Ripartenza verde, come il nuovo “whatever it takes” della BCE. Intervista a Giuseppe Sabella

Ripartenza verde: industria e globalizzazione ai tempi del covid è il nuovo lavoro di Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0 che spesso intervistiamo su RaiNews.it a commento delle vicende economiche. Pubblicato da Rubbettino Editore e nelle librerie da pochi giorni, il libro ha come tema centrale l’industria e la transizione ecologico-energetica nel quadro della nuova globalizzazione e del ruolo nuovo che Sabella ritiene avere l’Unione Europea. Lo abbiamo intervistato per capirne di più.

Sabella, per cominciare la nostra conversazione, vuole spiegare l’aforisma che ha messo nell’introduzione: “l’industria ha preceduto la filosofia”. Sembra una tesi da sinistra hegeliana… Eppure la contemplazione del mondo, post-pandemia, è quanto mai necessaria per entrare in profondità con quello che è successo…

Iniziamo col dire che questo libro, in linea con quanto sta avvenendo nelle stanze del potere mondiale più lungimirante, celebra il primato dell’economia reale sulla finanza. La ricchezza delle nazioni – per scomodare il grande Adam Smith – non può che essere l’ingegno delle persone, il lavoro, la loro capacità di produrre beni. Abbiamo creduto per molti anni, invece, che la ricchezza andasse cercata nella rendita finanziaria, nei mercati. Come possono questi prosperare se viene meno la spinta verso l’innovazione e la produzione di beni? Questo per dire che certamente c’è un po’ di enfasi dentro quell’aforisma che lei cita, ma anche molta verità. Cos’è l’industria se non il più sofisticato sistema tecnico che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo? In questo senso, l’industria ha preceduto la filosofia perché già nell’antichità, ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ma, continua l’aforisma, “è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto”…

Mi sta quindi dicendo che è questa sorpresa, questo stupore, che porta l’uomo alla contemplazione del mondo?

Non stavo dicendo questo ma lei fa molto bene a rimarcare questo tratto. La pandemia ha fermato il mondo intero e ci ha costretto a ripensare la nostra vita. Non esiste più il mondo pre-covid, i discorsi in cui si parla di un “come prima” non hanno fondamento. Il mondo post-covid è un mondo nuovo perché oggi abbiamo piena consapevolezza che vi sono agenti – i microbi – che sono tanto piccoli quanto pericolosi. E che con loro dobbiamo convivere. Da qui una serie di abitudini e un’organizzazione sociale nuova, per certi versi anche migliore. Mi riferisco in particolare allo smart working, alla riduzione della mobilità e ad un conseguente calo degli assembramenti. E anche la stessa morfologia urbana cambierà, le periferie saranno più vive e più belle, perché le persone – proprio in virtù del lavoro a distanza – andranno sempre più a cercare la qualità della vita.

E perché è il previsto a cogliere di sorpresa l’uomo esperto?

Come diceva il grande aforista colombiano Nicolás Gómez Dávila, “più che l’imprevisto, è il previsto che coglie di sorpresa l’uomo esperto”. La tecnica – e qui vengo ai suoi limiti e alle virtù della contemplazione che lei saggiamente richiama – genera in noi l’illusione di poter prevedere gli eventi. Qualcosa possiamo certamente controllare, ma la natura – ancora una volta – ci ha mostrato il suo volto felino, per certi versi anche velenoso. È un dualismo che dura da sempre quello del rapporto uomo-natura e che soltanto l’ideologia può pensare di archiviare. È, in questo senso, l’ideologia della previsione, del misurabile, della tecnica appunto. Quel grande filosofo della scienza che è stato Giulio Giorello non ha mai smesso di denunciare il pericolo della tecnica come idolo. Negli ultimi 30 anni, per esempio, il mondo occidentale aveva previsto di rilanciare la propria produzione di ricchezza delocalizzando le produzioni. Ma ciò non è andato secondo aspettative. Anzi, è successo che, in 20 anni, la Cina è cresciuta moltissimo non solo in capacità produttiva ma anche in tecnologia, tanto da essere oggi la più importante manifattura a livello mondiale e il Paese più avanti nella frontiera digitale; ed è l’economia che il mondo e gli USA, l’altra superpotenza, stanno inseguendo. Secondo le nostre previsioni, il processo di off shoring – ovvero di delocalizzazione produttiva – avrebbe dovuto fare la nostra fortuna: in questo modo, producendo a basso costo, avevamo previsto di rafforzare il nostro potere d’acquisto. Non avevamo invece fatto i conti con i cinesi e con la Cina che, invece, abbiamo fatto grande noi, perché lì abbiamo destinato la nostra manifattura, la nostra tecnologia, le nostre competenze, le nostre invenzioni, etc. Tutto questo ha arricchito chi ha investito nei Paesi a basso costo di produzione ma ha impoverito l’Occidente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi la Cina è il vero vincitore della globalizzazione, sebbene il ciclo che viene sia pieno di variabili.

Cosa ci aspetta nel futuro prossimo venturo? Le previsioni ci danno l’immagine di un momento molto difficile che, in parte, deve ancora arrivare.

Premesso che la pandemia, in particolare nei mesi di marzo e aprile, ha fatto dei danni ingenti in tutto il mondo a livello di produzione industriale – Italia meno 47,5%, Francia meno 36,3%, Germania meno 26,8%, Spagna meno 32%, UK meno 20,3% nel mese di aprile (marzo poco sopra lo zero), USA meno 16,6%, in Cina i mesi più duri sono stati quelli di gennaio-febbraio (produzione industriale meno 13,5%) – è evidente che in Italia vi è stato un lockdown più pervasivo rispetto alle altre economie avanzate e che il nostro Paese, anche in ragione delle previsioni, ha davanti a sé la sfida più importante degli ultimi 50 anni. Sapremo invertire la rotta? Al di là di noi, Cina e USA saranno quelli di prima? Gli USA stanno conoscendo serie difficoltà nella gestione del fenomeno pandemico, sia a livello sanitario che sociale. Per quanto riguarda la Cina, non sono convinto di ciò che per esempio sostengono Prodi e Forchielli, che sarà ancora l’economia più forte. Per il dragone il post-covid potrebbe essere, come per esempio sostengono Tremonti e Sapelli, l’inizio di una crisi interna importante. Insomma, le incognite non mancano. E, se devo dire dove vedo più certezze, direi Europa.

Perché questa nota di ottimismo sul Vecchio continente? Da dove origina?

L’Europa, già prima della pandemia, stava lavorando su un programma comunitario di rilancio dell’economia e delle produzioni, non solo in chiave ecologica ma anche in chiave di innovazione digitale: è questo il Green New Deal. Non è un caso che, proprio in questi giorni siano successe due cose importanti: in primis, l’Europa ha lanciato la piattaforma di cloud computing Gaia-X, proprio per iniziare a colmare il ritardo che ha sul digitale con i big di USA e Cina; è il progetto di una nuova infrastruttura europea per la gestione dei dati che sappiamo essere decisiva nell’era digitale. In secondo luogo, in un’intervista al Financial Times Christine Lagarde si è detta “pronta a esplorare ogni strada per sostenere il rilancio dell’industria europea anche nell’ottica di fronteggiare il cambiamento climatico”. In precedenza, già la Presidente Von Der Leyen aveva manifestato tutta la sua determinazione per il Green New Deal, che solo l’emergenza sanitaria ha reso meno in primo piano nei lavori della Commissione. È quindi un ottimo segnale che anche un’istituzione come la BCE trasmetta tutta la sua convinzione in tal senso. Lo potremmo definire, dopo quello di Mario Draghi, il “whatever it takes” di Christine Lagarde. Purtroppo però in questo quadro in cui l’UE da segnali importanti non solo per la sua industria ma anche per la sua integrazione, l’Italia pare reagire in modo molto parziale alla situazione. Non bastano le misure assistenziali, è fondamentale pensare anche alla ripresa, le aziende hanno bisogno di strumenti per progettare il futuro. Da questo punto di vista, il decreto rilancio è una delusione. Vi sono sì i bonus per edilizia e auto ma non vi è praticamente nulla per l’innovazione d’impresa. Deve ripartire il piano industria 4.0 in modo poderoso. Imprese e industrie vanno sempre più portate sull’orizzonte digitale, su cui l’Europa è indietro: l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale sono stati fatti in aziende americane e cinesi. Anche per questo, e non soltanto per fronteggiare l’emergenza climatica, è nato il Green New Deal. Per l’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, è occasione fondamentale che non possiamo mancare: nel giro di tre anni, rischiamo di uscire dal gruppo dei Paesi avanzati.

A proposito di ambiente, Papa Francesco sembra essere l’unico leader mondiale in grado di trasmettere messaggi per le masse sull’importanza della cura del pianeta. Da questo punto di vista, la politica non sembra aver compreso l’emergenza climatica.

Dall’Europa mi pare stiano arrivando segnali e messaggi chiarissimi, per una volta mi sentirei di plaudire a ciò che sta facendo l’eurogruppo. L’Europa potrebbe anzi lanciare una nuova idea di multilateralismo fondata proprio sul climate change, sulla cybersecurity, sulle migrazioni. USA e Cina hanno nei confronti dell’ambiente un atteggiamento diverso: benché l’innovazione dell’industria non sia da meno, Trump in particolare sul “green” è molto freddo. Perché sa bene che l’Europa, prima degli USA, ne ha fatto una questione identitaria, anche grazie a Greta Thunberg e al suo movimento dei fridays for future. Il termine Green New Deal è oltretutto nato negli USA quando, nel 2019, il Congresso proponeva un pacchetto chiamato proprio Green New Deal che mirava a far fronte ai cambiamenti climatici oltre che alla disuguaglianza economica. Ma Trump e i repubblicani non hanno apprezzato e, da questo punto di vista, siamo stati più bravi noi europei. Una vera beffa per gli americani. Stringendo però sulla sua domanda, e quindi sul Papa, direi che il recente documento della Santa Sede In cammino per la cura della casa comune: a cinque anni dalla Laudato sì è segno che, sul problema, l’attenzione del Pontefice e della Chiesa è molto alta. Del resto l’emergenza è tale e il messaggio biblico è chiaro: “il Signore pose l’uomo nel Giardino affinché lo coltivasse e lo custodisse” (Genesi 2.15). Oggi è l’ora, in particolare, della custodia del pianeta e della cura della casa comune, come dice Papa Francesco.

Economia della crisi. Intervista a Salvatore Biasco

 

Nel fine settimana si terrà  il  Consiglio UE . Un passaggio importante per il futuro dell’economia europea. Il premier sta giocando in Europa una partita decisiva per il suo governo. E’ sul fattore economico e sull’efficacia delle misure anticrisi che si giocherà nel medio termine il futuro dell’Italia e dell’Europa. Ne parliamo, in questa intervista, con un importante economista Salvatore Biasco. Biasco è stato professore di Economia internazionale. Ha studiato a Roma e Cambridge e insegnato a Modena e Roma. Già Vice Presidente della Società Italiana degli Economisti e premio Saint-Vincent per l’Economia, è autore di libri influenti in ambito economico. Ha anche pubblicato saggi in campo politologico, abbinando sempre lo studio dei meccanismi economici a quello delle determinazioni sociali. In materia fiscale, poi, è stato Presidente, nella XIII Legislatura, della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale e autore del “libro bianco” sull’imposizione sulle imprese che porta il suo nome.

Professore, stiamo vivendo mesi drammatici. Le previsioni europee, per questo anno, sulla nostro sono nere: – 11,2%. Un dato inquietante. Nell’ambito della UE siamo il paese che sarà più colpito economicamente dalla pandemia. Le chiedo: pensa che il governo sia all’altezza della situazione?

Qualche segnale ci dice anche che le cifre finali potrebbero essere meno drammatiche, ma certo la sostanza non cambia.  Ci siamo trovati ad affrontare una situazione inedita, primo paese in occidente, senza grandi possibilità di manovrare la spesa pubblica. Penso che per gli interventi volti a tamponare la perdita di reddito di tante categorie di lavoratori, il governo, pur con qualche errore, abbia agito bene, ma la situazione ha rivelato la debolezza di tutto l’apparato amministrativo, che ha fatto perdere tempestività e non ha risposto come avrebbe richiesto dalla situazione Ora, però, siamo in un’altra fase e si tratta di dare rapidamente una spinta alla domanda. Non a caso, non con puri trasferimenti, ma indirizzando la spesa pubblica in modo da prefigurare un modello diverso di economia: ecologica, governata, solidale, istruita e all’avanguardia tecnologicamente, con poco spazio per la corruzione e l’evasione. Non voglio esprimere giudizi sulle capacità del governo, vedremo. Mi sembra abbastanza consapevole della situazione.  Certo gli aiuti che ad esso vengono dai partiti sono scarsi; lì vige la preoccupazione di guadagnarsi il consenso in questo o quel settore e meno quella di disegnare un’Italia del futuro. L’opposizione pure non indica nulla e capitalizza le ansie che percorrono il corpo sociale.

Al di là delle singole misure, lei vede nel Governo una strategia, o per meglio dire, una visione di Paese da ricostruire? Quali Sono secondo lei le priorità per ripartire?

Non scopro nulla parlando di infrastrutture, ma occorre guardare oltre, molto più lontano per orientare l’oggi. Personalmente metterei il primo impegno nella ricostruzione della macchina amministrativa. Abbiamo la fortuna di dover reclutare oltre mezzo milione di unità e ringiovanire la PA.  Occorre contestualmente identificare le diverse missioni che attengono a parti diverse del settore pubblico, rinunciando all’uniformità organizzativa, contrattuale, di organizzazione del lavoro e di struttura delle responsabilità decisionali. Da qui far partire una selezione della dirigenza e dei quadri con professionalità adeguata ai singoli obbiettivi.

Poi occorre uno Stato capace di guidare l’economia secondo criteri che una volta si sarebbero detti di “programmazione” (perché no? anche settoriale). Il tutto connesso a filiere imperniate su missioni di ricerca che chiamino a raccolta le migliori capacità industriali e organizzative, le università e i centri di ricerca, e che siano organizzate in modo tale da essere driver di sviluppo produttivo e territoriale.  Penso a missioni centrate sull’informatizzazione, la mobilità territoriale, i beni culturali, la chimica verde l’efficienza energetica e poche altre. Dobbiamo ambire a che, nei settori per noi più importanti, l’Italia non sia solo un hub produttivo, ma anche i ricerca (informatica, alimentare, farmaceutica, biomedicale, ecc.). E non aver paura a sviluppare con impegno diretto dello Stato (anche in partnership) produzioni che sono deboli nella nostra matrice industriale – pur avendo le potenzialità produttive e pur facendone largo uso (penso ad alcuni beni strumentali legati ai piani di sviluppo della mobilità, dell’informatica ecc.).

Nell’emergenza del coronavirus abbiamo sancito che lo Stato può intervenire nei contratti privati (il blocco dei licenziamenti), requisire fabbriche a fini collettivi (per produrre mascherine), interferire nella libera disposizione delle proprietà (golden rule). Non arretriamo da principi di questo tipo, ma usiamoli intelligentemente per guidare uno sviluppo dall’alto in una economia mista. Userei quell’impostazione anche per determinare un incremento dei salari che non gravi sul bilancio pubblico. Credo poco a trasformazioni produttive che si sviluppino spontaneamente guidate dal mercato o che avvengano solo attraverso incentivi alla profittabilità privata. La stessa determinazione di intervento va posta nello spingere il sistema delle piccole imprese al rafforzamento finanziario e alle fusioni. Strutture pubbliche possono essere promotrici dirette di reti di imprese e di un sistema di brokeraggio tecnologico posto al servizio delle piccole e medie imprese. Spendiamo subito, se possibile partendo da programmi ambientali e di sistemazione del territorio.

Non c’è bisogno di dire che la sanità anche va ridisegnata in modo tale da renderla reale condizione per il rilancio del Paese con investimenti specifici, anche in informatica e nei settori della fornitura, tenendo un approccio capillare, capace di prevenire e di essere tarato sulle persone e diffuso nel territorio.

Non dimentichiamo, però, che negli anni del declino non sono mancate istituzioni dedicate allo sviluppo, regolazioni adeguate e talvolta nemmeno finanziamenti, ma è mancata la capacità di governarne i processi, avere una barra di riferimento, curare le necessità operative e la filiera di comando, tenere la guida e il coordinamento degli attori, risolvere le questioni in modo olistico. E’ ciò che va curato maggiormente oggi in tutti i campi.

So che lei è stato molto critico sul “piano” Colao. Perché, secondo lei, non può essere il “piano” per la rinascita dell’Italia?

Si tratta di interventi sparsi, molte volte importanti, mischiati, però, a tante altre raccomandazioni che poco hanno a che fare con la ripartenza, a indicazioni di buon senso, auspici e provvedimenti emergenziali. Difficile trovare una gerarchia di temi o una distinzione di efficacia. Forse in due mesi non si poteva fare di più, ma se si guarda il Rapporto nel suo complesso si ricava l’impressione che l’Italia possa crescere solo sburocratizzando all’eccesso, deregolamentando, riducendo le protezioni dei risparmiatori, la partecipazione dei cittadini e trovando nello Stato il finanziatore di ultima istanza di ogni iniziativa che il settore privato debba a suo merito intraprendere. Poca consapevolezza dei nodi di governance di cui parlavo nella risposta precedente. Difficile allora considerare questo Rapporto un progetto ambizioso che guardi al futuro di un Paese che voglia cambiare pagina sia riguardo al suo declino e sia alla sua inaccettabile situazione sociale.

Sarà un autunno carico di tensioni?

Quello che possiamo dire è che il Coronavirus ha messo a nudo le diseguaglianze esistenti e le ha acuite, quelle tra chi è protetto e chi no, tra chi ha accesso alla connessione e alla migliore conoscenza e chi no, tra chi ha avuto la possibilità (e chi no) di accedere alla sanità privata di fronte al blocco delle cure per malattie non legate alla pandemia, tra  chi ha vissuto la quarantena in un ambiente confortevole e chi in un ambiente angusto e degradato, chi aveva sufficienti risparmi accumulati e chi no. Qui abbiamo un altro dei pilastri su cui L’Italia va ricostruita; maggiore protezione, maggiore eguaglianza, servizi pubblici efficienti e universali. Certamente gli effetti negativi della pandemia sull’organizzazione sociale sono stati gravi e continueranno oltre la sua fine. Mi aspetto, se non tensioni, una crescita del malcontento, Per quanto il sostegno al reddito possa essere mantenuto – e non ho dubbi che lo sarà – e per quanto vi sia consapevolezza dell’enorme sforzo finanziario in corso –  non tutte le aspettative di sostegno saranno per forza di cose universali (raggiungeranno tutti quelli che ne avrebbero bisogno) o consentiranno il recupero del reddito perso; in più, chi ha utilizzato i propri risparmi li ha visti assottigliarsi o azzerarsi. Per questo è importante che adesso sia sveltita la ripartenza e che si creino rapidamente occasioni di lavoro.

Torniamo per un attimo congiuntura politica ed economica. Mi riferisco, cioè, al MES SANITARIO. Non trova assurdo non prendere questi fondi? Cosa fa paura?

Ovviamente fa paura il ricordo della Grecia: Ma penso che la lezione sia stata imparata dall’Europa e, in ogni caso, la condizione attuale è solo di spendere in modo razionale le risorse che ci potrebbero essere assegnate. Rimane il ricordo di quell’esperienza scellerata che conferisce alla sola parola ”Mes” una valenza emotiva, che oggi non è appropriata. Io non esiterei ad utilizzarlo dietro adeguate garanzie, anche perché è la condizione affinché la Bce possa intervenire sul mercato primario dei titoli di Stato, praticamente senza limiti. Tuttavia, va detto che quelle risorse sono un prestito a tassi di favore (non un regalo) e che, non rappresentando dotazioni trascendentali (36 miliardi), possono essere sostituite da un indebitamento diretto dell’Italia sui mercati finanziari. Qualcosa perderemmo sui tassi di interesse, ma non cifre rilevanti per cui non farei un dramma se alla fine per ragioni politiche il ricorso al Mes venisse accantonato.

Allarghiamo lo sguardo della riflessione. Soffermiamoci sull’Europa. La pandemia ha fatto sospendere i “sacri dogmi” del rigorismo. Mettendo in atto misure di sicurezza economica: il Recovery fund e Mes senza condizioni per la spesa sanitaria. Pensa che questa sospensione sarà una buona occasione per ripensare l’Europa nella sua dottrina economica? O, invece, è pessimista nel senso, cioè che i paesi “frugali” ritorneranno ad imporre i loro dogmi?

L’Europa ha fatto passi avanti impressionanti, su cui nessuno avrebbe scommesso sei mesi fa. E’ stata immediata la sospensione di regole di bilancio e aiuti di Stato. La Bce, dopo due giorni di esitazione, si è impegnata in un programma di acquisto illimitato di titoli di Stato per contenere gli spread e in più ha fornito ingente liquidità quasi gratuita alla banche per sostenere il credito. E’ stata attenuata la condizionalità sul Mes. La Merkel ha annunciato di voler superare la regola dell’unanimità nelle decisioni. Si è superato – per ora nelle intenzioni di Ursula – il tabù dei trasferimenti comunitari e dell’emissione di titoli comuni passando attraverso un allargamento del bilancio comunitario. Un programma consistente di 1500 miliardi di euro, di cui a noi toccherebbe la parte del leone. Sebbene cosa succederà del progetto Ursula sia tutto da verificare perché ancora soggetto a trattativa, i mutamenti sono di rilievo. Sarà difficile tornare alle regole precedenti. La cartina di tornasole è il bilancio comunitario, vale a dire la capacità dell’Unione di dotarsi di una significativa politica della domanda, che affianchi la politica monetaria nella funzione di spinta all’economia. Il bilancio comunitario porta con sé la definizione del finanziamento, sia in deficit (comunitario, quindi con euro bonds) sia con entrate proprie dell’Unione (Carbon tax, Tobin tax, porzioni di una tassa comune consolidata sulle multinazionale che ponga fine all’utilizzo dei paradisi fiscali). Molto altro va fatto, ma di fronte alla istituzione di un significativo bilancio comunitario diventerebbe meno impellente. Mi riferisco all’unione finanziaria e all’introduzione della golden rule. Nello stesso tempo, occorrerà porre mano a un programma comunitario per la disoccupazione e è urgente è il varo di un diritto del lavoro europeo volto a porre un argine al precariato e a rafforzare i sindacati. L’Europa è a un bivio; fermarsi vuol dire perire, dopo lo sconvolgimento e la messa a nudo dei problemi che ha portato la pandemia. Se qualche paese frugale non l’ha capito rischia di sfasciare tutto, ma cederà. Una precisazione: l’Italia è un paese frugale, da trent’anni circa con un bilancio primario positivo, surplus in conto corrente con l’estero, basso indebitamento privato e un debito pubblico in termini assoluti tenuto sotto controllo – fino allo scoppio della pandemia – dal livello di 25 anni fa. Abbiamo solo ereditato la scelleratezza degli anni ’80.

Come si sconfigge il sovranismo?

E’ qui che l’Europa ha il compito più importante. Occorre ridare speranza e futuro ai cittadini, rafforzare la cittadinanza dove si è indebolita negli ultimi trent’anni. E su tutto primeggia la creazione di opportunità di lavoro, di buon lavoro.  La chiave di volta è quella che dicevo prima; domanda, domanda e domanda. Domanda vuol dire produzione (e occupazione); vuol dire più produttività; vuol dire necessità per le imprese di allargare la capacità produttiva con investimenti, vuol dire innovazione. Se gli operatori percepiscono che questa è la stella polare della politica economica le aspettative cambiano e tutto si avvita positivamente. Si crea un clima di fiducia, cambia la propensione imprenditoriale al rischio e ad allargare la capacità produttiva, anche in anticipo della domanda. Quando questo avviene, la proiezione in avanti dell’espansione dei mercati allunga gli orizzonti di pianificazione temporale, porta a decisioni di spesa più audaci e induce un accrescimento del potenziale produttivo, che crea esso stesso le premesse affinché gli incrementi di capacità di offerta siano poi riempiti da addizioni effettive di domanda interna e da nuove esportazioni, venendo così a convalidare la giustezza dello scenario assunto ed estendendolo nel tempo. E’ possibile che non si sia imparato nulla dagli episodi di crescita sostenuta del dopoguerra (paesi europei, fino agli anni ’70, Sud Est asiatico, Reagan e Clinton)?. In questo quadro si può puntare alla costruzione di un orizzonte nel quale ricominciare a prospettare un obiettivo di piena occupazione e fiducia.

Occorre uscire dall’idea che una politica dell’offerta incentrata sui mercati possa essere il criterio unico di politica economica, come lo è stato per l’Unione di stampo liberista che ha puntato tutte le carte su concorrenza, flessibilità e imbrigliamento della presenza pubblica nell’economia (con esiti che non possono che essere definiti palesemente deludenti e insufficienti).  Il che non vuol dire che selezionate politiche dell’offerta (ad esempio nella ricerca e nell’istruzione, nelle reti) non  possano essere efficaci (dove lo sono e mai in linea di principio), ma è così solo se è di complemento in un’economia tenuta per altre vie a buon livello dell’attività economica.

 C’è una voglia di un nuovo intervento statale nell’economia. Come si può ricostruire un nuovo equilibrio tra stato e mercato?

Penso che la mia visione risulti da quanto detto in precedenza, specie quelle riferite all’Italia. Il mercato è uno strumento utile alla spinta produttiva, ma deve trovare uno Stato efficiente che guidi, indirizzi e disciplini l’azione privata. Il mercato non può essere il regolatore della società. Nel tempo si è persa la consapevolezza collettiva che una società guidata dal profitto privato produce incertezza sociale ed economica, una grave differenziazione sociale, fallimenti di mercato e instabilità economica (ma anche trasformazione), che solo col primato della politica sopra l’economia possono essere portati sotto controllo e governati nell’interesse collettivo. Si è persa anche la consapevolezza della natura cooperativa del processo di produzione, nel quale il capitale è un bene sociale, soggetto quindi a responsabilità sociale. Il che non contraddice la proprietà privata e il perseguimento del profitto individuale nell’attività produttiva, ma presuppone che alle imprese, in qualsiasi campo, sia assegnato un ruolo implicito di agenti attraverso i quali raggiungere un interesse collettivo, di occupazione, produzione, progresso tecnico, stabilità. Presuppone che vi sia un presidio/sorveglianza/ausilio/supplenza da parte dello Stato nello svolgimento di tale ruolo. Tutto questo va riconquistato nella cultura e nella pratica.

Ultima domanda : cosa ha dire Keynes oggi?

Si era smesso di insegnare Keynes nelle università di “avanguardia” o era stato ridotto a formulette inquadrate nell’economia mainstream dell’equilibrio astratto dei mercati. Keynes, se studiato effettivamente dà la migliore forma mentis per comprendere il capitalismo nelle sue linee essenziali e le forze che hanno influenza su produzione e occupazione. Mi piace vederlo in questa chiave metodologica più che come riferimento per ricette standardizzate. Nella sua visione, il capitalismo non è concepibile senza le istituzioni finanziarie in quanto il sistema è monetario di produzione, si regge su debiti e crediti e ormai ha la borsa come parte integrante del processo.  In più, la finanza acquista una veste autonoma rispetto alla produzione, in una serie di scommesse che creano piramidi finanziarie. Questo autore ci induce a vedere le decisioni simultaneamente dal punto di vista reale e finanziario in condizioni di incertezza sul futuro e, quindi mutevoli e instabili al mutare delle opinioni sul futuro: il mercato è anarchico, non si auto equilibra e le crisi sono endogene alla sua dinamica e alla sua logica Se è così, il sistema è in qualche modo dominato dalla fiducia collettiva, che influenza la disposizione e il comportamento degli operatori. Questa può dipendere da fattori esogeni ma sono l’azione pubblica e l’assetto istituzionale, che -, socializzando molte variabili e fornendo gli ancoraggi necessari – consentono in ultima istanza agli operatori di affrontare con più o meno ottimismo la situazione e rendono la fiducia medesima più alta o più bassa e i modi di guardare al futuro più aperti o meno incerti, o, al contrario, più densi di insicurezze e più labili. Se il grado di fiducia è la cornice in cui si muove l’intero processo economico, ne deriva l’azione pubblica ha il compito di muoversi in una direzione tesa a rafforzare la fiducia medesima, dominare la complessità e ridurre l’incertezza. Questa è la chiave che presiede alla crescita e alla stabilizzazione. Keynes parla a un certo punto di necessità di “socializzazione dell’investimento” per tenere la piena occupazione. Non è un caso che il bersaglio culturale della rivoluzione neo liberale sia la sua opera.

 

Il “colonialismo” camaleontico dei Benetton in Patagonia. Intervista a Monica Zornetta e Pericle Camuffo

Un libro di denuncia sull’operato della potente famiglia Benetton in Argentina. Ma è anche un libro sulla lotta degli indios Mapuche, il popolo originario della Patagonia, per i suoi diritti. Una testimonianza dalla “fine del mondo” che ci fa conoscere le profonde storture, ingiustizie, di un sistema socioeconomico. “Alla fine del mondo. La vera storia dei Benetton in Patagonia”, questo è il titolo del saggio, edito da Stampa Alternativa (si può scaricare gratuitamente da questo link

http://www.stradebianchelibri.com/camuffo-p-zornetta-m—alla-fine-del-mondo-la-vera-storia-dei-benetton-in-patagonia.html

 

A breve uscirà anche la versione cartacea. Scritto dalla giornalista d’inchiesta Monica Zornetta  e da Pericle Camuffo, studioso di comunicazione interculturale, sta facendo discutere l’opinione pubblica argentina (ne ha parlato il prestigioso quotidiano “Pagina 12” ). In questa intervista con gli autori approfondiamo alcune tematiche del libro.

 

 

Gli Autori Pericle Camuffo si occupa di letteratura italiana del Novecento con particolare attenzione all’elaborazione dei concetti di frontiera e di alterità. È stato assegnista di ricerca in diverse Università e docente a contratto di Comunicazione interculturale. Ha pubblicato studi monografici, saggi e articoli su diverse riviste letterarie. Nel 2000 il libro Biagio Marin, la poesia, i filosofi gli è valso il Premio Nazionale “Biagio Marin” nella sezione dedicata alla saggistica. Ha inoltre pubblicato li- bri e reportage di viaggio, racconti ed il libro-inchiesta United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia (Stampa Alternativa 2008).

Ha curato e tradotto, assieme a Nicoletta Buttignon, Inside Black Australia. Antologia di poesia aborigena (Qudu 2013).

 

Monica Zornetta, giornalista professionista, é autrice di numerosi saggi di inchiesta. Ha approfondito la mafia in Veneto per il magazine “Narcomafie” e per altre testate nazionali e internazionali. Ha indagato la Mala del Brenta realizzando due saggi, più volte ristampati, e dando il proprio contributo a lavori di autori esteri e a trasmissioni televisive (“Blunotte” e “Linea Gialla”). È tra gli autori del Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia, delle antologie Giornalismi e mafie e Novanta- due. L’anno che cambiò l’Italia. A lungo impegnata nella ricostruzione degli anni di Piombo in Italia, ha collaborato con Rsi.Ch, Rai Storia, il “Corriere della Sera”, per il quale ha realizzato una serie di interviste con ex protagonisti del neofascismo. Ha collaborato con la trasmissio- ne “I Dieci comandamenti”, e approfondito gli anni del “Plan Condor” e della guerra “sporca” in Argentina; ha fatto parte del progetto “Una generazione scomparsa”.

Attualmente scrive per “Avvenire”. Ha pubblicato per Baldini Castoldi Dalai; Rizzoli, Castelvecchi; Jaca Book, Editions éditalie; Editrice storica. Tra i suoi libri: A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto ,Terrore a nordest, La resa. Ascesa, declino e pentimento di Felice Maniero, Ludwig. Storie di fuoco, sangue, follia. Vive negli Stati Uniti. www.monicazornetta.it

 

 

Innanzitutto va riconosciuto un merito a questo vostro lavoro coraggioso: cerca di fare luce su una potentissima multinazionale italiana. E soprattutto di squarciare il velo di ipocrisia che avvolge la Benetton. Vi chiedo: dall’azienda avete avuto reazioni?

No, nessuna per il momento. Non sappiamo se sia per la proverbiale propensione al silenzio della famiglia e del Gruppo o per altre ragioni. Quando ci siamo approcciati a questo libro, ma anche nei nostri precedenti lavori, li abbiamo contattati per avere la loro voce; abbiamo chiesto più volte che ci illustrassero la loro posizione, che ci spiegassero il loro punto di vista (avevamo già raccolto quello della piccola comunità Mapuche che ha recuperato della terra nella estancia Leleque), ma la loro risposta – via ufficio stampa – è stata un breve comunicato di parecchi anni prima in cui spiegavano di aver donato della terra, 7500 ettari, da destinare alla popolazione autoctona, ma che questa terra era stata rifiutata per quella che definivano “presunta scarsa produttività dell’appezzamento”, portando così, a loro dire, ad una battuta d’arresto di un processo di dialogo (che, aggiungiamo noi, per i Mapuche non c’è invece mai stato) in cui il Gruppo Benetton sarebbe stato volontariamente coinvolto.

 

 

So che avete proposto il libro a diverse case editrici. In cambio avete ricevuto solo dei no. Davvero, in Italia, si ha paura a parlare dei Benetton, perché?

Nessuna ha ufficialmente motivato il proprio rifiuto facendo riferimento ad una seppur generica “paura”. Non possono farlo, verrebbe meno il loro mandato culturale. La cultura non deve avere paura, altrimenti diventa o propaganda o regime. Certo il riferimento a possibili azioni legali da parte dell’impresa veneta è stato, non possiamo ignorarlo, un continuo disturbo sotto traccia. Le risposte degli editori sono state diverse, alcune anche fantasiose, altre proprio ridicole, ma l’obiezione principale riguardava la lontananza dei Mapuche e dell’Argentina dal contesto nazionale, seppur intrecciati con la conduzione imprenditoriale di una delle più note imprese italiane. Come dire: “A chi volete che interessino queste cose?”. Poi c’è stato l’incontro con Marcello Baraghini, editore “all’incontrario” e fondatore della storica Stampa Alternativa, con il suo nuovo progetto editoriale chiamato “Le strade bianche di Stampa Alternativa”. E’, anche questo, un progetto dirompente, come tutti quelli che lo hanno visto attore principale nella scena della controinformazione fin dal 1970. È stato lui a pubblicare nel 2008 il libro United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia (di Pericle Camuffo, nda), primo volume in Italia ad indagare i costi umani e ambientali della strategia imprenditoriale Benetton.

Ci ha detto: “Sono a vostra disposizione”. Era l’occasione che aspettavamo. Il primo marzo è uscita la versione elettronica, scaricabile gratuitamente e liberamente.

 

 

Comunque il libro ha cominciato a circolare. Quanti lo hanno scaricato? 

L’interesse è stato da subito molto alto e i riscontri, immediati. Ad oggi, siamo a quasi 4500 downloads… e tutto senza promozione, pubblicità o recensioni sui giornali. E’ doveroso per noi segnalare che la versione elettronica, vista l’attualità dell’argomento, è uscita, in accordo con l’editore, senza editing e lavoro redazionale. Stiamo preparando la versione cartacea rivista, ampliata ed aggiornata. Dovrebbe uscire tra qualche settimana.

 

Veniamo al contenuto del libro. Protagonisti sono la potentissima famiglia Benetton e gli Indios Mapuche, il popolo originario della estesa Patagonia in Argentina e in parte del Cile. Parliamo dei Mapuche, il popolo originario. Questo popolo è la memoria vivente di quelle terre. Perché è così particolare questo legame con la terra?

I Mapuche sono presenti sul territorio meridionale del continente latinoamericano, ora diviso tra Argentina e Cile, circa dal 600 a. C. Si sono fatte molte ipotesi, ma la loro origine geografica è tutt’ora incerta. Vanno comunque ritenuti nativi dell’America Latina. Il rapporto con la terra ha per i Mapuche, come per molti altri popoli originari del mondo, un’importanza fondamentale. La terra di cui parlano non è intesa esclusivamente come suolo o come pianeta ma è tutto ciò che crea e sviluppa quotidianamente la loro identità: è tutto ciò che era prima di loro (la dimora degli antenati), tutto ciò che è, tutto ciò che sarà.

La Madre Terra, che in lingua Mapuche è chiamata Nuke Mapu, non è per loro solo fonte di sussistenza ma anche il fondamento dell’intera loro impalcatura spirituale e rituale: la terra va ascoltata, cantata, celebrata, rispettata, raccontata, perché in tutte queste attività viene riattivata l’energia primordiale, ricostruito e ri-praticato il rapporto con l’intera gamma delle forze vitali, con la natura, gli esseri ancestrali, gli antenati. La relazione con la terra è, in altre parole, ciò che permette alla loro cultura di continuare ad esistere. Ed è per questo motivo che i Mapuche hanno alle spalle una lunga storia di resistenza e di lotta all’occupazione straniera.

 

 

Cosa ci insegnano i Mapuche?

La loro filosofia, come quella di tutti i grandi popoli originari del mondo, pensiamo anche ai nativi americani, può essere la base da cui partire per proporre un nuovo tipo di società. Può aiutarci a maturare una presa di coscienza più profonda, spirituale, nei confronti di noi stessi, del mondo e del nostro essere nel mondo, così da passare da una cultura del saccheggio ad una del rispetto e della condivisione. Essere intimamente legati alla natura, alla terra, esserne parte, non in competizione; esserne fratello e non nemico; dare qualcosa e non sottrarre senza sosta; esserne dominati e non solo dominatori. E tutto questo in una visione di reciprocità che implica un farsi carico, un prendersi cura che, secondo i Mapuche, l’uomo bianco predatore ha del tutto abbandonato in favore del profitto. Se non riusciremo a ristabilire l’armonia tra lo sviluppo tecnologico e quello spirituale che vada in direzione della conservazione del pianeta, sembrano dirci i Mapuche e con loro i popoli originari e le menti più illuminante del nostro mondo, come specie avremo fallito.

 

 

Parliamo dei Benetton. A che anni risale la loro presenza in Argentina? Perché la Patagonia? Quanto è estesa la loro presenza? Cosa poteva offrire al “business”?

La Patagonia, è una terra meravigliosa, di una bellezza potremmo dire primordiale, unica; è una regione che, attraversando la Cordigliera, si estende lungo due Stati, è ricchissima di risorse naturali ed è, da svariati decenni, pressoché in svendita. I Benetton ci sono arrivati nel 1991 dopo aver acquisito a prezzi irrisori quella che un tempo, fin dall’Ottocento, si chiamava Argentine Southern Land Company Limited. Era una società inglese potentissima, proprietaria di gran parte della Patagonia (grazie anche ad importanti appoggi dati dai governi dell’epoca) e di estancias a dir poco enormi, oggi tutte parte del patrimonio dei Benetton. Dopo la guerra delle Malvinas/Falkland, nel 1982, e per dribblare il pericolo di essere sequestrata, la società inglese era passata strategicamente in mano argentina e poi, nel 1991, era stata acquistata dalla famiglia di Treviso attraverso la sua Edizione, modificandone il nome in Compania de Tierras Sud Argentino. E’ a quel punto che la famiglia di Treviso diventa la proprietaria di 941 mila ettari di terra, dei laghi, dei fiumi, dei boschi, delle montagne, delle strade non solo patagoniche ma di una buona fetta del Paese latinoamericano. Nella estancia Leleque, nella provincia del Chubut, da anni allevano pecore (per la lana) e bovini. Ci teniamo comunque a precisare che i Benetton non sono i soli grandi proprietari terrieri in quel Paese e in quella regione: in Patagonia “spadroneggiano” per esempio molti altri miliardari stranieri come, tra gli altri, l’inglese Joe Lewis – sue sono tutte le terre che circondano il favoloso Lago Escondido – e l’americano Ted Turner, magnate e fondatore della Cnn.

 

 

Come si è svolta la loro acquisizione? Ci sono state irregolarità?

Da quel che ci risulta non ci sono state irregolarità da parte dei Benetton nell’acquisire la società. Le irregolarità le hanno piuttosto commesse i governi argentini, mettendo in vendita a prezzi stracciati – pensate che nei primissimi anni Novanta, quando alla Casa Rosada sedeva Carlos Menem, un ettaro di terra era arrivato a costare un dollaro! – terre che non erano di loro proprietà ma erano state date al popolo Mapuche a titolo risarcitorio dopo le sofferenze, gli abusi e le morti causate dalla Conquista del Deserto, una campagna militare guidata durante la quale  le terre ancestrali vennero saccheggiate, donate agli ufficiali che avevano partecipato alla battaglia (quelli considerati più “meritevoli e valorosi”) o messe all’asta. Per tutelare il diritto dei Mapuche a quelle terre, erano state successivamente varate anche delle leggi, nazionali e locali, disattese però dagli stessi governi. Nel nostro libro ricordiamo i meticolosi espropri dei territori che avrebbero dovuto contenere i sopravvissuti alla Conquista del Deserto e segnaliamo inoltre che questi sgomberi, a tutt’oggi una pratica molto usata in Patagonia, si erano svolti attraverso azioni concertate tra i latifondisti, i rappresentanti del governo, la gendarmeria e l’esercito.

 

 

Chi protegge i Benetton? 

All’interno degli oltre 90 mila chilometri quadrati della estancia Leleque vivono i poveri puesteros con le loro famiglie, si trova la Escuela 90 (un edificio che non versa in buone condizioni, con gli studenti che, almeno fino allo scorso anno, erano costretti, d’inverno, a fare lezione in aule freddissime e prive di riscaldamento) e il contestato Museo sulla storia e la cultura Mapuche. Lì ci sono anche le sedi distaccate di due forze di sicurezza argentine: della polizia provinciale e della gendarmeria, molto attive nella protezione della grande proprietà. A seguito del recupero territoriale di una porzione dell’estancia da parte di un gruppo di Mapuche, che cinque anni fa hanno dato vita ad una piccola comunità chiamata Pu Lof en Resistencia, è partita una campagna di criminalizzazione che ha visto “collaborare” tra loro – e tra gli altri – governo, forze di sicurezza, confederazioni rurali. In Alla fine del mondo scriviamo che queste confederazioni sono raggruppamenti di grandi proprietari terrieri, di estancieros e di produttori agricoli, molto efficienti nell’avallare le spinte razziste ed etnocentriche presenti ancora oggi in una parte della società argentina; e rammentiamo inoltre che alcuni pezzi grossi di queste confederazioni rurali, oltre che dell’amministrazione provinciale del Chubut, sono strettamente legati ai Benetton.

 

 

 

In Italia, non so se ancora è così dopo quello è successo dopo il ponte Morandi, hanno la patina di imprenditori “illuminati”, rispettosi dei popoli. In Argentina che immagine hanno? 

Hanno una visione delle cose molto più vicina alla realtà. Se per “sviluppo sostenibile” si intende un percorso di crescita economica attento e rispettoso delle culture originarie, dell’ambiente in cui si attiva e in  generale del tessuto politico, sociale e culturale preesistente, sanno che quello proposto e imposto dall’impresa dei Benetton non lo è. In un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” del 12 maggio 2008, Luciano Benetton aveva definito la propria strategia imprenditoriale “capitalismo creativo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati del mondo” e usato il termine “globalizzazione dolce”. In verità Benetton non ha mai smesso di alimentare l’immagine capital-progressiva della sua impresa. Nel corso degli anni ha riproposto, rinnovato e aggiornato un “anticonformismo” che tende la mano ad una certa sinistra ambientalista e umanitaria non solo italiana, ed è riuscito a cucirsi addosso l’immagine di un capitalismo dal volto umano diventando il simbolo della responsabilità sociale, il paladino di una economia di mercato sostenibile.

Di fronte a tutto questo quasi ci si dimentica che la Benetton è una multinazionale che fattura centinaia di milioni di euro l’anno e soprattutto si dimentica di chiedersi in che modo e con quali costi ambientali ed umani tutto questo avvenga; in Argentina, invece, non hanno smesso di farsi questa domanda e hanno costruito dal basso una contro narrazione che mette in discussione la facciata buonista, umanitaria e socialmente responsabile con cui l’azienda si presenta al mondo, rivelandola per quello che è: una strategia di marketing.

 

 

A proposito di rispetto dei popoli, c’è l’emblematica vicenda del museo “Mapuche” fatto costruire dai Benetton. Un’opera ripudiata dai Mapuche. Perché?

Il museo è nato dal fruttuoso incontro tra diversi personaggi e competenze. Alla metà degli anni Novanta il collezionista Pablo Korchenewski ha donato la sua gigantesca collezione alla Fondazione Ameghino, presieduta dal suo amico antropologo Rodolfo Casamiquela, che lo ha messo in contatto con il minore dei quattro fratelli di Treviso, Carlo, scomparso nel 2018. Il progetto ha richiesto investimenti e avrebbe coinvolto, a detta di Carlo stesso “aziende, associazioni culturali, università ed istituzioni”. E’ organizzato in sale tematizzate dove sono raccolti più di 15 mila oggetti tra reperti archeologici, utensili, documenti e fotografie che narrano 13 mila anni di storia e cultura della Patagonia: nonostante l’ordine dell’esposizione, tuttavia, ai Mapuche non piace quel museo, che pretende di illustrare e raccontare una storia da cui vengono lasciati fuori. Il direttore del museo scelto da Carlo Benetton, infatti, è uno studioso controverso, conosciuto anche per le sue posizioni nettamente contrarie al riconoscimento dei Mapuche quale popolo pre-esistente alla formazione dello Stato argentino, ed è con questa logica che ha organizzato la sale del Museo.

Senza dubbio, come osserviamo nel libro, quella di Casamiquela è una posizione politica poiché l’estraneità del “popolo della terra” al Dna della Patagonia argentina preclude ai suoi discendenti ogni pretesa, anche legale e non solo antropologica o storica, di recupero e di riconoscimento dei territori ancestralmente occupati. “Museizzando” in questo modo i Mapuche, si cancella ogni possibilità di restituzione alle rispettive comunità.  È  un modo come un altro – forse solo più “pulito” – per chiudere la bocca alla resistenza Mapuche che proprio in quegli anni stava cominciando a crescere rapidamente nelle città e nelle zone rurali.

 

 

Torniamo al conflitto con il popolo Mapuche. Perché i Mapuche hanno rifiutato l’offerta dei Benetton?

Perché, da quanto anche i periti hanno accertato e a differenza di quanto hanno sostenuto i ricchi donatori, si trattava di terra di non buona, non adatta alla coltivazione e comunque in grado al massimo di sfamare non più di un paio di famiglie. I Benetton hanno invece sostenuto che il rifiuto della terra è stato, come dire, strumentale: non hanno accettato perché se avessero accettato sarebbe finita la storia dei Mapuche, ha affermato il capostipite Luciano qualche anno fa, durante una presentazione pubblica della sua nuova Fabrica Circus, a Villorba ( Treviso), rispondendo alla domanda di un ragazzo arrivato fin lì per chiedere “Dov’è Santiago?”. Ma di questo parleremo dopo.

 

Come si sviluppa la resistenza del popolo Mapuche? Ci sono leggi a difesa del popolo originario?

L’Argentina possiede parecchi strumenti legislativi a carattere nazionale ed internazionale varati per tutelare i loro diritti: si tratta di provvedimenti che, se fossero applicati in maniera adeguata, ridurrebbero di molto il numero delle controversie e dei conflitti tra Stato, privati e pueblos originarios. E non sono certo pochi se pensiamo che, da dati dell’Osservatorio dei Diritti Umani del Popoli Indigeni (ODHPI), nel 2013 sono stati circa 350 i Mapuche coinvolti in cause giudiziarie legate a dispute sui diritti alle terre, mentre secondo “La Nación”, sarebbero 437 i processi ancora aperti. Ricordiamo l’incorporamento dell’articolo 75 nel Quarto Capitolo della Costituzione Nazionale, avvenuto nel 1994, il cui paragrafo 17 stabilisce la responsabilità del Congresso argentino nel “riconoscere”, tra le altre cose, “la pre-esistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini; […] il possesso e la proprietà comunitaria della terra che occupano tradizionalmente; nel regolamentare la consegna di altra terra che sia adatta e sufficiente per lo sviluppo umano; […] nell’assicurare la loro partecipazione all’amministrazione delle loro risorse naturali e degli altri loro interessi”. E ricordiamo anche la Dichiarazione sul Diritto dei Popoli Indigeni dell’ONU e la Convenzione 169 dell’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) sui Popoli Indigeni e Tribali in Stati Indipendenti, ratificata dall’Argentina nel 2000 ed entrata in vigore a metà 2001, che attesta alcuni diritti fondamentali alla sopravvivenza di queste popolazioni.

 

 

Nel libro parlate della tragica vicenda di Santiago Maldonado. Perché? 

Innanzitutto va detto chi era. Santiago era un giovane tatuatore argentino, attivista, esperto di erbe curative, appassionato di musica, di arte, di culture ancestrali e di ecologia, scomparso il 1 agosto 2017 nel corso di un blitz della gendarmeria proprio all’interno della proprietà dei Benetton. Santiago era arrivato da poco in zona, e il suo intento era sostenere la lotta dei Mapuche contro lo strapotere delle multinazionali che devastano l’ambiente, si appropriano dei beni comuni, saccheggiano le antiche terre dei Mapuche, li scacciano e distruggono i loro manufatti, violano i diritti umani. In quel periodo, tra luglio e agosto di tre anni fa, i Mapuche avevano bloccato una strada, la Ruta 40, per protestare contro la detenzione che stava subendo Facundo Jones Huala, il giovane lonko, cioè il capo, della piccola comunità insediatasi con una azione di recupero territoriale nella estancia Leleque, e di altri 4 Mapuche, tutti accusati di alcuni reati commessi in Cile. Nel libro raccontiamo la storia di Santiago Maldonado, le modalità della sua scomparsa (il giorno del blitz sono stati visti girare nei luoghi “caldi” anche i furgoni della Compañia de Tierras Sud Argentino) e le vicende che hanno caratterizzato i mesi seguenti: il ritrovamento del cadavere nel fiume Chubut, l’autopsia contestata, l’avvicendamento dei giudici, i depistaggi e gli occultamenti di prove, la mancata perquisizione della tenuta, gli attacchi mediatici e dei troll nei confronti della famiglia Maldonado, etc.. La scomparsa del povero Santiago ha avuto una risonanza mondiale e nel dicembre 2017 il fratello Sergio e la mamma sono venuti anche in Italia, ricevuti da papa Francesco: giustizia è la sola cosa che chiedevano e continuano a chiedere. Anche in questo caso i Benetton hanno preferito tacere.

 

 

La Patagonia non è solo pecore è una terra ricca di Miniere e risorse naturali. Tanto da attirare diverse multinazionali dell’energia. Anche in questo ambito i Benetton hanno interessi?

Certamente. I Benetton sono anche i proprietari di maggioranza della Minera Sud Argentina Sa, con sede centrale in Canada, e godono di finanziamenti da parte dello Stato per l’esplorazione petrolifera e, appunto, mineraria. In Alla fine del mondo ricordiamo dove sono presenti e con quali progetti: nella provincia di San Juan, per esempio, sono impegnati nell’estrazione del rame, dell’oro e dell’argento; a Santa Cruz, anche della manganese e del mercurio. E non solo. La mega miniera dei Benetton si spartisce un territorio immenso e ricchissimo con potenti multinazionali  come Barrick Gold Corp, Meridian Gold, Minera Mincorp SA e molte altre. Ricordiamo inoltre che, proprio nella provincia di San Juan, cinque anni fa la Barrick Gold aveva sversato in alcuni fiumi un milione di litri di cianuro, provocando il più grande disastro ambientale della storia argentina. Mentre loro si arricchiscono, i piccoli campesinos e i popoli originari sono costretti ad abbandonare i territori ancestrali ormai devastati dallo sfruttamento compiuto anche dalle parecchie decine di corporations petrolifere: pensiamo ad esempio alla Chevron, che da anni ha in piedi un conflitto molto duro con una comunità Mapuche di Vaca Muerta, alla Exxon Mobil, alla Shell, alla Total e alla “nostra” Eni. In quelle zone di grandissimo pregio ambientale, culturale e scientifico (a Campo Maripe, per esempio, ci sono formazioni rocciose ricche di fossili di dinosauro) non di rado avvengono disastri ambientali: è accaduto nel settembre 2019 quando è esploso un pozzo di fracking, bruciando per ventiquattro giorni e facendo sgorgare gas incandescente e altri elementi nell’aria e provocando, come ha raccontato un contadino al giornalista argentino Uki Goni, danni irreversibili agli animali, molti dei quali sono poi nati con gravi deformazioni.

 

 

Siamo alla fine della nostra conversazione. Si può dire che quello dei Benetton in Patagonia è un colonialismo camaleontico? 

L’ingerenza delle multinazionali nelle politiche sociali ed economiche dei Paesi che le ospitano è nota da molto tempo. Lo schema è semplice: noi investiamo nel vostro Paese ma le condizioni che regolamentano questo investimento le decidiamo noi. Prendere o lasciare. È un meccanismo che spesso innesca catene di corruzione, coinvolge politici e amministratori di vario livello, pretende sconti e deroghe su leggi e norme, prevede la privatizzazione dei profitti e la socializzazione dei costi umani e ambientali, che vengono scaricati sulle comunità locali e sul loro ambiente.

Più che di colonialismo o neocolonialismo si può parlare di rapace atteggiamento neoliberista, simile a quello delle altre multinazionali che operano non solo in Argentina ma in tutto il pianeta. Certo, presentare e coprire tutto questo con le tinte ed i toni di quel capitalismo che aspira ad essere creativo, dolce, sensibile, empatico, sostenibile, costituisce un’aggravante da non trascurare. È questa “copertura” che l’attivismo anti-Benetton, emerso a partire dagli anni Novanta, ha sempre cercato di contestare e smontare. E la nostra documentata contro-narrazione va esattamente in questa direzione.

Tra virus ed elezioni, l’autunno sarà “caldo” per la politica italiana? Intervista a Fabio Martini

FABIO MARTINI

I prossimi mesi saranno decisivi per l’Italia. Le sfide della “ripartenza” sono tante, la politica sarà all’altezza? Ne parliamo, in questa intervista, con con Fabio Martini inviato e cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, come era facilmente prevedibile, la fase tre (quella della convivenza con il virus) si è avviata in maniera un poco caotica. Anche la “fase tre” della politica (quella della progettazione e della ripartenza) non pare all’altezza. Siamo agli inizi, certo, ma l’impressione è che questi benedetti “stati generali”, come il piano Colao, siano capitoli di un libro ancora tutto da scrivere. E rischiamo grosso con l’Europa, la nostra unica ancora di salvezza. Insomma c’è una idea di Paese?
«Un’idea di Paese è esattamente quello che in questo momento servirebbe al governo per poter uscire in piedi dalla crisi sanitaria ed economica. Si può immaginare che qualche idea per il Paese, il presidente del Consiglio l’abbia cercata, e magari trovata, nella consultazione delle parti sociali a Villa Pamphili. Una consultazione viziata da due dubbi: il suo carattere neo-corporativo e la piegatura auto-promozionale dell’operazione. Questo sospetto sul fatto di procedere per annunci&eventi ha trovato puntuale conferma in conclusione degli Stati generali: Conte ha annunciato che si starebbe studiando la riduzione dell’Iva. Un annuncio per rilanciare su un nuovo miraggio l’attenzione dell’opinione pubblica? Di sicuro all’ annuncio è seguita una correzione. Al Paese,  per ripartire da 20 anni di stallo, lo sanno tutti, servirebbe una scossa capace di incidere sui vizi atavici del sistema. Soltanto un gravissimo infarto sociale ed economico può fare cadere questo governo, che dunque proseguirà il suo cammino ma per la natura delle forze che lo compongono, questo esecutivo sembra più adatto ad una navigazione sotto costa che ad una sfida nel mare aperto delle sfide capaci di far rinascere un popolo».

Veniamo alla politica . La maggioranza, per ora, regge. Anche grazie alla “rendita di posizione” (non ci sono alternative) e all’equilibrismo di Conte. L’impressione è che in autunno, qualcuno dice anche a settembre , i rischi saranno alti per la maggioranza. Questo non solo per l’esplosione del malcontento, ma anche per le elezioni regionali. Le elezioni regionali saranno il detonatore? È un calcolo sbagliato? È solo uno spauracchio?
«Effettivamente le elezioni Regionali  di settembre – che pure chiamano in causa un campione elettorale limitato – potrebbero contribuire – più che a buttar giù il governo – a ridisegnare gli schieramenti politici. Nessuno ragiona attorno ad una questione: in Emilia il Pd ha già vinto a febbraio con una coalizione di centro-sinistra, facendo a meno dei grillini e se per caso dovesse riconquistare Campania e Toscana con lo stesso assetto, si dimostrerebbe vincente il modello dell’autosufficienza. Dell’orgoglio Pd. Dando argomenti importanti a chi, in quel partito, tende ad allentare la presa dai Cinque stelle e da una personalità capace ma di inafferrabile identità politica come Conte. E ancora: in Liguria e nelle Marche Pd e Cinque stelle si coalizzeranno? Questa eventuale alleanza porterà vittorie o sconfitte? Ultimo dato: se in Veneto il Governatore Zaia dovesse vincere con una percentuale “fuori misura”, di fatto si conquisterebbe un posto in prima fila per la futura leadership del centrodestra, insidiando seriamente Matteo Salvini. Se gli elettori premieranno il centrosinistra a vocazione indipendente e maggioritaria e Zaia dovesse svettare, le prossime elezioni regionali potrebbero configurarsi come un Big bang sulla politica italiana».

Focalizziamoci sui principali attori della scena politica. Incominciamo dal PD. Ha fatto scalpore l’uscita di Gori contro Zingaretti. Uscita stoppata dai maggiorenti del Partito. Cosa cova sotto le ceneri del PD? A qualche osservatore è apparsa una uscita, quella di Gori, in stile “renziano”. È così?
«Nel senso del primo Renzi? Assolutamente sì. Nei sei mesi più felici della sua storia politica, Renzi prima vince le Primarie del Pd e poi conquista palazzo Chigi (con l’appoggio implicito ma decisivo dei bersaniani e di D’Alema) sulla linea del rinnovamento della linea politica, della vocazione maggioritaria, dell’orgoglio Pd. Poi si inebria e inizia il declino, ma in quei sei mesi il suo è un modello di successo, non solo per sé stesso e per il partito, ma anche per il Paese. Giorgio Gori ha semplicemente detto quel che a voce bassa, sostiene il 95 per cento del gruppo dirigente del partito e anche molti elettori: un Pd passivo non aiuta il Paese ad uscire dalla crisi e, vivacchiando, fa male a sé stesso e alla prospettiva dei progressisti. La leadership pacifista di Zingaretti ha letteralmente salvato il Pd, perché Renzi – dopo aver perso il congresso – era pronto a mandarlo in frantumi. Ma questa è un’altra stagione. Al Pd – questo dicono sottovoce in tanti e Gori a voce alta – non serve una leadership agnostica, ma una leadership  – se non progettuale – almeno convincente e trascinante dal punto di vista delle cose (serie e non di manutenzione) da fare. Non domattina, ma con un orizzonte che guardi ai prossimi 12-24 mesi»

Vedi un possibile rafforzamento nel PD di Stefano Bonaccini? Ovvero di una figura dotata di un riformismo pragmatico?
«Da presidente della Regione Emilia-Romagna Bonaccini ha dimostrato due cose: cultura e prassi di governo, ma anche capacità di presa e di recupero elettorale su un territorio che era diventato molto accidentato, come dimostrano le poderose percentuali (che i media disattenti non hanno notato) che il centro-destra ha conquistato nelle province di confine, Ferrara e Piacenza. Bonaccini è interessato a giocarsi la partita. In tempi e modi ancora da valutare ma il modello-Emilia è un asso che prima o poi sarà calato».

I 5stelle anche loro, parafrasando Woody Allen, non stanno tanto bene. Il ritorno di Grillo e Di Battista – Casaleggio, porta con sé antichi rancori. L’apparenza dice: che il più saggio in questo frangente è proprio Beppe Grillo. Come ti spieghi questo?
«Dopo una stagione nella quale nel Movimento nessuno stava più a sentire Grillo – esemplare il gelo nel quale calò la sua proposta di togliere il voto agli anziani – la perdurante crisi dei Cinque stelle riconsegna forza ai punti di riferimento, alle figure “carismatiche”, espressione che usiamo per farci da capire e da non prendere alla lettera. Grillo è intervenuto per stroncare chi – come Di Battista – invocava il rispetto di un impegno elementare: celebrare finalmente il primo congresso del Movimento per fare decidere alla mitica base la linea politica. Con un intervento apparentemente di buon senso ma di fatto autoritario, Grillo ha aperto la strada ad una soluzione dorotea: tutto il potere ai “capi-corrente”».
Salvini, Meloni e Berlusconi. Il centro destra è attraversato da movimenti. Ormai sappiamo che la competizione all’estrema destra sarà Salvini – Meloni. E La Meloni non concederà molto a Salvini. Insomma dobbiamo prepararci ad una destra guidata da una discendente del neo fascismo?
«Giorgia Meloni proviene dalla scuola politica che parte dal Movimento sociale e ha ereditato dai due leader di maggior peso di quella storia (Giorgio Almirante e Gianfranco Fini), la grinta contestativa e argomentativa, ma non quella gravitas, che in alcune fasi del lungo dopoguerra italiano consentì ai due segretari del Msi di “parlare” ad una platea più vasta di quella degli elettori nostalgici. Ciò premesso, si fatica ad etichettarla come neofascista ma anche ad immaginarla leader di uno schieramento: per quanto la Lega abbia perso intenzioni di voto, resta di gran lunga la forza maggioritaria del centrodestra, con oltre il 50% dei consensi interni e dunque la premiership toccherà a loro. A chi, come detto, è tutto da vedere».

È riapparso Silvio Berlusconi…. Che ruolo sta giocando….?
«Se Berlusconi non fosse… Berlusconi, lo avrebbero già fatto accomodare in maggioranza e forse anche al governo. Ma su Berlusconi pesa, nell’immaginario grillino, una pregiudiziale etica della quale si possono comprendere le ragioni. E dunque il Cavaliere si è ritagliato un ruolo di saggio moderatore, in particolare nei rapporti con l’Europa, ma senza rompere con Salvini e Meloni. Anche per lui le Regionali saranno una cartina di tornasole: il Berlusconi moderato torna ad aggregare? Se le risposte fossero nette – in un senso o nell’altro – anche le conseguenze sarebbero nette».

Matteo Renzi sempre più alla ricerca della sua visibilità, alterna momenti di lontananza (con azioni di disturbo) e vicinanza dalla maggioranza. Una tattica che non porta molti voti….
«Renzi si ritrova nella spiacevole situazione per la quale qualsiasi cosa faccia o dica, viene letta sempre nella logica dell’interesse personale. Poco importa che su diverse questioni abbia visto prima degli altri o che alcuni dossier da lui indicati siano stati poi adottati dalla maggioranza: tutto questo non si tramuta in intenzioni di voto. Un caso esemplare di auto-dissipazione, alla quale hanno contribuito l’alto senso di sé e qualche “bidone” rifilato qua e là. Ma attenzione: una certa inaffidabilità – per quanto non generalizzabile – è abbastanza comune: Renzi l’ha pagata di più, forse anche perché la qualità politica del personaggio rende ancora più imperdonabili le sue leggerezze».
Una battuta sulla Presidenza della repubblica. Il grande oggetto del desiderio… È ancora troppo presto?
«Tutti i candidati – e sono tanti – sono già al lavoro e ogni giorno, senza che ce ne accorgiamo, aggiungono una tesserina al proprio mosaico. Ma è presto per azzardare scenari, perché non sappiamo assolutamente quale sarà la platea dei grandi elettori.: Poniamo che ad eleggere il successore di Mattarella sia questo Parlamento: nei giorni delle votazioni quale maggioranza sosterrà il governo? L’attuale o una di salvezza nazionale? A due maggioranze diverse equivalgono, in linea di massima, due diversi Presidenti. E se invece la legislatura si chiuderà prematuramente? A quel punto avremo una maggioranza di centrodestra autosufficiente o nessuna maggioranza? Tutti scenari che portano a presidenti diversi. Una cosa possiamo però anticiparla: “voci di dentro” del Quirinale ci dicono che Mattarella non chiederà di restare per altri sette anni»

L’ultimo saluto a Giorello: “Giulio era musica”. Intervista a Giuseppe Sabella

Ieri, a Milano, parenti e amici hanno dato l’ultimo saluto a Giulio Giorello. Non un funerale ma un dolce congedo che, anche nelle parole di chi ne ha ricordato frammenti di vita (la moglie Roberta Pelachin, Vittorio Sgarbi, il Rettore dell’Università di Milano Elio Franzini, etc.), ha fatto apparire quell’immagine di lui che si unisce a quella dell’epistemologo, del filosofo della scienza: Giorello è stato un filosofo della libertà. E i suoi libri testimoniano questa fortissima tensione per la libertà che negli ultimi anni si è sempre più accentuata. Non a caso, lo avevamo intervistato (leggi qui) proprio in occasione della sua ultima pubblicazione Società aperta e lavoro (Cantagalli 2019), scritta insieme al suo allievo Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, che collabora con RaiNews.it sui temi economici e del lavoro.

E proprio a Sabella abbiamo chiesto un ricordo del professore.

Giulio è stato strappato dall’affetto di chi continuerà ad amarlo in modo molto improvviso. Come si è saputo, aveva contratto il covid e, dopo due mesi di ospedale e due tamponi negativi, sembrava averlo superato. Ma una volta dimesso, ha avuto qualche complicazione che nel giro di pochi giorni si è rivelata letale. È quindi questa una ferita, per chi è affettivamente legato a lui, che chiede tempo per guarire. Ad ogni modo, è morto con un viso disteso e bello.

Che genere di filosofo è stato Giorello?

Allievo di Ludovico Geymonat, Giorello è stato un filosofo che non solo si è dedicato agli studi epistemologici, a Karl Popper in particolare e a chi ne ha discusso le posizioni, ma che – proprio come Popper – ha creduto che il metodo scientifico fatto di congetture e confutazioni potesse essere anche il giusto metodo per la costruzione della democrazia liberale. Non a caso, nel nostro Società aperta e lavoro c’è un capitolo che si intitola dalla fabbrica dei cieli alla società aperta. Giorello aveva questa sana tensione alla vita civile. In poche parole, Giorello è stato un intellettuale, figura che manca così tanto ai nostri giorni.

Ci racconta un episodio significativo?

Ricordo un episodio quando ero studente, proprio negli anni della tesi – che mi fece fare su Geymonat – che descrive molto bene il professore. Avendo lui intuito la mia passione per la metafisica (kantiana ed hegeliana in particolare), in un colloquio che seguiva alla lettura del primo capitolo mi disse: Sabella, sa cosa dice Aristotele nell’Etica? Pensi pure Platone al bene in sé, noi vogliamo il bene di questi cittadini qui. Io naturalmente gli feci quella che secondo me resta un’obiezione valida: Professore, come si fa a volere il bene di questi cittadini qui se non si ha un’idea di bene? Ho compreso nel tempo che la sua domanda aveva un senso di verità molto profondo e che sintetizzava bene il suo pensiero: o le idee sono in grado di agire e di modificare la realtà o non sono nulla, sono astrazioni. E, contro queste astrazioni, lui ha condotto fino all’ultimo la sua battaglia. Sono convinto, oggi, che se possiamo parlare di verità, la verità è dentro questa tensione che c’è tra Platone e Aristotele, come tra Hegel e Marx, e che è una tensione al vero. E al bello.

Nel 2010, Giorello pubblicava per Longanesi Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. È giusto quindi ricordarlo come un ateo?

Il sottotitolo di questo libro che lei cita, Del buon uso dell’ateismo, dice ancora una volta moltissimo di lui. Giulio, da uomo non solo di filosofia ma anche di scienza, riteneva che la pratica scientifica e civile dovesse prescindere da Dio e dalla religione. Era un perfetto laico, convinto che qualsiasi scelta dovesse essere libera e responsabile. Non a caso amava gli illuministi come Adam Smith, Denis Diderot, David Hume. Ma, a proposito di Dio, ricorderei anche che Giorello ha avuto un rapporto speciale col cardinal Martini e che amava Baruch Spinoza. Noi sentiamo e sappiamo di essere eterni diceva Spinoza: è arduo, soprattutto oggi, dire che il grande filosofo olandese fosse un ateo.

Lei si occupa di economia e di industria, cosa vi legava tanto da condividere pensieri, dibattiti pubblici e, anche, un libro?

L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. È il più grande prodotto della scienza moderna. Ma, contrariamente al tempo degli albori del sistema di fabbrica, oggi abbiamo ragione di credere che non ci sia uno schema preordinato che in qualche modo sciolga l’enigma della storia, come per esempio voleva Marx. Crediamo invece che gli individui possano di continuo cambiarne l’apparente direzione. Una vera e propria direzione della storia in sé e per sé non esiste, il suo corso è imprevedibile perché, in particolare, è imprevedibile l’evoluzione scientifica e tecnologica. Ecco, oggi siamo nel cuore della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione dell’industria, quella che chiamiamo Industry 4.0. Questo è diventato con gli anni il mio principale oggetto di studio che a lui interessava molto perché, appunto, è prova evidente del fatto che non è l’ideologia a cambiare il mondo ma la tecnica, perché questa è il vero contenitore in cui ricade la forma più alta di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in marcia diceva Giorello. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, diceva Giorello, non abbiamo alcun bisogno.

Come si spiega questa popolarità del professore e, anche, l’affabilità che lo contraddistingueva?

Giulio è stata una persona amabile, perché aveva un cuore gentile e generoso. Aveva una capacità di pensare e di comunicare molto lineare. Era molto diretto ma garbato, era in grado di esprimere qualsiasi idea senza offendere nessuno, perché era rispettoso ed elegante nei modi. Ricordo sin da quando ero studente la sua insistenza sull’eresia della scienza. In questo senso, Giulio ci ha insegnato ad essere eretici. E che il progresso della conoscenza come della civiltà si fonda su questa irriverenza, a dire il vero non sempre gentile e garbata come era lui. Leggere ciò che scriveva era emozionante perché il suo modo di esprimersi era musicale. Non a caso, oltre alla birra irlandese, amava la musica. E Bach in particolare, che nel giorno del congedo ci ha accompagnato con la sua musica. Aveva un senso dell’ironia particolarmente affilato e divertente: chissà se lo spirito è santo o solo sopra i 40 gradi? ogni tanto si chiedeva sorridendo. Oggi qualche risposta concreta comincerà ad averla.