“La lettera di Ladaria farà bene alla democrazia americana”. Intervista a Stefano Ceccanti

Sta facendo discutere l’opinione pubblica cattolica, statunitense ed europea, la lettera del Cardinale Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, al presidente dei Vescovi americani Gomez, ultraconservatore. Lettera che stoppa radicalmente l’iniziativa clamorosa da parte dell’ala conservatrice di negare la comunione al Presidente Biden (in quanto favorevole alla legislazione pro aborto). In questa intervista con il costituzionalista, e deputato PD, Stefano Ceccanti cerchiamo di approfondire i contenuti di questa lettera.

Professor Ceccanti, i termini della lettera non sono per niente teneri nei confronti dei conservatori: tra le righe si denuncia il comportamento strumentale dell’iniziativa di Gomez. È così professore? 

Veda, io partirei da un po’ più lontano, dall’anniversario che si celebrerà domani. Il 14 maggio 1971, 50 anni fa, Paolo VI scrisse al Cardinale Roy la lettera Octogesima Adveniens, per gli 80 anni dalla Rerum Novarum. Il parametro per le nostre questioni è quello perché essa rappresenta il punto di arrivo della riflessione conciliare sul tema dei rapporti tra Chiesa e politica. Infatti, pur avendo la Gaudium et Spes, la Costituzione conciliare, espresso alcune scelte significative, tra cui il riconoscimento dell’opzione preferenziale per la democrazia (paragrafo 31), lo specifico capitolo 4 ebbe una trattazione del tutto insufficiente perché essa coincise con la giornata del ritorno di Paolo VI dall’Onu, il 5 ottobre 1965, e i lavori dell’assemblea furono concentrati sul suo discorso. Fu questa la ragione per la quale Paolo VI rifece il punto con la Octogesima Adveniens ed in particolare nei punti 4 e 50.

Il punto 4 fa due affermazioni molto importanti che deideologizzano l’insegnamento sociale: la prima è che “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale” e la seconda è che le comunità cristiane attingono da esso “principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione” che consentono di giungere a conclusioni concrete. L’elemento comune di principi, criteri e direttive è il fatto che essi hanno dei margini di elasticità rispetto alle soluzioni concrete. Margini che evidentemente non sono infiniti, l’elastico oltre una certa soglia si rompe, ma ciò non di meno essi esistono, le soluzioni concrete non coincidono con essi. E’ per questo che, come chiarisce il n. 50: “Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili” con “uno sforzo di reciproca comprensione per le posizioni e le motivazioni dell’altro”.

Dietro queste affermazioni si coglie tutta la finezza di un papa che per storia familiare conosceva la concretezza della vita politico-parlamentare che è fatta non di referendum su princìpi, ma di continue mediazioni tra più princìpi che entrano in gioco nella stessa decisione, tra princìpi e realtà sociale concreta e tra diverse visioni che sono rappresentate in una società aperta. Solo così si evitano approcci strumentali.

Lei quindi ritrova questo approccio che viene da lontano nella lettera del Prefetto, ovvero specificamente nel punto in cui si afferma che né il tema dell’aborto, né quello della eutanasia possono essere usati come ‘unica materia in cui si richiede il pieno livello di responsabilità da parte dei cattolici. Una gran picconata al “partito dei valori non negoziabili”? Ma quello non veniva dal pontificato di Giovanni Paolo II e dalla Nota dottrinale del 2002 della medesima Congregazione che però Ladaria cita come fondamento della sua critica?

Anche nell’enciclica Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II del 1995 (che aveva confermato l’opzione prefrenziale per le democrazie liberali nella Centesimus Annus del 1991) si riscontrano almeno due importanti passaggi nella medesima direzione della Octogesima Adveniens. Il primo (par. 71) ricorda sulla base dell’insegnamento di Tommaso (su cui a lungo aveva riflettuto Jacques Maritain) che la difesa e lo sviluppo di alcuni principi e valori non coincide con la massima estensione possibile del diritto penale per punire comportamenti che li neghino:” la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave”. Se un principio o un valore siano concretamente sviluppati in un ordinamento dipende da una serie di incentivi, da un insieme di politiche pubbliche: può darsi che un diritto penale meno esteso accompagnato da politiche sociali positive più consistenti abbiano in un determinato contesto storico, effetti ben più positivi. Il secondo (par. 73) tende a valorizzare comportamenti politico-parlamentari tesi alla riduzione del danno.

Viceversa questo senso della complessità non sembra riprodotto per intero nella Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 perché essa sembra presupporre che vi siano ambiti in cui “l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno” (par. 4) in cui cioè lo schema sia bianco-nero, tutto-nulla, verità-errore. Qui sta il problema teorico, che poi è anche un serio problema pratico: infatti la Nota risulta a tutt’oggi del tutto disapplicata e non per volontà dei singoli, ma perché in questi termini è sostanzialmente inapplicabile. Ora alcuni vescovi americani, i primi che concretamente vogliano farlo sia pure arrivando a conclusioni sulla Comunione non direttamente previste nel testo, credono di interpretare correttamente la Nota ritenendo che questo ragionamento riguardi un particolare ambito materiale, in particolare i temi dell’aborto e dell’eutanasia perché sarebbero i primi citati nel testo. Il cardinale Ladaria, a nome della Congregazione, reagisce segnalando che scegliere un preciso ambito materiale finirebbe per selezionare arbitrariamente alcune materie a danno di altre: “sarebbe fuorviante dare l’impressione che l’aborto e l’eutanasia da soli siano gli unici temi centrali della Dottrina Sociale cattolica, che richiedono il più alto livello di rendiconto da parte dei cattolici”.

Il cardinale Ladaria, così facendo, evita opportunamente un doppio standard tra materie diverse, ma logicamente gli esiti possibili sono due e sono opposti. O si conferma che sia possibile teorizzare che rispetto a tutti i principi e valori che si vogliano difendere e sviluppare vadano rifiutati compromessi, ma allora diventa sostanzialmente impossibile fare politica specie nelle sedi parlamentari, si arriva a un non expedit generalizzato o, viceversa, si ammette che esistono sempre margini di elasticità. Ovviamente tutte le istanze sociali, comprese quelle ecclesiali, hanno il diritto di ritenere che nei casi concreti l’elasticità sia usata oltre i limiti ragionevoli e possono benissimo contestare i concreti compromessi raggiunti, ma non possono disconoscerne a priori l’esistenza. Questo nodo non può essere aggirato. E’ la nota del 2002 come tale che non funziona su quell’aspetto, difforme rispetto all’impostazione dellOctogesima Adveniens, che la rende inapplicabile e che, qualora si tenti di applicarla, crea conflitti non risolubili.

Pensa che questo intervento rasserenerà l’episcopato americano, o, invece, alimenterà contrasti (fomentati dai vari Bannon e Viganò)?

Come ho cercato di spiegare prima per esteso chiarendo il parametro (l’Octogesima Adveniens) e ciò che fa problema (la Nota del 2002) la linea dell’episcopato americano è insostenibile. Peraltro si tratta in questo momento e da molti anni dell’unico episcopato che sta tentando un’applicazione intransigente di quella Nota. Farebbe bene a riflettere sul suo isolamento non solo rispetto al Papa, ma anche alla Chiesa universale.

Cosa può significare per la politica americana questo intervento? 

Mentre l’intervento della Conferenza episcopale si inseriva in quella logica di over partisanship, di eccesso di partigianeria che segna quel paese da vari anni e che tanto nuoce alla democrazia americana, l’intervento del cardinal Ladaria si presta ad un più positivo rapporto con la politica. Non è in questione il diritto di esprimere posizioni critiche in pubblico secondo le regole del diritto di libertà religiosa in una società aperta, ma la Chiesa cattolica deve decidere se in una situazione già segnata da molte polarizzazioni vuole essere vista come parte del problema o parte della soluzione. Un certo intransigentismo finisce non col portare un contributo nella vita politica ma con l’esasperare le differenze politiche dentro la Chiesa.

 Non si può non vedere anche un riverbero per l’Italia, la patria del “ruinismo”…… Anche lei vede questo? 

In Italia quel periodo è tramontato irreversibilmente da tempo, prima sul piano politico e poi su quello ecclesiale. Accantonerei pertanto le polemiche sul passato e mi concentrerei sulla ricerca di una linea che raccolga in positivo la spinta innovativa del pontificato. Una linea che va sapientemente costruita.

Consumare il mondo o salvaguardare il mondo? Paradigmi opposti. Un testo di Leonardo Boff

 

La pandemia ci mette, sempre più, davanti ai limiti del nostro paradigma capitalistico. In questo breve, intenso, testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, il teologo brasiliano Leonardo Boff ci offre spunti per un diverso paradigma
etico-sociale.

Leonardo Boff (ANSA)

“Consumare il mondo” o “salvaguardare il mondo” sono una metafora, frequente in bocca ai leader indigeni, che mettono in discussione il paradigma della nostra civiltà, la cui violenza li ha quasi fatti scomparire. Ora è stato messo sotto scacco dal Covid-19. Il virus ha colpito come un fulmine il paradigma del “consumare il mondo”, ovvero sfruttare senza limiti tutto ciò che esiste in natura in un’ottica di crescita / arricchimento senza fine. Il virus ha distrutto i mantra che lo sostengono: centralità del profitto, raggiunto attraverso la concorrenza, la più agguerrita possibile, accumulato privatamente, a scapito delle risorse naturali. Se obbediamo a questi mantra, saremmo sicuramente sulla strada sbagliata. Ciò che ci salva è ciò che è nascosto e invisibile nel paradigma del “consumare il mondo”: la vita, la solidarietà, l’interdipendenza tra tutti, la cura della natura e l’uno dell’altro. È il paradigma imperativo della “salvaguardia del mondo”.

Il paradigma del “consumare il mondo” è molto antico. Proviene dall’Atene del V secolo a.C., quando lo spirito critico irruppe e ci fece percepire la dinamica intrinseca dello spirito, che è la rottura di ogni limite e la ricerca dell’infinito. Tale scopo era pensato dai grandi filosofi, dagli artisti, compare anche nelle tragedie di Sofocle, Eschilo ed Euripide ed è praticato dai politici. Non è più il medén ágan del tempio di Delfi: “niente di troppo”.

Questo progetto di “mangiarsi il mondo” ha preso forma nella stessa Grecia con la creazione dell’impero di Alessandro Magno (356-323), che all’età di 23 anni fondò un
impero che si estendeva dall’Adriatico al fiume Indo in India.

Questo “consumare il mondo” si è approfondito nel vasto Impero Romano, rafforzato nella moderna era coloniale e industriale e culminato nel mondo contemporaneo con la globalizzazione della tecno-scienza occidentale, espansa in tutti gli angoli del pianeta. È l’impero senza limiti, tradotto nello scopo (illusorio) del capitalismo / neoliberismo con la crescita illimitata verso il futuro. Basta prendere come esempio, di questa ricerca di crescita illimitata, il fatto che nell’ultima generazione sono state bruciate più risorse energetiche che in tutte le precedenti generazioni dell’umanità. Non c’è luogo che non sia stato sfruttato per l’accumulo di merci.

Ma ecco, è emerso un limite insormontabile: la Terra, limitata come pianeta, piccola e
sovrappopolata, con beni e servizi limitati, non può sostenere un progetto illimitato. Tutto ha dei limiti. Il 22 settembre 2020, le scienze della Terra e della vita lo hanno identificato come l’Earth Overshoot Day, ovvero il limite dei beni e dei servizi naturali rinnovabili, fondamentali per mantenere la vita. Si sono esauriti. Il consumismo, non accettando limiti, porta alla violenza, togliendo alla Madre Terra ciò che non può più dare. Stiamo consumando l’equivalente di una Terra e mezzo. Le conseguenze di questa estorsione si manifestano nella reazione dell’esausta Madre Terra: aumento del riscaldamento globale, erosione della biodiversità (circa centomila specie eliminate ogni anno e un milione in pericolo), perdita di fertilità del suolo e crescente desertificazione, tra altri fenomeni estremi.

Attraversare alcuni dei nove confini planetari (cambiamento climatico, estinzione di specie, acidificazione degli oceani e altri) può causare un effetto sistemico, facendo crollare i nove e inducendo così il collasso della nostra civiltà. L’emergere del Covid-19 ha messo in ginocchio tutti i poteri militaristici, rendendo inutili e ridicole le armi di distruzione di massa. La gamma di virus precedentemente annunciata, se non modifichiamo il nostro rapporto distruttivo con la natura, potrebbe sacrificare diversi milioni di persone e assottigliare la biosfera, essenziale per tutte le forme di vita.

Oggi l’umanità è presa dal terrore metafisico di fronte ai limiti insormontabili e alla
possibilità della fine della specie. Il Great Reset del sistema capitalista è illusorio. La Terra lo farà fallire.

È in questo drammatico contesto che emerge l’altro paradigma, quello della “salvaguardia del mondo”. È stato allevato in particolare da leader indigeni come Ailton Krenak, Davi Kopenawa Yanomani, Sônia Guajajara, Renata Machado Tupinambá, Cristine Takuá, Raoni Metuktire e altri. Per tutti loro c’è una profonda comunione con la natura, di cui si sentono parte. Non hanno bisogno di pensare alla Terra come alla Grande Madre, Pachamama e Tonantzin perché la sentono così. Proteggono naturalmente il mondo perché è un’estensione del proprio corpo.

L’ecologia del profondo e dell’integrale, come si riflette nella Carta della Terra (2000), nelle Encicliche di Papa Francesco Laudato SI: come prendersi cura della nostra casa comune (2015) e Fratelli tutti (2020), e il programma “Pace, Giustizia e Preservazione del Creato” del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tra gli altri gruppi, hanno assunto la “salvaguardia del mondo”. Lo scopo comune è quello di garantire le condizioni fisico chimico-ecologiche che sostengono e perpetuano la vita in tutte le sue forme, in particolare la vita umana. Siamo già nella sesta estinzione di massa e l’Antropocene la sta intensificando. Se non leggiamo emotivamente, con il cuore, i dati della scienza sulle minacce che pesano sulla nostra sopravvivenza, difficilmente ci impegneremo a salvaguardare il mondo.

Papa Francesco ha seriamente ammonito nella Fratelli tutti: “O ci salviamo insieme o nessuno si salva” (n. 32). È un avvertimento quasi disperato se non si vuole “gonfiare il corteo di chi va alla propria tomba” (Z. Bauman). Facciamo il salto della fede e crediamo in ciò che dice il Libro della Sapienza: “Dio è l’amante appassionato della vita” (11,26). Se è così, non ci permetterà di scomparire così miseramente dalla faccia della Terra. Lo crediamo e lo speriamo.

Leonardo Boff ha scritto: Cuidar la Tierra-Proteger la vida, cómo evitar el fin del mundo, Record 2010; Covid-19, la Madre Tierra contraataca a la Humanidad: advertencias de la pandemia, Vozes 2020.

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti).

“La competizione tra Salvini e Meloni c’è ma sull’Europa (e non solo) sono ambigui entrambi”. Intervista a Sofia Ventura

La competizione tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni è sempre più presente nella destra italiana. Come si evolverà questa competizione? Ne parliamo, in questa intervista, con la professoressa Sofia Ventura, docente di Scienza della Politica all’Università di Bologna.

Si è parlato, in questi giorni, della vittoria, nelle elezioni di Madrid, della popolare Isabel Ayuso. Che tipo di destra è quella della Ayuso? Si è parlato di un modello Trump…

È presto per dirlo. In Spagna l’analogia con Trump è stata fatta, ma Ayuso non ha mai negato né minimizzato la pandemia. Ha proposto, in particolare dopo la prima ondata, un modello diverso da quello del governo centrale, meno orientato alle chiusure generalizzate e più ai tracciamenti e alle chiusure ‘chirurgiche’. Con certamente anche un approccio più fatalista, questo bisogna ammetterlo. Con la sua pretesa di una destra senza complessi mi ricorda Sarkozy, del quale mi pare però più spregiudicata, nel rincorrere le diffidenze verso la politica e il crescente individualismo che interessa un po’ tutte le società europee. Ma il trumpismo è altra cosa.

Può essere un riferimento per la destra italiana?

Se guardiamo alla destra dominante in Italia, quella di Salvini e Meloni, Ayuso in fondo è moderata, nonostante la brutta, recente, uscita sugli immigrati, che avrebbero ‘comportamenti’ meno responsabili di fronte alla pandemia. Ma Salvini e Meloni sono oltre. E comunque non so se ha senso parlare di modelli. In fondo anche lei intercetta frustrazioni diffuse attraverso la dicotomia amico/nemico, ha basato la sua campagna sulla contrapposizione tra il socialismo – del quale ha fatto uno spauracchio – e la libertà: mi piacerebbe pensare che la politica, a destra come a sinistra, possa essere anche altro. E poi per quale destra dovrebbe essere modello? Per quella estrema no, quella guarda a Vox, come dicevo, è ‘oltre’. E tutto sommato è molto più legata ad una visione ‘assistenziale’ del ruolo dello Stato. Non è solo ‘oltre’, è proprio ‘altro’. Per quella più moderata, forse, pur proponendo uno stile polarizzante e spregiudicato del quale in Italia abbiamo già pagato i costi.

Guardiamo, appunto, alla destra italiana. L’unico partito che è in crescita, da più di un anno, è Fratelli d’Italia. Eppure nei temi identitari di destra (o per meglio dire di estrema destra) sono sovrapponibili. Cosa rende Meloni più di successo rispetto a Salvini?

È una professionista, più capace di adattarsi alle situazioni, ma al tempo stesso in grado di mandare un messaggio di coerenza. Pur avendo posizioni della destra estrema – basta guardare i suoi messaggi social e la sua ossessione nel contrapporre gli italiani agli immigrati, anche se lei aggiunge sempre ‘clandestini’, come se poi non fossero donne e uomini come gli altri, sino a rappresentarli come potenziali untori nella fase attuale di circolazione del virus – , ha l’abilità di mostrarsi come donna di buon senso e persona comune, ma non nel senso un po’ grottesco di Salvini, con i suoi improbabili piatti di pasta esibiti su Instagram. Questo avvicina le persone e fa dimenticare le sue posizioni più radicali, oltre che la natura del suo partito. Credo che il suo ultimo libro in uscita, almeno stando alle anticipazioni, punti a rafforzare questo aspetto.

Nonostante la Meloni sia a capo di un raggruppamento che siede nel Parlamento Europeo, non sembra che questo sia di conforto per chi si richiama ai valori fondativi dell’Unione Europea. E questo fa il paio con il gruppo sovranista di Salvini Orban. Chi temere di più?

Tra Salvini e Meloni? Oggi ho l’impressione che a sinistra si guardi con una certa condiscendenza a Meloni in funzioni anti-Salvini, la cui presenza al governo è probabilmente considerata disturbante. Ma credo sia un errore. Entrambi hanno costruito la loro fortuna sulle contrapposizioni forti, sull’individuazione dei nemici e la paura dell’ ‘altro’. Entrambi guidano partiti nei quali trovano spazio personaggi discutibili e nostalgici di una destra estrema e non fanno molto – uso un eufemismo – per liberarsene. Entrambi esibiscono simpatia e amicizia verso leader di governo che stanno stravolgendo il carattere liberale e quindi democratico dei rispettivi Paesi, parlo naturalmente di Orbàn e Morawiecki, dell’Ungheria e della Polonia. Entrambi flirtano con l’integralismo cattolico. Entrambi ogni volta che spiegano che non sono contro l’Europa, hanno sempre un MA da aggiungere che li rende perlomeno ambigui e poco affidabili. Ossessionati, poi, come sono, da un ‘patriottismo’ identitario escludente. Come si fa ad essere europeisti se accanto all’amore per il proprio Paese non si cura e coltiva con altrettanta determinazione l’identità europea? Sono da temere entrambi.

Spesso la Meloni si richiama a De Gaulle. Non trova azzardato questo richiamo?

È un vezzo che ha anche Marine Le Pen. Ricordo solo che de Gaulle fu il leader della Resistenza francese e combatté contro il nazismo e il fascismo di Vichy, il partito di Meloni ha nel proprio simbolo la fiamma tricolore. E i simboli contano. Ho sentito che ha richiamato l’idea dell’Europa delle patrie attribuita a de Gaulle (ma lui stesso negò di avere mai usato questa espressione, avendo invece parlato di un’Europa degli Stati). Ma chissà se Meloni avrebbe condiviso con il Generale l’idea che Dante, Goethe, Chateaubriand, pur essendo divenuti grandi nelle loro rispettive lingue, appartenevano a tutta l’Europa? E poi, de Gaulle parlava dell’Europa degli Stati, di una Europa confederale, quella che Meloni dice di volere, sessant’anni fa. Il mondo cambia, va avanti. Ciò detto, eviterei di richiamare visioni di grandi uomini per la propria piccola propaganda.

A ben vedere siamo ben lontani da una destra repubblicana ed europeista. Chi poterebbe essere un costruttore?

Oggi? In Italia? Nessuno. In questi decenni è stata fatta tabula rasa.

Ultima domanda: come si sta comportando Enrico Letta?

Lo dico con rammarico, perché è una persona che stimo: costringendo la sua azione dentro al perimetro di una alleanza con i 5 stelle credo che si precluda ogni possibilità di rivitalizzare un partito ormai senza bussola. Ma sinceramente, fare ritrovare la bussola al Pd, a questo stadio della sua crisi, temo sia ormai una impresa titanica.

Lavoro: “La riforma che Draghi chiede all’Europa vuole chiudere la stagione del mercato duale”. Intervista a Giuseppe Sabella

Intervenendo al vertice di Oporto sui diritti sociali, organizzato dalla presidenza portoghese del Consiglio dell’Unione europea, il primo ministro italiano Mario Draghi ha speso parole significative: “Troppi Paesi dell’Ue hanno un mercato del lavoro a doppio binario che avvantaggia i garantiti a spese dei non garantiti. Mentre i garantiti sono meglio retribuiti e godono di una maggiore sicurezza del lavoro, i non garantiti soffrono un vita lavorativa precaria. Questo sistema è profondamente ingiusto e costituisce un ostacolo alla nostra capacità di crescere e di innovare”. Si tratta di parole importanti, segno ulteriore della nuova stagione europea. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella.

Sabella, Draghi porta all’attenzione del consiglio europeo il tema del lavoro precario che, in particolare, è tale per giovani e donne. Come valuta questo affondo del premier italiano?
Credo che Draghi sia consapevole del rischio di disgregazione che corre l’Unione: non è soltanto questione della contingente contrazione economica dovuta all’emergenza sanitaria, il problema è che quando l’economia ripartirà di fatto saremo sempre più avviati alla trasformazione dell’industria. Il che significa non solo innovazione ma anche imprese che chiudono perché non riescono a tenere il passo, attività che vengono sostituite dalle macchine, prodotti il cui impiego diminuisce. Tutto ciò naturalmente comporterà erosione di posti di lavoro. Però attenzione: la trasformazione è tale per cui avremo nuove attività e nuovi prodotti. Prima della pandemia, i paesi che più avevano investito in tecnologia – Cina, Usa e Corea del sud – erano i paesi in cui il saldo occupazionale tra posti di lavoro persi e posti di lavoro creati era positivo, cosa che ci dice che non vi è alternativa a investire in innovazione. In sintesi, Draghi vuole rendere il lavoro meno precario e rafforzare non solo il sistema di protezione sociale ma anche quello delle politiche attive. È fondamentale questo passaggio, altrimenti questa volta si rischia davvero il disordine sociale.

Il premier italiano propone di rendere strutturale il programma SURE che, ad oggi, ha retto il sistema degli ammortizzatori sociali. È la strada giusta?
Naturalmente il welfare ha un costo. Quindi, la prima cosa è quella di darsi degli obiettivi e trovare un modo per renderli sostenibili. Da questo punto di vista, a Oporto ancora una volta si sono confrontate due posizioni: una più nazionale e una più comunitaria. Secondo alcuni paesi, la UE dovrebbe solo fissare obiettivi e poi lasciar fare alle politiche nazionali. Il presidente Draghi invece si è espresso dicendo “targets and national policies are not enough”: le politiche nazionali non sono abbastanza, ci vogliono politiche europee comuni come Next Generation EU e il fondo SURE (che già ha finanziato 27 miliardi della nostra cassa integrazione). Credo che insistere sul fondo SURE sia una buona ipotesi, va certamente rafforzata la sua missione. Va però detto che più di questo l’Europa non può fare. Bisogna poi che gli stati membri, in particolare il nostro, si attivino per far funzionare soprattutto le politiche attive del lavoro. Sin dai tempi delle prime riforme – mi riferisco alla legge Treu del ‘97 e alla legge Biagi del 2003 – è sempre stata questa la nostra debolezza. Si può naturalmente affermare che qualcosa poteva essere pensato meglio nell’impianto di riforma del lavoro, ma se avessero funzionato le politiche attive – cosa che tutt’ora dipende dalle regioni – il lavoro sarebbe certamente stato meno precario.

Cosa poteva essere pensato meglio nell’impianto di riforma del mercato del lavoro in Italia?
Da una parte, è vero che il nostro mercato del lavoro era piuttosto ingessato. Ma la repentina iniezione di flessibilità si è rivelata difficile da gestire. Inoltre, non vi è mai stata una riforma complessiva del sistema di ammortizzatori sociali: per fare qualche esempio, solo in tempo di pandemia si è trovata qualche iniziale soluzione anche per le partite iva – dopo 25 anni! – che in gran parte non sono lavoro autonomo ma bensì povero e precario; la stessa indennità di disoccupazione ha iniziato a funzionare soltanto nel 2015 con la Naspi. E poi, ad ogni governo che si susseguiva i ministri del lavoro dovevano per forza intestarsi la loro riforma. A ogni modo, il punto è che l’iniezione di flessibilità che si è attuata in nome del cambiamento dell’economia, si è prevalentemente rivelata come lavoro precario e meno pagato. Solo nel 2015 con il Jobs Act, al netto dei problemi e delle contraddizioni rilevate persino dalla Corte Costituzionale, si è posto il problema delle tutele e delle protezioni, senza peraltro che si completasse questa strada.

A tal proposito, Mario Draghi ha aggiunto che “già prima della pandemia le nostre società e i nostri mercati del lavoro erano frammentati: disuguaglianze generazionali, disuguaglianze di genere, disuguaglianze regionali. Questa non è l’Italia come dovrebbe essere, né l’Europa come dovrebbe essere. Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro”. Perché secondo lei, in particolare nel nostro Paese, si è creata questa situazione?
Guardi, come lei sa bene c’è chi accusa il legislatore di complicità con il capitalismo selvaggio. Io non sono tra questi. Penso invece che questo Paese spesso affronta problemi seri in modo ideologico, come in una guerra di religione. Nella fattispecie, quando in particolare nel 2002 si poneva il problema di intervenire nuovamente sul mercato del lavoro dopo il pacchetto Treu, in quell’occasione si scatenò il finimondo, tanto che Marco Biagi e la sua famiglia pagarono un prezzo altissimo. Questo perché da una parte vi erano l’ideologia e la violenza, che non hanno alcuna giustificazione e vanno condannate. Dall’altra, tuttavia, avanzava una nuova forma di ideologia, quella per cui “il mercato ci chiede”, peraltro distante dal pensiero del giuslavorista bolognese – basta leggere i suoi scritti – sempre orientato a coniugare flessibilità e sicurezza. La verità è che il lavoro è un terreno delicatissimo in cui non si deve mai far saltare l’equilibrio tra innovazione e protezione sociale. Anche perché, se conta solo ciò che “il mercato ci chiede”, non si capisce quale ruolo spetti al decisore politico e alle rappresentanze di impresa e lavoro. In quel caso l’equilibrio saltò, perché tutto veniva scritto nel segno della flessibilità. E così, come dice Draghi, ancor prima della crisi del 2008 il mercato scaricava la flessibilità prevalentemente sui più deboli, giovani e donne. D’altronde, ciò alle imprese conveniva: e, considerando che il 95% di imprese italiane ha meno di 10 addetti ed è stretto nella morsa di fisco e burocrazia, questa è stata la via d’uscita, per quanto miope. Da quel momento, questa tendenza è stata irreversibile, si è acuita con la crisi del 2008 ed è giunta ai nostri giorni. Oggi questo processo va corretto non solo per giustizia sociale ma anche perché i mercati che meglio funzionano sono quelli in cui donne e giovani sono più integrati: sono loro, infatti, i veri portatori di innovazione.

Secondo lei cosa va fatto oggi per riformare in meglio il nostro mercato del lavoro?
Partiamo da qui: il processo di trasformazione dell’industria, che naturalmente riguarda anche i servizi, sta sempre più avvicinando lavoro subordinato e lavoro autonomo. Lo vediamo nel caso dei nuovi lavori e delle piattaforme (es. riders) ma anche nei luoghi per eccellenza del lavoro dipendente: le fabbriche. L’ultimo rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, da questo punto di vista, ha riformato l’inquadramento professionale, prima fermo al 1973. Anche la contrattazione collettiva si orienta alle capacità cognitive e trasversali delle persone: autonomia, responsabilità, partecipazione al lavoro di gruppo, polivalenza, polifunzionalità, miglioramento continuo e innovazione. E poi vi è il tema dello smart working che non è il lavoro distanziato. In quest’ottica la contrattazione collettiva sta facendo cose importanti a livello aziendale – si pensi ai contratti Bayer, Leonardo, Sanofi, Poste italiane, Wind, Tim, Siemens, Sasol, etc. – che prima o poi avranno effetto a livello nazionale. Siamo a metà del guado, ma va detto che registriamo percorsi di qualità. Va scritto un nuovo statuto dei lavori, idea di cui Marco Biagi è precursore.

Pare questo un altro tassello di un nuovo corso europeo. Lei cosa ne pensa?
Si, è così. Il Green New Deal è anche questo. Del resto, l’innovazione – che è centrale nei nuovi obiettivi europei – ha bisogno della qualità del lavoro. Non possiamo pensare di crescere se non in ragione di un nuovo equilibrio nel lavoro che renda il mercato meno schizofrenico. Nel secondo dopoguerra le nazioni avviarono un trentennio – che si chiudeva nel ‘75 con l’inizio del periodo della stagflazione (e in Italia del terrorismo) – in cui la stabilità delle Istituzioni partiva dal lavoro: si pensi, ad esempio, al primo articolo della nostra carta costituzionale. Oggi siamo in un contesto molto diverso, la globalizzazione ci pone davanti a continui shock – l’11 settembre, la crisi del 2008, la pandemia, ora il pericolo della crisi ambientale – ma i decisori devono trovare il modo per restituire pace e stabilità alle nazioni e alle comunità sociali. Tra USA e Europa si sta riscrivendo una nuova alleanza atlantica: questo è fondamentale, ma non basterà a garantirci un trentennio di prosperità. Ai nostri giorni, i cicli dell’economia si sono di molto accorciati.

Nasce un nuovo partito cattolico? Intervista a Don Rocco D’Ambrosio

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Stefano Zamagni (Wikipedia)

Sta nascendo un nuovo partito cattolico? Pare di si. Il gruppo animato dal Professor Zamagni, Insieme questo il nome, sta facendo assemblee territoriali in vista dell’Assemblea generale che si terrà, stando ai loro documenti, alla fine di Giugno. Ma quali problemi porrà alla Chiesa? Ne parliamo, in questa intervista, con Don Rocco D’Ambrosio Professore di Filosofia della Politica alla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

 Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco D’Ambrosio (Università Gregoriana di Roma)

Don Rocco, stando ad alcune notizie apparse in alcuni organi locali, esempio il Corriere Del mezzogiorno, c’è stata una assemblea, rigorosamente on line, in Puglia, qualche giorno dopo anche in Sicilia, di “insieme” (il gruppo organizzato dal Prof. Zamagni). Sta nascendo un
nuovo partito cattolico (di “ispirazione cristiana” anche se aperto ai non credenti)? 

Sembra proprio di si, visto che era stato già annunziato l’anno scorso e che ora, da quanto capisco, si sta organizzando a livello territoriale.

Sappiamo che il prof. Zamagni è il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Insomma non è una cosa di poco conto. Il papa Francesco, stando a passate dichiarazioni, non sembra che sia nella linea di costruzione di un “partito cattolico”. L’iniziativa non rischia di creare confusione?
I due problemi che lei pone sono rilevanti. Partirei dal papa e dalla sua posizione sul partito di cattolici. E’ il 30 aprile 2015 quando le agenzie di stampa riportano le parole di papa Francesco, in un discorso a braccio nell’aula Paolo VI: “Si sente: ‘Noi dobbiamo fondare un partito cattolico!’: quella non è la strada. La Chiesa è la comunità dei cristiani che adora il Padre, va sulla strada del Figlio e riceve il dono dello Spirito Santo. Non è un partito politico. ‘No, non diciamo partito, ma … un partito solo dei cattolici’: non serve e non avrà capacità convocatorie, perché farà quello per cui non è stato chiamato (…) Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere”. E’ interessante notare come il papa sposta l’attenzione dalla questione “partito cattolico” a quella dl “martirio quotidiano nel cercare il bene comune”.
Non abbiamo bisogno di una nuova D,C, né di nuove formazioni politiche – del resto l’Italia ha fin troppi partiti – che si ispirino al Cristianesimo. Abbiamo solo bisogno di donne e uomini coerenti con la loro fede, come anche d’intere comunità locali, che testimonino il Vangelo nei tanti e difficili campi minati, politica in primis.
Del resto il Vaticano II e Paolo VI hanno ben chiarito diversi nodi. «Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi», scriveva Paolo VI nel 1971, sulla scia di Gaudium et Spes 76. L’affermazione conciliare pone fine a qualsiasi collateralismo fra comunità cristiana e partiti politici – vedi il caso DC in Italia – proprio perché presenta con chiarezza l’autonomia della sfera temporale da quella religiosa, restituendo alla comunità cristiana il suo proprio ruolo di profezia e coscienza critica, il suo evangelico servizio nei confronti dei detentori del potere e dell’intera comunità civile e politica.

E riguardo al prof. Zamagni…
Anch’io sono rimasto sorpreso dal coinvolgimento del prof. Zamagni, vista la carica di presidente Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. E non riesco a spiegarmi le motivazioni. Tuttavia resta fermo quanto insegna il Concilio: “La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico” (GS, 76). Forse un po’ più di chiarezza, da parte di tutti, non guasterebbe.

Come si pone la CEI nei confronti di ‘Insieme’? 
Che io sappia non ci sono stati pronunciamenti ufficiali in materia.

Insieme si ispira alla ‘dottrina sociale della chiesa’. Le chiedo: la ‘dottrina sociale’ ha bisogno di un partito?
Si tratta di una scelta storica e concreta che spetta all’autonomia dei laici cattolici di organizzarsi nella forma ritenuta più opportuna per testimoniare la fede. In nessuna di queste scelte possono dire di rappresentare la Chiesa; non a caso il Concilio precisa: “si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori” (GS, 76). Fatta questa debita distinzione bisogna chiedersi se le condizioni culturali, politiche, sociali ed economiche, come anche ecclesiali, del nostro Paese siano, per esempio, simili a quelle, che, nel secolo scorso, hanno portato prima alla fondazione del PPI di Sturzo e poi alla DC di De Gasperi. Secondo me no. Ma è una personalissima opinione.

“Insieme” però pone un problema: quello della rilevanza dei cattolici italiani in politica. Qual è, secondo lei, lo ‘stato dell’arte’ al riguardo?
La poca rilevanza dei cattolici in politica è certamente un fatto e un problema… ma non solo politico. E’ anche culturale, sociale, economico, istituzionale, sindacale e via dicendo. In altri termini si tratta di atteggiamenti che rientrano in quella che Paolo VI chiamava frattura tra “fede e vita” (EN, 29). La possiamo recuperare – anche in politica – solo nella misura in cui crediamo e ci formiamo alla luce del Vangelo che va annunciato a “tutta” la persona (nella suo essere fisico, intellettuale ed emotivo), a tutte le persone e in ogni ambiente, nessuno escluso.

Con quale strumento e stile può oggi un cattolico può essere efficace in politica
Lo ricorda papa Francesco nella Fratelli tutti: “L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici”. In sintesi: un cattolico maturo ha il dovere sacrosanto di formarsi, partecipare e assumere responsabilità nel mondo. Solo cosi avremo cattolici “efficaci”, autentici.

Ultima domanda: si farà il Sinodo della Chiesa italiana? Se si su quale tema? 
Lei ricorderà che i temi li ha indicati il papa sollecitando più volte l’apertura del Sinodo e legandolo alla riflessione sulla “Evangelii gaudium”. Sono temi che riguardano la comunità cattolica sia al suo interno che nel rapporto con il mondo. Si farà? Non so. Me lo auguro vivamente. Finora non sono note né date né indicazioni sulle procedure – ci auguriamo sinodali e dal basso – per farlo partire. Speriamo bene!