna dei partiti e dei gruppi. Se si afferma la prassi, che si sta pericolosamente instaurando anche nel Pd, secondo la quale in un gruppo parlamentare di maggioranza ci si comporta “secondo coscienza” ogni volta che lo si ritiene opportuno, perfino sulla fiducia al governo, è evidente che nessun gruppo, per quanto vincitore delle elezioni e assegnatario del premio di maggioranza, potrà mai garantire la stabilità. Avremo quindi di nuovo crisi di governo, elezioni anticipate, o governi “non eletti dai cittadini”, come ci si lamenta siano stati i governi Monti, Letta e Renzi. Se non si vuole che questo si verifichi, bisognerà lavorare a ristabilire regole di disciplina interna ai gruppi, assistite e rafforzate da norme antiframmentazione da prevedere nei regolamenti parlamentari. In caso contrario, è bene sapere che l’unico rimedio alla precarietà dei governi sarà procedere ad una revisione della forma di governo, rafforzando davvero i poteri del premier, o addirittura optando per un modello semipresidenziale. Se non stiamo attenti, potrebbe nascere un forte movimento politico in questo senso…

Veniamo al PD. Il suo partito è continuamente attraversato da forti movimenti “tellurici “. Mai come questa volta la spaccatura è stata pesante. Riuscirà Renzi a recuperare un rapporto dignitoso con la minoranza, oppure passerà alla storia come il segretario della scissione? Quali potranno essere gli argomenti di Renzi, nei confronti della minoranza, per evitare traumatiche divisioni?

Un partito grande non può essere un monolite. E che in un grande partito di centrosinistra ci siano idee, proposte, perfino visioni diverse, è un dato di fatto assolutamente fisiologico. In particolare, nel Pd è comprensibile che ci siano due grandi filoni di pensiero. Da una parte, c’è chi pensa al Partito democratico come ad un partito nuovo, per cultura politica, modello organizzativo, insediamento elettorale e classe dirigente, rispetto ai partiti storici della sinistra italiana, a cominciare dal Pci, così come rispetto alla stessa componente di sinistra della Dc. Un partito, fu definito da Walter Veltroni, “a vocazione maggioritaria”, per significare la spinta ad uscire dai confini tradizionali, sociali, culturali e perfino territoriali, della sinistra italiana, da sempre minoritari, per proporsi invece, attraverso una nuova sintesi politico-programmatica, come “partito del paese” (espressione che ho sempre preferito a quella, di derivazione togliattiana, proposta da Reichlin, di “partito della nazione”). Dall’altra, c’è invece chi vede nel Pd la continuazione di quella storia, o di quelle storie, sotto nuove spoglie. Bersani vinse il congresso nel 2009 con lo slogan “diamo un senso a questa storia”, intendendo che nella versione, accusata di “nuovismo”, di Veltroni, il Pd aveva perso il senso della sua storia. Ma il Pd bersaniano, il Pd che più ha rilanciato la continuità con la storia della sinistra italiana, il Pd che ha pensato se stesso come figlio diretto dell’Emilia rossa e del compromesso storico, è un Pd che ha perso, prima nel paese, scoprendosi ancora una volta radicalmente minoritario, e poi nello stesso corpo del partito. Renzi ha riproposto e rilanciato, vorrei dire portato alle estreme conseguenze, con energia e freschezza e anche con una certa “maleducata” ruvidezza (la “rottamazione”…) l’idea veltroniana della discontinuità. Fin qui ha inanellato una serie sorprendente di vittorie tattiche, sbaragliando tutti gli avversari, sia interni che esterni e portando il Pd al risultato elettorale record, in Italia e in Europa, del 40 per cento. Ma lui per primo sa che molte altre prove lo attendono: la prova di governo, sui terreni difficilissimi della politica estera ed europea, del rilancio dell’economia e delle riforme; e la prova del consenso, nel Pd e nel paese. La partita è dunque aperta. Davanti alle attuali minoranze del Pd, che a lungo avevano fatto il bello e il cattivo tempo nell’attuale partito e in quelli che lo hanno preceduto, sta la scelta tra una strategia di ostruzionismo distruttivo, contro Renzi costi quel che costi, anche a costo di minare le regole fondamentali dello stare insieme, come la lealtà di chi perde il confronto democratico nei riguardi di chi lo vince, o invece quella di ricostruire una prospettiva alternativa a Renzi su basi nuove, che mi parrebbe non possa prendere le mosse se non da un franco interrogarsi sulle ragioni della duplice sconfitta del Pd bersaniano.

Parliamo di Enrico Letta. Dopo più di un anno è tornato sulla scena. Va a Parigi per insegnare. Eppure alcuni pensano che sarà il principale antagonista di Renzi nel partito. Cosa pensa di Letta?

Di Letta penso tutto il bene possibile da molti anni. Penso che, anche grazie alla giovane età abbinata ad una certo non comune esperienza, abbia moltissimo da dare al Pd e al paese. Penso che i toni scelti in questi giorni, per una uscita di scena che in realtà è un rientro, non siano stati del tutto all’altezza della stima che si è conquistato nel giudizio di tanti.