“Evitare (falsi) capri espiatori, avviare un vero dialogo cristiano a Bose”. Intervista a Riccardo Larini

Torniamo a parlare, di Bose e del suo ex Priore e fondatore Enzo Bianchi. In questi ultimi due mesi, leggendo articoli apparsi su alcune testate, la situazione non è per nulla pacificata. Anzi, secondo “Settimana” (una rivista online dei Dehoniani), parrebbe che Bianchi non abbia lasciato Bose, come gli era stato chiesto dal decreto vaticano, ma sia ancora a Bose. L’articolo afferma al riguardo: “rimane difficile da interpretare la perdurante presenza a Bose del fondatore”. Dopo un giorno, il 15 agosto per la precisione, con un tweet arriva la smentita amara e dolorosa di Enzo Bianchi: “Non ascoltate notizie fantasiose su di me. Mi sono allontanato dalla comunità da tre mesi, senza aver avuto più contatti con essa. Vivo in radicale solitudine in un eremo fuori comunità e date le mie condizioni di salute (non sono più autonomo) ho un fratello che mi visita. Amen”. Ma come stanno le cose? Cerchiamo di capirlo, in questa intervista, con Riccardo Larini ex Monaco di Bose e persona molto vicina alla Comunità.

Larini mi sembra di capire che tutta la vicenda sta prendendo una gran brutta piega. Lei cosa ne pensa?

Innanzitutto, mi sembra palese che la situazione sia gestita in maniera, per usare un eufemismo, fortemente inadeguata, soprattutto da parte di chi ha o dovrebbe avere l’autorità necessaria per promuovere crescita della comunità e dialogo tra le parti in conflitto. Non è infatti possibile che escano costantemente dalla comunità informazioni parziali e calunniose su alcune delle persone coinvolte, soprattutto quando dovrebbe essere stato avviato un lungo e faticoso processo di dialogo. Questo primo elemento mi sembra francamente molto grave, così come mi pare grave che alcuni mezzi di informazione cattolici abbiano ripreso in maniera molto parziale e tendenziosa queste “veline” provenienti dall’interno della comunità, quasi a volersi schierare a favore di una delle parti in conflitto. Sono rimasto allibito dalla mancanza di etica giornalistica, umanità e spirito evangelico che ho colto tra le righe dell’articolo che lei ha citato.

Che informazioni ha su Bianchi?

Il fondatore di Bose, come ha detto egli stesso, è attualmente nell’eremo che a inizio anni 2000 la comunità concordò unanimemente fosse costruito per lui, anche in vista del momento in cui, lasciando il priorato, si sarebbe ritirato a vivere in disparte. È un’abitazione al di fuori della comunità, con accesso stradale indipendente, del tutto idonea, in condizioni normali, a garantire piena autonomia a chi ci vive.

Da inizio giugno non partecipa più in nessun modo alla vita della comunità e sono autorizzati ad avere contatti con lui solo un paio di fratelli che gli portano il necessario o lo aiutano a tenere in ordine l’eremo e il terreno circostante.

Vista l’età e l’enorme stress che ha vissuto in questi mesi, è profondamente provato, essendo tra l’altro affetto da seri problemi di salute.

Veniamo al Decreto vaticano. Un decreto che la Santa Sede, inspiegabilmente, non ha mai pubblicato (e questo fa sì, onestamente, che aumenti la poca chiarezza su tutta la vicenda). Di cosa viene “accusato” Bianchi? Di interferenza? Di pressioni? Di abusi di potere? E cosa gli è stato imposto?

Come sa ho invocato da mesi la pubblicazione integrale del Decreto, per gli ovvi motivi che lei stesso ha sottolineato. Sono tra quelli (non pochi: in questa triste fase della storia della chiesa i corridoi vaticani hanno una tenuta stagna simile al Titanic) che hanno avuto modo di leggerlo, dunque posso parlare con cognizione.

Il decreto vaticano si compone di prescrizioni rivolte ai quattro membri che sono stati allontanati, e di indicazioni sulla forma che la comunità dovrà assumere in futuro dal punto di vista canonico e liturgico. Le seconde intendono inquadrare Bose, che fino ad ora era stata giuridicamente un’associazione di laici per tutelare i propri membri non cattolici, nell’alveo delle congregazioni religiose cattoliche di tipo monastico, ponendo fine nel contempo alle sperimentazioni liturgiche che, a mio modesto parere, sono alla radice della carica profetica della comunità (e che diversi papi hanno apprezzato profondamente, come testimonia il fatto che monsignor Piero Marini si servisse costantemente dei servizi di Bose per plasmare le liturgie pontificie, e che le traduzioni del Salterio ad opera di Enzo Bianchi sono utilizzate da innumerevoli parrocchie e associazioni cattoliche). Tra queste la predicazione dei laici e delle donne.

Riguardo alle prescrizioni alle persone allontanate, l’unica accusa mossa è di interferenza con il governo della comunità. Non vi è alcuna traccia nei testi vaticani di abusi o di pressioni psicologiche di alcun genere. Ai tre fratelli e alla sorella allontanati è stato imposto di non avere rapporti con altri membri della comunità e di andare a vivere ciascuno in luoghi differenti. Come ormai noto, per tre dei membri allontanati, il provvedimento è temporaneo, mentre per Bianchi è a tempo indeterminato. Questa la lettera del provvedimento, dopo di ché vi sono alcuni fratelli e sorelle che vorrebbero definitivo l’allontanamento del fondatore di Bose e di chiunque non gli sia ostile, e che si sono adoperati e si stanno adoperando in tale direzione. Lo dico con estrema tristezza, ma per dovere di verità, perché da cristiano non credo e non posso credere alla parola “definitivo” in una situazione di questo genere, quale che ne siano state le cause, né posso accettare che in un contesto monastico non vi sia spazio per un cammino di riconciliazione e di misericordia.

Quali sono stati gli errori di Bianchi? 

Premetto che non vivo più a Bose dal 2005, anche se ho sempre mantenuto contatti cordiali e fraterni con moltissimi fratelli e sorelle, visitando regolarmente la comunità e tenendo anche lezioni di teologia ecumenica ai novizi. La mia fonte è perciò la mia esperienza in comunità fino a tale anno e le molte voci che purtroppo si stanno diffondendo dall’interno della stessa, molto divergenti e contraddittorie, in quanto la comunità è attualmente divisa in almeno tre blocchi.

Siccome ho sempre avuto il coraggio di parlare in faccia alle persone, Enzo Bianchi sa che ritengo un errore il suo aver voluto continuare a partecipare alla vita comunitaria dopo aver lasciato il priorato, sebbene nessuno immaginasse, anche solo tre anni fa, quando Manicardi è stato eletto priore (con il massimo appoggio di Bianchi), che avrebbero potuto fiorire divisioni così forti. Avrebbe fatto bene anche a lui prendere le distanze, invece ha voluto rimanere (legittimamente, va detto per inciso e con grande chiarezza) anche se rischiosamente, come fratello sui generis, garante di un cammino e di una serie straordinaria di intuizioni, testimoniate dal fatto che non c’è una singola pietra a Bose o nelle sue fraternità che non sia stata pensata e fatta ergere da lui. Tengo tuttavia a dire che lo ha fatto alla luce del sole, comunicandolo fin dall’inizio, in maniera chiarissima, ad esempio nel suo discorso (pubblico e pubblicato) di congedo dal priorato. E nessuno, nemmeno tra coloro che oggi lo contestano profondamente (e che fino a meno di tre anni fa, per essere molto precisi, erano tutti suoi fedelissimi collaboratori da una vita), ha avuto il coraggio di dire che non era d’accordo quando era il momento giusto, né, a quanto mi risulta, fino a quando non sono sopraggiunti gli “ispettori” vaticani durante il passato inverno.

Nel 2014 fu Bianchi stesso a chiedere, secondo una formula che avevamo pensato insieme quando ero ancora in comunità nel 2003 e che pure in molti fratelli e sorelle non avrebbero voluto adottare perché inorriditi dalla possibilità di interferenze esterne, una visita fraterna di guide monastiche di comunità vicine, da cui, contrariamente a quanto affermano alcuni, non emerse alcun grave elemento nei confronti dell’allora priore e fondatore, il quale una paio d’anni dopo, come preannunciato fin dal 2000, avviò spontaneamente (e non a seguito di tale “visita” del 2014) la successione al priorato.

Tuttavia, a quanto mi risulta anche da diverse persone molto equilibrate in seno alla comunità, che non si vogliono schierare e che in questo momento hanno timore di parlare, il fondatore di Bose non è cambiato “in peggio” rispetto agli anni in cui ero presente di persona in comunità. Perciò mi sento di poter escludere problemi seri legati a violenze psicologiche e abusi di potere. Mentre non mi è difficile immaginare che il suo comportamento possa essere risultato ad alcuni un’ingerenza nel governo della comunità. Una personalità straordinaria e forte come la sua è destinata ad avere un forte impatto anche mediante la sola presenza fisica, e di certo qualche parola di disapprovazione per l’operato di Manicardi potrebbe averla detta, ma questo non lo rende certamente un mostro.

Sappiamo quanto sia difficile il rapporto, nella dinamica della vita religiosa, tra il fondatore e il governo della comunità che ha fondato. E recentemente ci sono stati casi simili nella Chiesa cattolica. Che hanno portato all’ allontanamento del fondatore. Ma nel caso di Bose pensa che ci sia un accanimento nei confronti di Bianchi?

Purtroppo la mia risposta è: assolutamente sì. Non c’è bisogno di una laurea in psicologia per comprenderlo. Le voci più “veementi” contro Bianchi sono in larga misura quelle di chi più gli è stato fedele, e non per anni ma per decenni, sposando e avallando in tutto ogni sua decisione e comportamento, senza mettere mai nulla in discussione (ammesso che ci fossero cose da mettere in discussione). Alcuni amici della comunità mi hanno chiamato sconvolti dopo aver parlato con un paio di sorelle e di fratelli di Bose che avevano spiegato loro come la comunità avrebbe potuto vivere solo se Enzo fosse scomparso per sempre (parole testuali) dal suo orizzonte, e con lui chiunque non sposasse la narrazione di chi all’improvviso si era messo a contestarlo.

Si è giunti a tali livelli di irrazionalità da esercitare pressioni sul plenipotenziario della Santa Sede perché Enzo lasci quanto prima anche il suo eremo, come se al giorno d’oggi, con la tecnologia di cui tutti dispongono, una maggiore distanza fisica potesse impedire eventuali contatti “illeciti” tra membri della comunità e il suo fondatore. E negando, di fatto, allo stesso Bianchi, la calma necessaria per individuare un luogo diverso dove poter andare a trascorrere, a questo punto molto verosimilmente, il resto dei suoi giorni, continuando a svolgere un ministero che nessuno, a partire da papa Francesco, intende negargli o sottrargli. Un noto teologo italiano ha definito la situazione un “parricidio freudiano”, e temo che purtroppo abbia ragione.

La comunità, e i suoi responsabili, come stanno reagendo a questo “terremoto”? 

Quanto ai responsabili, compreso chi è stato mandato dall’esterno a vigilare in nome dell’esercizio della giurisdizione diretta del papa su ogni fedele cattolico, penso di avere già detto chiaramente la mia opinione, e onestamente sono esterrefatto che continuino a uscire così tante voci dalla comunità senza un controllo efficace, ma ancor peggio senza che si intuisca l’avvio di alcun processo reale di dialogo e di pacificazione degli animi guidato dalle autorità preposte. Anzi, dall’esterno si coglie un incattivirsi di alcuni veramente funesto, alimentato anche da persone che detengono funzioni importanti nel monastero. La comunità soffre, mi pare chiaro, e con lei soffrono tutti coloro che, come me, la amano profondamente. “Dal momento delle dimissioni di Bianchi di tre anni fa hanno lasciato la comunità in molti, e si parla di una decina di ulteriori casi anche dopo la visita canonica (esclusi gli allontanati).” Ed è intellettualmente disonesto lasciar intendere che ci sarebbe una “comunità contro Bianchi”, finendo in tal modo per far convergere attenzione e eventuali accuse interamente sul fondatore di Bose. C’è una comunità divisa, perché non ha saputo vivere una transizione epocale e difficile, come umanamente può succedere, con quattro persone allontanate, alcuni che vorrebbero infierire ulteriormente, e un consistente gruppo di persone che propendono o per una delle due parti, ma che soprattutto vorrebbero un vero cammino di pace, e che sono sconvolte. E sinceramente credo che i fratelli e le sorelle di Bose meriterebbero segni di speranza, dopo tutti i semi di lacerazione che sono stati seminati, e di una speranza non basata sulla “fine” di nessuno.

Secondo lei la richiesta di intervento Vaticano da chi è partita?

Onestamente non lo so, né ho trovato risposte certe. Ma a questo punto mi pare conti ben poco.

A distanza di due mesi dallo scoppio del caso si è fatta una idea più precisa, per quanto è possibile, degli obiettivi del delegato apostolico o del Vaticano?

In realtà i mesi sono già tre… Come ho già detto nella mia prima intervista, a me dei giochi di potere, compresi quelli dei palazzi vaticani, interessa molto poco. Inoltre non sono né nella testa di padre Cencini, né in quella di chi lo ha inviato, né in quella, molto nobile, di papa Francesco.

Il silenzio della Chiesa italiana è sconcertante. Nemmeno un tentativo di mediazione si è provato? Perchéé non difendere un frutto ricco nato dal Vangelo e dal Concilio?

Avevo sentito subito di arcivescovi e cardinali indignati per le modalità di intervento e le decisioni assunte sia nei confronti della comunità che del suo fondatore e dei suoi membri “allontanati”. Per quanto mi riguarda, innanzitutto ho scritto immediatamente a maggio a Manicardi e Bianchi offrendomi di mediare, e quindi ho scritto anche all’economo di Bose, Guido Dotti, molto attivo nei contatti con la stampa, ma solo Bianchi mi ha risposto, accettando la mia offerta, mentre gli altri non mi hanno mai scritto neppure una riga di conferma di ricezione del mio messaggio. Ho quindi cercato di contattare un paio di vescovi amici, offrendomi il mio aiuto con discrezione e chiedendo loro di aiutarmi a comprendere e a compiere i passi più opportuni per essere di aiuto. Ma ho incontrato un silenzio assordante. Le uniche voci chiare che hanno subito parlato bene di Bianchi, di fatto difendendo sia Bose che lui da accuse di chissà qual genere, sono state quelle di monsignor Bettazzi e del cardinal Ravasi, a cui va il ringraziamento mio e di tutti quelli che hanno a cuore la vicenda. Per il resto, spero che i beneamati “principi della chiesa” la smettano di comportarsi come tanti Nicodemo, ma trovino il coraggio di intervenire in una situazione gestita veramente in modo assai poco cristiano fino ad oggi.

Per la “generazione di Bose”, citando lo storico del cristianesimo Massimo Faggioli, è una grande sofferenza. Molti di loro si stanno domandando: cosa rimarrà della esperienza profetica di questa storia?

Intanto specifico che mi riconosco solo in parte nella pur efficace definizione dell’amico Massimo Faggioli, di qualche anno più giovane di me, nel senso che ritengo la vera e propria “generazione Bose” a cui egli allude un fenomeno sviluppatosi soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, quando si è registrata una forte impennata nei flussi di ospitalità, dovuta alla crescente popolarità di Bianchi e delle Edizioni Qiqajon, e una notevole diversificazione dei visitatori della comunità. Molti tra i nuovi giovani erano in cerca di spiritualità, con minore coscienza della dimensione profetica (e anche politica) della fede rispetto alle prime generazioni di frequentatori bosini. Lo dico perché quel genere di profezia probabilmente si era già notevolmente attenuata con i nuovi ingressi di novizi e novizie dal diverso retroterra culturale ed ecclesiale in comunità nel corso degli anni Novanta. Certo, come ho detto già in altre occasioni, quello che è stato fin da principio ed è rimasto un ruolo fondamentale, direi unico di Bose in seno al mondo delle comunità religiose italiane, è essere un luogo di studio, libertà e pensiero, che fa e ha fatto respirare un numero enorme di persone in tempi di progressivo inaridimento e di svolte “verso destra” e verso falsi tradizionalismi del panorama culturale del cristianesimo italiano. I protagonisti di questa storia sono indubbiamente stati molti, grazie alla straordinaria capacità di Enzo Bianchi di favorire la crescita umana e culturale dei propri confratelli e delle proprie consorelle. Ma è chiaro che la mancanza di uno stimolo del suo livello avrà certamente un impatto sul futuro della comunità, a prescindere da come si risolveranno le attuali tensioni.

Se invece quello che mi vuole chiedere è che ne sarà di Bose più in generale, facciamo che rimandiamo la risposta a un’eventuale prossima intervista. Ora l’unica speranza sarebbe ed è contra spem. Ma è quello che ci rende cristiani.

 

IN MEMORIA DI PEDRO CASALDALIGA, VESCOVO POETA E AMICO DEI POVERI

Lo scorso 8 agosto, all’età di 92 anni,  in Brasile, si è spento il grande vescovo brasiliano Pedro Casaldàliga amico dei poveri (ha dedicato 52 all’evangelizzazione dei popoli indigeni e alla difesa dei loro diritti).

Vogliamo ricordalo con tre testi, che pubblichiamo con la gentile concessione dell’amico vaticanista Luigi Accattoli. Il primo testo è il suo inno al vento dello Spirito, un aggiornamento del “Vieni Santo Spirito” che è ricco di insegnamenti vitali. Nel secondo si riprende la citazione di un altro suo testo che Papa Francesco ha inserito nell’esortazione “Querida Amazonia”, nel terzo una scheda su Pedro Casaldaliga e il modo della sua sepoltura avvenuta tre giorni fa nella località di Ribeirão Cascalheira, Mato Grosso, Brasile, dov’è il Santuario dei Martiri della Caminhada.

 

 

Inno al Vento dello Spirito – poesia di Pedro Casaldàliga

 

Vento del Suo Spirito che soffi dove vuole, libero e liberatore,
vincitore della legge, del peccato e della morte… Vieni!

Vento del Suo Spirito che alloggiasti

nel ventre e nel cuore di una cittadina di Nazareth… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti impadronisti di Gesù

per inviarlo ad annunciare una buona notizia ai poveri

e la libertà ai prigionieri… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti portasti via nella Pentecoste

i pregiudizi, gli interessi e la paura degli Apostoli

e spalancasti le porte del cenacolo

perché la comunità dei seguaci di Gesù

fosse sempre aperta al mondo, libera nella sua parola

coerente nella sua testimonianza

e invincibile nella sua speranza… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti porti via sempre le nuove paure della Chiesa

e bruci in essa ogni potere che non sia servizio fraterno

e la purifichi con la povertà e con il martirio… Vieni!

Vento del Suo Spirito che riduci in cenere la prepotenza, lipocrisia e il lucro

e alimenti le fiamme della Giustizia e della Liberazione

e che sei lanima del Regno… Vieni!

Vieni o Spirito perché siamo tutti vento nel tuo Vento,
vento del tuo Vento,
dunque eternamente fratelli.

 

 

Acque e notte – versi di Pedro Casaldàliga riportati da Francesco al paragrafo 73 di “Querida Amazonia” [l’esortazione papale che raccoglie il frutto del Sinodo dell’Amazzonia]

 

Galleggiano ombre di me, legni morti.
Ma la stella nasce senza rimprovero
sopra le mani di questo bambino, esperte,
che conquistano le acque e la notte.
Mi basti conoscere
che Tu mi conosci
interamente, prima dei miei giorni.

Pedro Casaldáliga, “Carta de navegar (Por el Tocantins amazónico)”, in El tiempo y la espera, Santander 1986

 

 

 

Nato in Catalogna. Nato il 16 febbraio 1928 a Balsareny, nella Catalogna, in Spagna, Pedro Casaldàliga era un missionario claretiano. Arriva in Brasile nel 1968, sarà vescovo di São Félix dal 1970. Per lo stemma episcopale volle questo motto: “Nada possuir, nada carregar, nada pedir, nada calar e, sobretudo, nada matar” (“Nulla possedere, nulla prendere a carico, nulla chiedere, nulla tacere e soprattutto non uccidere nessuno”). La sua prima lettera pastorale, un documento della scelta dei poveri della Chiesa brasiliana, afferma che «l’ingiustizia ha un nome in questa terra: latifondo». Nel 1976 subì un attentato e si salvò solo perchè il suo vicario, il gesuita João Bosco Burnier, gli fece scudo e morì al suo posto. I due avevano bussato alla locale caserma di Polizia per reclamare la libertà di due contadine incarcerate ingiustamente perché sospettate di collaborazionismo con gli oppositori. Dal 2012 era malato di Parkinson, che chiamava “fratello Parkinson”. E’ stato sepolto – come da sua richiesta – nel cimitero degli indios Karajás, nella località di Ribeirão Cascalheira. La bara è stata posta sotto un tumulo di polvere rossa sovrastato da una croce nuda di legno, accanto alle tombe di un operaio e una prostituta senza nome. Appoggiata alla croce una targa con queste parole da lui dettate: «Per riposare / io voglio solo/ questa croce di legno / come pioggia e sole / questi tre metri di terra / e la Resurrezione!».

 

 

(dal sito :http://www.luigiaccattoli.it/blog/saluto-casaldaliga-con-il-suo-inno-al-vento-dello-spirito/#comments).

Il grande bivio di Giorgia Meloni. Intervista a Fabio Martini

Giorgia Meloni (Ansa)

Nel centrodestra si sta imponendo la figura di Giorgia
Meloni. Sarà lei la leader della coalizione? Ne parliamo
con Fabio Martini inviato e cronista parlamentare del
quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, sempre più Giorgia Meloni sta facendo
parlare di sé. Sicuramente un dato è certo, almeno
stando ai sondaggi: il suo partito è in crescita (supera
abbondantemente il 13%, e insidia da vicino il
Movimento 5stelle). Domanda: a parte il tradizionale
voto di destra (cui anche la Lega beneficia) sembra di
capire che l’espansione di questo partito stia
avvenendo grazie a quella parțe di società arrabbiata
che ha votato per i 5stelle e la lega, senza dimenticare
il voto borghese di forza Italia (mettendo, in questo
ambito, il voto cattolico tradizionalista). È così?

Fabio Martini (AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO)

Oramai viviamo in una sondocrazia, con sondaggi più o meno attendibili che misurano qualsiasi evento, e quindi da una decina di mesi sappiamo che è in atto un’escalation di intenzioni di voto
a favore dei Fratelli d’Italia. Nessuno ci ha spiegato ancora e in modo analitico le ragioni di questo boom, ma se guardiano ai numeri reali e non virtuali, capiremo qualcosa in più. Nelle elezioni Politiche del 2018 la Lega di Salvini raccoglie il 17,3% dei consensi, Fratelli d’Italia di Meloni il 4,3%. Totale: 21,6%, percentuale che a leggerla oggi ci stupisce per le sue dimensioni circoscritte. Ma un anno dopo, al culmine di scelte politiche ben mirate e di un’efficace presenza sui media vecchi e nuovi,
Salvini raddoppia la percentuale (34,3%) strappando voti ai Cinque stelle, mentre Meloni resta sostanzialmente al palo (più 2,1%). Passano tre mesi, Salvini calcola male le sue mosse, gli altri fanno un nuovo governo e dall’autunno inizia l’escalation di Meloni. Tutta ai danni della Lega, tutta dentro il perimetro del centrodestra e intercettando in gran parte quel voto di protesta indistinto che era passato dai Cinque stelle alla Lega.

In questi ultimi mesi la leader di Fratelli d’Italia ha cercato
di crearsi un profilo “repubblicano” (diciamo così), cercando
di distanziarsi dall’altro sovranista che è Matteo Salvini. Per
esempio questo è avvenuto sul Recovery Fund. Però
nell’ultimo dibattito parlamentare, sulla proroga dello “stato
d’emergenza”, i toni del suo intervento sono stati assai
virulenti. A me sembra che  il suo profilo “repubblicano” sia
più forma che sostanza. Qual è il tuo pensiero?
Un intervento assai significativo perché ha segnato l’immagine
di Giorgia Meloni: per le argomentazioni («deriva liberticida,
siete pazzi irresponsabili»), assai più hard di quelle usate dagli
altri esponenti del centrodestra, ma anche per il linguaggio del
corpo: viso trasfigurato e decibel alti. Un’immagine “tosta” che
propone il bivio assai importante che riguarderà Meloni nei
prossimi mesi: concentrarsi sul voto di “pancia”, continuando ad
erodere la Lega, oppure rafforzare il profilo di “destra
repubblicana”, bipartisan sulle questioni di interesse nazionale?
In altre parole: leader di un partito-coalizione o di un partito
nella coalizione? O per capirsi ancora meglio: leader di un
partito o leader della coalizione? L’ultima Meloni fa pensare ad
una scelta più concentrata sul successo dei Fratelli d’Italia ma la
politica italiana è molto mobile e un ulteriore incremento dei
consensi per il suo partito, potrebbe indurre Meloni a riprendere
il progetto avviato e non concluso da Gianfranco Fini: una destra
nazionale potenzialmente capace di parlare al Paese e non solo
ad una fetta di elettorato.

Sul piano dei rapporti internazionali Giorgia Meloni, per
esempio nei potentissimi  circoli ultraconservatori americani
ed europei,  offre maggiore “affidabilità” caratteriale
di  Matteo Salvini. Ma questa “affidabilità” è sufficiente per
proporsi come leader di una destra moderna?
In alcuni circoli internazionali, oltre all’affidabilità caratteriale, è
richiesta soprattutto l’affidabilità atlantica. Che Matteo Salvini
non ha garantito. Nel momento della sua ascesa, si è appoggiato
a circoli che puntano a destabilizzare l’Europa e in particolare a
Vladimir Putin, rispetto al quale la Lega non è stata in grado di
mantenere le promesse, che erano quelle di un’azione politica
volta ad allentare le sanzioni. Meloni si è collegata invece ai
circoli della destra conservatrice americana (quella che guardò
con simpatia a Fini) ed europea. L’ancoramento atlantico
sicuramente può aiutare l’ascesa di Giorgia Meloni.

E sempre per rimanere in ambito internazionale il partito
della  Meloni fa parte del Gruppo dei “Conservatori e
Riformisti Europei”, un gruppo euroscettico e
antifederalista. Anche qui siamo lontani dall’idea di una
destra europea sognata da Gianfranco Fini, per cui il suo si
al “recovery fund” sembra più dettato dall’interesse
nazionalistico che dallo spirito di condivisione europeistico.
Cosa ne pensi?
Dopo il risveglio dell’Europa, i sovranisti – per dirla con
Romano Prodi – hanno preso una bella “botta”. Meloni, che è
sempre stata border line, ci resterà. Ma certo siamo lontani anni
luce dalla scelta fatta da Gianfranco Fini, che rappresentò l’Italia
– assieme a Giuliano Amato – nella Convenzione chiamata a
scrivere la Costituzione europea.

Tutti sanno che Giorgia Meloni viene dal Msi, quanto di quel
partito è rimasto nella cultura politica di Giorgia Meloni?
Quando l’Msi per la prima volta si presenta alle elezioni
politiche col simbolo di Alleanza nazionale, Giorgia Meloni
aveva 17 anni. Ma sicuramente An, il partito nel quale lei è
cresciuta, aveva le sue radici nell’Msi.  Un partito che, dal 1946
al 1995 ebbe leader forti e dialettica interna vivacissima: quella
vivacità oggi si è spenta, comanda Giorgia. An e Msi erano
partiti stimolati da intellettuali non conformisti: diradati. I tratti
principali della cultura politica missina sono quasi tutti
scomparsi e perciò assenti in Giorgia Meloni. Il nostalgismo:
assente. Il presidenzialismo: assente. La rivendicazione delle
mani pulite come conseguenza dell’emarginazione politica:
assente. Meloni però ha ereditato da Msi e An un bene
immateriale: la scuola politica. Quel dna che le consente quasi
sempre di restare nell’ambito del “politicamente corretto”. E in
ogni caso vengono dall’Msi i “colonnelli” che, pur indotti a stare
un passo indietro, restano gli unici che tra i Fratelli d’Italia
possano vantare professionismo politico: Ignazio La Russa,
Adolfo Urso, Francesco Storace, Fabio Rampelli.

Giorgia Meloni ha una visione della politica ”muscolare” .
E  per sua natura tendente alla semplificazione (vedi il tema
dell’immigrazione), in questo non si distingue molto da
Matteo Salvini. Domanda   perché alcuni settori moderati (o
supposti tali) sono attratti da lei?
Lo dicevamo prima: avere o meno come interlocutori anche
elettori moderati è l’enigma dei prossimi mesi. Per ora non sono
gli elettori in cima ai pensieri di Giorgia Meloni.

Quanto pesa il populismo nella prassi, diciamo nell’estetica
politica di Giorgia Meloni?
Se c’è una differenza tra lei e i leader della destra del passato sta
proprio in una certa “estetica populista”: Almirante e Fini sono
stati capi che hanno espresso una forza demagogica e
contestativa, naturali per un partito rimasto ai margini per
mezzo secolo, ma entrambi accompagnavano la forza
d’urto con quella che Giovanni Sartori gravitas. Un
approccio che, per ora, sembra difettare alla leader di
Fratelli d’Italia:

Ultima domanda: come si svilupperà il rapporto, destinato a
diventare molto conflittuale, con Salvini?
Le diversità, le divergenza e i contrasti sono destinati ad
aumentare. Già oggi l’affetto reciproco è basso ma occorre dare
atto ai due di aver finora soffocato con notevole abilità questa
diffidenza.

L’Europa è un gigante incatenato? Intervista a Luciano Canfora

Il “recovery fund” basterà per far rinascere l’Europa? Ne parliamo, in questa intervista, con un grande intellettuale italiano: Luciano Canfora. Canfora è tra i maggiori storici italiani, i suoi interessi accademici e culturali spaziano dal mondo greco-romano fino al pensiero politico contemporaneo. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo è uscito in questi giorni: Europa gigante incatenato (Ed. Dedalo).

Professore, il suo saggio è una analisi spietata sullo stato di crisi dell’Unione Europea. La descrive come un “gigante incatenato”. Eppure dall’uscita del suo saggio, fine giugno, qualcosa si è mosso. Mi riferisco agli accordi sul “Recovery Fund”. Con i suoi limiti questo accordo fa fare un salto di qualità all’Unione Europea. Non è così professore?

Era impossibile che un qualche accordo non venisse raggiunto: sarebbe stata la fine della cosiddetta «Unione». Ed era ovvio che la Germania, con il suo enorme peso, imponesse il varo dell’accordo: la Germania conta tra le grandi potenze mondiali proprio perché capeggia l’Unione. Visto da vicino, il compromesso raggiunto presenta dei lati che l’informazione preferisce lasciare in ombra: (a) i cosiddetti “paesi frugali” hanno ottenuto che i gravami conseguenti alla progettata emissione di miliardi non li riguardino quasi per nulla; (b) solo l’ex-ministro Carlo Calenda ha avuto l’onestà di chiarire (trasmissione «in onda» su «La 7» dello scorso 20 luglio) che – rispetto agli 82 miliardi “a fondo perduto” destinati all’Italia – bisogna però calcolare che l’Italia dovrà contribuire, con 55 miliardi, al meccanismo complessivo che consentirà l’attuazione degli esborsi a fondo perduto destinati ai vari paesi; (c) per ottenere l’appoggio, non trascurabile, dell’Ungheria di Orban, ci siamo di fatto impegnati a non disturbare più quel governo sul terreno della legalità interna nonché delle “quote” di migranti; (d) comunque il successo personale conseguito dal nostro primo ministro è indiscutibile; (e) le molto generiche “riforme” richiesteci come contropartita dei futuri miliardi sono quasi impossibili da realizzare (licenziare un terzo del notoriamente pletorico pubblico impiego? rimettere mano alla normativa sulle pensioni?), (f) i parlamenti dei vari paesi dell’Unione – compreso ad es. quello olandese – avranno il diritto di esprimersi, in corso d’opera, sull’effettiva attuazione, da parte nostra, delle richieste “riforme” (così Mario Monti sul “Corriere della sera” del 22 luglio scorso, p. 28); (g) il nostro debito pubblico ammonta, ad oggi, a 2507 miliardi (= 134% del PIL).

Lei, nel suo saggio, descrive l’Europa come troppo docile (“suddita del potente alleato”) degli Usa. Sappiamo che vi sono legami storici, politici ed economici, con gli Usa. E sappiamo anche che Donald Trump non ama per nulla l’Unione europea. Anzi fa il tifo per Boris Johnson e i sovranisti. Per cui il primo a non credere all’idea di Europa e all’idea di un “patto” tra le sponde dell’Atlantico è proprio l’America di Trump. In che senso allora l”Europa deve essere meno “atlantica”?
Mi pare di aver documentato che “atlantismo” significa subalternità ad una politica (quella degli USA) contraria ai nostri interessi: e per “nostri” intendo di Francia, Germania, Italia, soprattutto. In un brillante (come sempre) intervento sul “Corriere della sera” del 28 giugno scorso (p. 12), Sergio Romano ha segnalato un episodio sintomatico (regolarmente ignorato dalla stampa): di fronte all’ipotesi Trump di ritirare 9000 militari dalle basi in Europa, il norvegese Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha implorato che ciò non avvenga. E ha spiegato: le basi debbono rimanere in Europa «perché giovano agli USA»! Il “gigante” Europa spezzerà le “catene” solo quando farà politica estera in proprio non più ‘al servizio’. Ma ciò è difficile perché dentro la cosiddetta Unione gli USA hanno i vari baltici e polacchi come fedeli «quinte colonne».

Nel suo libro critica la politica europea di opposizione nei confronti della Russia di Vladimir Putin e afferma che questa politica non fa l’interesse europeo. Perché?
Aver messo le assurde e immotivate sanzioni alla Russia ha recato danno soprattutto all’economia dei paesi europei per i quali l’interscambio con la Russia (specie ora che gli USA ci fanno guerra con i dazi!) è vitale. Scoccare sanzioni a destra e a manca è la forma attuale dell’aggressività imperialistica (che, ovviamente, ha bisogno del coro giornalistico): ora vengono minacciate sanzioni alla Cina per i disordini ad Hong Kong (dove gli USA hanno spasmodicamente ma invano atteso che ci scappasse il morto). Semmai l’Unione europea potrebbe mettere le sanzioni agli USA per la repressione brutale – con numerosi morti – delle manifestazioni antirazziste che si susseguono, da un capo all’altro degli USA, almeno dalla fine di maggio.

Lei critica anche l’uso del termine “democratura” quando si parla della Russia. Sarà pure un termine, ovviamente, polemico però si fa fatica a vedere la Russia come una democrazia. Anzi lo stesso Putin definisce la democrazia occidentale come un modello sbagliato. Come sviluppare un rapporto di collaborazione con Putin?
E’ comico definire «democrazia» gli USA, dove diventano presidenti (o per brogli, come nel caso di Bush jr.; o per effetto di folli leggi elettorali, come nel caso di Trump) candidati che hanno ottenuto meno voti popolari dei loro avversari; dove i collegi elettorali vengono ritagliati (alla maniera dei «borghi putridi» dell’Inghilterra pre-1830) in funzione della penalizzazione di aree nelle quali il voto nero o ispanico cambierebbe gli equilibri. I retori che straripano nei giornali e in TV ci annoiano con l’ossessiva formula «le grandi democrazie (occidentali)», tra le quali ficcano pure l’India, dove si vota per svariate settimane, i risultati sono manipolati senza pudore e sussistono le caste (ora più che mai, dopo il collasso del partito del congresso). Tra le tante retoriche possibili, quella che finge di credere che esistano le «grandi democrazie occidentali» è la più comica: basterebbe ricordarsi delle modalità con cui Macron (votato da ¼ dei francesi) è diventato presidente. Certo, da ultimo, viene definita sempre meno come «baluardo della democrazia occidentale» la Turchia, dove il bavaglio alle opposizioni e il genocidio curdo sono veri macigni. Comunque alla Turchia noi «europei» non mettiamo sanzioni ma versiamo miliardi di euro perché trattenga i migranti nei suoi Lager. E in Libia paghiamo il «governo di Tripoli» nei cui Lager vigono la tortura e lo stupro. Viva «la democrazia occidentale!».

Sono giustamente dure le sue critiche nei confronti di Donald Trump. In questi mesi negli Usa qualcosa si sta muovendo. Forse, stando ai sondaggi, siamo alla fine dell’era Trump. Ma basterà all’America cambiare Presidente per cambiare nel profondo?
Ovviamente no. Il povero Obama si è quasi rotto le ossa nel tentativo di riformare le storture di un sistema nel quale una forza decisiva è il «suprematismo bianco»: infatti si tratta di una «grande democrazia occidentale», se non erro.
Torniamo all’Europa. Bisogna dire che non c’è solo il virus del coronavirus, c’è anche quello del sovranismo. E purtroppo non è debellato. Come sconfiggerlo?
«Sovranismo» è un termine privo di senso, ma comodo per cercare una antitesi al vuoto «europeismo». In realtà, nell’ambito dei 27 paesi dell’Unione europea, i governi (Polonia, Ungheria, Austria, Olanda) o i partiti (Lega, Alternative für Deutschland, Front National) che definiamo con quel termine non mirano affatto all’isolamento nazionalistico bensì ad una Unione europea con frontiere blindate (come la «Fortezza Europa» attuata da Hitler). E poiché non l’hanno (ancora) ottenuta si smarcano dagli impegni e obblighi collettivi. E, come arma di ricatto, alcuni di loro praticano il rapporto preferenziale con gli USA, sapendo che questo li mette a riparo da ogni procedura ‘punitiva’ (o, come si dice, «di infrazione»).

Lei propone una idea di Europa aperta, continentale e mediterranea. La sinistra, quella che dovrebbe incarnare quei valori, boccheggia. L’unico leader capace di reggere alla sfida è Papa Francesco. Per lei può essere un aiuto al cambiamento europeo?
Per quanto l’etica cristiana della fratellanza non faccia più presa nelle «grandi democrazie occidentali» (dove il modello vincente è Briatore: ricchezza e consumi) resta il fatto che alcune minoranze vengono ancora mobilitate dalle organizzazioni di base (o addirittura di volontariato) della chiesa cattolica. E ciò avviene grazie all’impulso dall’alto impresso da un pontefice che viene da un mondo oppresso (l’Argentina, dove il fascismo dei militari e dei magnati fu protetto quanto possibile dagli USA di Kissinger). Difficile dire se questo scalfirà l’egemonia culturale del «consumismo» (culto della ricchezza inutile, e dell’individualismo aggressivo, culto monoteistico del profitto etc.).

Ultima domanda: come si sta comportando il governo italiano nei confronti dell’immigrazione? 
Risponderò con le parole efficaci di Maria Elena Boschi (intervista al “Corriere della sera” 29 luglio, p. 8): «Tecnicamente il coronavirus è stato esportato dagli italiani in Africa e non da loro con i barconi. La narrazione di Minniti («i migranti portano il Covid») spesso segue il canovaccio di quella di Salvini».

“In Brasile si sta compiendo un genocidio”. Lettera di Frei Betto contro Bolsonaro

Il teologo brasiliano, Frei Betto (ANSA)

In Brasile si sta compiendo un genocidio”.  Inizia così  la lettera, che pubblichiamo sotto, scritta dal frate domenicano Frei Betto, noto scrittore e teologo della  liberazione,  che definisce un genocidio la morte di migliaia e migliaia di persone, sia per incuria, che per azione e/o omissione deliberata del governo Bolsonaro.

Frei Betto è anche consulente della FAO ed è molto impegnato nei movimenti sociali. La sua vita è un’ attività di lotta intrapresa da anni a favore degli ultimi.

LETTERA AGLI AMICI E ALLE AMICHE ALLESTERO

In Brasile è in atto un genocidio! Nel momento in cui scrivo, 16/07, il Covid-19, apparso qui nel febbraio scorso, ha già ucciso 76 mila persone. I contagi sono quasi due milioni. Domenica prossima, 19/07 arriveremo a 80 mila vittime fatali. E probabile che ora mentre leggi questo appello drammatico, siano già 100 mila.

Quando ricordo che nei vent’anni di guerra del Vietnam, sono state sacrificate 58 mila vite di soldati americani, si fa chiara la gravità di quello che avviene nel mio paese. Questo orrore causa indignazione e turbamento. E tutti sappiamo che le misure di precauzione e restrizione adottate in tanti altri paesi, avrebbero potuto evitare una mortalità così grande.

Questo genocidio non risulta dall’indifferenza del governo Bolsonaro. È intenzionale. Bolsonaro si compiace della morte altrui. Nel 1999, in qualità di deputato federale, durante un’intervista televisiva dichiarò: “attraverso le elezioni, in questo paese, non si cambierà mai niente, niente, assolutamente niente! Potrà cambiare qualcosa soltanto, purtroppo, se un giorno cominceremo una guerra civile,  per completare il lavoro che il regime militare non ha fatto: uccidere per lo meno 30 mila persone”.

Durante la votazione per impeachment della presidente Dilma Rousseff, dedicò il suo voto alle memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il colonnello Brilhante Ustra.

È talmente attratto dalla morte, che una delle sue principali politiche di governo è la liberazione del commercio di armi e munizioni. Quando, davanti al palazzo presidenziale, gli venne chiesto come si sentisse in relazione alle vittime della pandemia, rispose: “In questi dati io non ci credo” (27/03, 92 morti); “Tutti noi un giorno dobbiamo morire” (29/03, 136 morti); “E allora? cosa vuoi che faccia?” (28/04, 5017 morti).

Perché questa politica necrofila? Fin dall’inizio dichiarava che l’importante non era salvare vite umane, ma l’economia. Da ciò deriva il suo rifiuto di decretare il lockdown, osservare le indicazioni della OMS e importare respiratori e dispositivi di protezione individuale. É stato necessario che la Corte Suprema delegasse questa responsabilità ai governatori di ogni singolo stato e ai sindaci di ogni città.

Bolsonaro non ha  rispettato neppure l’autorità dei suoi stessi ministri della salute. Dal febbraio scorso il Brasile di ministri ne ha avuti due, entrambi licenziati per rifiutarsi di adottare lo stesso atteggiamento del presidente. Ora a dirigere il ministero è il generale Pazuello, totalmente ignorante in questioni sanitarie; ha cercato di occultare i dati sulla evoluzione dei numeri delle vittime del coronavirus; si è circondato di 38 militari primi di ogni qualifica, assegnando loro importanti funzioni ministeriali; ha eliminato le conferenza stampa giornaliera attraverso la quala la popolazione avrebbe potuto ricevere importanti informazioni e consigli.

Sarebbe troppo lungo elencare in questa sede quante misure di elargizione di fondi per l’aiuto alle vittime e alle famiglie di bassa rendita (più di 100 mila brasiliani) sono state negate.

Le ragioni delle intenzioni criminali del governo Bolsonaro sono evidenti. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sui fondi della Previdenza Sociale. Lasciare morire i portatori di malattie pregresse, per risparmiare i fondi del SUS, il sistema nazionale di salute. Lasciare morire i poveri, per risparmiare i fondi del “Bolsa Família” e degli altri programmi sociali destinati a 52,5 milioni di brasiliani che vivono sotto la soglia della povertà, e ai 13,5 milioni che si trovano in situazione di miseria estrema (sono dati del governo federale).

E ancora insoddisfatto di queste misure mortali, nel progetto di legge sanzionato il 3/07, il presidente ha vetato l’articolo che obbligava l’uso di mascherine negli stabilimenti commerciali, nei templi religiosi e nelle scuole. Ha vetato altresì l’imposizione di sanzioni e multe a chi non rispetti le regole; ha vietato l’obbligo del governo di distribuire mascherine alla popolazione più povera e vulnerabile, principale vittima del Covid-19, e ai carcerati (750 mila). Questo tipo di veto non annulla però le leggi locali che prevedono l’obbligatorietà dell’uso della mascherina.

Il giorno 8/07, Bolsonaro ha abrogato alcuni articoli di legge, già approvati al Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile, materiale di igiene e pulizia, installazione di internet e la distribuzione di ceste alimentari, sementi e utensili per la coltivazione della terra ai villaggi indigeni. Il veto presidenziale si è esteso anche ai fondi di emergenza destinati alla salute di quelle popolazioni, e parimenti alla facilitazione dell’accesso all’ausilio di emergenza di 600 reais (circa 100 euro) per tre mesi.

Ha vietato inoltre l’obbligo del governo di garantire assistenza ospedaliera, l’uso dei macchinari di respirazione e di ossigenazione sanguigna ai popoli indigeni e agli abitanti delle comunità afro-brasiliane “Quilombos”.

Gli indigeni e gli abitanti dei “Quilombos” sono stati decimati dalla crescente devastazione socio-ambientale, soprattutto in Amazzonia.

Per favore, divulgate al massimo questo crimine contro l’umanità. È necessario che le denunce di quello che accade in Brasile arrivino ai mass-media dei vostri paesi, ai social, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, al Tribunale Internazionale dell’ Aia, così come alle banche e alle imprese che raggruppano gli investitori, tanto desiderati dal governo Bolsonaro.

Molto prima che The Economist lo facesse, nelle mie reti digitali chiamo il presidente con il soprannome di BolsoNero ( In portoghese Nero” è il nome dellimperatore Nerone, ndt ) che mentre Roma brucia suona la lira e fa pubblicità alla Clorochina, una medicina senza alcuna prova scientifica di efficacia contro il nuovo coronavirus.(1) Ma i suoi fabbricanti sono alleati politici del presidente…

Ringrazio il vostro solidale interesse nel divulgare questa lettera. Solamente la pressione proveniente dall’estero sarà capace di fermare il genocidio che martirizza il nostro “querido e maravilhoso” Brasil.

 

Fraternalmente

Frei Betto

 

Dal sito: https://www.pressenza.com/it/2020/07/lettera-di-frei-betto-agli-amici-allestero/