“Gli ultimi saranno i primi”. Intervista a Dominique Lapierre

Tutto quello che non viene donato va perduto” così insegna Madre Teresa di Calcutta. E’ questo è anche il messaggio di un suo grande “allievo” : Dominique Lapierre. Lapierre è stato un grande giornalista, inviato di guerra per “Paris Match” (dalla guerra di Corea alla guerra dei sei giorni, dalla Russia della “guerra fredda” agli Usa, fino alla “scoperta” dell’India poverissima della “Città della gioia”: la Calcutta di Madre Teresa. E qui avviene la svolta radicale della sua vita. Scrive un libro, “La Città della gioia”, che diventa un bestseller mondiale (12 milioni di copie vendute) e gli da molta notorietà. Continua a leggere

Sandro Pertini: la passione e l’onestà della politica

Sono passati ventidue anni dalla morte di Sandro Pertini (avvenuta il 24
febbraio del 1990 a Roma). In occasione di questo anniversario, e di quello di
Tangentopoli, la casa editrice Chiarelettere pubblica un prezioso “Istant Book”,
una bella antologia di scritti politici (che copre un ampio periodo storico: dalla
Resistenza alla Presidenza della Repubblica), dal titolo emblematico: La politica
delle mani pulite (pagg. 100, € 7,00). Il volume è curato dall’ex magistrato
Mario Almerighi, uno di quei, allora, giovani magistrati che indagarono, nella
seconda metà degli anni ’70, sul così detto “scandalo dei petroli” (ovvero sul
sistema corrotto di tangenti che le multinazionali del petrolio, insieme ai petrolieri
italiani, avevano pagato ai partiti di governo, pari al 5% dei vantaggi conseguenti
all’approvazione di provvedimenti legislativi in loro favore).

A leggere queste pagine si respira un’aria antica di passione politica coniugata da
un grande rigore morale. Non per niente il settennato di Pertini al Quirinale, per
il suo stile fatto di rigore costituzionale e umanità, è ancora vivo nella memoria
degli italiani.

La Presidenza di Pertini, il primo socialista a ricoprire quell’incarico, sono
coincisi con gli anni più tormentati della prima Repubblica (divenne Presidente
della Repubblica nel Luglio del 1978, appena due mesi dopo l’omicidio di Aldo
Moro, vennero poi i giorni della lista della loggia massonica P2, del terremoto
dell’Irpinia e lo scandalo del post-terremoto. Qui si consumò un vero e proprio
assalto deleterio alla finanza pubblica).

Si potrebbe, senza dubbio, affermare che l’opera di Pertini è stata una
declinazione rigorosa del legame necessario tra legalità e democrazia. Nessun
vuoto formalismo ispirava lo stile di Pertini. Il rigore morale era la conseguenza
dei suoi valori umani e politici:

“Amici miei – affermava Pertini – io non resto un minuto di più su questa sedia
se la mia coscienza si ribella. Non accetterò mai di diventare il complice di coloro
che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione”,
e concludeva con un monito: “la corruzione è nemica della democrazia”. Parole,
allora, inascoltate. E parole anche oggi attuali.

La “politica delle mani pulite” di Pertini, quindi, non era moralismo ma era
l’inveramento di quei valori centrati sulla Resistenza e sulla Carta Costituzionale.

La sua adesione al socialismo non aveva nulla di ideologico, nel senso deteriore del
termine, anzi! In una intervista, data a Enzo Biagi, affermava: “Per me il socialismo è
soprattutto l’esaltazione della dignità umana, della dignità del singolo. Quindi si sintetizza
in due istanze: la libertà e la giustizia sociale. Ma soprattutto la libertà: la mia e quella
dell’avversario , cioè di tutti. Un concetto che m’insegnarono uomini come Filippo
Turati e Claudio Treves. Poi la giustizia sociale. Senza di essa, la libertà diventa una
conquista molto fragile e vuota”. Parole “antiche”, certamente, come “antico” era il sogno
di Pertini di una Europa unita, nel solco dell’insegnamento di Altiero Spinelli, federale.

Europa come “patria della memoria”, come “fattore di equilibrio planetario e strumento
di coesione nel tormentato mondo attuale”.

Rigore morale e umanità è la lezione di Pertini. Per questo l’irruente Sandro torna a
parlarci anche oggi.

Tangentopoli: la vittoria del “gattopardo”? Intervista a Marco Damilano

Tra qualche giorno, precisamente il 17 febbraio, si compirà il ventennale di “Tangentopoli”. Su quella stagione i giudizi sono contrastanti: c’è chi dice, ipocritamente, che erano i giorni del “Terrore” (per via delle carcerazioni),  e c’è, invece, chi afferma che è stata una “rivoluzione”. Tra questi antipodi c’è spazio per una riflessione più articolata. Un punto però è acquisito: in quei giorni, crolla un sistema ormai esausto incapace di rinnovarsi. Di tutto questo parliamo con Marco Damilano, cronista politico di punta dell’Espresso, autore del libro, appena uscito in libreria, “Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica” (Ed. Laterza, pagg. 328 € 18,00). Continua a leggere

La frugalità felice. Intervista a Serge Latouche

Serge Latouche, professore emerito all’Università di Parigi, è il “profeta” della teoria della “decrescita felice”. Il suo è un pensiero “alternativo”, critico dell’ideologia dominante di stampo ultraliberista. Certo le sue sono tesi provocatorie, però fanno riflettere sugli effetti devastanti del “pensiero unico” e sulla follia consumistica. La casa editrice Boringhieri ha pubblicato il suo ultimo libro: Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita.

Professore, la crisi che stiamo vivendo, ormai da troppo tempo,   ha messo in discussione un modello di “sviluppo” centrato sulla crescita. Lei afferma che “l’unica via all’abbondanza è la frugalità”. Non è contraddittorio?

Sembra una contraddizione, anche un ossimoro, perché abbiamo ancora il “software” della crescita. Siamo totalmente colonizzati dall’ideologia della crescita. L’ideologia ci ha fatto credere che viviamo in una “società dell’abbondanza”,infatti non viviamo in una società dell’abbondanza  ma, invece,siamo in una società di scarsità. La società dei consumi è una società della frustrazione  perché dobbiamo sempre consumare. Questo lo sanno bene i pubblicitari. Dobbiamo sempre essere scontenti di ciò che abbiamo per desiderare ciò che non abbiamo e per consumare sempre di più. L’unica possibilità per riconoscere l’abbondanza è di limitare i nostri bisogni e desideri, questa si chiama frugalità. Se siamo frugali allora possiamo soddisfare i nostri bisogni. L’ha spiegato bene il grande antropologo americano Marshall Sahlins nel libro “Economia dell’età della pietra”. Per lui l’unica società dell’abbondanza è quella dei cacciatori del paleolitico, perché con una attività di due o tre ore al giorno potevano soddisfare i loro bisogni e dedicare il resto del tempo alla festa, al gioco, all’ozio.

Eppure di fronte a questa crisi i governi occidentali continuano ad affermare, l’ultimo vertice europeo di Bruxelles ne è la conferma, che bisogna puntare sulla crescita (specialmente per economie gravate da un forte debito pubblico come quella   italiana). Quali sono i limiti di questo paradigma?

Puntare sulla crescita per uscire dalla crisi è una stupidità e mostruosità. Una stupidità perché da molti anni la crescita che conosciamo con un tasso del -2% e anche -3% non crea più posti di lavoro. Per creare dei posti di lavoro ci vorrebbe una crescita del 4% o del 5% oggi non è né possibile né auspicabile perché distrugge troppo l’ambiente. Non possiamo più consumare ancora macchine, macchine, non è possibile. E’, poi, una mostruosità perché con la crescita siamo arrivati ai limiti dell’ecosistema, la crescita distrugge ancora più velocemente il pianeta. Siamo già nei guai con il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la fine del petrolio, ecc.

Esiste una alternativa al “Turbocapitalismo” finanziario? Se si, su quali basi?

Si l’alternativa è la “società della decrescita” o dell’abbondanza frugale. Per costruire questa alternativa si deve, naturalmente, uscire dal capitalismo, da questa logica distruttiva del produrre sempre di più per consumare sempre di più, generare sempre più rifiuti e distruggere sempre più velocemente il pianeta.

I suoi critici affermano le sue sono “utopie antimoderne” e “tecnofobe”. Come risponde a questa critica?

Sicuramente siamo contro una certa modernità o contro gli eccessi della modernità, non siamo contro il messaggio iniziale della modernità che era quello di una cemancipazione, ma invece di emanciparsi la modernità ci ha resi servi dei mercati finanziari, invece di renderci “autonomi” ci ha reso “eteronomi”. Siamo ora “sottomessi”, basta vedere l’esempio della Grecia anche a loro è stato proibito di fare un referendum sulla politica dell’austerità, Siamo contro questa tecnoscienza pilotata dalle multinazionali, vogliamo un’altra scienza meno aggressiva (meno prometeica) più ecologica e una tecnologia che sia sottomessa alla decisione che le scelte tecniche siano fatte non dalle multinazionali ma dal popolo. Naturalmente per costruire la “società della decrescita” abbiamo delle tecniche, ma dobbiamo usare delle tecniche diverse: bisogna sviluppare la “medicina ambientalista”, l’ecologia, riciclare per ridurre il consumo delle risorse naturali, ecc. Ci sono tante ricerche da fare.

Parliamo della politica. E’ vero, secondo Lei, che viviamo in una “postdemocrazia”?

“Postdemocrazia” è un termine usato dal politologo inglese Colin Crouch. Sono d’accordo non viviamo più da molto tempo in una democrazia. Lui definisce la “postdemocrazia” una democrazia manipolata dai media e dalle “lobbies” e questo è sempre più verificato. Sono questi che fanno la politica non solo negli Usa ma anche da noi.

Quello che lei propone è una “rivoluzione antropologica”. Quindi una ridefinizione dei valori della nostra società. Cosa metterebbe al primo posto per l’inizio di questa  “rivoluzione”?

E’ difficile a livello teorico, naturalmente si tratta di una rivoluzione culturale, invece della guerra di tutti contro tutti che è la concorrenza, si deve mettere la cooperazione, la natura, nel senso di vivere in armonia. A livello concreto penso che la prima cosa da fare sia “rilocalizzare” non solo l’economia ma anche ritrovare il senso del “locale” che significa al medesimo tempo “demondializzare” e soprattutto “demercificare”, contro questo movimento di mercificazione del mondo.

Ce la farà la sinistra europea a rinnovare il cammino dell’Europa?

Purtroppo non c’è speranza. Anche la sinistra, quella dominante, ha bisogno di una “rivoluzione”. La speranza viene dall’Italia perché con le liste civiche, i movimenti della società civile – come a Napoli e Milano – che sono fuori dai partiti hanno indicato una strada che mi sembra va da nel buon senso per cambiare le cose.

Le tre “rivoluzioni interrotte” del Novecento

Costituzione repubblicana del ’48, Concilio Vaticano II e sessantotto. Questi sono, per Raniero La Valle (grande giornalista cattolico, ed  ex direttore dell’Avvenire d’Italia), i momenti  cardini del “grande secolo” Novecento.

Così in questo volume, dal titolo emblematico “Quel nostro novecento”, uscito per i tipi di “Ponte alle Grazie” (pagg. 194  € 12,00),  l’autore racconta il “suo” novecento,  attraverso una “lectio discipularis” (termine contrapposto a “magistralis”) , che interseca la grande storia del secolo scorso. Secolo grande e terribile che “ha prodotto i totalitarismi e il nuovo costituzionalismo, che ha fatto le più grandi guerre e ha dato fondamento alla pace, che ha inventato la bomba atomica e la dottrina della non violenza, che ha perpetrato la Shoah, ha compiuto genocidi e ha visto popoli insorgere e liberarsi”.

La storia personale, dicevamo, interseca quella grande. Il “suo” Novecento inizia con il fascismo, quello delle leggi razziali, dell’occupazione nazista di Roma, la vita di stenti a causa della guerra, la Resistenza (rievocata attraverso la storia di due grandi figure femminili: Teresa Mattei –deputata comunista alla Costituente – e Tina Anselmi – partigiana democristiana e coraggiosa Presidente della Commissione d’inchiesta sulla P2 (senza il suo impegno di contrasto la P2 avrebbe imperversato per chissà quanto tempo nel  nostro Paese, producendo danni ancora maggiori di quelli che ha prodotto). Dalla  resistenza nasce la Costituzione repubblicana del ’48, quest’ultima si inserisce nel grande alveo del  Costituzionalismo democratico (esempio massimo è la Carta dei diritti dell’uomo dell’Onu). In questo ambito avviene il capovolgimento radicale sul fronte della Pace (“L’Italia ripudia la guerra”), e dell’uguaglianza (“La Repubblica s’impegna  a rimuovere gli ostacoli..”). Principi . sempre validi ma mai raggiunti in modo definitivo. In questo senso la Costituzione è una rivoluzione interrotta. Certo, c’è da sottolineare, che la politica italiana di questo ultimo decennio non ha brillato per fedeltà alla Costituzione.

Poi venne il Concilio Vaticano II. Per la Valle si tratta della seconda, decisiva, rivoluzione avvenuta nel  Novecento. E “benché oggi molti si ostinano a dire che il Concilio non ha cambiato niente, o che deve essere interpretato secondo un’ermeneutica dell’invarianza, la Chiesa e il suo annuncio di Fede ne sono usciti trasformati”. Ma non è solo una questione “ermeneutica” il Concilio non solo ha riconciliato la Chiesa con il mondo, ma anche “l’uomo con gli uomini e le donne quali noi siamo”. Ma anche questa rivoluzione ben presto s’interrompe. E La Valle, come esempio, ricorda la chiusura dell’esperienza del quotidiano bolognese “L’Avvenire d’Italia” (quotidiano che ha informato la cattolicità italiana sul Concilio facendosene interprete autorevole).

Infine il terzo avvenimento: il ’68. Per l’autore segna un ‘epoca. “Dopo la rivoluzione del diritto, dopo la conversione del linguaggio della fede, venne con il ’68 la rivoluzione della vita quotidiana, l’esplodere dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia. Il 68 avrebbe dovuto essere letto come un segno dei tempi; ma così non fu letto né dalla Chiesa, né dai partiti e perciò non poté sprigionare tutte le sue energie”. Insomma per La Valle il 68 è “stato l’utopia dell’amore come alternativa al potere”. Quella stagione, comunque, non è stata solo “movimentismo”. Si ricordano gli sforzi di Aldo Moro per il rinnovamento della Dc, il dialogo tra cattolici e comunisti (che sfocia nella nascita della Sinistra Indipendente che portò a risultati legislativi interessanti, certo la gerarchia lanciò i suoi “fulmini”). Con la morte di Moro morirono la Dc e il Pci, e quindi la speranza di una democrazia compiuta (ovvero la speranza di dare un corso diverso alla storia del mondo occidentale).  A finire non era solo l’utopia comunista, ma anche il sogno di una democrazia realizzata dove la politica moderasse l’economia, il costituzionalismo garantisse i diritti e tenesse entro limiti invalicabili il potere, la giustizia fosse realizzata, e le Repubbliche togliessero gli ostacoli alla pieno sviluppo della persona umana. “Il Novecento finì così con una sconfitta. Non vinse né il socialismo né il costituzionalismo liberale”. Anzi sul piano internazionale fu il trionfo della guerra. Ma nel Novecento, conclude l’autore,  “restano, insieme a molti altri doni, quelle tre grandi cose che furono la Costituzione, Il Concilio e il ’68. Ma nessuna di queste cose potrà sopravvivere se non viene assunta con amore, così come per amore sono ste compiute”. Quindi non “altarini” per le giovani generazioni ma concrete vie di speranza per l’umanità.