“LA RIPRESA È BUONA, MA SOLO LA CRESCITA DI COMPETENZE E SALARI LA CONSOLIDERÀ”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Negli ultimi mesi, le previsioni di crescita 2021 per l’Europa si sono attestate su buoni livelli, in particolare per il nostro Paese. Il trend di ripresa della produzione industriale ormai costante da un anno a questa parte è del resto indice del fatto che lo shock economico – che segue a quello pandemico – è ormai superato. Resta l’incognita di nuove ondate ma, quantomeno per l’anno in corso, gli istituti economici hanno pochi dubbi su quello che sarà il prodotto dell’economia. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, anche alla luce degli esiti del G7 in Cornovaglia.

Sabella, anzitutto, cosa possiamo dire dopo questo G7?

Il G7 ci consegna l’evidenza di quello scenario che avevo anticipato un anno fa nel mio libro “Ripartenza verde” (http://confini.blog.rainews.it/2020/07/15/ripartenza-verde-come-il-nuovo-whatever-it-takes-della-bce-intervista-a-giuseppe-sabella/): Europa e USA stanno ricostituendo l’alleanza atlantica, certo in nuove forme. Biden e Draghi ai vertici sono una contingenza storica che certamente favorisce questo nuovo corso, ma lo stesso Trump avrebbe cercato nuove intese con l’Unione Europea. Era inevitabile. Oggi la Cina è temuta non solo per quello che ha causato con la pandemia ma anche in ragione della sua potenza e fragilità economica. Non dimentichiamoci che gli investimenti e gli interessi dell’Occidente nel mondo asiatico sono ancora tanti. E che, per quanto sia ancora l’economia da inseguire, la Cina presenta da tempo segnali di squilibrio e di difficoltà di tenuta.

Concretamente, a cosa possono portare i nuovi intendimenti di questo importante summit?

Le nuove intese tra Europa e USA da una parte hanno l’effetto di contenere i rapporti tra UE e Cina: non dimentichiamo che a gennaio, a Davos, Angela Merkel ha criticato duramente Xi Jinping sul piano della gestione della pandemia. Mi spiego meglio: la Cina viene attaccata dal suo più importante partner commerciale, la Germania. È il segno evidente che qualcosa è cambiato nei rapporti tra il Vecchio continente e il mondo asiatico. Ciò in primis renderà più autonomo il mercato europeo dai prodotti cinesi, come del resto ambisce a fare il programma Green Deal già dal 2019. Dall’altro lato, USA e Europa vogliono coinvolgere l’Africa nella nuova globalizzazione: Biden e Draghi in particolare hanno condiviso l’idea di un piano di investimenti infrastrutturali nel continente africano che avrà come effetto anche quello di contenere i flussi migratori. Credo che questa si prospetta come una svolta decisiva, sia sul piano economico che su quello sociale.

Veniamo al nostro Paese: quanto questo nuovo scenario è propizio per la nostra economia?

Credo che l’Italia oggi si presenta all’appuntamento con la storia in una condizione piena di tensioni e contraddizioni. Ma ciò non significa che mancheremo l’occasione. Credo anzi che prevarrà la nostra eccellenza, ma lo sforzo che il Paese è chiamato a fare è notevole. A ogni modo, la crescita passa in primo luogo attraverso il rilancio delle filiere produttive. Sappiamo di avere in casa i migliori prodotti del manufacturing mondiale ma c’è anzitutto una parte di imprese che resta lontana da quell’innovazione che domani diventerà ordinaria. Sono tutte imprese – e sono tante – destinate a chiudere. Oltretutto, la pandemia ha messo a rischio 500 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo di cui 100 milioni persi in modo permanente. In Italia i posti di lavoro persi ammontano a quasi 1 milione. Insomma, il problema della ricostruzione è un problema molto serio. E, al momento, le incognite della pubblica amministrazione, della giustizia, della burocrazia e della capacità de territori di farsi ecosistemi – aspetto fondamentale per accompagnare lo sviluppo – pesano enormemente sul nostro futuro. Anche se, come dicevo prima, penso che il nostro Paese libererà le migliori risorse che ha. Del resto, le previsioni di crescita dell’Italia – da parte di Ocse, FMI e agenzie di rating – sono superiori alle medie europee e alla stessa Germania.

La risposta all’emergenza sociale, che ancora non è finita, si calcola sia costata 100 miliardi al nostro Paese. Se consideriamo i fondi europei, siamo in presenza di livelli record del debito che la stessa Banca d’Italia ci ha segnalato proprio ieri. Quanto è sostenibile questo indebitamento?

Naturalmente questo è un punto critico, al di là del fatto che tutti i Paesi e tutte le economie si stanno indebitando. Come scriveva Mario Draghi sul Financial Times il 25 marzo dello scorso anno – giorno prima che iniziassero i lavori del Consiglio europeo che ha poi portato al Recovery Plan (o Next Generation EU) – “La pandemia è una tragedia umana di proporzioni bibliche. Una profonda recessione è inevitabile. È chiaro che la risposta deve riguardare un significativo aumento del debito pubblico”. Il punto è, però, che tra 3/4 anni vi saranno economie che hanno fatto fruttare l’investimento del debito ed economie che non ne saranno state capaci. Le prime avranno sì un indebitamento importante ma altrettanto lo sarà la ricchezza prodotta, il pil. E, quindi, il debito risulterà sostenibile. Sono pronto a scommettere che tra queste vi saranno USA, Germania, Francia, UK: i loro sistemi economici sono sistemi virtuosi, insieme alla capacità delle loro istituzioni di accompagnare lo sviluppo economico. Le seconde, invece, subiranno potenti contraccolpi, come in precedenza Grecia e Spagna per non andare lontano. Venendo all’Italia, il nostro Paese ha caratteristiche per evitare situazioni drammatiche ma non c’è più tempo da perdere. E non possiamo più permetterci di sprecare risorse, cosa in cui ci siamo specializzati negli ultimi anni.

Cosa serve in tal senso al Paese per avviare uno stabile ciclo di sviluppo economico e per ritrovarsi tra qualche anno insieme alle altre economie avanzate e non tra i Paesi in recessione?

A parte le riforme che del resto il PNRR prevede e che rispondono ai problemi che sollevavo pocanzi – PA, giustizia, burocrazia, ma anche fisco, infrastrutture, etc. – la cosa fondamentale è che servono risorse umane e competenze: le sapremo individuare? Non è un problema di poco conto. Se le istituzioni devono accompagnare lo sviluppo economico, si presuppone che alla guida di istituzioni ed enti locali – questi ultimi avranno un ruolo importantissimo – ci siano dirigenti che sanno quel che fanno, che sono competenti. Questo è ahimè un punto molto dolente che in alcuni territori impedirà la crescita o la limiterà, anche nel cosiddetto nord produttivo. E poi, il problema dei salari non è soltanto una rivendicazione. Al di là del fatto che le retribuzioni italiane sono da tempo inferiori di circa il 30% a quelle tedesche e francesi – anche per poca efficacia delle politiche contrattuali di ridistribuzione della ricchezza prodotta – il punto è che il nuovo ciclo prevede due fattori ineludibili: costi crescenti dei prodotti e dell’inflazione. Questo per la politica monetaria espansiva – lo abbiamo visto bene negli USA – ma anche per effetto di una limitazione crescente del prodotto a basso costo. Von der Leyen, a questo proposito, ha parlato più volte di dazi europei. È evidente che se a tutto questo non si risponde sul piano dei salari, il sistema non sta in piedi. Non a caso, a novembre 2020 l’Unione Europea ha presentato la sua direttiva sul salario minimo: non è obbligatorio che sia la legge a stabilirlo, lo possono fare anche i contratti di lavoro; ma, appunto, l’adeguamento dei salari è richiesto agli stati membri dall’Unione. Del resto, solo dalla crescita dei salari può conseguire la crescita dei consumi e della domanda interna: è l’aspetto decisivo per consolidare la ripresa.

“Navalny è la nemesi di Putin”. Intervista ad Anna Zafesova

Proprio nel giorno del compleanno dell’oppositore Aleksey Navalny, Vladimir Putin ha promulgato una legge che vieta a chi aderisce a organizzazioni “estreme” di partecipare alle elezioni: una misura che secondo l’opposizione è un mezzo per neutralizzare candidati scomodi, prima delle elezioni legislative di settembre.

La legge, passata alla Duma a maggio e mercoledì 2 giugno in Consiglio della Federazione, è stata pubblicata una volta firmata dal presidente russo. Questo testo vieta l’elezione a persone coinvolte in un’organizzazione “estremista”.

Uno stretto alleato di Alexey Navalny residente in Lituania, Leonid Volkov, ritiene che Putin abbia intenzionalmente firmato la legge il giorno del compleanno di Navalny.

Nel frattempo è già in corso una richiesta per classificare le organizzazioni di Navalny come “estremiste”, in particolare il suo Fondo per la lotta contro corruzione (FBK) che ha accusato il presidente russo di uno stile di vita “da zar”.

Continua, anche con questa “legge anti Navalny”, dunque la trasformazione, in senso dittatoriale, del regime guidato da Vladimir Putin. Ma che notizie abbiamo di Alexey Navalny? La Russia di Putin sta diventando una dittatura? Quale sarà il futuro della Russia?

Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con la giornalista Anna Zafesova, autrice di un bel saggio, appena uscito nelle librerie, “Navalny contro Putin” (Ed. Paesi, pag. 160. € 16,00). Anna Zafesova  è Giornalista e massima esperta in Italia di Russia e Putin, dopo esperienze con diversi giornali sovietici e italiani, dal 1992 scrive per La Stampa ed è analista politica per Il Foglio e Linkiesta.Fino al 2004 è stata corrispondente del quotidiano torinese a Mosca, dal 2005 vive e lavora in Italia. A lei si devono importanti libri tradotti dal russo, come I cinocefali e ha firmato la postfazione de Nel primo cerchio di Aleksandr Solzenicyn (Voland, 2018).

Per prima cosa ti chiedo se hai, per quanto è possibile, notizie sulle condizioni di Alexey Navalny?

Le notizie che possiamo avere sulle condizioni di Alexey Navalny sono, purtroppo, quelle che ci arrivano ormai quasi tutti i giorni dalla Russia, sulle nuove incriminazioni e processi contro di lui e i suoi seguaci. L’ultima volta, è apparso in aula qualche giorno fa in videoconferenza, collegato dalla prigione di Vladimir dove sta scontando la condanna. È riuscito a ottenere dalla prigione di ricevere i libri che ha chiesto e i giornali senza ritagli, mentre i giudici si sono rifiutati di revocare i controlli che impongono ai secondini di svegliarlo fino a otto volte ogni notte per verificare che non sia evaso dalla cella. Ma soprattutto sono i suoi seguaci a venire colpiti, con la proclamazione della sua Fondazione anticorruzione e dei suoi centri regionali come “organizzazioni estremiste, e il bando a chiunque avesse partecipato, finanziato o anche solo appoggiato la loro attività a candidarsi in qualunque elezione.

Appunto la scorsa settimana la Duma ha approvato una “legge anti Navalny” per impedire alla sua lista di partecipare alle elezioni. Insomma sempre più la Russia sta diventando una dittatura?

La Russia sta compiendo la transizione da un autoritarismo alla dittatura, avvenuta in pochi mesi, con una velocità sconcertante, sotto gli occhi della comunità internazionale. In questo momento, i giudici stanno mettendo fuori legge le organizzazioni di Navalny con la giustificazione che “volevano cambiare il potere politico” e “formare un’opinione pubblica favorevole a cambiare il potere politico”. In altre parole, fare opposizione è diventato un reato penale. Il Cremlino ha rapidamente smantellato quella parvenza di democrazia che esisteva almeno sulla carta: oggi, il diritto a manifestare, a esprimere opinioni, a partecipare ad associazioni, è stato tolto. Diversi media e ONG sono stati proclamati “agenti stranieri” e “organizzazioni indesiderabili”, e se la prima etichetta tecnicamente non proibisce l’attività – ma la rende impossibile perché collaboratori, partner e sponsor hanno paura ad avere rapporti con un’entità malvista dalle autorità – la seconda comporta condanne alla prigione, anche per chi ha partecipato ad attività “indesiderabili” all’estero. Migliaia di persone sono state arrestate, condannate, espulse dall’università o licenziate per un post sui social, o per essere scesi in piazza, o soltanto per essersi iscritti sul sito di Navalny. Gli oppositori che vogliono candidarsi alle elezioni vengono arrestati e incriminati, e secondo il politico Dmitry Gudkov – arrestato con un’accusa falsa e poi spinto a fuggire all’estero – “oggi fare politica in Russia è fisicamente impossibile”.

Come si spiega questa drammatica “evoluzione”?  Quali fattori stanno alla base di questo passaggio?

Il fattore principale è il sistema politico che si basa sull’assenza di democrazia. Minacciato, non fa che aumentare il grado di repressione. E viene minacciato, perché dopo più di vent’anni di assenza di alternative, i russi sono più poveri e meno liberi, i problemi sociali e la corruzione non sono stati risolti e l’isolamento internazionale è aumentato. Il consenso putiniano sta sparendo insieme alla generazione che in buona parte l’ha sostenuto, ma in assenza di meccanismi democratici invece di apportare cambiamenti il regime aumenta la pressione su coloro che non lo sostengono. Un’involuzione che la protesta guidata da Navalny ha drammaticamente accelerato: non erano più poche centinaia di intellettuali dissidenti moscoviti, ma un movimento vero, massiccio, trasversale socialmente e geograficamente, che ha mandato in crisi un autoritarismo che si basa sull’assenza di qualunque alternativa.
Veniamo al tuo libro. Abbiamo già detto che i protagonisti del libro sono Putin e Navalny. Parliamo per un attimo di Putin. I critici del suo potere lo chiamano “il vecchio nel bunker”. Perché?

Un “nonno nel bunker”, a essere precisi. È una rappresentazione brutale, ma efficace, del ruolo che ha assunto, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo di pandemia: un leader lontano dalla realtà, fisicamente e mentalmente, sempre più distaccato rispetto al Paese reale, sempre più assente dal Cremlino, sempre più ossessionato da ideologie e nostalgie sovietiche che lo rendono perfino più vecchio della sua non elevatissima età anagrafica. Una critica che prende di mira sia il regime personalistico del suo potere – dopo un ventennio, ha emendato la Costituzione per poter restare alla presidenza fino al 2036, affermando che la Russia è troppo fragile per potersi permettere l’alternanza al potere – ma anche la sua fragilità di un leader costretto ormai alla difensiva, rispetto a una Russia che vuole modernizzarsi.

Veniamo a Navalny. Un leader agli antipodi di Putin. Un leader giovane con grande capacità di comunicazione. Spesso è stato erroneamente definito come un populista. A me sembra una definizione sbagliata. Come lo definiresti?

Navalny è molto difficile da definire, perché è un leader talmente moderno da anticipare i manuali di politologia. Il termine “populista”, d’altra parte, è stato negli ultimi anni troppo abusato dai media. Navalny è un populista nel senso che la sua politica, e la sua comunicazione, sono rivolti all’opinione pubblica, alle masse e non alle lobby, il suo è un “potere dal basso”, e il messaggio di denuncia della corruzione lo accomuna a certi populisti occidentali, con la differenza che in Russia la corruzione è un fenomeno onnipresente, e non combattuto. Navalny è un politico 4.0, impossibile da immaginarsi senza Internet, lo strumento che oppone alla forza bruta del potere sono i like e le visualizzazioni, le parole d’ordine che corrono sul web, la condivisione del messaggio che si basa sull’ironia e l’organizzazione virale anche nell’offline. Dei populisti e sovranisti occidentali non ha la nostalgia: quella è l’arma putiniana, alla quale contrappone l’utopia della “splendida Russia del futuro”, che descrive come “un Paese europeo”, una definizione che dall’Europa può apparire vaga, ma che in Russia assume connotati ben precisi: elezioni libere, tribunali indipendenti, stampa senza censura, concorrenza politica e tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Qual è “l’arma” più forte di Navalny che ha messo in agitazione il potere russo?
Una comunicazione chiara e avvincente, di un messaggio che tocca tutti: Navalny ha abbandonato l’elitismo che contraddistingue molti liberali russi dei decenni precedenti. È stato il primo a capire che senza l’inclusione nel discorso politico di un’agenda sociale, di rivendicazioni di tutela dei deboli, di giustizia nelle retribuzioni e nell’accesso al welfare, di rispetto per tutti i cittadini, non sarebbe mai nato un movimento d’opposizione di massa, più ampio dei salotti di Mosca e Pietroburgo.
Indubbiamente Alexey Navalny ha carisma e una grande forza etica. Come si esprime questa forza etica? Con quale messaggio?
È un’etica della testimonianza: Navalny è in carcere, è tornato in Russia sapendo che andava incontro all’arresto. Nessuno lo avrebbe criticato se dopo l’avvelenamento avesse preferito rimanere al sicuro in Germania. Prima, aveva trascorso mesi ai domiciliari e in prigione, a più riprese. Aveva rischiato insieme a quelli che chiamava a scendere in piazza, la sua immagine era quella di un giovane di periferia, come i suoi sostenitori, e non di un raffinato intellettuale che trascorre il tempo nelle capitali europee. Il suo coraggio personale gli ha attirato le simpatie anche di persone che non condividono il suo messaggio politico: in un Paese dove la corruzione e il privilegio non vengono nemmeno nascosti, un personaggio che paga in prima persona il prezzo di quello che sta facendo è forse più dirompente di qualunque propaganda.
Che ruolo gioca la sua famiglia nel suo impegno?

Un ruolo molto importante. Navalny è un politico 4.0, e questo significa che l’immagine è parte imprescindibile del suo operato, in un mondo dove personaggio e messaggio non sono più distinti. I Navalny sono un modello di famiglia di ceto medio russo, e insieme al capofamiglia fanno da testimonial alla denuncia del privilegio di nomenclatura e oligarchi: il loro trilocale in periferia, le vacanze in Thailandia o sul Baltico, i pranzi in pizzeria la domenica, sono tutti momenti in cui tantissimi russi possono riconoscersi. Ma sono anche – tranne il teenager Zakhar- attivisti della politica. La moglie Yulia è diventata un’autentica First Lady dell’opposizione, molto seguita nel suo stile sobrio e nel rapporto di complicità che ha con suo marito, e mischia il ruolo di moglie tradizionale che segue il marito nella buona e nella cattiva sorte con una grinta da pasionaria: è stata lei a chiedere, direttamente e duramente, a Vladimir Putin di permettere a suo marito, in quel momento in coma dopo l’avvelenamento, di venire curato in Germania. La figlia Dasha, coetanea dei ventenni che scendono in piazza, ha esordito nella politica internazionale accettando per conto di suo padre il premio per i diritti umani che gli è stato conferito a Ginevra: il suo è stato un discorso appassionato e nello stesso tempo serio e composto, in un inglese disinvolto (sta studiando a Stanford), ma si sente anche a suo agio su Tik Tok. Il fratello di Alexey, Oleg, già reduce da quattro anni di carcere per un processo politico, è ora di nuovo agli arresti, e la loro madre Liudmila è scesa in piazza a Mosca.

Quali sono stati gli errori compiuti dal giovane leader russo?

L’errore principale viene forse dalla stessa radice della sua forza: è un politico che si appoggia non su lobby e strutture di potere, ma sull’opinione pubblica, e potrebbe aver sopravvalutato la sua potenza: quanto possono resistere i milioni di like ai manganelli e alle sbarre di una prigione? Lo schema di Navalny era quello di creare una corrente di opinione pubblica sufficientemente potente da influenzare l’esito delle elezioni, e da poter ottenere in piazza che queste su svolgano senza brogli. Oggi, protestare in Russia è illegale, e le elezioni non conservano più nemmeno una parvenza di democrazia. Un’involuzione probabilmente inevitabile, che lo scontro con Navalny ha accelerato. Il movimento di Navalny ora è ufficialmente fuorilegge, e si tratta di capire come tener viva la protesta, senza mettere a rischio migliaia di persone, nel lungo inverno della dittatura.

Siamo alla fine della nostra conversazione, tu hai affermato nel libro che “l’ora X della Russia contemporanea scatta all’alba del 20 agosto 2020, quando Alexei Navalny perde conoscenza” sull’areo. Pensi davvero che sia cominciato il conto alla rovescia per il regime nazionalista di Putin?

Il conto alla rovescia è iniziato molto prima, e il fatto che Navalny da “blogger” come la propaganda russa spesso insiste a chiamarlo sia diventato talmente pericoloso da mandargli dei killer lo dimostra. Però il tentativo fallito del suo avvelenamento è un punto di svolta: è il momento in cui il regime si gioca tutto, in primo luogo la reputazione internazionale, pur di eliminare un uomo che considera troppo pericoloso. E paradossalmente, cercando di ucciderlo, lo trasforma in un eroe agli occhi del mondo. Da quel momento in poi, il Cremlino gioca in difensiva, e anche nel momento in cui fa terra bruciata della protesta resta evidente come ormai il suo unico obiettivo sia quello di reprimere il dissenso, non più di proporre una propria agenda, ma di conservare uno status quo che gli sta sfuggendo di mano.

Quale sarà il futuro di Alexey Navalny? 

Il futuro di Alexey Navalny è quello che è il suo presente: è il leader e il simbolo di un movimento di protesta, il detenuto politico più celebre al mondo, l’alternativa a Vladimir Putin. Come Andrey Sakharov e Aleksandr Solzhenitsyn, come Lech Walesa, come Vaclav Havel e Alexandr Dubcek: è la nemesi del regime, il Davide che sfida Golia, il nome che i russi scrivono sui muri e sulla neve. Sarà la voce del dissenso, il simbolo del cambiamento e – se sopravvive – il garante della transizione. Questo è il suo destino politico. Su quello personale, ci sono molte più incertezze e timori: per il momento, la sua sopravvivenza dipende dal fatto che gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla sua prigione, e quasi sicuramente ne uscirà soltanto con la fine del regime.

“La scommessa più impegnativa per Letta è quella di dare credibilità ad un PD di sinistra”. Intervista a Fabio Martini

Enrico Letta (Ansa)

 

 

Enrico Letta è da pochi mesi Segretario Nazionale del Pd. Come si sta muovendo?
Quali sono i suoi obiettivi? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini
inviato e cronista parlamentare del quotidiano La Stampa.

Fabio Martini, negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la proposta di Enrico
Letta, segretario del PD, di dotare di un sussidio i giovani meno fortunati, da
finanziare con aumento di aliquota della tassa di successione per i redditi
milionari. Per alcuni settori di opinione pubblica la proposta, dati i tempi, è
scellerata. Eppure in altre democrazie occidentali, penso a Usa, Francia e
Germania, si torna a parlare, ma nel caso degli Usa è diventato un atto di
governo, di tassare grandi eredità e patrimoni multimilionari per aiutare la
ripresa, senza gridare al complotto neocomunista. Non trovi che quello di
Letta sia una battaglia di redistribuzione giusta? Oppure è stato un errore?
«La valutazione se sia un battaglia giusta o sbagliata, la faranno gli elettori. Si può
invece valutare se sia una proposta fondata, realizzabile, potenzialmente utile.  Noi
sappiamo, ma forse una parte dell’opinione pubblica ancora non l’ha capito, che
assieme alla fase acuta della pandemia sta per finire anche la stagione della spesa
pubblica a pie’ di lista e bisognerà tornare a produrre più ricchezza “reale” e a
distribuirla nel modo migliore. La proposta di tassare le eredità dei super-ricchi
anticipa i tempi: dunque è potenzialmente utile. Fondata? Gli esempi che vengono dai
Paesi più evoluti dell’Occidente – Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti – ci
dicono che la proposta è fondata. Realizzabile? Lo sarebbe dentro una riforma fiscale
più generale. Sull’utilizzo invece delle risorse (la dote da regalare al 50% dei
diciottenni e dunque anche a ragazzi abbienti), i requisiti di fondatezza, realizzabilità
e utilità diventano più controversi».

 

Fabio Martini (Contrasto)

Sappiamo la reazione della destra, alla proposta di Letta, è stata duramente
contraria. I renziani, con Rosato, addirittura hanno parlato di una proposta che
alimenta il conflitto tra ricchi e poveri. Ha sorpreso, per la modalità, la reazione
quella del Presidente del Consiglio. Ma lo stesso Draghi non aveva parlato di
progressività fiscale? Cosa non ha gradito?
«Da quel che trapela, Draghi ha considerato la proposta estemporanea, a lui
comunicata in “zona Cesarini” e inopportunamente diffusa da Letta nelle stesse ore
nelle quali il governo varava una manovra imponente da 40 miliardi, nella quale il Pd
ha avuto la sua parte».

 

Pensi che il rapporto tra Letta e Draghi sia sdrucito? 
«Assolutamente no. Ma nelle ultime settimane si sono capite due cose: da una parte, i
partiti devono imparare a rapportarsi meglio con un capo del governo obiettivamente
di una levatura superiore a quella media della politica dei partiti, ma dall’altra anche
il presidente del Consiglio deve calibrare le sue reazioni: leader come Letta, o come
Salvini, hanno tutto il diritto di avanzare proposte e d’altra parte è parsa originale
anche l’aspettativa da parte di Draghi di mettere la sordina sul dibattito pubblico sulla
successione al Quirinale».

Torniamo ad Enrico Letta. Lui si sta battendo per ridare spessore al Pd. La
parola spessore indica identità. Paradossalmente un PD più a sinistra di
Zingaretti. È esagerata l’affermazione?
«Gli indizi ci sono. Letta – personaggio notoriamente lontano dalla tradizione post-
comunista dei D’Alema, Bersani e Zingaretti – sta provando a ricostruire il palinsesto
di un partito tradizionale, quello che una volta Pier Luigi Bersani definì “la ditta”. Ha
svolto un inedito referendum tra i Circoli, ha varato in tempi stretti una
tradizionalissima Segreteria, ha lanciato una campagna per il tesseramento, saranno
presto presentate una “Radio Pd”, un’Università democratica e le Agorà del Pd,
occasioni collettive nelle quali Letta intende attrarre aree un tempo vicine e che ora si
sono demotivate: intellettuali e  associazionismo impegnato. Ma la scommessa più
impegnativa è capire se saprà ricostruire un senso e una missione ad una forza di
sinistra che sappia interpretare non soltanto i garantiti (la base attuale del partito) ma
una parte almeno di coloro che sono ai margini. Se non agli ultimi, quantomeno i
“penultimi”».

Massimo Giannini, sulla Stampa auspicava per la sinistra italiana un Biden
italiano. Un moderato capace di ricostruire un rapporto empatico con lo spirito
profondo dei democratici. Può essere lui, Enrico Letta, che ridà spessore al Pd?
«Il parallelo è centrato perché Biden è sempre stato un “centrista”, come lo è stato
Letta. E d’altra parte Democratici americani e italiani, mutatis mutandis, sono
chiamati a fronteggiare un fenomeno inedito: l’erosione dei propri elettorati da parte
di personalità e parole d’ordine populiste, che hanno mostrato di essere efficaci
contro le paure e nella raccolta del risentimento verso le elites. Con una differenza
fondamentale: i dem usa interpretano una coalizione sociale e “sentimentale” assai
vasta (ceti popolari “bianchi”, neri, middle class urbana, elite intellettuale e dello
spettacolo), mentre il Pd è lontano dalla sofferenza sociale più forte: quella
concentrata al Sud, che ha votato Cinque stelle e si sta spostando a destra. Il Pd
appare troppo “imborghesito” per interpretare una coalizione sociale larga come
quella dei dem Usa e le incursioni a sinistra serviranno a Letta per tenersi su quote
elettorali dignitose».

Il PD doveva essere l’anima del governo. Invece si vede l’anima di Draghi. Si
pone il problema della visibilità. C’è chi lo risolve come fa Salvini, con la tattica
del rialzo continuo, oppure come Renzi (appiattendosi sul premier e cercando, a
volte, la sponda leghista). Come si risolve il problema?
«Difficile coltivare una visibilità di partito dovendo convivere con una personalità
naturalmente carismatica come Mario Draghi. O immaginare di darsi un’identità,
affidandosi a proposte estemporanee. Enrico Letta avrebbe la maturità per conferire
al Pd una proposta politica con un’idea di Paese, un’identità meno generica, dalla
quale estrarre di volta in volta i jolly per tenere botta nella quotidiana battaglia a botte
di tweet. Che senza un background diventa effimera. La sfida di Letta? Saprà dare un
contenuto di sinistra alle battaglia ineludibile – quella per la competitività del
sistema-Italia – che serve per rimettere in piedi un Paese paralizzato da 20 anni?»

Per un partito di sinistra il banco di prova strategico sarà la fine della proroga
dei licenziamenti. Con gli annessi e i connessi. C’è consapevolezza di questo?
«Questione seria e angosciosa per migliaia di lavoratori, della quale si sono fatti
carico il sindacato e il Pd al governo. A settembre si faranno i conti e si verificherà se la “fame” di ripresa consentirà alle riprese di tenere più lavoratori possibile. Ma se il blocco dei licenziamenti aiuta sul breve chi lavora, ad libitum fiacca le imprese e può rivelarsi un boomerang. La soluzione, anche in questo caso, è nelle mani del Pd: spetta al ministro del Lavoro Orlando ridisegnare i nuovi ammortizzatori sociali».

A questo riguardo non pensi che Letta dovrebbe temere di più il populismo radicale della Meloni?
«E’ vero. Apparentemente non ci dovrebbero essere punti di contatti tra elettorati
così diversi. Ma Meloni, unica forza, di opposizione pesca ovunque. Anche per
questo ricostituire un’identità forte aiuterebbe la leadership pd a tenere botta meglio di quanto non accada ora»

Per ora la Pax interna al PD dura. Fino a quando durerà?
«Il Pd da più di tre anni vive una pace interna mai registrata prima. Una pace fondata sul principio del “quieta non movere”: i principali notabili garantiscono appoggio ai leader. chiedendogli di conservare assetti e posizioni in cambio di una relativa libertà di movimento politico. Se nelle cinque città più importanti dove si voterà il 20 settembre, i dem manterranno o andranno oltre i due sindaci già in dote, i notabili saranno rassicurati sul proprio personale futuro. E dunque Letta non solo continuerà a governare senza patemi , ma potrà dispiegare la propria impronta. Altrimenti partirà il logoramento».


Ultima domanda in realtà sarebbe la prima, ma hegelianamente la prima
contiene anche l’ultima. Come è il bilancio di questi mesi lettiani?

«Bilancio nitido, facilmente leggibile. Una partenza col turbo: imporre il cambio dei capigruppo conteneva un messaggio implicito: cari notabili e cari elettori, l’Enrico che sta sempre sereno non esiste più. Poi il “nuovo” Letta si è dovuto misurare con due realità poco conosciute al “grande pubblico”. Una macchina partito inceppata da 7 anni di non-governo da parte degli ultimi segretari e realtà locali – Torino, Roma, Napoli, Bologna – dove prosperano indisturbate camarille notabilari, insensibili al “bene comune”. Oltretutto, per stare al passo col “rullo” dei tweet, è capitato a Letta di snaturarsi. Come nel caso del suo appoggio a Fedez. Alla vigilia del traguardo dei primi 80 giorni da segretario, Letta sa di dover vigilare su un pericolo: quello di completare il suo “giro del mondo in 80 giorni”, ritrovandosi al punto di partenza».

Quali sono le sfide in Israele aperte dalla guerra con Hamas? Intervista ad Ariel David

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Benjamin Netanyahu (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

Ariel David

Ariel David

Fonti internazionali affermano che la tregua sia imminente. Intanto  continuano i lanci di razzi e i bombardamenti. Con Ariel David, giornalista italo-israeliano, che vive a Tel Aviv e collabora col quotidiano Haaretz, facciamo il punto della situazione.  

Ariel, anche ieri sono andati avanti bombardamenti e lanci di razzi (anche dal confine con il Libano). Una catena di violenza fatta di reazioni e contro reazioni che produce distruzione e dolore. Gaza è allo stremo. L’obiettivo è dare una “lezione dura ad Hamas”, Netanyahu è andato oltre? Cosa vuole ancora?
Non dimentichiamo che ci sono due attori principali in questa tragedia, Hamas e il governo Netanyahu, ed entrambi hanno degli obiettivi e agiscono per raggiungerli – spesso ad un costo molto pesante per la propria gente. Hamas è entrata prepotentemente nell’escalation inizialmente focalizzata su Gerusalemme per riproporsi come leader della causa palestinese rispetto all’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto dopo l’ennesima cancellazione delle elezioni da parte del presidente Abu Mazen. In altre parole, non potendo prendere il potere con il voto, Hamas usa le armi per presentarsi come l’unica vera forza capace di portare avanti la lotta palestinese e guidare la “resistenza” contro Israele. In questi giorni, Hamas sta raggiungendo questo obiettivo strategico, dimostrando di poter continuare a lanciare razzi, colpire civili e soldati israeliani e paralizzare buona parte dello Stato ebraico malgrado gli intensi bombardamenti israeliani. Se si capisce questo, si capisce specularmente anche che cosa “vuole ancora” Netanyahu e perché non sia particolarmente pronto a un cessate il fuoco. Il premier israeliano cerca una qualche vittoria che possa spendere politicamente, soprattutto in vista dell’ormai probabile ritorno alle urne in Israele (per la quinta volta in due anni). Come in passato, gli obiettivi israeliani in questi conflitti con Gaza sono piuttosto limitati e confinati al piano tattico: ristabilire la deterrenza nei confronti di Hamas, limitare la sua capacità offensiva, colpire i suoi vertici, militanti e scorte di missili. Si potrebbe parlare a lungo della mancanza da parte di Israele di una visione strategica e di lungo periodo sul problema di Gaza, ma sta di fatto che Netanyahu non può nemmeno vantare di aver raggiunto questi obiettivi tattici limitati, dal momento che Hamas continua a lanciare centinaia di razzi al giorno contro la popolazione civile israeliana. Netanyahu quindi spinge l’esercito a colpire Hamas ancora più duramente e ad allargare il suo raggio d’azione, il che però ovviamente aumenta il numero dei morti tra i civili palestinesi – o per errore o perché si vanno a colpire obiettivi che Hamas ha profondamente integrato nel tessuto urbano di Gaza. Alcune fonti governative riferiscono che Netanyahu vorrebbe legare il cessate il fuoco alla restituzione di due cittadini israeliani tenuti prigionieri da Hamas e dei resti di due soldati catturati e uccisi durante il conflitto del 2014. Se riuscisse in questo intento, sarebbe una vittoria politica significativa per il premier agli occhi del suo elettorato.

Ma è vero che Netanyahu sta pensando a una nuova annessione di Gaza? Propaganda? 
Probabilmente si tratta di pura retorica. Hamas non vede l’ora di avere a portata di mano soldati israeliani da rapire o uccidere, e rioccupare Gaza avrebbe un costo enorme in termini di vite da entrambe le parti. Netanyahu lo sa e sa anche che la società israeliana non è disposta a pagare questo prezzo in termine di vite di soldati, soprattutto quando, come dicevo prima, non c’è alcun orizzonte di lungo periodo per una soluzione della questione di Gaza – e men che meno del conflitto più ampio con i palestinesi. Al contrario che in passato, anche tra gli esponenti della destra israeliana non ho sentito inviti particolarmente forti alla rioccupazione di Gaza, e non credo ci sia la volontà di condurre una simile operazione anche da parte dei vertici dell’esercito.

Sul quadro politico israeliano che ricaduta avrà?
Dipenderà dagli esiti dello scontro. Nell’immediato Netanyahu sta beneficiando della situazione, perché l’escalation di violenza ha messo fine ai negoziati per la formazione di un governo da parte dell’opposizione che avrebbe dovuto includere anche uno dei partiti che rappresentano la minoranza arabo-israeliana. Allo stesso tempo, Netanyahu sta ora intessendo nuovi contatti con parti dell’opposizione, soprattutto i suoi ex alleati di destra Gideon Saar e Naftali Bennett, sperando di convincerli a formare un governo in nome dell’emergenza nazionale. Resta da vedere se riuscirà nel suo intento, o se nelle more di un cessate il fuoco l’opposizione guidata dal moderato Yair Lapid avrà un’altra chance per ricompatterei il fronte anti-Netanyahu o se lo stallo politico che attanaglia Israele da due anni proseguirà e il Paese andrà di nuovo alle urne.

La comunità internazionale si è mossa colpevolmente in ritardo. Si parla di una tregua imminente. Cosa deve accadere per arrivare ad una tregua si spera stabile?
Come hai detto, la comunità internazionale si è mossa lentamente, complice forse il crescente disinteresse per questione israelo-palestinese e la sfida globale posta dalla pandemia di Covid 19. Per raggiungere una tregua saranno ora decisive le pressioni degli Stati Uniti su Israele e di Egitto e Qatar su Hamas (ricordiamo che il Qatar, con il consenso di Israele, trasferisce a Gaza milioni di dollari ogni anno per il pagamento degli stipendi agli impiegati del regime di Hamas nella Striscia).

Parliamo degli effetti sociali  di questo conflitto. Sappiamo che dopo i fatti del quartiere di Gerusalemme est, sono scoppiate violenze tra ebrei israeliani e arabi israeliani. In particolare  nelle città di Lod, Akko, Haifa, Giaffa e TEL Aviv. Per non dire della situazione di Gerusalemme Est. Insomma la società Israeliana rischia di pagare a caro prezzo questo conflitto?
La violenza inter-etnica all’interno di Israele è l’elemento di grande novità di questo round del conflitto. La maggior parte degli israeliani con cui ho parlato sono molto più preoccupati da questo sviluppo che dall’intensità senza precedenti dei bombardamenti di Hamas. La sorpresa è dovuta in parte al fatto che negli ultimi anni i palestinesi con cittadinanza israeliana (cioè quelli che vivono all’interno di Israele e non in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e che costituiscono circa il 20 percento della popolazione del Paese) hanno dato segnali di una volontà di integrazione nella società israeliana, partecipando maggiormente alle elezioni, alla politica e ad altri aspetti della vita democratica del Paese, e con diversi sondaggi che hanno mostrato come più della metà degli arabi-israeliani si dice “fiero di essere israeliano”. Pertanto in molti si sono sorpresi quando le tensioni a Gerusalemme (non certo le prime nell’ambito conflitto israelo- palestiniese) hanno scatenato dei veri e proprio “pogrom” nelle città e nei quartieri a popolazione mista. Luoghi dove c’era una convivenza magari difficile ma comunque possibile hanno visto sinagoghe bruciate, cimiteri profanati, attività economiche distrutte e linciaggi di ebrei per le strade. L’estrema destra israeliana, per parte sua, non ha mancato di gettare benzina sul fuoco, attuando gli stessi metodi nei confronti di cittadini arabi, le loro attività e luoghi di culto. Ci vorrà molto tempo per riparare le ferite sociali di questi scontri e molti qui si interrogano sulle cause di questa impennata di violenza. Forse l’integrazione di questa minoranza, spesso discriminata ed economicamente svantaggiata, non è stata abbastanza rapida. Forse ci sono elementi all’interno della comunità arabo- israeliana, tutt’altro che monolitica, che non vedono di buon occhio proprio questa tendenza verso l’integrazione. Si pensi per esempio al fatto che Mansour Abbas, leader della Lista Araba Unita (uno dei partiti che doveva entrare nel nuovo governo anti- Netanyahu) ha visitato le sinagoghe distrutte di Lod e ha condannato i disordini che sono avvenuti nella cittadina e nel resto del Paese. Per tutta risposta, Abbas è stato attaccato da una folta ala del suo stesso partito, che lo ha invitato alle dimissioni. Insomma, anche fra gli arabi-israeliani ci sono forti divisioni, e la vera sfida per Israele è ora quella di recuperare il rapporto con la maggioranza silenziosa di questa comunità che è favore della convivenza.

Ci sono tentativi di pacificazione sociale? Gli uomini del dialogo (intellettuali) cosa stanno facendo?
Parto dall’editoriale di mercoledì su Haaretz, giornale per cui scrivo, che titola semplicemente “Enough” – Basta. È un invito esplicito ad addivenire a un cessate il fuoco prima che l’operazione militare “causi ancora più morti e distruzione. La sua prosecuzione non offrirà alcun vantaggio, sicuramente non per Israele, ma alimenterà solo la paura, l’odio, l’umiliazione e la sete di vendetta.” Simili appelli sono arrivati da intellettuali e gente comune, e sono state numerose le manifestazioni congiunte di ebrei e arabi a Gerusalemme, Jaffa e nelle altre città miste particolarmente colpite dagli scontri etnici. Solitamente, in Israele, nei momenti di guerra cala il sipario sul dibattito politico e il Paese si unisce per appoggiare gli sforzi dell’esercito. Ciò è in parte avvenuto anche in questa crisi, ma ho sentito anche tante voci di israeliani che criticano l’operazione militare e considerano l’ultimo round di violenza come uno scontro che avvantaggia solo Hamas e Netanyahu.

Un tempo, in Israele, c’era un forte movimento pacifista. Che fine ha fatto?
Esiste ancora, ma il Paese si è spostato inesorabilmente a destra, soprattutto tra i giovani. È la generazione che è cresciuta dopo gli Accordi di Oslo o durante la Seconda Intifada, quando gli autobus con cui andavano a scuola venivano fatti saltare in aria dai terroristi suicidi palestinesi, o che ha visto il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ricambiato, anno dopo anno, con le piogge di razzi di Hamas. Il resto lo ha fatto lo strapotere politico e ideologico della destra e di Netanyahu, che ha saputo utilizzare e alimentare l’immagine del processo di pace come foriero di morte e terrorismo. Complici anche le divisioni palestinesi tra ANP e Hamas, Netanyahu ha potuto “congelare” il conflitto in uno status-quo che non offre una soluzione definitiva alla questione israelo palestinese ma che, dal punto di vista degli israeliani, ha il vantaggio di mantenere relativamente basso il livello di violenza – se si escludono ovviamente le periodiche fiammate come quella delle ultime settimane. La maggioranza degli israeliani sembra preferire questo stallo precario perché teme che se dovesse ritirarsi dalla Cisgiordania – unilateralmente o a seguito di un accordo di pace – anche questo territorio cadrebbe in mano ad Hamas e diventerebbe una nuova Gaza, solo molto più grande e a pochi chilometri dal cuore del Paese. La sinistra e i moderati sono divisi, hanno perso consensi e non hanno mai veramente trovato una soluzione convincente a questo dilemma scaturito dal fallimento del processo di pace e dalla presa del potere di Hamas a Gaza. Per quanto vi siano ancora forti voci per la pace, buona parte di ciò che rimane del centro-sinistra preferisce focalizzarsi su questioni sociali interne, come il crescente divario tra ricchi e poveri o le accuse di corruzione a Netanyahu, piuttosto che spingere per una ripresa seria dei negoziati con i palestinesi.

Parliamo dei Palestinesi. La loro leadership è debolissima. A chi guardano i palestinesi?
I palestinesi hanno vissuto un processo simile a quello descritto per Israele. Dal loro punto di vista, le vessazioni dell’occupazione militare in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank, l’isolamento di Gaza e i periodici attacchi israeliani nella Striscia sanciscono il fallimento della politica relativamente moderata dell’ANP e trasformano Hamas sempre di più in un punto di riferimento della causa palestinese. La mancanza di progressi nei negoziati e le mosse israeliane per delegittimare l’ANP (a cui si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump) non fanno che contribuire all’indebolimento di Abu Mazen e del suo partito Al Fatah. L’annullamento delle elezioni legislative palestinesi, che dovevano tenersi questo mese per la prima volta dal 2006, ha mostrato ancora una volta la debolezza di un’amministrazione già ampiamente percepita come corrotta e inefficace. Oggi i palestinesi, oltre che ad Hamas e alle sue organizzazione alleate, come la Jihad Islamica, guardano a leader di Fatah più giovani. Fra i più popolari ci sono Marwan Barghouti, condannato a diversi ergastoli per il suo coinvolgimento in alcuni attentati suicidi durante la Seconda Intifada, che dal carcere in Israele continuaad esercitare una forte influenza sulla politica palestinese; e Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza ora in esilio per i suoi contrasti col presidente Abu Mazen. Probabilmente solo l’uscita di scena dell’84enne presidente palestinese creerà un vuoto politico che potrà essere colmato da una nuova leadership.

In che modo le componenti moderate potranno riprendere l’egemonia?
La soluzione dei due stati, malgrado sia oggi molto snobbata da diverse parti politiche a destra e a sinistra (per ragioni diametralmente opposte), rimane l’unica praticabile, ma al momento la sfiducia reciproca tra le parti in conflitto è ai massimi livelli. È anche molto difficile immaginare una risoluzione del conflitto senza prima affrontare quelle forze più ampie in Medio Oriente che su questo conflitto soffiano per i propri interessi: l’Iran, la Siria, l’Hezbollah libanese e la Turchia. Internamente, per Israele sarà molto importante lavorare sul rapporto con gli arabi israeliani, il cui riavvicinamento in anni recenti (salvo gli avvenimenti delle ultime settimane) rappresenta forse l’unica novità positiva nel panorama del conflitto, e questa comunità potrebbe in futuro fungere da modello di convivenza e da ponte fra gli ebrei e i palestinesi.

Gli “accordi di Abramo” sono superati?
Il mondo arabo, e in particolare i Paesi del Golfo, hanno reagito all’attuale round di violenza con la stessa lentezza del resto del mondo. A meno che la crisi non si allarghi drammaticamente o che il ventilato cessate il fuoco tardi particolarmente a materializzarsi non credo che i rapporti tra Israele e i firmatari degli “accordi di Abramo” subiranno danni irreparabili. D’altronde questi accordi non hanno fatto molto altro che formalizzare rapporti ufficiosi che in realtà esistevano già da anni e che avevano già superato simili crisi. Questi accordi sono stati ampiamente, forse anche giustamente, criticati, per la loro natura prettamente economica e la quasi totale mancanza di una  dimensione politica che includesse una risoluzione della questione palestinese. Però,  nel complesso scenario mediorientale, forse si può anche leggere questi accordi come un segnale positivo di un crescente desiderio da parte del mondo arabo di convivere con Israele – un segnale simile e parallelo a quello lanciato internamente dagli arabi israeliani: una rara fonte di speranza in un quadro altrimenti piuttosto desolante.

“Qualsiasi sia il calcolo politico non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza”. INTERVISTA A PAOLA CARIDI

attacco aereo israeliano su Gaza City (Ansa)

Continua l’operazione militare “Il guardiano delle mura”. L’esercito
israeliano ha lanciato lunedì notte un’altra forte ondata di attacchi aerei
sulla Striscia di Gaza: secondo il bollettino militare sono stati distrutti
altri dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto e le case di
nove comandanti di Hamas. Intanto continuano i tardivi sforzi della
diplomazia internazionale per porre fine alla guerra che dura già da una
settimana e ha ucciso centinaia di persone: ma finora i progressi sono
limitati. Ma stando agli ambienti diplomatici statunitensi, nelle prossime
ore, si dovrebbe raggiungere una tregua. Lo speriamo davvero. Per
approfondire questa ennesima guerra mediorientale abbiamo intervistato
la giornalista Paola Caridi, grande esperta di Medioriente. Tra le sue
opere ricordiamo : Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città
crudele (Ed. Feltrinelli).

Paola, come sappiamo le radici di questa guerra tra Hamas e il governo di Israele
sono ben più antiche della scellerata decisione, Israeliana, di cacciare i residenti
palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, per insediare,
usando uno escamotage giuridico, cittadini ebrei. Una colonizzazione del territorio.
Tu affermi: “per capire questo conflitto bisogna capire quello che è successo in
questi ultimi anni a Gerusalemme”. Cosa è successo in questi anni a
Gerusalemme?

Quando tempo abbiamo? Difficile riassumerlo in poche battute. Eppure, le
cancellerie lo sanno, le organizzazioni internazionali lo sanno. Gerusalemme è una
realtà urbana estremamente complessa, almeno dal 1948 in poi. Negli ultimi anni, la
presenza dei coloni israeliani dell’estrema destra religiosa ha reso ancora più
complicata la situazione. Il loro obiettivo dichiarato è di “redimere la terra”, e cioè di
rendere sempre più israeliani i quartieri palestinesi della parte occupata di
Gerusalemme. La parte orientale, che comprende anche la Città Vecchia e i luoghi
santi. La tensione c’è da molti anni, acuita – stavolta – dalla decisione della polizia
israeliana di transennare il cuore della Gerusalemme palestinese, la Porta di
Damasco, durante il ramadan e poi di intervenire con violenza sulla Spianata delle
Moschee. I lacrimogeni e i gas assordanti sparati dalla polizia dentro la Moschea di
Al Aqsa, terzo luogo santo per l’islam globale, hanno fatto il giro del mondo. Alzando
alle stelle la tensione.

Per un attimo vorrei chiederti dell’aspetto simbolico o religioso. Sappiamo quanto
sia importante, in quella terra, il simbolismo religioso. In particolare questo vale per
Gerusalemme. Una città che si basa su un equilibrio simbolico tra le grandi religioni
monoteiste. Non c’è il rischio che questo conflitto metta in discussione questo
equilibrio simbolico?

Per essere precisi, si tratta di un conflitto politico che usa i simboli religiosi. Li abusa
e li dissacra nello stesso tempo. Per essere più precisi, non sono affatto convinta
che sia giusto utilizzare un termine come “conflitto”, che sottende uno scontro tra due soggetti su un piano di parità. Gerusalemme est, per la legalità internazionale e
le risoluzioni ONU, è occupata.

Torniamo al conflitto odierno. Israele continua a rispondere ai lanci missilistici di
Hamas con continui attacchi aerei (bombardamenti). Dietro questa scia di sangue c’è
un calcolo politico ben preciso sia per Hamas che per Israele (o per meglio dire
Benjamin Netanyahu). Qual è secondo te questo calcolo?

Possiamo fare solo delle ipotesi, al limite della dietrologia, sui calcoli politici. I fatti
certi sono: le telecamere si sono spostate da Gerusalemme, dove le dinamiche
umani sociali e politiche molto diverse, verso Gaza e Tel Aviv, riproponendo il
confronto armato che abbiamo visto nel 2008, nel 2012, nel 2014, e ora nel 2021.
Razzi sparati da Gaza. Bombardamenti massicci da parte dell’aviazione e
dell’artiglieria israeliana. L’ennesima guerra asimmetrica. In mezzo, i civili, dall’una e
dall’altra parte. Il risultato? Una fiammata di violenza, con un numero di morti a Gaza
che è già impossibile da sopportare per qualsiasi persona che abbia a cuore
l’umanità, la dignità, il rispetto della vita umana. Qualsiasi sia il calcolo politico, per
me, non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza.

La rete dei sostenitori di Hamas, per  Israele si tratta terroristi, si estende dal Qatar
alla Turchia, passando per l’Iran. Erdogan fomenta il conflitto. Quale obiettivo si
pone? Ai palestinesi conviene questo appoggio di Erdogan?

Sono molti gli attori regionali che provano a capitalizzare, ad aver un guadagno
politico da quello che succede in Israele/Palestina.

La polarizzazione Hamas – Israele mette in crisi l’Olp. Perché questa debolezza della Olp? Come può rientrare in gioco?

La debolezza dell’OLP è figlia della divisione interna palestinese, non certo della
polarizzazione Israele-Hamas. Cosa rappresenta l’OLP? Questa è la vera domanda.
Per molti palestinesi, l’OLP è ormai il retaggio di una storia che non ha più un
legame con la realtà sul terreno.

Questo conflitto ha fatto da detonatore drammatico contro la convivenza tra cittadini
ebrei israeliani e cittadini arabi israeliani. Pensi che la democrazia israeliana riuscirà
a sanare la ferita?

Non credo, a meno che non faccia una seria e profonda riflessione sulle ragioni che
hanno condotto agli scontri e alle violenze di queste ultime settimane. La
convivenza, dappertutto, si regge sulla difesa dei diritti di ciascuno e di tutti. Laddove
non succede, il vulnus è profondo, la ferita è difficilissima da ricucire. È una
riflessione che va alle origini, soprattutto al 1948: i cittadini israeliani riconoscono il
legame con la stessa terra dei palestinesi con cittadinanza israeliana? Ne
riconoscono la storia?

Che fine faranno i così detti accordi di Abramo? Quali sono i limiti? Per Biden sono ancora validi?

Lo capiremo solo tra un po’ di tempo. Di certo, gli accordi di Abramo rispondono a
una logica verticistica, che nessun rapporto ha con una delle parti in causa. I
palestinesi. In più, alcuni dei paesi, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che
hanno firmato gli accordi di Abramo, non rispettano i diritti civili e la libertà di
espressione dei propri cittadini. Per non parlare del coinvolgimento degli EAU nella
guerra in Yemen.

Per la comunità internazionale, un tempo, l’obiettivo era : “due popoli e due Stati”. Tu dici, invece, che l’obiettivo deve essere uno stato confederale. In che senso? Ma è davvero più realistico della prima opzione?

Il problema non è il realismo. Anche la soluzione dei due Stati, proposta dal
processo di Oslo, sembrava essere un compromesso possibile perché pragmatico,
pur nelle estreme difficoltà di mettere insieme le due parti. È fallito. L’ipotesi di una
confederazione, allo studio da anni soprattutto da figure che vivono in Israele e
Palestina, parte non solo dal fallimento di Oslo. Parte dalla necessità di condividere
la terra a cui tutti appartengono, israeliani e palestinesi. Due Stati sì, due Stati
indipendenti, ma intrecciati, come ora sono intrecciati ma in modo asimmetrico.
Occupante e occupato. Chi detiene il monopolio della forza e chi no. Non è possibile
reggere una situazione che oramai tutti, comprese le associazioni di difesa dei diritti
umani e civili, considerano di apartheid.

Ultima domanda: un tempo vi erano grandi leader (Rabin, Arafat). Oggi chi c’è?

Rispondo con un’altra domanda: dove? In quale parte della Palestina? Se si parla,
per esempio, di Gerusalemme est, la protesta delle ultime settimane non ha avuto
leadership, né sentito il bisogno di averne. La maggior parte dei giovani palestinesi
di Gerusalemme est è lontana e distaccata dalla leadership dell’Autorità Nazionale a
Ramallah. Altrettanto lontana e distaccata è da Gaza.