Lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi: “Fare tutto quello che è necessario per la salute delle persone”.

Vaccinazione Covid-19 (Ansa)

Di seguito pubblichiamo l’appello di tre importanti esperti in salute pubblica, italiani ed europei, al Presidente Mario Draghi affinché l’Italia e l’Europa si impegnino a garantire l’accesso dei Paesi poveri ai vaccini derogando ai diritti di proprietà intellettuale. Gli autori dell’appello sono : Rosi Bindi, già ministro della salute, Nicoletta Dentico, della Society for International Devolopment e Silvio Garattini, Presidente dell’Istituto Mario Negri.

Esattamente un anno fa, a Codogno, la dottoressa Anna Malara decideva di assumersi la responsabilità di forzare i protocolli medici e fare il test diagnostico a Mattia Maestri,  intercettando così per la prima volta la presenza del virus SARS-CoV-2 in Italia. Di lì a poche settimane, la Lombardia sarebbe divenuta una delle aree clinicamente più colpite nella storia di COVI-19, e il nostro paese l’epicentro del virus a livello mondiale.

In tempi di pandemia occorre sempre sforzarsi di prevedere cosa possa succedere in futuro in rapporto con il peggior scenario possibile. Solo in questo modo è realistico avere un minimo di preparazione per affrontare i problemi. In Europa stiamo sperimentando i ritardi che non ci permettono di effettuare con tempestività l’utilizzo dei vaccini per realizzare l’immunità di popolazione perché non abbiamo produzioni autonome e dipendiamo da sorgenti estere che hanno interessi nazionalistici ed economici che non possiamo controllare. Una condizione che molte popolazioni del sud del mondo conoscono fin troppo bene. Ci troviamo evidentemente di fronte a una congiuntura mai sperimentata prima. Al netto dei numerosi errori commessi nella conduzione delle trattative con le case farmaceutiche da parte della Commissione Europea, e riconosciuti dalla presidente Von der Leyen, sfornare vaccini in quantità dell’ordine di centinaia di milioni di dosi in poche settimane o mesi, possibilmente a un ritmo tale da precedere eventuali ulteriori mutazioni del virus, è tutt’altro che scontato. Sia da un punto di vista tecnico, inerente al ciclo di realizzazione dei vaccini. Sia perché la produzione è concentrata nelle mani di pochissime case farmaceutiche. Si impone all’Europa riunita nel Consiglio europeo una seria riflessione sulla visione nel campo della salute e delle politiche farmaceutiche, non solo per far fronte all’attuale pandemia ma anche alle eventuali future crisi sanitarie – basti pensare alla resistenza dei batteri agli antibiotici, una pandemia silente con una mortalità annuale di circa 30.000 in Europa, un terzo delle quali solo in Italia.

Ma torniamo a SARS-CoV-2. Lo scenario che si prospetta è incerto ma si può prevedere che il virus continui a circolare nei Paesi ad alto reddito per almeno tutto il 2021, e per alcuni anni continui ad essere presente nei Paesi a basso reddito che non hanno a disposizione il vaccino. Una disuguaglianza urticante sotto il profilo epidemiologico, che i paesi ricchi non hanno ancora compreso. E poi c’è lo sviluppo di mutazioni del virus che comportano la circolazione di “varianti” più contagiose, una sorta di pandemia nella pandemia che può determinare una ridotta o completa insensibilità ad alcuni degli attuali e futuri vaccini.  Queste prospettive richiedono una nuova e urgente attenzione da parte dell’Europa alla necessità di essere parte attiva nella produzione di vaccini anti SARS-CoV-2. Usando appieno tutti gli spazi normativi esistenti, occorre uscire da false sicurezze e porre in atto un programma per realizzare nuovi stabilimenti e ampliare quelli esistenti, in Italia e negli altri paesi europei, sotto l’egida di una gestione strategica pubblica. Nel contempo, occorre acquisire tutte le conoscenze scientifiche che servono per riuscire a organizzare e diffondere quanto più possibile una risposta adeguata alla pandemia. Non c’è tempo da perdere. Nel Consiglio europeo è possibile far avanzare la nuova consapevolezza di sé che l’Europa ha sviluppato con questo virus, pedagogo irriducibile ma razionale.

In una lettera aperta pubblicata di recente sulla rivista medica The Lancet un gruppo di esperti in salute pubblica afferma che “la pandemia di COVID-19 non avrà fine finché non ci sarà un programma rapido di vaccinazione su scala globale per proteggere dalle forme gravi della malattia e preferibilmente puntare alla immunità di gregge”. L’Europa a questo punto deve spiegare a quale sottile forma di darwinismo politico e sanitario si ispira l’insistente opposizione alla richiesta di India e Sudafrica – in discussione da ottobre all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) – di derogare ai diritti di proprietà intellettuale (IP Waiver) durante la gestione della pandemia. La proposta, perfettamente legale ai sensi della Convenzione di Marrakesh con cui è stata creata l’Omc, gode di un crescente consenso, man mano che si avvicina il termine per la decisione finale al Consiglio generale, il 1 e 2 marzo. Oltre cento stati membri si sono pronunciati a favore – ultimi, in ordine di tempo, i paesi del gruppo africano – e così hanno fatto alcune agenzie dell’Onu (Oms e Unaids), i rapporteur speciali delle Nazioni Unite, economisti del calibro di Joseph Stiglitz e Mariana Mazzuccato. Il 5 febbraio un gruppo di parlamentari europei è uscito allo scoperto per sostenere questa strategia, insieme alla campagna Diritto alle cure. Nessun profitto sulla pandemia.  Sulla scia di un appello lanciato a novembre da oltre 400 organizzazioni della società civile internazionale, il 16 febbraio il sud globale si è rivolto all’occidente, perché i paesi ricchi permettano di estendere e facilitare l’accesso alla conoscenza scientifica disponibile, largamente finanziata dal settore pubblico nel caso di COVID-19, per fermare il virus.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale non riguarda evidentemente solo i vaccini, ma permetterebbe di diffondere l’accesso alla ricerca scientifica anche per la riproduzione e ideazione di dispositivi medicali indispensabili contro COVID, e per la ricerca nel campo delle terapie necessarie alla gestione dei pazienti, come abbiamo visto nelle corsie ospedaliere di tutto il mondo. A chi sostiene che la proprietà intellettuale non sia un problema, ricordiamo che le piattaforme tecnologiche per lo sviluppo dei vaccini contro COVID-19 sono state usate in precedenza per altri vaccini e sono blindate dai brevetti – più di 100 solo per la tecnologia mRNA. Almeno due brevetti coprono il vettore adenovirale recombinante e il metodo di composizione del vaccino Oxford/AstraZeneca, che è stato richiesto in almeno 13 giurisdizioni, con scadenza nel maggio 2037, o nel migliore dei casi nel 2031. Nel campo dei diagnostici, il Sudafrica ha avuto seri problemi per procurarsi i reagenti chimici (test cartridge) dei dispositivi GeneXpert a causa della azienda Cepheid, proprietaria delle macchine e dei reagenti. All’inizio della pandemia la svizzera Roche si rifiutò di accogliere la richiesta dell’Olanda di pubblicare le istruzioni per la preparazione dei reagenti chimici necessari alla produzione dei kit diagnostici, e dovette cedere solo dopo l’intervento della Commissione Europea. A Brescia, i giovani ri-produttori con la stampante in 3D della valvola necessaria a un ventilatore che ha salvato la vita a 10 pazienti hanno ricevuto minacce di denuncia per violazione di brevetto dalla azienda Techdirt, proprietaria del ventilatore che costa sul mercato 11.000 dollari. Sono esempi che ci fanno capire una cosa importante: la deroga ai brevetti serve al nord del mondo, non solo alle imprese localizzate nei paesi del sud globale.

Il nuovo coronavirus ha segnato il corso della storia europea, che ha scelto anch’essa di forzare le regole di cui si era dotata per interromperne la applicazione, riconosciuta come inefficace nel contesto della pandemia. E’ avvenuto con la sospensione del Patto di Stabilità. Il Consiglio europeo riunito in questi giorni può fare la differenza sospendendo le regole dell’Omc, inefficienti a contrastare una pandemia come non si è mai vista prima nella storia.

La dottoressa Malara ebbe a dire che  “l’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che hanno permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. Oggi, l’Europa ha la possibilità di bloccare il “virus dell’individualismo radicale” di cui parla Papa Francesco e impedire che la legge del mercato e dei brevetti abbia la precedenza sulla salute dell’umanità. Quanto a Lei, Presidente, nel suo primo discorso al Senato ha ricordato che l’espressione più alta della politica è quella di saper tradurre i tempi difficili “in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili”. Faccia valere oggi questa responsabilità, con l’autorevolezza che ha saputo dimostrare in altre difficili congiunture internazionali.  Whatever it takes. Per la vita delle persone, e non solo della moneta.

 

Rosy Bindi, già Ministra della Salute

Nicoletta Dentico, Society for International Development 

Silvio Garattini, farmacologo, presidente e fondatore dell’Istituto Mario Negri

Con Draghi il lavoro torna al centro della politica, in Italia e in Europa. Intervista a Giuseppe Sabella

Subito dopo l’ampia fiducia che si è guadagnato presentando il suo governo al Parlamento, al Premier Mario Draghi è toccato il primo appuntamento internazionale: al G7 – tenutosi in videoconferenza e convocato dal Primo Ministro inglese Boris Johnson – c’era anche Joe Biden, oltre ai leader di Francia, Germania, Canada e Giappone. Presenti anche Ursula von der Leyen e Charles Michel, rispettivamente per la Commissione e per il Consiglio Europeo. Si è discusso in particolare di pandemia e vaccini. Ma anche di clima, di G20 e di sviluppo. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella.

Sabella, la pandemia sembra aver creato nuovi equilibri nella globalizzazione. E a ciò contribuisce sicuramente l’esito delle recenti elezioni americane. Per citare parole di quel grande intellettuale che è Giulio Sapelli, “dove va il mondo?”

Anzitutto, il mondo in questa fase è chiamato a delineare una strategia comune che ci porti fuori dall’emergenza sanitaria. Questo è stato uno dei punti chiave del G7 di ieri. Inoltre, dal 2017 il commercio mondiale ha subito un potente rallentamento e ha generato condizioni per mercati sempre più regionalizzati – Europa, USA e Asia – in prossimità di quelle che sono le grandi piattaforme produttive, appunto Europa, USA e Cina. Ai dazi dell’amministrazione Trump, la UE ha risposto col suo Green New Deal, ovvero con un programma che oltre a innovare l’industria vuole consolidare il mercato interno, per il momento ancora senza forme di protezionismo diretto che non è escluso vi saranno in futuro. Naturalmente, la pandemia ha accelerato questo processo e la UE ha così rafforzato le sue misure di intervento creando il più ampio Recovery Fund o Next Generation EU. Nel frattempo, Biden riporta gli USA dentro gli accordi di Parigi (da ieri è ufficiale), la UE negozia con la Cina un accordo commerciale importante e a Davos Angela Merkel attacca Xi Jinping per la gestione poco trasparente del covid-19; e non dimentichiamo che la Germania è il più importante partner commerciale della Cina. In sintesi: siamo all’inizio di un nuovo multilateralismo che vede un riavvicinamento importante di Europa e USA. Lo stesso Draghi, nel suo discorso alle Camere, si è richiamato in modo netto ai valori dell’atlantismo.

Considerando che a maggio 2021 proprio in Italia vi sarà il G20, qual è il ruolo che potrà recitare il nostro Paese dentro questo nuovo multilateralismo?

Come dicevo, il mondo si sta riconfigurando a partire dalla capacità produttiva delle singole macroregioni. Questa è una cosa importantissima, significa restituire centralità al lavoro dopo trent’anni in cui al centro dell’agenda politica vi erano scambi e finanza. Venendo a noi, l’Italia è non solo il secondo Paese manifatturiero in Europa ma è anche fortemente integrata con la grande piattaforma tedesca, cuore dell’industria europea. Direi che con i 209 miliardi del Recovery Fund possiamo fare cose importanti. Consideriamo anche il fatto che Angela Merkel sta uscendo di scena e la leadership di Mario Draghi sarà importante non solo in casa nostra ma anche in Europa. E già lo è stata, non solo negli anni in cui era Presidente della BCE. In sintesi, l’Italia da fanalino di coda può ritrovarsi a recitare un ruolo egemone in Europa che significa nel mondo. Cosa possiamo portare noi italiani all’interno del nuovo multilateralismo? Per richiamarci alle 5 P dello sviluppo sostenibile, direi in particolare persone, pace e pianeta, valori che sono inequivocabilmente usciti dai primi discorsi istituzionali di Mario Draghi,

A cosa si riferisce quando allude alla leadership di Draghi?

Mario Draghi sta contribuendo al cambiamento dell’Europa. In primis, se esiste il Quantitative Easing, dobbiamo dire grazie a lui. Non dimentichiamoci che a suo tempo, Draghi aveva contro Wolfgang Schäuble e gran parte dell’establishment europeo. E la recente sentenza della Corte di Karlsruhe – che contesta fortemente il QE – è la reazione di una parte di quell’establishment che in Germania ha sempre avuto importanti fondamenta. Questo ci dice anche quanto Angela Merkel sia stata molto abile nel portare la Germania al fianco dei Paesi del sud Europa nella trattativa sul Recovery Fund. Inoltre, proprio Mario Draghi il 25 marzo 2020 pubblicava un editoriale sul Financial Times in cui spiegava che per rispondere all’evento epocale della pandemia non restava altra soluzione che il debito. Il giorno dopo, 26 marzo, si riuniva l’eurogruppo che, in tre mesi, è giunto all’accordo del Next Generation EU. Un grande risultato che cambia l’Europa e le sue politiche economiche, superando l’austerity. E, ancora una volta, Draghi è uno degli artefici del cambiamento.

Ma l’Italia riuscirà realmente a far ripartire l’economia?

Ora o mai più. Consideriamo però che dopo lo shock dei mesi di marzo e aprile 2020, il terzo e quarto trimestre per l’Italia hanno voluto dire tra i livelli migliori di produzione industriale in Europa. Certo, abbiamo una parte del Paese che è ferma, mi riferisco in particolare alla polveriera della microimpresa. Vi è ancora il blocco dei licenziamenti, al momento prorogato fino a luglio, che non può durare in eterno. Draghi si è già pronunciato abbastanza esplicitamente: serve una strategia di sostegno all’impresa, ma non si può sostenere indistintamente ogni azienda. Ve ne sono alcune che non hanno futuro, dai grandi casi ai casi meno grandi. Non possiamo lasciare sole le persone, la rete delle protezioni e delle politiche del lavoro (attive in particolare) deve funzionare al massimo; è però venuto il momento di distinguere le good companies dalle bad companies. I lavoratori possono essere riqualificati e orientati verso nuovi investimenti. È necessario però che il sistema lavori nella medesima direzione.

Da questo punto di vista, i sindacati hanno mandato segnali interessanti. Saranno realmente capaci di collaborare con il governo in questa complessa transizione?

Nel sindacato sanno che non si può andare avanti con il blocco dei licenziamenti ad libitum. È importante che le Parti sociali siano coinvolte nel progettare gli investimenti per lo sviluppo: non a caso, ieri Landini ha detto che serve un confronto imprese-sindacati sul futuro. Ciò significa progettare la transizione, le nuove competenze, le nuove protezioni sociali, rafforzare la presenza di giovani e donne nel mercato del lavoro, raccordare sempre di più istruzione-lavoro e rendere la pubblica amministrazione più capace di essere eco-sistema, ovvero partner dello sviluppo. È necessario conciliare innovazione e giustizia sociale, anche per evitare nuove forme di disgregazione. E poi, il Paese va riformato partendo soprattutto dalle sue infrastrutture, di cui la burocrazia è parte essenziale.

A proposito di riforme, quali saranno le priorità del governo Draghi?

Al di là delle parole e della retorica – che sono comunque fondamentali per governare – quando Draghi dice “sarà un esecutivo ambientalista” è chiaro che non dobbiamo intenderlo come lo potrebbe intendere un attivista dei Fridays for future. Qual è il punto? Che la lotta al climate change, che contraddistingue la spinta europea dentro il multilateralismo nascente, si fa attraverso l’innovazione tecnologica, digitale ed energetica. Non a caso vi è il Ministero per la Transizione ecologica alla cui guida è stato chiamato Roberto Cingolani, manager di Leonardo e responsabile dell’Innovazione tecnologica del gruppo, che guiderà anche un costituendo Comitato interministeriale per la Transizione ecologica. Ma lo stesso Enrico Giovannini a capo delle Infrastrutture è un segnale che questo governo vuole modernizzare il Paese. E modernizzazione è sinonimo di sostenibilità. Vedremo quindi come saranno affrontati i gangli storici di giustizia e fisco, ma sono convinto che questo governo farà qualcosa di importante per quanto riguarda le reti infrastrutturali, condizione per rendere più produttiva la nostra manifattura, cuore della nostra economia.

Per tornare alla nostra industria, che consiglio darebbe al neoministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti?

Al Mise vi sono oltre 100 crisi aziendali da risolvere. E, come dicevo, il blocco dei licenziamenti prima o poi finirà e renderà più sensibile questo numero. Io direi a Giorgetti di condividere una linea di intervento insieme alle Parti sociali, in modo tale che si possa gestire ciascuna crisi con dei criteri di azione a monte. Non solo, insieme alle Parti sociali andrei a individuare quali sono player e segmenti di mercato in grado di generare sviluppo, che significa occupazione e nuove competenze. La componentistica, la meccanica di precisione, il chimico, il farmaceutico e l’energia sono i comparti che ci faranno vedere le cose più interessanti, in particolare per la grande rivoluzione dell’energia e della mobilità. In particolare nella mobilità, l’Europa – e soprattutto Germania, Francia e Italia – saranno protagoniste del cambiamento: l’operazione Stellantis va letta in questo senso. Siamo all’inizio di un mondo nuovo, dobbiamo consolidarne le fondamenta.

CIAO FRANCO! IL MIO RICORDO DI FRANCO MARINI

Franco Marini (GettyImages)

Questa mattina è morto Franco Marini. Politico e sindacalista, aveva 87 anni. Segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e poi ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano ed europarlamentare. Marini è morto per complicazioni legate al Covid.

A inizio gennaio era risultato positivo al coronavirus e ricoverato all’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. La notizia della scomparsa è stata data con un tweet da un altro esponente di lungo corso dei Popolari, Pierluigi Castagnetti che ha ricordato l’amico come “uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera”. Di seguito un piccolo ricordo personale.

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La “politica” sui vaccini della UE. Intervista a Nicoletta Dentico

Come sta andando la “politica” contrattuale sui vaccini della UE? Quali sono stati i limiti della gestione? Come giudicare il comportamento di “Big Pharma”? Come risolvere la questione dei brevetti? Ne parliamo con Nicoletta Dentico,

giornalista, esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo diversi anni di lavoro con la radiotelevisione giapponese NHK, dal 1993 ha guidato in Italia la Campagna per la Messa al Bando delle Mine, premio Nobel per la Pace nel 1997.

Dal 1999 ha diretto Medici Senza Frontiere (MSF), lanciando la mobilitazione per lAccesso ai Farmaci Essenziali, il dibattito sullazione umanitaria e poi le operazioni di MSF sui migranti nel sud dItalia. Dal 2005, ha coordinato con la Commissione Diritti Umani del Senato le attività di ricerca volte alla redazione del primo Libro Bianco sui Centri di Permanenza Temporanea ed Accoglienza (CPTA), lanciato nel 2008.

Nicoletta, ormai siamo a un anno di pandemia. Un virus che ha sconvolto tutto. Attualmente sono più di 100 milioni di persone sono contagiate e oltre 2 milioni sono state le vittime. Senza contare gli enormi costi Economici. Una pandemia devastante. Rispetto ad un anno fa, grazie alla scienza, abbiamo un arma che potrà aiutarci a sconfiggere : i 4, per ora, vaccini anticovid (fra poco arriva anche J&J) (in realtà sono 8 se aggiungiamo quello russo e i tre vaccini cinesi, che tuttavia non sono ancora stati validati dalle agenzie regolatorie occidentali – FDA edEMA) . Allora come prima domanda voglio chiederti: la pandemia sta cambiando in positivo l’UE, vedi il recovery fund, e sul fronte del contrasto al virus sta nascendo, con fatica, una risposta comune. È così?

Certamente Covid19, come tutte le epidemie della storia umana, cambia la storia, e nella fattispecie è destinato a cambiare profondamente l’Europa, la percezione che il nostro continente ha di sè. Sia come agglomerato di popoli diversi ma vicini, sia come assetto istituzionale. Covid19 ha potuto scuotere e riorientare l’Unione Europea come nemmeno la crisi finanziaria del 2008, che pure si abbattè su questa parte del pianeta con effetti traumatizzanti, è riuscita a fare. La disarmante fragilità dei nostri paesi di fronte all’ondata funesta del contagio  ha scatenato l’auspicabile ma in fondo inattesa tonicità di risposta delle istituzioni europee, dopo il primo shock. Certo, una potrebbe obiettare che c’è voluto un virus che attacca il respiro per direzionare le istituzioni europee in un direzione politica meno asfittica, dopo feroci somministrazioni di misure di austerity. Ma finalmente l’Europa grazie al virus ha acquisito una più sana consapevolezza di sè. Non è banale che il punto di svolta sia stato il corteo di camion militari che partivano da Bergamo con le bare nella notte, a far cambiare l’orientamento iniziale – da questo senso di totale baratro, che non possiamo in alcun modo rimuovere, possiamo ripartire con una nuova consapevolezza. La condivisione del debito tra paesi, la possibilità di un piano di ripresa e resilienza che appartiene alle generazioni future, si tratta di grandi passi che sono stati fatti. Accanto ad alcuni incespicamenti sui quali si potrà e dovrà lavorare per il futuro, come la capacità di negoziare con il settore privato e la costruzione di una politica europea nel campo – assolutamente fondamentale e tuttora assente – di una politica europea sulla salute.

Approfondiamo un poco la “politica” nei confronti della ricerca, produzione e distribuzione dei vaccini.  Sappiamo che questa politica contrattuale della UE ha avuto dei limiti. Quali sono stati, secondo te, questi limiti?

Va ricordato prima di tutto che il finanziamento dei governi ha agito da leva essenziale per attivare la rotta senza precedenti della ricerca scientifica su Covid19. Insieme alle nuove tecnologie, i fondi pubblici hanno rivoluzionato gli studi clinici e permesso l’accelerazione dei processi scientifici. Un rapporto pubblicato dalla kENUP Foundation, una non profit europea che monitora la ricerca in ambito sanitario, rivela che in 11 mesi di ricerca farmaceutica su SARS-CoV-2 il settore pubblico ha investito 93 miliardi di dollari. Di questo colossale impegno finanziario il 95% è stato destinato ai vaccini – 86,5 miliardi di dollari – e il 5% ai farmaci e diagnostici. Il 32% degli investimenti è arrivato dagli USA (tramite l’operazione WARP Speed), e il 24% dall’Unione Europea (tramite la Commissione), il 13% dal Giappone e dalla Corea del Sud. Quindi possiamo dire che l’Europa ha fatto la parte del leone in questa strardinaria mobilitazione, scientifica e finanziaria. Quello che è successo, però, è che nella frenesia di far presto, i governi europei hanno operato nel solco di un incomprensibile laizzez faire nei confronti delle industrie, a cui pure erogavano montagne di denaro.  Non hanno posto clausole di trasparenza, né hanno fissato ex ante le caratteristiche di accesso al vaccino secondo criteri di salute pubblica, con uno sguardo rivolto oltre i paesi occidentali. Si sono assunti le responsabilità nel caso di eventi avversi. Non hanno negoziato le limitazioni commerciali di tempo e prezzo del regime pandemico. Hanno distinto il vaccino dai programmi di vaccinazione. Ma con il prodotto serve la negoziazione di una strategia adeguata di accesso alle vaccinazione, che implica condizioni e tempi di fornitura certi, in un’ottica di sanità pubblica. Chi e quando immunizzare, e in quale ordine di priorità (se la disponibilità del vaccino è limitata), sono decisioni da prendere via via sulla scorta di informazioni epidemiologiche e sulle proprietà del vaccino suscettibili di modifiche a seconda della evoluzione della malattia e della eventuale presenza di altri vaccini, in una dinamica e mai scontata valutazione dei rischi e benefici. Soprattutto in uno scenario di emergenza pandemica come quello che Covid19 ha imposto. Eppure, questi essenziali obiettivi di salute pubblica rischiano di perdersi per strada nella gara a chi arriva primo nella registrazione e consegna del vaccino, nella concorrenza a chi vaccina di più, nella scomposta pratica degli accordi bilaterali con le aziende per avere dosi aggiuntive ad hoc. Questi accordi li hanno fatti anche i paesi europei, come sappiamo.

Quello che ha colpito l’opinione pubblica è stata la segretezza delle clausole contrattuali. Per qualcuno, la vice presidente dell’istituto Bruno Leoni, la “riservatezza dei contratti è un valore nella produzione farmaceutica, e protegge il pagante, cioè lo Stato, sulla possibilità di negoziare al ribasso i prezzi senza farlo sapere ai concorrenti”. È corretto tutto  questo?

Ma è esattamente il contrario!!!! La riservatezza nel negoziato è una trappola che è costata ai governi una quantità gigantesca di soldi. Se ne sono accorti finalmente anche in sede OMS. Nel 2019 fu proprio l’Italia, grazie alla visione della ministra Grillo e dell’allora direttore dell’AIFA, Luca Li Bassi, a proporre alla comunità internazionale una risoluzione sulla trasparenza nei negoziati tra stati e imprese nel settore farmaceutico. Il dibattito in seno all’OMS su questo tema è stato molto istruttivo. I governi, come buoni investitori di lungo periodo, devono pretendere trasparenza sui contratti e i prezzi proposti dalle aziende, sui risultati completi degli studi clinici, sull’origine dei finanziamenti e sullo stato dei brevetti. Tutte queste informazioni sono decisive a istruire un sano negoziato. Viceversa, la trattativa segretata,  il “prezzo riservato di favore” che poi nessun governo può rivelare all’omologo, nella fallace convinzione di avere il prezzo migliore, ha costretto i governi a sperperare inutilmente un sacco di soldi e alle aziende di lucrare. Questa scellerata segretezza non viene concessa a nessun altro settore industriale. Perché l si fa con l’industria farmaceutica? Intanto il prezzo esorbitante dei farmaci, che venti anni fa colpiva i paesi in via di sviluppo, oggi è un problema globale. Ricordiamo bene la vicenda del farmaco Sofosbuvir contro l’Epatite C, che non solo in Italia ha sbancato i bilanci sanitari pubblici. Nel 2018 la Norvegia ha rifiutato la approvazione del 51% dei farmaci innovativi lanciati sul mercato, per via del loro prezzo esorbitante a fronte della scarsità di dati clinici.

Oggi, solo Svizzera e Giappone hanno sistemi di trasparenza in vigore. Nel resto del mondo è la giungla. Purtroppo, i negoziati europei con le aziende sono stati condotti con questo regime giunglesco di segretezza, come se la risoluzione dell’OMS non fosse mai stata approvata nel 2019. Non me ne capacito. E mi chiedo chi l’Europa abbia mandato a negoziare una partita così decisiva. Secondo quali competenze e criteri. Sarà opportuno fare luce. In fondo, stiamo parlando dei soldi dei cittadini europei, e soprattutto delle loro vite!

Che idea ti sei fatta sul ritardo delle consegne?

Io credo che il ritardo in parte sia giustificato, visto che le aziende hanno dovuto mettere in piedi in pochi mesi una catena di produzione e distribuzione piuttosto ambiziosa. Processi  che – di solito – richiedevano tempi molto più lunghi sono stato costipati in fondo in poche settimane. E su una scala produttiva di centinaia di migliaia di dosi…..Non è uno scherzo fare vaccini. Si tratta di processi complessi. La scalabilità si costruisce nel tempo. Mi chiedo però per quale motivo le aziende abbiano dal canto loro sottoscritto tempistiche di consegna obiettivamente così incalzanti, se non ne esistevano le condizioni. Faceva parte della loro strategia di comunicazione e di ricaduta finanziara? Era una questione di geopolitica industriale?

L’UE minaccia azioni legali per il ritardo delle consegne. Addirittura  il blocco delle esportazioni dei vaccini prodotti in Europa. Sono efficaci questo tipo di azioni? O ci sono altre vie?

Io non credo molto in queste azioni legali, soprattutto quando sono i singoli stati a minacciarle. Questa è una partita che si gioca in sede eurpea ma la minaccia di azioni legali non è il giusto deterrente; le aziende sono abituate a pagare multe anche salate per le loro spregiudicatezze, accantonano voci di bilancio cospicue per poi continuare a perseguire le loro lucrose politiche commerciali. Viceversa, il blocco delle esportazioni è una misura scellerata, perché impedisce l’accesso ai paesi non produttori dei vaccini che servono a immunizzare le loro popolazioni, penso in particolare ai paesi a basso reddito. Le schermaglie non promettono niente di buono, ma le aziende hanno il coltello dalla parte del manico in questa storia, alla luce di quello che abbiamo detto prima. C’è da suppore che sapranno far valere il loro vantaggio competitivo, al momento giusto.

Veniamo all’altro tema strategico,ovvero alla questione dei brevetti. Tocca il rapporto con il bene comune. Un tema fondamentale per il futuro. Quali possono essere le vie per risolvere questo problema ?

La prima cosa che l’Europa  può fare per riprendere in mano un minimo di leva negoziale con le case farmaceutiche è adottare una licenza obbligatoria sui brevetti dei vaccini in produzione. In altre parole,  rilevare il brevetto a fronte del pagamento di royalties alle aziende, per affidare la produzione dei vaccini ad altre imprese europee, per esigenze di salute pubblica. La procedura è prevista ai sensi dell’Art.31 dell’ Accordo TRIPs sulla proprietà intellettuale, i brevetti insomma, normati all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).  La licenza obbligatoria manda un messaggio politico inequivocabile, il solo che l’industria capisca, sempre che la funzione pubblica intenda esercitare appieno il ruolo di tutela del bene comune.

L’altra via per risolvere il problema? L’Europa dovrebbe accogliere la proposta avanzata da India e Sudafrica all’OMC, ovvero la temporanea sospensione di tutti i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini, farmaceutici e prodotti medicali durante la pandemia di Covid19. Anche questa è una misura perfettamente legale, prevista dall’Art. IX comma 3 e 4 dell’Accordo di Marrakesh che ha dat vita all’OMC. La proposta gode del sostegno di molti paesi, di esperti e organizzazioni internazionali. La deroga temporanea ai diritti di proprietà  intellettuale permetterebbe a piccole e medie imprese di settore, sparse ovunque nel mondo, di accedere alla conoscenza scientifica esistente e replicarla, a fronte di necessari passaggi, per mltiplicare le produzioni dei rimedi, non solo vaccini, che servono a sconfiggere Covid19. Liberare la conoscenza sarebbe una svolta per l’accesso dei vaccini anche ai paesi del sud globale, visto che il mondo rischia un “catastrofico fallimento morale”, ha detto il direttore generale dell’Oms, se non dà seguito alla retorica del vaccino bene comune con iniziative credibili di equità. Il sud globale rischia di ricevere i vaccini alla fine del 2024, o addirittura nel 2025, ha denunciato qualche giorno fa The Guardian.

C’è una geopolitica del vaccino. Sappiamo che la Cina sta invadendo l’Africa del suo vaccino. La Russia sta facendo lo stesso in altri Paesi. Non c’è il rischio che si torni a logiche di influenza devastanti per il Pianeta?

La Cina sta cogliendo la grande occasione che Covid19 le offre. Mettere in campo una nuova serrata diplomazia del vaccino, dopo essere stata accusata di essere la nazione responsabile della pandemia. Con innegabile visione, sta portando avanti questo disegno almeno esplicitamente, lo ha dichiarato alla assemblea dell’OMS lo scorso maggio senza remore. Accordi sono stati fatti con molte regioni dei sul del mondo, anche se in Africa al momento i vaccini non li vede ancora nessuno. La Russia ugualmente sta facendo valere la sua scoperta in chiave geopolitica, certo. Ma l’uso dei vaccini cinesi e russi sarà dirimente pe sconfiggere Covid, lo scrive oggi il New York Times . Anche l’occidente finirà per ricorrere ai vaccini cinesi e allo Sputnik V, che del resto sono già in fase di esame preventivo da parte delle agenzie regolatorie.

Del resto i paesi ricchi – il 16% della popolazione globale – hanno già requisito il 60% delle dosi di vaccino disponibili con l’intento di immunizzare il 70% della loro popolazione adulta entro la metà dell’anno.   Gli USA hanno siglato accordi di acquisto per il 230%  della popolazione americana, e potrebbero a breve controllare 1,8 miliardi di dosi: un quarto di tutta la produzione mondiale. Il Canada ha accaparrato dosi in numero utile a vaccinare la popolazione sei volte. Le logiche di influenza non sono mai andate via, e sono logiche perseguite nn solo da Cina e Russia, ma anche dal mondo occidentale. Solo che magari l’Occidente lo fa tramite canali diversi. In questo caso, ad esempio, tramite il ptere di fuoco della filantropia.

È possibile la fraternità umana universale con tutte le creature? (2). Un testo di Leonardo Boff

Pubblichiamo, in esclusiva per l’Italia, la seconda e ultima parte, del testo del teologo brasiliano Leonardo Boff sulla fraternità umana. La prima parte è stata pubblicata lo scorso 31 gennaio (confini/leonardo-boff).

L’unità della creazione: tutti fratelli e sorelle, gli esseri umani e la natura
Francesco ha cercato instancabilmente l’unità del creato, mediante la fraternità universale, un’unità che include gli esseri umani e gli esseri della natura. Tutto inizia con la fraternità con tutte le creature, amandole e rispettandole. Se non coltiviamo questa fraternità con loro, sarà la fraternità umana che diventa meramente retorica, o al massimo giuridica o morale. Ma siccome la fraternità non prevale, questa è frequentemente violata per questo motivo, perché chi stabilisce l’ordine è il vecchio demone del potere, non come servizio al bene comune, ma come forma di dominio o imposizione di un ordine. Questo, per sua natura, definisce chi è dentro e chi è fuori. Regnano le esclusioni. Di conseguenza si è persa la fraternità universale. Curiosamente, il celebre antropologo Claude Lévy Strauss, che per molti anni ha insegnato e svolto ricerche in Brasile e ha imparato ad amarlo (vedi il suo libro “Saudade do Brasil”), di fronte alla terrificante crisi della nostra cultura, suggerisce lo stesso rimedio di San Francesco: “Il punto di partenza deve essere un’umiltà principale: rispettare tutte le forme di vita … prendersi cura dell’uomo senza preoccuparsi di altre forme di vita è, che ci piaccia o no, portare l’umanità a opprimere se stessa, aprire la via dell’auto-oppressione e dell’auto- sfruttamento” (Le Monde 21-22 gennaio 1999). Di fronte alle minacce planetarie, ha anche affermato: “La Terra è emersa senza l’essere umano e potrebbe continuare senza l’essere umano”. Torniamo al nostro momento storico: il confinamento sociale ci ha creato le condizioni involontarie per farci questa domanda fondamentale: Cos’è essenziale: la vita o il profitto? La cura della natura o il suo sfruttamento illimitato? Infine, quale Terra vogliamo? Quale Casa Comune vogliamo abitare? Esclusivamente tra esseri umani o insieme a tutti gli altri fratelli e sorelle della grande comunità della vita, realizzando l’unità del creato? Durante la pandemia, il Papa si è preso il tempo per riflettere su questa epocale questione. L’ha espressa in termini gravi, quasi disperati nella Fratelli tutti, anche se, da uomo di fede, ha mantenuto e riaffermato la speranza. Il sopravvissuto del campo di sterminio nazista, Eloi Leclerc, l’ha ricollocata in una forma esistenziale e angosciata, ma con cenni di speranza, dentro frequenti soprassalti della memoria inappellabile degli orrori subiti nei campi di sterminio nazisti.

Se non può essere uno stato, la fraternità può essere un nuovo tipo di presenza nel mondo.
Francesco ha vissuto personalmente la fraternità universale. Ma a livello globale ha fallito. Dovette ricomporsi con un ordine e un potere. E lo fece senza amarezza, riconoscendo e accogliendo la sua inevitabilità. È la tensione permanente tra il carisma e il potere. Il potere è una componente dell’essenza dell’essere umano sociale, che vive con altri. Il potere non è una cosa (lo stato, il presidente, la polizia) ma una relazione. Allo stesso tempo, assume la forma di un’istanza di direzione sociale. Tuttavia, dobbiamo qualificare la relazione e la direzione. Entrambi sono al servizio del bene di tutti o a quello di gruppi, che allora si rivela come dominio. Per evitare questa forma (il demonio che la abita), prevalente nella modernità, deve essere sempre pensata e vissuta a partire dal carisma. Questo rappresenta il limite al potere per garantire il suo carattere di servizio alla vita e al bene di tutti e per evitare la tentazione del dominio e persino del dispotismo. Il carisma è sempre creativo e mette a dura prova il potere costituito. Per questo è scomodo e, spesso, frenato e messo a tacere, anche all’interno della Chiesa-grande-istituzione. Rispondendo alla domanda se sia possibile una fraternità universale: nell’ambito del mondo in cui viviamo sotto l’impero del potere-dominio sulle persone, sulle nazioni e sulla natura, si distruggono definitivamente le basi di una fraternità umana. Non è globalmente possibile. “Qui non c’è alcun percorso”.

Il tempo di San Francesco e il nostro tempo
Francesco di Assisi, nel quadro tormentato del suo tempo, nel tramonto del feudalesimo e agli albori dei comuni, mostrò la reale possibilità di creare, almeno a livello personale, una fraternità senza limiti. Ma il suo impulso lo portava più lontano: creare una fraternità globale unendo i due mondi, il mondo musulmano del sultano egiziano Al Malik al-Kâmil, con il quale aveva una grande amicizia, con il mondo cristiano sotto il pontificato di Papa Innocenzo III, il più potente della storia della Chiesa. Avrebbe realizzato il suo sogno più grande, una fraternità veramente universale, nell’unità della creazione, fraternizzando l’essere umano con altri esseri umani, anche di religioni diverse ma uniti con tutti gli altri esseri della creazione. Quello spirito fraterno, nell’ambito delle forze distruttive dell’antropocene e del necrocene regnante, si confronta con una situazione totalmente diversa da quella vissuta da Francesco di Assisi. Non ci si chiedeva se la Terra e la natura avessero un futuro oppure no. Si presupponeva che tutto fosse garantito. Lo stesso accadde nella grande crisi economica e finanziaria del 1929. Nessuno fece la domanda sui limiti della Terra e dei suoi beni e servizi non rinnovabili. Era un presupposto dato per certo perché, per tutti, appariva come uno scrigno di risorse illimitate, base per un’altrettanta crescita illimitata. Oggi non è più così. Tutto si è sbiadito, in quanto sappiamo che possiamo distruggere e scuotere le basi fisiche, chimiche ed ecologiche che sostengono la vita.

Lo spirito di fraternità come esigenza per la continuità della nostra vita sul pianeta
Non siamo di fronte a un’opzione, che possiamo scegliere o no. Ma di fronte a un’esigenza di continuità della nostra vita su questo pianeta. C’incontriamo in una situazione di vita o di morte per la nostra specie e la nostra civiltà. Il Covid-19 che ha colpito l’intera umanità può essere interpretato come un segno della Madre Terra che non possiamo continuare con il dominio e la devastazione di tutto ciò che esiste e vive. O facciamo, come avverte Papa Francesco di Roma alla luce dello spirito e del nuovo modo di essere nel mondo di Francesco di Assisi, “una conversione ecologica radicale” o mettiamo a repentaglio il nostro futuro come specie. “Le previsioni catastrofiche non possono più essere guardate con disprezzo e ironia. Il nostro stile di vita e il nostro consumismo insostenibili non possono che portare a catastrofi” (Laudato Si n.161). Nella Fratelli tutti è più schietto: “Siamo sulla stessa barca, nessuno si salva da solo, è possibile solo salvarci insieme” (n.32). Questa è l’ultima carta per l’umanità.

L’emergere delle condizioni per una fraternità universale
Ma ecco che sorge una nuova alternativa possibile: un salto nello stato di coscienza che permetterà all’umanità di vedere che la soluzione più sensata e saggia è prendersi cura dell’unica Casa Comune, la Terra, vivendovi dentro, tutti, come fratelli e sorelle, natura inclusa. Certamente l’umanità non è condannata all’autodistruzione, né dalla volontà del potere-dominio né dall’apparato militare, capace di eliminare ogni forma di vita. L’umanità ha sempre imparato dalle sue crisi e sconfitte. Potrebbe arrivare un momento in cui l’umanità si renda pienamente conto che può autodistruggersi attraverso una fenomenale crisi ecologica, sociale e sanitaria (attaccata da virus letali o da una guerra nucleare). Capirà che è preferibile vivere fraternamente nella stessa Casa Comune, piuttosto che arrendersi a un suicidio collettivo. Sarà, allora, un dato della coscienza collettiva quanto ripete da un capo all’altro l’enciclica Laudato Si: siamo tutti legati gli uni agli altri, siamo tutti interdipendenti e sopravvivremo solo insieme. Tutto sarà relazionale, anche le imprese, generando un equilibrio generale basato sull’altruismo, la solidarietà e la cura comune di tutte le cose comuni (acqua, cibo, casa, sicurezza, libertà e cultura ecc.). Tutti si sentiranno cittadini del mondo e membri attivi delle loro comunità. Ci sarà un governo planetario plurale (di uomini e donne, rappresentanti di tutti i paesi e le culture) che cercherà soluzioni globali ai problemi globali. Andrà in vigore una iper-democrazia terrena. La grande missione collettiva è costruire la Terra, come già nel deserto del Gobi, in Cina, negli anni del 1933, immaginava Pierre Teilhard de Chardin. Assisteremo all’emergere lento e sostenibile della noosfera, cioè di menti e cuori sintonizzati sull’unico pianeta Terra. Questo è il nostro atto di fede. Ora saranno date le condizioni del sogno di Francesco di Assisi e Francesco di Roma: una vera fraternità umana con gli altri fratelli e sorelle della natura. Ripetiamo: se nelle attuali condizioni determinate dal potere-dominio, la fraternità universale non può essere vissuta come uno stato permanente, può essere realizzata come uno spirito, come una nuova presenza e un modo di essere, capace di permeare tutte le relazioni anche all’interno dell’ordine attuale non fraterno. Ma questo è possibile solamente a condizione che ciascuno sia umile, mettendosi insieme agli altri e ai piedi della natura, superando le disuguaglianze e vedendo in ogni persona un fratello e una sorella, posti sullo stesso humus terreno dove sono le nostre origini comuni e sul quale conviviamo. Spetta a noi come persone e come comunità pensare e ripensare con la massima serietà, porre e riproporre questa domanda: “Non è un sogno puro e un’utopia impraticabile cercare uno spirito di fraternità universale tra gli esseri umani e con tutti gli esseri della natura”. Sicuramente sarà l’unica via d’uscita che potrà salvarci. Papa Francesco crede e spera che questa sia il cammino. Può essere tortuoso, in salita e discesa, ma è il percorso giusto. Dobbiamo rispondere con urgenza, poiché il tempo corre contro di noi. O accogliamo la proposta della figura che più ci ispira di tutto l’occidente, l’umile Francesco di Assisi, come lo chiama Tomás Kempis, autore della Imitazione di Cristo e ripreso in Fratelli tutti di Francesco di Roma e ripensato da Leclerc e Lévy Strauss o possiamo percorrere un cammini già compiuto dai dinosauri 67 milioni di anni fa. Ci resta solo da percorrere questo cammino di fraternità universale, se vogliamo ancora stare su questo piccolo pianeta, azzurro e bianco, la Terra, nostro caro giardino e Casa Comune. SCRIPSI et salvavi aninam meam.
(fine)

Leonardo Boff è un eco-teologo, filosofo e ha scritto Un’etica della Madre Terra, Castelvecchi 2020 e Francesco d’Assisi – Francesco di Roma, EMI 2014.
(Traduzione dal Portoghese di Gianni Alioti)