L’Era di Mattarella. Intervista a Giorgio Tonini

Unknown

Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo.

Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:

il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. 

i volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti.

Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto.

Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi. 

Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri.

Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto.

Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose.

Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace”.

Questa è la parte finale del discorso inaugurale del settennato, tenuto oggi alla Camera, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un discorso molto applaudito. L’intervento ci offre l’impianto che assumerà il suo impegno presidenziale. Per capire i possibili sviluppi abbiamo intervistato Giorgio Tonini, vicepresidente dei Senatori del PD e membro della Segreteria Nazionale del partito.

 

Senatore Tonini, oggi è iniziato il settennato di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Partiamo dal discorso alla Camera. Un intervento pacato ma molto fermo nei principi, e determinato nel prendersi le difficoltà quotidiane degli italiani, specie degli ultimi. Sembra che la cifra, la linea maestra, della sua presidenza sarà molto sociale. E’ così?

Penso di si. Il presidente Mattarella è un fine studioso e un uomo delle istituzioni. Ma la sua formazione e la sua lunga esperienza politica, vissuta in particolare nella sua Sicilia, hanno fatto maturare in lui una forte sensibilità sociale. A cominciare dalla questione sociale per antonomasia, la questione meridionale, con l’inestricabile intreccio tra sottosviluppo, criminalità organizzata e corruzione politica che la caratterizzano. Una questione nazionale, non solo per il peso delle regioni meridionali, ma anche per la pervasività di quell’intreccio perverso, che ormai affligge anche regioni che un tempo ne erano immuni. Penso che il richiamo su questi temi caratterizzerà il suo settennato, anche se non avremo da lui nessun cedimento a tentazioni demagogiche o populistiche, purtroppo tanto frequenti nel dibattito pubblico, quanto controproducenti.

 

Dunque la lotta alla mafia e alla corruzione viste come priorità. Anche questo è uno stimolo molto impegnativo per il governo…

Certo. Il governo Renzi ha avviato un lavoro importante in questa direzione, che ha già dato i primi frutti. Basti pensare alla istituzione dell’autorità anticorruzione e della nomina a presiederla di un magistrato esperto e appassionato come Raffaele Cantone. Ma molto è ancora da fare o almeno da completare. E il presidente della Repubblica sarà uno stimolo instancabile a fare di più e meglio.

 

Veniamo all’aspetto istituzionale-costituzionale. Riconosce l’esigenza di fare le riforme ma ha rimarcato il rispetto delle prerogative del Parlamento.  Per il premier questo è sicuramente un monito.  Per lei?

Mattarella ha sottolineato l’urgenza delle riforme, a cominciare da quelle costituzionali ed elettorali. Lo ha fatto con toni molto diversi da quelli che fu costretto ad usare, due anni fa, con voce rotta dall’emozione, Giorgio Napolitano. Ma allora, il presidente della Repubblica aveva dinanzi un parlamento che non era riuscito a fare nulla nella legislatura precedente e prometteva di non far nulla nemmeno nella presente. Oggi, il nuovo presidente si trova dinanzi ad un cantiere aperto, che ha portato l’opera ad uno stadio molto avanzato di realizzazione. Dunque Mattarella ha potuto limitarsi ad un incoraggiamento e alla precisazione che le riforme sono affidate alla sovranità del parlamento, come a voler rispedire al mittente l’invito, trasmessogli da più parti, a entrare nel gioco e a bloccare o a correggere questo o quell’aspetto delle riforme in fieri. Quanto ai rapporti tra governo e parlamento, le parole di Mattarella mi hanno fatto ricordare un celebre intervento di De Gasperi alla Camera dei deputati, durante il dibattito sulla cosiddetta “legge truffa”. De Gasperi ricordava come il procedimento “normale” fosse quello che garantiva all’opposizione tutto lo spazio per esporre le sue ragioni e alla maggioranza la possibilità di decidere in tempi certi. Ma se il procedimento normale viene stravolto dall’ostruzionismo da parte delle minoranze, osservava De Gasperi, è inevitabile che anche la maggioranza finisca per utilizzare gli strumenti offerti dal regolamento per arrivare ad una decisione, a cominciare dall’apposizione della questione di fiducia. Giustamente Mattarella ha ricordato che l’arbitro ha bisogno della collaborazione dei giocatori. E dunque della disponibilità del governo a limitare decretazione d’urgenza e fiducia solo ai casi di effettiva necessità, ma anche alla speculare disponibilità da parte delle opposizioni a non indulgere a forme di ostruzionismo.

 

Un Presidente che auspica la “correttezza” del gioco politico implica un salto di qualità delle forze politiche. Al di là della facciata, non trova che ancora vi siamo troppi rancori?

Questa legislatura si è aperta all’insegna della incomunicabilità tra i tre principali partiti nei quali si era diviso il corpo elettorale: Pd, Forza Italia, Cinque Stelle. È stato merito di Giorgio Napolitano convincere e anche un po’ costringere i primi due a dialogare e anche collaborare tra loro, se non per il governo, almeno per le riforme. Mattarella ha rilanciato questa costante della presidenza di Napolitano, anche con il non scontato invito a Berlusconi per la cerimonia al Quirinale, ma estendendola ai giovani parlamentari di Cinque Stelle, che pare abbiano molto apprezzato l’apertura nei loro confronti. Del resto, la concezione inclusiva della politica democratica e parlamentare è uno dei tratti più caratteristici della cultura politica dei cattolici democratici, da De Gasperi, a Moro, fino al Mattarella di oggi.

 

Veniamo al PD. Indubbiamente l’elezione di Sergio Mattarella è stato un bel colpo per Matteo Renzi e per il PD. Reggerà quest’unità? Oppure vede nuvole all’orizzonte?

Nel 2013 il Pd si era clamorosamente spaccato al suo interno, aveva fallito l’obiettivo di eleggere un nuovo presidente della Repubblica e si era presentato agli occhi degli italiani come una parte del problema, anzi l’epicentro della crisi politica del paese. Stavolta, grazie in particolare a Renzi, il Pd è riuscito a proporsi credibilmente come parte, la parte fondamentale, della soluzione. Renzi e il Pd hanno così brillantemente superato un importante e difficile esame di maturità. Penso che nessuno vorrà ora prendersi la responsabilità di disperdere questo grande patrimonio di credibilità e affidabilità. Un grande partito democratico può vivere e crescere solo se dimostra di saper sia discutere che decidere. È stato ampiamente ricordato, in questi giorni, l’episodio che vide protagonista Mattarella nel 1990, con le dimissioni da ministro, insieme ad altri tre colleghi della sinistra dc, per il decreto sulle tv. Pochi ricordano che i ministri dimissionari, da deputati, votarono comunque la fiducia al governo su quello stesso provvedimento che aveva provocato le loro dimissioni. La disciplina di partito valeva ancora: e parliamo della Dc alla vigilia della sua crisi finale, non del Pci degli anni ’50. Sarebbe bene meditare su quei passaggi, a mio avviso utili anche oggi per capire come si possa stare in un partito, discutendo e anche dissentendo nel modo più radicale nella discussione pubblica, ma poi uniformandosi nel voto in parlamento alla linea risultata democraticamente maggioritaria.

 

Veniamo al “Patto del Nazareno”:  Il centrodestra è un mucchio di macerie, non esprime più una leadership credibile. Come pensate di andare avanti?

L’elezione di Sergio Mattarella, su proposta di Matteo Renzi, dimostra che era vero che il cosiddetto patto del Nazareno non conteneva clausole o codicilli nascosti, ma era quel che diceva di essere: un accordo tra Pd e Forza Italia per le riforme, costituzionali ed elettorali, in nome del principio che le regole si fanno o si cambiano insieme, tra avversari. Io penso che il patto arriverà a portare fino in fondo i suoi frutti, del resto quasi maturi: sia la riforma costituzionale, sia quella elettorale sono vicine alla conclusione del loro iter parlamentare. Più complesso e delicato il discorso sul Nuovo centrodestra di Alfano, che si trova nella non facile condizione di dover spiegare come può stare al governo nazionale con Renzi e schierarsi alle elezioni regionali e locali con Berlusconi. La difficoltà di questo passaggio provoca una fibrillazione interna che deve essere rispettata. Ma anche gli amici del Nuovo Centrodestra, come noi del Pd, hanno la responsabilità di evitare che la loro dialettica interna finisca per rallentare il cammino del governo e delle riforme. La vita interna dei partiti è importante, ma guai se viene considerata più importante dei problemi del paese.

La cyberwar contro l’ISIS. Intervista a Antonella Colonna Villasi

Nei giorni scorsi alcuni hacker legati al “Califatto” (I “Cybercaliphate”) hanno violato l’account del “Comando Centrale delle Forze Armate statunitensi” (CentCom), inserendo slogan inneggianti alla Jihad. Un salto di qualità preoccupante per gli Stati occidentali. Per parlare di Cyberwar e intelligence, per capire quali sono le forze che combattono questa guerra strategica contro l’ ISIS abbiamo intervistato la professoressa Antonella Colonna Villasi, docente di “Intellingence” in diverse Università. Ha pubblicato numerose pubblicazioni di storia dei Servizi Segreti, tra i più noti una “Storia del Mossad”.

Professoressa, ci troviamo di fronte ad un terrorismo di tipo nuovo che fa uso di mezzi sofisticati come la “Cyberwar”. E’ così?

Molti affiliati del Califfato sono giovani cresciuti in Occidente, non è escluso che abbiano la capacità di portare avanti operazioni del genere. Inoltre è ormai chiaro come l’Isis conosca molto bene il funzionamento dei social media e della rete, usata sia per fare propaganda, sia per reclutare. Sicuramente è stata un’altra vittoria mediatica per lo Stato islamico ed i suoi fiancheggiatori, capaci di inserirsi in uno dei sistemi più protetti del mondo. Questa dimensione totale del conflitto sarebbe stata impensabile ed ingestibile per un gruppo terroristico fino a qualche anno fa, l’ISIS però ha fatto un salto di qualità notevole. Alcuni messaggi di propaganda firmati dall’ISIS con la sigla “Cybercaliphate”sono stati inseriti da alcuni hacker nell’ account Twitter e YouTube del Comando centrale delle Forze armate statunitensi (CENTCOM), inserendo frasi e video inneggianti al Califfato. Ed è la prima volta che una formazione jihadista utilizza tattiche di cyberwar contro account legati ad uno Stato. Se l’Isis possiede una squadra specializzata di hacker la sua connotazione di gruppo jihadista supera e deborda la sua essenza ed assume quella di “esercito”. Questo attacco cibernetico è stato sferrato dall’ ISIS pochi giorni dopo la strage di Charlie Hebdo, ma soprattutto mentre negli USA il presidente Obama annunciava il rafforzamento dei sistemi di sicurezza informatici. Gli hacker del Califfato hanno anche pubblicato documenti e piani militari statunitensi su Cina e Corea del Nord, tuttavia non di natura riservata. L’Fbi sta investigando sull’hackeraggio di alcuni account Twitter di giornali e tv private. Si tratta di operazioni di “deface”, ossia di modifica delle pagine e del contenuto dei profili social, sui quali sono comparsi l’immagine di un uomo a volto coperto e la scritta “I love you Isis”. Alcuni esperti ritengono che alcuni gruppi affermino di agire nel nome del jihad ma non siano assolutamente collegati con lo Stato Islamico. 


Unknown

Lei è una esperta di intelligence e di strategia. Come si può definire una “CyberWar”?
L’insieme delle attività di preparazione e conduzione delle operazioni militari eseguite nel rispetto dei principi bellici condizionati dall’informazione. Si traduce nell’alterazione e addirittura nella distruzione dell’informazione e dei sistemi di comunicazioni nemici. La guerra cibernetica si caratterizza per l’uso di tecnologie elettroniche, informatiche e dei sistemi di telecomunicazione.
Gli attacchi informatici contro Paesi e le loro aziende stanno aumentando ultimamente in modo esponenziale.
Le regole base della guerra cibernetica sono:
minimizzare la spesa di capitali e di energie produttive e operative;
sfruttare appieno le tecnologie che agevolino le attività investigative e di acquisizione di dati, l’elaborazione di questi ultimi e la successiva distribuzione dei risultati ai comandanti delle unità operative;
ottimizzare al massimo le comunicazioni tattiche, i sistemi di posizionamento e l’identificazione amico-nemico .
Ricordo il worm Stuxnet, un attacco informatico agli impianti nucleari iraniani che è stato attuato nel 2010, utilizzato da Israele e Stati Uniti, per danneggiare le centrifughe nucleari iraniane.

Ci sono 140 Paesi, così in un rapporto di una agenzia d’Intelligence occidentale, che hanno creato unità speciali per la “CyberWar”. Il più importante è il “Cyber Command Usa”. Da chi è composto?

Il CyberCommand (USCYBERCOM) statunitense è un  comando delle forze armate americane subordinato al Comando Strategico degli Stati Uniti . Il comando si trova a Fort Meade, nel Maryland , e centralizza tutte le operazioni di comando in materia di cyberspazio, gestisce le risorse informatiche esistenti e sincronizza le reti statunitensi di difesa militari. Il Cyber Command è composto da diverse strutture, le unità militari:
Army Cyber Command / Second Army ( Esercito )
Army Network Enterprise Technology Command / 9 ° Army Signal Command( NETCOM / 9thSC (A) )
United States Army Intelligence and Security Command
, sotto il controllo operativo del ARCYBER per le azioni cyber-correlate. 
1 ° Information Operations Command (Esercito)
780 Military Intelligence Brigade 
(Cyber);

Fleet Cyber Command / Decima Flotta  Navale
Naval Network Warfare Command

Navy Cyber Defense Command Operations
Comandi operativi Informazioni navali
Combined Task Forces
Air Forces Cyber / Ventiquattresima Air Force ( Aviazione )
67th Cyberspazio Operations Wing
688 Cyberspazio Operations Wing
624 Operations Center
5 ° Combat Communications Group
Marine Corps Cyberspace Command ( Marines )

Quale ruolo assume l’ NSA, in questa guerra?

La NSA negli ultimi anni ha dichiarato guerra aperta alla cyber war. La NATO ultimamente ha inserito gli atti di cyberwar, cioè le aggressioni ad una nazione tramite attacchi informatici, come riconducibili ad atti di guerra in conformità all’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico. Secondo le stime fatte dal Center for Strategic and International Studies di Washington la cyber war fa girare tanti soldi quanti riesce a metterne in circolo il traffico internazionale di droga. Secondo i dati dello studio americano l’Italia, a causa degli attacchi hacker, ha subito perdite per 875 milioni di dollari l’anno. Gli Stati Uniti, la Germania e la Cina da soli sono stati sottoposti a incursioni da parte di hacker per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari nel 2013. Gran parte degli attacchi informatici sono dovuti al furto di proprietà intellettuali e allo spionaggio economico attuato dagli stessi governi. La Cina, ad esempio, è stata accusata dagli Stati Uniti di essere uno dei principali “ladri” di informazioni e brevetti ai danni delle imprese Usa. Anche le infrastrutture degli Stati Uniti sono costantemente sotto attacco informatico, anche da parte di paesi come la Cina che ha un fortissimo esercito di cybersoldati e che lavorano per creare disservizi, e perdita di informazioni. La logica del terrorismo applicata al cyberspace potrebbe produrre scenari catastrofici: virus informatici potrebbero neutralizzare i sistemi di difesa di una nazione, mandare in tilt acquedotti e sistemi elettrici. Gli Usa nel ruolo di superpotenza continua a muoversi in direzione di una proiezione del potere militare nello spazio cibernetico, definito come ‘nuovo teatro di operazioni’ dalla National Security Strategy elaborata dal Dipartimento della Difesa già nel 2005. Il dominio del cyberspace consentirà una gestione del potere che, intervenendo con azioni di disturbo (jamming) e attacchi mirati, potrebbe risparmiare molte vite di militari. Nel giugno 2014, il Pentagono ha nominato l’ammiraglio di squadra navale Michael Rogers comandante della cyber security della Us Navy, a capo della National Security Agency ed al comando delle unità contro i cyber attacchi. Rogers, esperto di codici, sostituisce il generale di squadra aerea Keith Alexander e costituisce la prima mossa del presidente Barack Obama per il nuovo corso della NSA coinvolta nelle critiche per il caso Datagate, scatenato dalle rivelazioni dell’ex analista Edward Snowden.

Sappiamo che in Estonia, è operativo dal 2004, c’è il Centro Nato di “Cyber Defense”. E’ rivolto a controllare la Russia? Oppure ha altri compiti?

Il Centro di Cooperazione Cyber Defence NATO di eccellenza ( Estonian : K5 o NATO küberkaitsekoostöö keskus) è uno dei Centri di Eccellenza  della Nato e si trova a Tallinn , Estonia . Il Centro è stato creato il 14 maggio 2008, ha ricevuto pieno riconoscimento da parte della NATO e ha raggiunto lo status di organizzazione militare internazionale il 28 ottobre 2008. Il Centro svolge attività di ricerca e formazione in materia di sicurezza informatica e comprende uno staff di circa 40 persone. Il Centro di Tallinn è uno dei 18 accreditati (COE), per la formazione su aspetti delle operazioni della NATO ad alto livello tecnico. E’ finanziato a livello nazionale e multi-nazionale.

Compito della struttura è quello di:
migliorare l’inter-operabilità della difesa contro attacchi cibernetici all’interno del Network Enabled Capability NATO ( NNEC ),
migliorare la sicurezza delle informazioni e potenziare l’educazione ad una cultura della difesa cibernetica,
fornire il supporto per la sperimentazione (anche on-site),
analizzare gli aspetti legali della difesa informatica.

Il centro ha anche altri compiti:
contribuire allo sviluppo delle politiche di sicurezza della NATO in materia di cyber-difesa e la definizione del campo di applicazione, realizzazione di progetti di formazione, campagne di sensibilizzazione, workshop e corsi.

Ultima domanda: Nella “CyberWar” la nostra privacy è a rischio. Dobbiamo rassegnarci ad essere controllati?

Si. Siamo in piena cyberwar che rischia di mandare in frantumi la privacy di persone, società e nazioni. Il cyber terrorismo rappresenta una sfida alla stabilità, alla prosperità e alla sicurezza di tutte le nazioni, e le azioni di attacco possono essere originate da entità statali, da terroristi, da gruppi criminali o da individui dediti alla ricerca d’informazioni o alla distruzione e al danneggiamento dei sistemi informatici e dei dati in essi contenuti. La Nato, nel prossimo decennio, ha intenzione di assumere sempre più un ruolo di difesa collettiva perché le sfide del futuro sono sempre più la cyberwar e gli attentati alla libertà di navigazione sul web.

La straordinaria attualità di Gandhi: religione e laicità, contro il terrorismo e ogni guerra. Un testo di Mao Valpiana

Mahatma Gandhi (history.com)

Mahatma Gandhi (history.com)

 

Il 30 gennaio 1948, presso la Birla House a New Delhi, mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera viene assassinato con tre colpi di pistola da un fanatico indù, Nathuram Godse, il quale prima di sparare si piega in segno di riverenza di fronte al suo leader. Catturato viene condannato a morte l’8 novembre dello stesso anno. Per ricordare la luminosa figura di Gandhi pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, un testo di Mao Valpiana (Presidente del Movimento Nonviolento italiano).

Non aveva partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità o nonviolenza), perché la separazione tra India e Pakistan era per lui una grande sconfitta. E’ stato assassinato da un giornalista indù, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indù, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un pericolo.  Sono passati 67 anni, da quel 30 gennaio del  1948, e il fondamentalismo è ancora un pesante ostacolo per i processi di pacifica convivenza; il terrorismo internazionale si maschera dietro una religione per raggiungere l’obiettivo politico di destabilizzare e conquistare potere.

Dunque, non si può parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: “E’ l’elemento permanente della natura umana; non ritiene nessun sacrificio troppo grave per trovare piene espressione e lascia l’anima totalmente inquieta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e sperimentato la vera corrispondenza fra il creatore e se stessa”. E poi prosegue: “Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo. Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti gli uomini. E’ in noi e tuttavia al di sopra e aldilà di noi…”.

Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verità, perché Dio stesso è Verità, e la Verità è Dio. In questo senso per Gandhi ogni problema che si pone, ogni questione che si deve affrontare, politica, sociale, economica, etica, collettiva o personale, è una sfida religiosa: “per me ciascuna attività, anche la più modesta, è guidata da quella che io considero la mia religione… la mia attività politica, come tutte le altre mie attività, procede dalla religione… perciò anche nella politica dobbiamo stabilire il regno dei cieli”. Tuttavia in Gandhi c’è posto anche per una piena laicità. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: “se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi  del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e così via, ma non della vostra o mia religione. Questa è affare personale di ciascuno”.

Forse non è un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi (riformatore religioso) e Giuseppe Mazzini (riformatore laico).

Oggi nel mondo intero Gandhi è considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse.  Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: “Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita. Egli agisce senza recriminazioni, con distacco, senza aspettarsi il risultato immediato delle proprie azioni e senza rivendicarne il merito. Non si stupisce della violenza che puo’ essergli inflitta, non agisce con rabbia e utilizza ogni occasione che gli si presenta per trasformare il male con il bene.”

Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi è la preziosa eredità per il nuovo secolo.

La lezione di Gandhi ha suscitato molti proselitismi, in ogni parte del mondo. Dagli Stati Uniti di  Martin Luther King, al Sudafrica di Mandela, dalla Birmania di Aung San Suu Kyi, al Tibet del Dalai Lama, ed in Italia con Maria Montessori, Aldo Capitini, Danilo Dolci; in America Latina e in Europa, ovunque vi sono gruppi o popoli che lottano per i loro diritti ispirandosi alla forza attiva del satyagraha.

“Se posso dirlo senza arroganza e con la dovuta umiltà, il mio messaggio e i miei metodi sono validi, nella loro essenza, per il mondo intero; ed è motivo di viva soddisfazione per me sapere che hanno già suscitato mirabile rispondenza nel cuore di un grande e sempre crescente numero di uomini e donne dell’Occidente”.

Oggi infatti non si può parlare di pacifismo senza fare i conti con la nonviolenza gandhiana.  La mobilitazione contro la guerra e il terrorismo (la guerra è terrorismo su vasta scala, e il terrorismo è una guerra contro la società) è coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità”. Gandhi condanna il ricorso alla violenza, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: “Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Dunque la nonviolenza di Gandhi è soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita è spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.

Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza, la sola via che può salvare l’umanità.

Giornata della Memoria: una riflessione sulla SHOAH

auschwitz_h_partb27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa sovietica liberarono il campo di concentramento tedesco di Auschwitz, ad ovest di Cracovia, nel sud della Polonia. Mentre si avvicinavano, le SS iniziarono l’evacuazione. Circa 60 mila prigionieri furono costretti a marciare verso ovest, la maggior parte, per lo più ebrei, verso la città di Wodzislaw nella parte occidentale dell’Alta Slesia. Migliaia di persone furono uccise in fretta nei giorni precedenti, il più possibile. Durante la marcia della morte le SS spararono a quelli che, stremati, non potevano continuare a camminare. Gennaio, gelo, fame. Morirono in più di 15 mila. Quando entrò, settant’anni fa, l’esercito sovietico trovò e liberò oltre 7 mila sopravvissuti, malati e moribondi. Si stima che circa 1,3 milioni di persone siano state deportate ad Auschwitz tra il 1940 e il 1945. Di queste, almeno 1,1 milioni sono state assassinate.
Dal 1933, con la creazione del primo campo di concentramento di Dachau, al 1945 6 milioni di ebrei vengono sterminati dall’orrore demoniaco del nazismo (senza dimenticare le altre vittime: omosessuali, disabili, rom, sinti, oppositori politici, testimoni di Geova, clochard, ecc.). La Shoah è il “cuore di Tenebra” dell’occidente, nasce all’interno del brodo di coltura dell’antigiudaismo e antisemitismo che ha attraversato nei secoli l’occidente. Certo la follia criminale nazista aggiungeva il razzismo e la cultura del sangue “ariano”.
L’infernale “macchina” del lager serviva non solo allo sterminio ma anche alla creazione, alla mutazione cioè, dell’essenza della natura umana: ovvero la creazione del sub-uomo (esseri inferiori e tali erano considerati gli ebrei) cui i “superuomini” nazisti potevano esercitare ogni sopruso e umiliazione. Quelli, dunque, che non erano “ariani” erano solo “larve umane”, manichini inermi.
Questo era lo scopo dell’ordine del terrore nazista, centrato sul lager. La shoah quindi svela alla radice di quale crudeltà è capace l’uomo, a che livello di abiezione può spingersi l’uomo: ridurre il suo simile a bestia.
L’”ordine” sociale del lager era un “ordine” gerarchizzato al massimo. Era un “ordine” del tutto rovesciato rispetto alla normalità: in cima alla gerarchia c’erano i più malvagi.
La Shoah, quindi, pone interrogativi enormi sulla natura dell’uomo e della cultura dell’occidente.
Ora “La banalità del Male” di Auschwitz, per dirla con Hanna Arendt, pone interrogativi abissali , in particolar modo, ai credenti nel Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe e di Gesù di Nazareth. Tutta la “teodicea” è messa in discussione. Voltaire, nel suo cinismo filosofico contro Leibniz, con sarcasmo poteva affermare che “Lisbona è affondata e a Parigi si balla”. Ma come scrive Theodor Adorno: se Lisbona rappresenta i disastri che la natura compie ai danni dell’uomo, ed oggi sappiamo quanto questi disastri dipendano anche dal comportamento umano, Auschwitz, che “prepara l’inferno reale sulla terra”, pone interrogativi così radicali da sconvolgere sia il teologo che il filosofo: “Dov’era Dio mentre milioni di innocenti ebrei venivano sterminati?”
E’ l’interrogativo che si pone Elie Wiesel, nel suo libro La Notte:
Dietro di me sentii lo stesso uomo chiedere: Dov’è Dio adesso?
E udii una voce dentro di me rispondergli: Egli è qui – Egli è appeso qui su questa forca.
Questo è l’evento centrale del libro: la morte letterale di Dio. Altre domande sorgono in questo libro:
“Sia benedetto il nome di Dio? Perché, ma perché io avrei dovuto benedirlo? Ogni fibra di me si ribellava. Perché Egli aveva condannato migliaia di bambini a bruciare nelle Sue fosse comuni? Perché aveva continuato a far funzionare sei forni crematori giorno e notte, inclusi lo Shabbat e i giorni santi? Perché con la sua forza aveva creato Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come potevo dirgli: Benedetto sei tu, onnipotente, Signore dell’Universo, che ci hai scelti fra tutte le nazioni ad essere torturati giorno e notte, per vedere come i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finiscono nei forni? […] Ma ora, non ho più supplicato per nulla. Non ero più in grado di emettere un lamento. Al contrario, mi sentivo molto forte. Io ero l’accusatore, Dio l’imputato!”
Sono domande radicali, angoscianti, che pongono al-limite la riflessione umana di un credente.
Tra i più importanti pensatori tedeschi, il teologo Jurgen Moltmann, è stato quello che più ha riflettuto su Auschwitz: La nozione tradizionale di una “motore immobile” impassibile, era morto in quei campi e non era più sostenibile. Moltmann propone invece un “Dio crocifisso”, che è un Dio “sofferente” e anche “protestante“. Vale a dire, Dio non si distacca dalla sofferenza, ma entra volontariamente nella sofferenza umana con compassione.
“Dio in Auschwitz e Auschwitz nel Dio crocifisso” .
Ciò è in contrasto sia con l’iniziativa del teismo che giustifica le azioni di Dio, e sia con l’iniziativa dell’ateismo che accusa Dio. La “teologia trinitaria della croce” di Moltmann afferma invece che Dio è un Dio che protesta e si oppone agli “dei di questo mondo” di potere e di dominio, entrando nel dolore umano e soffrendo sulla croce e sul patibolo di Auschwitz.
Un Dio “sovversivo” che chiede al credente di battersi radicalmente contro gli inferni di quaggiù, in questa opera noi, come ci insegna Etty Hillesum, la giovane donna ebrea che insieme ad Edith Stein, Simone Weil rappresentano le luminose figure della mistica femminile di radice ebraica e cristiana contemporanee, “aiutiamo Dio” ad essere ospitato nel cuore dell’uomo.
Ma Auschwitz, come scrive un altro pensatore tedesco Johnann Baptist Metz (anche lui teologo), pone ancora altre domande: “La domanda teologica dopo Auschwitz non è solamente: dove era Dio ad Auschwitz? Ma è anche: dove era ad Auschwitz l’uomo? Come si potrebbe credere nell’uomo, o perfino nell’umanità, quando si dovette sperimentare ad Auschwitz di che cosa «l’uomo» è capace? Come continuare a vivere tra gli uomini? Che cosa sappiamo noi della minaccia all’umanità dell’uomo, noi che abbiamo vissuto voltando le spalle a questa catastrofe o che siamo nati dopo di essa? Auschwitz ha ridotto profondamente il limite di pudore metafisico tra uomo e uomo. A questo sopravvivono solo coloro che hanno poca memoria o coloro che sono riusciti bene a dimenticare che hanno dimenticato qualcosa. Ma nemmeno questi restano illesi. Non si può peccare quanto si vuole contro il nome dell’uomo. Non solo l’uomo singolo, anche l’idea dell’uomo e dell’umanità è profondamente vulnerabile. Solo pochi collegano ad Auschwitz l’attuale crisi d’umanità: l’insensibilità crescente di fronte a diritti e valori universali e grandi, il declino della solidarietà, la furba sollecitudine nel farsi piccoli pur di adattarsi a ogni situazione, il rifiuto crescente di offrire all’io dell’uomo una prospettiva morale, eccetera. Non sono tutte scelte di sfiducia contro l’uomo? La catastrofe che è stata Auschwitz costituisce forse una ferita inguaribile?“

«E se anche l’attuale crisi d’umanità – conclude Metz-fosse figlia della ferita inguaribile del lager?» (Vedi: http://www.landino.it/2011/01/johann-baptist-metz-«la-shoah-e-entrata-tardi-nella-teologia»/)

(il pezzo è uscito anche su : www.laspeziaoggi.it)

“Professione” Lolita: un romanzo di Chiarelettere sulla Roma marcia degli ultimi avvenimenti.

 

proscenio_professione lolita

Potere, corruzione, droga, sesso. Questa è Roma. La Roma marcia degli ultimi avvenimenti di cronaca: dalle baby prostitute del Parioli a Mafia Capitale. Scrive Roberto Bonini, giornalista di Repubblica, nella sua introduzione: “Il romanzo di Daniele Autieri ha il coraggio di raccontare non solo una generazione, ma cosa siamo diventati. Jenny e Lalla parlano di noi tutti e di una città, Roma, che è insieme metafora e sintomo dell’abisso italiano.”. Proprio così un romanzo sull’abisso in cui siamo sprofondati.

professione-Lilita-fascettaIL LIBRO

A quattordici anni JENNY e LALLA si prostituiscono in un appartamento dei PARIOLI.

Lo fanno per i soldi e per la coca.

A quindici anni FAIRY vomita per essere più magra e meno sola. Per essere ancora più bella. È così insicura che finisce nella rete di K, il fotografo delle minorenni adescate nei quartieri bene. K le convince a fare sesso tra di loro. E scatta. E vende.

A diciotto anni MALPHAS adora le lame, il Duce e CasaPound. Gestisce lo spaccio e la ricettazione nel cuore della capitale.

Deve tutto alla camorra e al patto con i bori di Tor Bella Monaca. Il prezzo che dovrà pagare sarà altissimo. Poi ci sono loro. POLITICI, IMPRENDITORI, GIUDICI.

Affamati di carne giovane e di potere. Pronti a sborsare centinaia di euro per una notte con una minorenne. Disposti a tutto per arrivare ancora più in alto. Poi c’è lui. Il CAMALEONTE. Il re di Roma. L’uomo a capo dell’associazione a delinquere che ha messo le mani sugli appalti pubblici assegnati dal comune e dalle sue società controllate. L’uomo responsabile di estorsioni ai danni di commercianti e imprenditori. L’uomo che vuole arricchirsi anche con il business della prostituzione minorile.

Un sistema criminale sul quale indaga il capitano del Nucleo investigativo dei carabinieri EUGENIO MARCHESI. Cresciuto in borgata e in borgata noto a tutti come Markio, oggi il capitano vuole salvare i ragazzini come un tempo è stato salvato lui.

Di notte perlustra le strade della capitale a bordo della sua Cbr 1000, nelle orecchie il Notturno di Chopin, sulle spalle un passato ingombrante che non vuole dimenticare. Le sue indagini lo portano sulle tracce di Lalla, Jenny e Malphas. Lui è l’unico che può salvarli e incastrare i burattinai che giocano con le loro vite.

 

 L’AUTORE

Daniele Autieri (Roma, 1977) è scrittore e giornalista de “la Repubblica”. Sua l’inchiesta che ha rivelato i retroscena della vicenda delle baby squillo dei Parioli: le sue indagini giornalistiche hanno condotto all’arresto di Furio Fusco, il cosiddetto fotografo delle minorenni, e hanno permesso ai carabinieri del Nucleo investigativo di smascherare un giro internazionale di produzione di materiale pedopornografico, legato al mondo delle minorenni della capitale. Ha già pubblicato Alemagno (Aliberti 2011) e Il saccheggio (Castelvecchi 2013).

Di seguito i personaggi del libro:

I violenti

Jenny
Quindici anni, una vita di coca, soldi, sesso. Una madre di cui non si fida, che gli ha nascosto perfino la morte del padre. A Jenny non resta altro che la ribellione. Non le resta che fuggire da chi le ha dato la vita e ha provato a rinchiuderla in una scuola di monache. Lei vuole il mondo ai suoi piedi. Il prezzo non conta.

Lalla
«Mamma» è una parola brutta da pronunciare. Perché richiama ricatto e urla che graffiano la pelle. Perché a casa i soldi non bastano mai. Ha quattordici anni, Lalla, e una sola amica, Jenny. Vuole fare come lei: vendersi e ricominciare a vivere. Vendersi e dire addio ai suoi dolori.

Chicca
Sedici anni, ricca e bellissima. Scambia il suo corpo con chi le promette droga, trasgressione e magari, nelle distrazioni della notte, una carezza. Non chiede soldi. Vuole solo vivere e superare i limiti. Ma alla solitudine non esiste antidoto.

I ribelli

Fairy
A quindici anni la solitudine è la sua condanna. Ignorata dai genitori, Fairy: troppo impegnato nel lavoro, lui; troppo frivola e indifferente, lei. La ragazza si chiude in bagno e vomita. Ma nessuno bussa a quella porta. Ha solo i suoi fantasmi, Fairy, i suoi aguzzini che le riempiono la vita di sogni e illusioni.
Meglio cercare quello che manca altrove. Fino a Dubai. E oltre.

La Guardia
Eugenio Marchesi è una guardia, ma l’Arma lo sa che il suo è un passato ingombrante. Di giorno indossa la divisa. Di notte torna nella periferia dove è cresciuto. Alla ricerca di una verità che nessuno vuole ascoltare.

Trilly
Sabrina vuole diventare showgirl. Cambia nome, dice addio alla provincia e al suo passato. Ma il compromesso è un patto di sangue con il carnefice.
E le vittime sono bambine, proprio come lo era lei.

I demoni

Il Boss

Pistola nei pantaloni e guardie del corpo alle spalle. A Roma chi vuole fare affari con la camorra deve parlare con lui. Altrimenti la pantera scatta, afferra la preda, affonda i denti nella carne. «Ce verimm’ ampress’, nenne’» esclama di fronte alla carcassa. «All’inferno» risponde lei.

Il Camaleonte
È lui il re del mondo di mezzo. Impartisce ordini, minaccia e ricatta. Quando serve uccide. Vive nascosto perché uscire allo scoperto sarebbe inutile: le anime nere non sbiadiscono al sole.

Malphas
Il demone è ragazzo. La vita lo vuole violento, la famiglia lo crede borghese. Il padre ha militato, ha conosciuto la strada ma il tempo gli ha fatto un regalo che si chiama politica.
Sotto la camicia bianca, i tatuaggi marchiano l’anima nera di Malphas. Roma Nord lo riconosce come il suo capo branco eppure la periferia ha regole diverse. L’abito inganna. Il volto truffa. Ma il sangue resta sulla lama.

Franca
La slot machine è la sua droga. Un’ultima scommessa e sarai ricca. Franca chiude gli occhi e tira la leva. Stavolta la posta è alta, perché sul banco della vita ha puntato Lalla, sua figlia.

I perversi

Il Giudice
Il corpo sudato e l’anima derelitta. Lo spirito corrotto e il piacere forsennato.
La legge non conta. L’onore non conta. Conta solo godere.

L’Onorevole
La politica è una puttana generosa. Va succhiata fino all’osso, fino al segreto del potere.
Per scoprire in quel momento che l’avidità non ha limiti. Ed è pronta ad azzannare la coscienza.

Il Presidente
La superbia veste un abito comodo. Un mantello che nasconde il volto del peccato. Alla sua età, il Presidente guida la grande azienda dello Stato con la tenacia del leone.
Ma sotto l’abito pubblico, l’animale scalpita. E il desiderio ha un nome che fa paura.

Gli infami

K
La mano del fotografo davanti al corpo della bambina. Ogni scatto è un’anima rubata. Il fotografo le vuole tutte giovanissime. Perché la carne giovane va forte al mercato degli insospettabili. E la lussuria è una signora senza età.

Tilde
Amava un uomo troppo vecchio. Matilde ora lo ha perso e con lui ha perso la rotta. Le resta solo la figlia, Jenny, e la sua rabbia.
Meglio chiudere gli occhi e non vedere quello che sta succedendo. Illudersi ed evitare di soffrire.

Toni
La iena ha fame ma non fa vittime. Sfrutta le ragazzine perché loro portano i soldi. Le fa battere e vive dei loro avanzi. Si lancia sulle carcasse e strappa quello che serve. Il resto marcisce sotto un sole infuocato.

Daniele Autieri, Professione lolita, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, Pagg. 330. € 15,00

Il «Proscenio», che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, è di Vincenzo Bizzarri (Foggia, 1987). Autore di fumetti e illustratore, dopo sei anni di autoproduzione esordisce nel 2012 come disegnatore nel libro a fumetti Dal Risorgimento alla Resistenza edito dalla Regione Toscana. Collabora e pubblica con la casa editrice Double Shot, Kleiner Flug, la rivista «Lo Spazio bianco» e il Goethe Institut. Nel 2013 vince la Comics Jam indetta dalla Fondazione Ferragamo. Attualmente frequenta il biennio specialistico in Linguaggi del Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna.