Riforme: Grillo-Renzi, un dialogo “impossibile”? Intervista a Stefano Ceccanti

UnknownQuali prospettive dell’apertura di Grillo a Renzi sulla legge elettorale? Ne parliamo con il professor Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università “La Sapienza di Roma”.

Professore, indubbiamente l’apertura di Grillo sulla legge elettorale fa ripartire il confronto politico. Lei però, in una intervista si è detto non molto ottimista sul sviluppo del dialogo, anzi quasi prospetta il rischio di un dialogo tra sordi. Perché?

Il dialogo sulle regole fa sempre bene a tutti, però il dialogo non è irenismo. Qui è evidente che almeno in partenza gli obiettivi sono opposti: Renzi e il centrodestra puntano a un sistema in cui, come nei comuni, alla ine gli elettori scelgano anche e soprattutto maggioranza e Governo. Il sistema deve quindi condurre a superare la suddivisione dell’elettorato in tre schieramenti maggiori per farne governare uno. I Cinque Stelle all’opposto, soprattutto ora che disperano di arrivare tra i primi due, vogliono un sistema che colpisca i piccoli ma che fotografi la forza dei primi tre oltre a quella delle minoranze concentrate come la Lega. In questo modo spingerebbero Pd e Pdl a una grande coalizione obbligata e quindi crescerebbero avendo il monopolio dell’opposizione. O cambiano questo obiettivo oppure il dialogo finisce subito perché le impostazioni sono opposte

Cosa non le piace del “Democratellum”? Non vede spunti positivi nella proposta dei “5 Stelle”? La Lega giudica questa proposta come ottima…

Si tratta di un sistema elettorale che, viste le condizionidi partenza non modificabili a breve del sistema dei partiti, tripolarizza portando a una Grande coalizione obbligata e contronatura. Quindi da bocciare. Qel sistema potrebbe avere effetti benefici solo le forze nettamente dominanti sul piano nazionale fossero già due, ma così non è. Insomma nel contesto dato sottorappresentiamo i piccoli per avere la governabilità, ma questo sacrificio dei piccoli non produce il bene della legittimazione diretta dei Governi.

Sull’Italicum, però, vi sono punti da correggere. Cosa dovrebbe correggere Renzi per arrivare ad una buona “mediazione”?

Alzare la soglia per il secondo turno al 40% in modo da dare una maggiore legittimazione a chi prende il premio e allineare tutti gli sbarramenti al 4%, sia dentro sia fuori le coalizioni e, se possibile, ridurre ulteriormente la dimensione dei collegi, avvicinandosi il più possibile agli uninominali.

Non bisogna dimenticare, però, il ruolo di Berlusconi. Per Renzi, secondo lei, deve essere ancora l’interlocutore indispensabile?

L’interlocutore si seleziona sulla base della comunanza degli obiettivi. E’ interlocutore chi persegue l’intento della democrazia governante e non lo è chi vuole invece impaludarci ancora nei poteri di veto.

Ultima domanda: qual è l’obiettivo politico di Grillo con questa apertura?

Avere il monopolio dell’opposizione futura oltre a bilanciare verso Renzi l’apertura fatta nei confronti di Farage. Poi, per carità, se cambia obiettivi e converge verso forme di democrazia governante, meglio per tutti.

L’Italia si cambia con la Politica 2.0. Un libro di Alessandro Rimassa

UnknownParlare di futuro, di progetto, di metodo, di “parole chiave”, di “visione”, di “cittadini attivi”, di “cocreazione”, di generazione sharing, in questo momento in Italia, con gli enormi problemi che assillano gli  italiani, è sicuramente un atto di grande coraggio morale e intellettuale rispetto all’Italia cialtrona che in questi giorni stiamo conoscendo attraverso le cronache sugli scandali di corruzione sull’Expo e sul Mose di Venezia.

Il libro di Alessandro Rimassa (che è direttore della Scuola di Comunicazione e Management di IED – Istituto Europeo di Design), che qui presentiamo, dal titolo, un poco provocatorio,E’ facile cambiare l’Italia, se sai come farlo” (Ed. Hoelpi, Milano 2014, pagg. 152, € 14, 90), fornisce tanti spunti per chi, dal politico al “cittadino attivo”, vuole rimboccarsi le maniche per rendere meno complicato, e più trasparente, questo nostro Paese. Un Paese che da decenni soffre, è l’accusa che fa l’autore a tutta la classe dirigente italiana,  di una mancanza di “visione” (ovvero la capacità delle elité di “tratteggiare” obiettivi di lungo periodo) e quindi di creare progetti carichi di futuro.

E la “visione” per creare futuro deve creare empatia, ossia creare immedesimazione nella costruzione di futuro. E’ chiaro che questo porta, per logica, ad una creazione di una pienezza della democrazia. Ed è proprio questa “pienezza”, a cui l’autore da un nome “Politica 2.0”, fatta di “progettazione partecipata” e “cocreazione” può rendere vitale quel tessuto sociale dove si compie il destino di ciascuno di noi.

C’è molto “renzismo” e del “Movimento 5 Stelle”, per certi versi sembra che su alcuni concetti, oggi in voga nel linguaggio politico, l’autore sia stato copiato da alcuni protagonisti. A parte questo, che sia o non sia così, l’autore si trova sulla stessa lunghezza d’onda di “quei” protagonisti sull’atteggiamento positivo, a volte un po’ troppo fideistico, nei confronti della “Rete”. Per Rimassa la “democrazia elettronica è il mezzo che permetterà la realizzazione di una nuova società relazionale e inclusiva, centrata sul cittadino: grazie a innovazione e tecnologia sta nascendo la human-centered-society”. Questa è una Lista dei sogni,Utopia, ingenuità o realismo? Certo alcune esperienze di “democrazia elettronica” suscitano fortissime perplessità, resta comunque un dato che per l’autore i  “media civici” non vogliono sostituire la democrazia a cui siamo abituati ma semmai è quella di favorire con questi strumenti nuovi una maggiore partecipazione dei cittadini. E quindi creare un vero potere democratico. Insomma una vera “rivoluzione copernicana” per il nostro Paese. Questa “rivoluzione” è ben sintetizzata in questo “Manifesto” che riprendiamo, qui sotto, per intero:

Manifesto del cambiamento



Metodo numero uno.
È facile cambiare l’Italia, se immaginiamo un futuro frutto di una visione chiara e inclusiva.

Metodo numero due.
È facile cambiare l’Italia, se sviluppiamo la cultura del progetto e dell’innovazione.

Metodo numero tre.
È facile cambiare l’Italia, se attiviamo meccanismi di condivisione e progettazione partecipata.

Metodo numero quattro.
È facile cambiare l’Italia, se scegliamo co-creazione e intelligenza collettiva al posto del potere del singolo.

Metodo numero cinque.
È facile cambiare l’Italia, se impariamo a ossigenare il cervello e azionare il pensiero laterale.

Metodo numero sei.
È facile cambiare l’Italia, se liberiamo l’energia dei giovani mettendoli al centro del sistema.

Metodo numero sette.
È facile cambiare l’Italia, se costruiamo una human-centered-society con lo sharing come nuovo modello socio-economico.

Metodo numero otto.
È facile cambiare l’Italia, se condividiamo che fondare una startup sia un forte gesto politico con valore sociale.

Metodo numero nove.
È facile cambiare l’Italia, se crediamo nel made in Italy come fattore di unicità del nostro Paese.

Metodo numero dieci.
È facile cambiare l’Italia, se trasformiamo lo Stato in una casa trasparente, aperta alla partecipazione attiva dei cittadini.

CONTRADA ARMACÀ, un “giallo” su Reggio Calabria

Contrada ArmacàUn giallo ambientato nel cuore di Reggio Calabria, tra violenza e bellezza, irresistibile vitalismo e sanguinaria ferocia. Scritto dal bravo giornalista, e inviato dell’Espresso, Gianfrancesco Turano (nato lui stesso  a Reggio Calabria).

LA TRAMA
L’omicidio di Rosario Laganà, giovane parrucchiere ucciso per strada in un agguato, non suscita particolare clamore a Reggio Calabria. Il movente, si mormora, sarebbe una faccenda di corna o di droga. Nessuno sembra insospettito dal fatto che il ragazzo era intimo di Oriana, la collaboratrice più fidata del sindaco, morta suicida solo poche settimane prima. Chi non si accontenta di facili spiegazioni è lo zio di Rosario, Demetrio Malara, ex insegnante, un uomo solitario che ha già perso il figlio quindicenne in un regolamento di conti fra clan rivali.
La pista di Oriana diventa una scommessa privata, ma per esplorarla Malara ha bisogno di aiuto. Fortunato Amato detto Nato, un suo ex studente che alla carriera di avvocato ha preferito il business dei matrimoni e si è ritagliato un ruolo come organizzatore di eventi, è l’uomo giusto al momento giusto. Narcisista e donnaiolo, brillante e abituato a vivere all’insegna del “me ne fotto”, Nato conosce mezza Reggio ed è ben introdotto nei circoli che contano. Fra risse nei locali della movida reggina, container gonfi di armi e cocaina in transito nel porto di Gioia Tauro, sparatorie nei boschi dell’Aspromonte, donne irresistibili e sicari disposti a tutto, la strampalata coppia d’investigatori entrerà nelle viscere di una città dove nulla accade per caso e dove ogni delitto è il risultato del mancato rispetto di regole non scritte. Un romanzo dove tutte le consorterie oscure del potere  si intrecciano. Insomma Contrada Armacà è un giallo che squarcia la facciata rispettabile di Reggio Calabria, svelando un sistema criminale che arriva a lambire perfino la Casa bianca.

Gianfrancesco Turano, Contrada Armacà,Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 320, € 16,90.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

UNO

CAPOCRIMINE  Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani.
Non è la prima volta. Nel 1976 – io ero bambino – sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve.

Un “ritratto” del Subcomandante Marcos, l’ultimo rivoluzionario del XX° secolo.

images-1Di seguito pubblichiamo un ritratto e un pensiero dell’ormai, da qualche giorno, ex Subcomandante insurgente Marcos. Per ricordare quello che è stato tra i più colti e ironici rivoluzionari del XX secolo. Per vent’anni è stato alla guida dell’EZLN, l’esercito zapatita di liberazione nazionale. La sua lotta in Chiapas ha fatto sognare l’America Latina e colpito il mondo per la sua grande  cultura politica e letteraria. Un   uomo fascinoso, l’ultimo erede della tradizione rivoluzionaria dell’America Latina.

Un pensiero di Marcos

Noi siamo il volto che si nasconde per mostrarsi. Dietro il nostro passamontagna siamo gli stessi uomini e donne semplici e ordinari che si ripetono in tutte le razze, si dipingono di tutti i colori, si parlano in tutte le lingue e si vivono in tutti i luoghi. Gli stessi uomini e donne dimenticati. Gli stessi esclusi. Gli stessi intollerati. Gli stessi perseguitati. Siamo gli stessi voi. Dietro di noi stiamo voi. 
Dietro i nostri passamontagna c’è il volto di tutte le donne escluse, di tutti gli indigeni dimenticati, di tutti gli omosessuali perseguitati, di tutti i giovani disprezzati, di tutti gli emigranti picchiati, di tutti gli incarcerati per la loro parola e pensiero, di tutti i lavoratori umiliati, di tutti i morti di oblio, di tutti gli uomini e donne semplici e ordinari che non contano, che non vengono visti, che non sono nominati, che non hanno un domani. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di esseri umani che gridano ‘YABASTA!’ al conformismo, al non fare nulla, al cinismo, all’egoismo fatto dio moderno. 
Dietro il passamontagna ci sono migliaia di piccoli mondi che assaporano un principio: il principio della costruzione di un mondo nuovo e buono, un mondo dove ci stiano tutti i mondi. – Subcomandante Marcos – (http://www.oocities.org/it/piazza_rossa/Pagine/Citazioni_marcos.htm

Un ritratto (per gentile concessione del sito: www.spondasud.it)

(Alessia Lai) – Ironico, dissacrante. Anche nel giorno dell’addio o, sarebbe meglio dire, del momento in cui riporre il “travestimento” nell’armadio. Il subcomandante Marcos, misterioso leader del Ezln, il movimento ribelle zapatista messicano del Chiapas, ha annunciato pochi giorni fa il suo passo indietro: non rappresenterà più il movimento. Non è la rinuncia di un capo. Capo non lo è mai stato né ha voluto esserlo, Marcos. Subcomandante, non comandante. Controfigura di un popolo. Questo è voluto essere. Ora, a 20 anni da una delle più affascinanti ribellioni del secolo scorso, quella nel Chiapas del 1994, l’ologramma della rivolta non serve più. Il corpo che incarnava quella rivolta rappresentandola al mondo ha esaurito la sua funzione: «Ci siamo resi conto che oramai c’era già una generazione che poteva guardarci, ascoltarci e parlarci senza bisogno di guida o leadership, né pretendere obbedienza (…) Marcos, il personaggio, non era più necessario. La nuova tappa della lotta zapatista era pronta». Con queste parole, il 25 maggio, l’uomo col passamontagna la cui identità non è mai stata scoperta, ha annunciato che «colui che è conosciuto come Subcomandante ribelle Marcos non esiste più».

Nel 1994 «un esercito di giganti, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo. Solo qualche giorno dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per guardarci; abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio che videro con un passamontagna, cioè, non vedevano. I nostri capi allora dissero: ‘vedono solo la loro piccolezza, inventiamo qualcuno piccolo come loro, cosicché lo vedano e che attraverso di lui ci vedano’».

Un passamontagna e un fucile, Marcos nasce in quel 1994, una «complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un gioco malizioso del nostro cuore indigeno; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione» ha ricordato il subcomandante. Un ologramma della rivoluzione, un fantasma. Impossibile da catturare, ferire, uccidere. Nell’ultimo messaggio ufficiale prima del congedo, nel suo abituale stile ironico e provocatore, il “fantasma” gioca ancora una volta con la sua stessa esistenza: «Quelli che hanno amato e odiato il  Subcomandante Marcos  adesso devono sapere che hanno amato e odiato un ologramma. I loro amori e i loro odi sono stati inutili, sterili, vuoti. Non ci sarà alcuna casa-museo o targa di metallo dove sono nato e cresciuto. Nessuno vivrà dell’essere stato il Subcomandante Marcos. Non si erediterà il suo nome né il suo incarico. Niente viaggi per tenere conferenze all’estero. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Nessun funerale, né onorificenze, né statue, né musei, né premi, niente di quello che fa il sistema per promuovere il culto dell’individuo e sminuire quel che fa il collettivo. Il personaggio è stato creato e adesso noi, i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Chi saprà comprendere questa lezione dei nostri compagni e delle nostre compagne, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo».

L’impersonalità della lotta. Questa la lezione di Marcos. Non finisce l’Ezln, non finisce la resistenza: «È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non sono necessari né leader né capi, né messia né salvatori; per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, una certa dignità e molta organizzazione, il resto o serve al collettivo o non serve». La bellissima «messa in scena» del subcomandante Marcos è finita, ma solo perché ha esaurito la sua funzione catalizzatrice. Marcos è stato la lente che ha concentrato in un punto le forze di una ribellione ignorata, con uno stile beffardo ha usato il “mito” del guerrigliero per accendere i riflettori sul Chapas e senza appiattirsi su un certo “internazionalismo ribelle da scritte per magliette”.

Esilarante e al contempo illuminante la polemica con l’Eta nel 2003 della quale è facile trovare tracce in Rete: modi diversi di intendere la ribellione e propagandarla al mondo. «Noi non prendiamo niente sul serio, nemmeno noi stessi» fu una delle frasi rivolte da Marcos ai baschi, irritati per una proposta zapatista di dialogo sulla loro questione. E, nella stessa lettera, in uno dei suoi famosi P.S. fu ben chiaro: «ALTRO P.S.: Forse è già evidente, ma lo ribadisco: me ne frego anche delle avanguardie rivoluzionarie di tutto il pianeta». Che dire, prendersi troppo sul serio è roba da fanatici. La leggerezza della lotta, la rivolta gioiosa, hanno avuto bisogno di un ologramma col passamontagna. Anche nel suo ultimissimo messaggio non ha rinunciato ai suoi P.S. ben sette. L’ultimo: «Ehi, è molto buio qui, ho bisogno di un po’ di luce». Una risata “rebelde” per il subcomandante.

(DAL SITO : http://spondasud.it/2014/05/subcomandante-marcos-lascia-guida-dellezln-ritratto-dellultimo-rivoluzionario-xx-secolo-1824 – anche l’immagine di Marcos è tratta dal medesimo sito)

 

il PD di Renzi: Una DC 2.0? Intervista a Marco Damilano

da forlitoday.itIl boom elettorale di Matteo Renzi continua ad alimentare il dibattito politico italiano ed europeo. Per alcuni osservatori, e protagonisti della lotta politica, il PD di Renzi è la nuova DC. E’ davvero così? Oppure è un’esagerazione? Su questo abbiamo intervistato Marco Damilano, cronista politico del settimanale “L’Espresso”.

Damilano, incominciano dalla sorprendente vittoria Del PD alle Europee. per molti osservatori è stata la vittoria più di Renzi che della “ditta”. per Lei?

«Lo è in termini quantitativi: alcune ricerche hanno provato a calcolare l’apporto di Renzi al risultato del Pd, almeno il dieci per cento. E questo nonostante, saggiamente, il premier avesse evitato di inserire il suo nome nel simbolo. La Ditta di Bersani nel 2013 si era bloccata al 25 per cento, non era riuscito a sfondare oltre il proprio bacino elettorale tradizionale, anzi, aveva perso voti che si erano posizionati su Scelta civica o nel Movimento 5 Stelle. Ora quell’elettorato è tornato a casa. E lo è, ancor di più, in termini qualitativi, politici. Perfino Stefano Fassina ammette di essersi sbagliato. L’ho scritto anch’io, l’ha sostenuto soprattutto Ilvo Diamanti: il Pd oggi è un PdR, il Partito di Renzi».

Il boom del PD, un risultato che è andato oltre il 40/%, ha scatenato nella pubblica opinione paragoni storici un poco azzardati. Ovvero il riferimento è quello, secondo Antonio Polito,con la DC di Fanfani.  Ora se è vero che il PD di Renzi ha fagocitato i centristi di “scelta civica”, stando allo studio dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo, però lo sfondamento verso verso l’elettorato di Forza Italia è stato minimo. D’altra parte, però, in queste elezioni Renzi ha conquistato casalinghe,imprenditori e under 24. Insomma siamo davvero di fronte alla DC 2.0, ovvero ad un “interclassismo” aggiornato per la società liquida? 

«L’interclassismo era la parola magica con cui la Democrazia cristiana ha governato per decenni: rappresentare insieme contadini e operai, piccoli imprenditori settentrionali e pubblico impiego, soprattutto il grande, infinito ceto medio italiano. A questo blocco sociale si contrapponeva quello della sinistra che ruotava attorno al Pci. Negli ultimi venti anni, quelli della Seconda Repubblica, gli unici che hanno provato a definire e a rappresentare un blocco sociale di riferimento sono stati Berlusconi e la Lega, mentre, negli stessi anni, la sinistra ha quasi totalmente smarrito un’idea sull’Italia da rappresentare. Ha confuso la conquista del centro della società con l’inciucio con il centro del Palazzo, con Casini, ha inseguito una visione tutta politicistica, alleanze di vertice, della rappresentanza politica. Ora tocca a Renzi, che in tanti hanno raffigurato come superficiale e leggero, coltivare l’idea di ricostruire un blocco sociale, una coalizione di consenso non politica ma sociale. Una grande coalizione, non nel Palazzo, ma nel Paese. Non alla tedesca, tra partiti, ma all’americana, nella società. Nessuno può riuscirci meglio del post-ideologico Renzi».

Come si comporterà Renzi con l’ala sinistra, intendo con quelle componenti della Lista Tsipras? 

«Alla sinistra del Pd, in Sel, il dibattito è aperto: il raggiungimento del quorum dimostra che c’è un elettorato che si rifiuta di confluire nel Pd, ma non vuole neppure restare isolato rispetto a un progetto di governo, eternamente all’opposizione. Nichi Vendola rappresenta bene questa contraddizione. E il dilemma dei prossimi mesi sarà: fare la sinistra renziana, un po’ come Alfano si è posizionato alla destra, oppure testimoniare una presenza irriducibile della sinistra che non si contamina con la coalizione di governo? In Parlamento un pezzo di Sel è pronto a votare alcuni provvedimenti del governo, Gennaro Migliore parla già di federazione. Ma decisivo sarà quello che Renzi ha già individuato come il suo interlocutore privilegiato in quest’area: il segretario della Fiom Maurizio Landini. Un altro che come Renzi rappresenta un pezzo di società, e non di ceto politico o sindacale».

Adesso nel PD si assiste ad uno sport italico: “salire sul carro del vincitore”.  Insomma vige la “pax renziana”, una variante aggiornata del “doroteismo”, non rischia di diventare un limite?

«È un rischio che esiste. In Italia c’è la tendenza a trasformare una vittoria elettorale nell’alba di un regime. Il pensiero unico di un partito unico di un leader solo. La melassa di certi commenti, il conformismo, la gara a trasformarsi in renziani della prima ora, anzi, della primissima… Per evitarlo Renzi deve continuare a lavorare a uno schema della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo. Il primo ad augurarsi che nasca presto a destra o in 5 Stelle un credibile e competitivo anti-Renzi deve essere proprio Renzi: fa bene al suo governo, fa bene alla democrazia italiana».

Il governo sicuramente è uscito rafforzato, Renzi, come ha sottolineato Marcello Sorgi sulla Stampa, avrà da “curare” ben “4 Forni”. Riuscirà a giocare così a tutto campo?

«L’abilità politica del premier è ormai riconosciuta da tutti, i forni possono diventare anche più di quattro, in questo momento, a ben guardare, nessuno in partenza esclude di poter fare un pezzo di strada con Renzi. La forza di Renzi è di apparire, a un tempo, uomo di rottura del vecchio sistema, ma anche leader inclusivo, che in partenza non respinge nessuno. Ha detto di voler essere «il presidente di tutti», ma ancora una volta toccherà a lui stabilire i confini: più è largo il consenso, più diventano ambigue le risposte. Questa è una lezione che arriva da decenni di trasformismo italico».

Renzi , secondo alcuni, è il nuovo leader della sinistra europea. Non è una esagerazione?

«L’ha scritto perfino il francese “Le Monde”, dopo la catastrofe dei socialisti di Hollande. Di certo Renzi è un uomo fortunato: nella sinistra europea si muove nel vuoto, di leadership, di prospettive, di progetto. Per la prima volta la sinistra italiana, il Pd, più che la guida può aspirare a essere il modello delle altre formazioni europee».

Tornando alla Storia:  Renzi è il nuovo Fanfani?

«Ci sono molte analogie, la comune origine toscana, l’attivismo, il pragmatismo, il desiderio di portare al potere una nuova generazione, in fondo Fanfani rottamò la generazione di De Gasperi nel 1954. E poi la sensibilità sociale e una certa idea di interventismo della politica nell’economia. Detto questo, però, nessun paragone è possibile perché quella è tutta un’altra storia. Il Pd non è la Dc, Fanfani voleva essere il leader dello sfondamento, a sinistra e a destra, ma fallì nell’operazione perché c’era la guerra fredda e un mondo spaccato a metà dagli accordi di Yalta. Mentre Renzi vive in una società liquida in cui non esistono muri, fili spinati e confini. Per lui, lo sfondamento è possibile, sempre che non fallisca nella scommessa di governo».