TUTTE LE SCONFITTE DELL’ITALIA IN LIBIA. INTERVISTA A MICHELA MERCURI

Quali saranno i “giochi” strategici militari nel nuovo scenario libico? Ne parliamo con la professoressa Michela Mercuri. Michela Mercuri è  docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali di Roma), insegno Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata . È componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.).

Professoressa, la situazione in Libia è ancora ben lontana dalla stabilizzazione. Comunque un dato emerge : Haftar esce fortemente ridimensionato dal conflitto. Colui che voleva conquistare Tripoli viene respinto dal forte intervento turco a fianco del governo di accordo nazionale (quello di Tripoli). Domanda adesso che faranno Francia e Russia? Secondo una fonte giornalistica, Arab weekly, Parigi e Mosca si stanno accordando per il controllo di Sirte (e anche della base di Al-Qardabìya). L’obiettivo russo è avere basi in Cirenaica. Insomma per il Sultano Erdogan non è una passeggiata per lui la Libia…

La città di Sirte è da sempre considerata strategica sia per la sua collocazione geografica, sia per i giacimenti inesplorati che fanno gola a molte potenze straniere da tempo presenti nel teatro libico, Francia in testa. Inoltre, la base di Al-Qardabìya è da tempo negli obiettivi di Putin che ha preso parte alla guerra per procura in Libia al fianco del generale Khalifa Haftar anche per poter ottenere uno sbocco sul mare e per il posizionamento di basi militari. Per questi motivi, per Mosca e Parigi, la Turchia non deve superare questa sorta di “linea rossa”. Al-Qardabìya, poi, ha un forte valore simbolico anche per Haftar che, nel 2016, chiamò l’offensiva militare contro le forze di Misurata battaglia di “Al-Qardabìya 2”. Nonostante tutto, un accordo tra Turchia e Russia sembrava nell’aria: oAnkara avrebbe lasciato al Cremlino la base aerea di al-Jufra, in cui sono già “piazzati” caccia russi, e magari altri “assets”, e la partita forse si sarebbe chiusa. Tuttavia la Francia per non rimanere esclusa dai giochi ha intensificato notevolmente la propria attività su Sirte, con numerosi sorvoli effettuati con caccia Rafale sui cieli della città, rimescolando le carte. Per non indispettire gli Usa, per ora più vicini alle forze dell’ovest, il Presidente Macron ha telefonato a Trump denunciando il comportamento “inaccettabile” della Turchia, tentando di mettere i bastoni tra le ruote a Erdogan che credeva oramai chiusa la partita libica con un accordo turco-russo. Il futuro, dunque, appare ancora incerto. Molto dipenderà dai futuri negoziati, che inevitabilmente vedranno la “questione Sirte” al centro del dibattito, e da quanto e come gli Usa decideranno di esporsi in favore della Turchia. L’ipotesi più plausibile, al momento, è quella di un congelamento delle posizioni, con la Turchia nell’ovest e la Russia e (molto parzialmente) la Francia nell’est. La domanda è se questa sorta di “instabilità controllata” sarà destinata a durare. Su questo nutro dei dubbi.
Resta comunque che la presenza turca sì è rafforzata ,non solo numericamente (con 1500 uomini e 11 mila mercenari siriani) ma anche con basi logistiche e navali. Sappiamo quanto sia importante per Erdogan rafforzare la presenza navale nello scacchiere centrale del mediterraneo. E le recenti manovre navali lo hanno confermato. Quali sono queste basi?

La Libia sembra essere divenuta “l’hub” per la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo orientale e non solo. L’impegno di Ankara al fianco del Governo di accordo nazionale (Gna) di al-Serraj non è certo stato dettato da spirito caritatevole ma da una precisa strategia: rafforzare la sua presenza nel mare nostrum in cambio del supporto al Gna. Prova ne sia Erdogan, ancor prima di intervenire in Libia, aveva già siglato con al- Serraj un accordo per una zona economica esclusiva che dalle coste della Turchia si estende a quelle della Libia per sfruttare le risorse di gas offshore in un’area che vede forti interessi di Eni, Total e alcune compagnie americane.  Ma il conto potrebbe essere più salato. Il Sultano potrebbe installare basi militari nel Paese in aree strategiche.  Una potrebbe essere collocata nell’aeroporto di al-Watiya che si trova a circa 120 km a sud-ovest di Tripoli che è stato recentemente sottratto alle forze di Haftar. Si tratterebbe di una base militare in cui collocare caccia, droni e sistemi antimissilistici. Ci sarebbe, poi, la possibilità di una infrastruttura navale nell’area di Misurata utile a controllare gli interessi turchi nel Mediterraneo orientale. Va precisato che un tale “investimento” non sarebbe stato possibile senza il supporto del Qatar, altro alleato del Gna in Libia soprattutto in chiave anti Emirati che armano il generale Haftar. Lo scorso anno Ankara ha realizzato la sua seconda base in Qatar con lo scopo di proiettare la sua influenza anche nel Golfo. Detta in altri termini le ambizioni neo-ottomane del Sultano vanno ben oltre il Mediterraneo orientale.

Gli Usa si affidano Erdogan per tutelare i loro interessi?

Nonostante le tensioni tra Washington e Ankara dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani o le numerose “frizioni” dovute alle diverse posizioni assunte dai due Paesi in Siria (solo per citare alcuni esempi) potremmo dire che la realpolitik tende a produrre “strange bedfellow”. Trump ed Erdogan, dopo il recente arrivo di caccia russi in Libia, sembrano aver capito che, se necessario, è meglio mettere da parte le divergenze per far fronte al nemico comune e hanno concordato di “continuare una stretta collaborazione” in Libia basata su reciproci vantaggi. Il Presidente americano ha nella Turchia sia il partner che fa il “lavoro sporco”, combattendo contro le forze di Haftar e arginando l’azione dei russi, sia un possibile mediatore capace di dialogare con Putin. La Turchia, in cambio, può ritagliarsi un maggior peso in Libia e nel Mediterraneo con il tacito consenso degli americani. D’altra parte la Turchia non è vista di buon occhio nella Nato, di cui pure fa parte, e uno “sdoganamento” da parte americana può essere sicuramente utile. Di converso, gli americani hanno basi strategiche in territorio turco. Meglio mettere da parte le divergenze, magari partendo proprio dalla Libia.

Come si stanno comportando ğli altri “attori”? Mi riferisco in particolare a Egitto, Arabia Saudita e Qatar…
Qatar, Arabia Saudita ed Egitto in Libia hanno fin qui sostenuto fronti opposti. In estrema sintesi Doha è al fianco di al-Serraj mentre Riad e Il Cairo sostengono Haftar. L’Arabia Saudita al momento sembra meno interessata al dossier libico, mentre gli Emirati arabi uniti sono rimasti gli unici veri sponsor di Haftar. Saranno probabilmente loro a cercare in ogni modo di rispondere alla “vittoria turca”, forse non in Libia ma su altri tavoli come, ad esempio, la già martoriata Siria. Nel frattempo cercano di mettere i bastoni tra le ruote ad Ankara nel Mediterraneo orientale intessendo rapporti con molti degli attori interessati al progetto del gasdotto East Med (ostacolato dalla Turchia) tra cui l’Egitto. Per quanto riguarda Il Cairo, al-Sisi sembra voler salire su un gradino più alto, passando da attore attivo del conflitto, grazie al suo sostegno ad Haftar, al ruolo di mediatore. Per questo motivo ora pare molto più vicino ad Aquila Saleh, il Presidente del Parlamento di Tobruk sostenendo la sua “iniziativa di pace” che richiedeva, tra le altre cose un immediato cessate il fuoco, il ritiro delle forze straniere e un ritorno al processo politico. La proposta è stata evidentemente restituita al mittente dal Gna e dalla Turchia. Tuttavia il ruolo egiziano potrebbe essere importante per futuri negoziati che, mi auspico, vi saranno a breve.

Qualcuno ha scritto che la Libia è un

Monumento alla inettitudine della classe politica italiana. Condivide il giudizio?

La Libia è la cartina al tornasole dell’assenza di una strategia di politica estera dell’Italia. Nel 2011 abbiamo preso parte a un intervento internazionale voluto soprattutto dalla Francia, pagando per far fuori Gheddafi, il nostro migliore alleato nel Mediterraneo. Nel tempo siamo riusciti a recuperare alcune postazioni nel Paese, grazie anche all’Eni che ha continuato a lavorare in Libia mantenendo rapporti con gli attori locali. Dal 2016, abbiamo deciso di sostenere il Gna di Serraj per tutelare i nostri interessi nell’ovest ma limitando troppo spesso la nostra “chiave di lettura” della crisi libica al tema migratorio e, dunque, senza quello sguardo strategico d’insieme che una seria politica estera richiederebbe. Quando, però, l’offensiva di Haftar per conquistare Tripoli sembrava volgere a suo favore abbiamo “strizzato l’occhiolino” al generale della Cirenaica, perdendo credibilità nell’ovest. A chiudere questa “parata di errori”, negli ultimi mesi, forse troppo presi dai problemi del Covid, abbiamo abbandonato di nuovo il dossier libico lasciando campo libero alla Turchia che ha rifornito le milizie di Tripoli e dintorni di armi e mercenari permettendo ad al- Serraj di costringere Haftar a una parziale ritirata e ora “le chiavi” dell’ovest sono in mano ad Erdogan. Eppure abbiamo ancora numerosi assets nel Paese. La nostra ambasciata a Tripoli svolge un ottimo lavoro, l’Eni continua ancora ad avere un importante peso anche tra la popolazione. Abbiamo buoni rapporti con gli attori che sostengono le diverse fazioni.  Solo per fare alcuni esempi, il gas egiziano porta il marchio di Eni, il giacimento Zhor, oggi, rappresenta da solo un terzo della produzione totale di gas del Paese. Dall’altra parte l’Italia fa affari anche con il Qatar, alleato di al-Serraj. Detta in altri termini abbiamo ancora delle buone carte per giocare la nostra partita ma non lo stiamo facendo. Possiamo definire “inettitudine” questo atteggiamento, o più semplicemente incapacità di portare avanti una chiara linea di politica estera. Qualunque definizione vogliamo utilizzare i fatti non cambiano: almeno per il momento abbiamo perso la Libia.

Quali sono i rischi che corrono ĺ’Italia e l’Europa da un rafforzamento di Putin e Erdogan in Libia?

L’Italia e l’Europa non rischiano di perdere più di quanto abbiano già perso, visto che oramai sono totalmente escluse dalla partita libica. In termini brutali potremmo dire che chi è sul terreno vince e Russia e Turchia hanno combattuto nel Paese “boots on the ground” e ora chiedono il conto ai rispettivi alleati sul terreno. Quanto sarà “salato” lo scopriremo solo quando i due si siederanno al tavolo delle trattative. In ballo ci sono basi militari, porti, affari miliardari per la ricostruzione e, più in generale, l’influenza geostrategica nel quadrante mediterraneo. Se il buongiorno si vede dal mattino, tra tutti i Paesi europei, l’Italia è la grande sconfitta. Il 18 giugno, in una lettera pubblicata nel quotidiano La Repubblica, il leader del Gna, Fayez al- Serraj, pur chiedendo all’Onu e all’Unione europea un aiuto per una soluzione politica del conflitto e ribadendo il legame con l’Italia, sottolinea più volte l’indispensabile supporto fornitogli dalla Turchia e la validità dell’accordo concluso con Ankara per la già menzionata zona economica esclusiva nel Mediterraneo orientale. Parole che pesano come un macigno sull’Europa ma soprattutto sull’Italia. Non servono altri esempi per spiegare il ruolo oramai marginale che ricopriamo nel Paese. Per il nostro governo non vi sono più scelte: se vorrà tornare a dialogare con gli attori dell’ovest dovrà necessariamente “alzare la cornetta e chiamare Ankara”: è lei che decide, probabilmente anche sulla questione migranti. E a chi eccepisce che la Turchia non sia l’interlocutore migliore con cui parlare non si può che rispondere che l’Italia ha scelto di trovarsi in questa difficile situazione.

Ma in tutta questa vicenda le tribù libiche che ruolo stanno giocando?

 

La Libia è un Paese di notevoli dimensioni fatto di realtà tribali radicate nel territorio e con un forte ascendete sulla popolazione che neppure Gheddafi riusciva a controllare del tutto, specie nella Cirenaica e nel Fezzan. Le tribù, e più in generale gli attori locali come le municipalità, sono player indispensabili che potrebbero avere un ruolo aggregativo o disgregativo nei futuri assetti libici. In Tripolitania, ad esempio, dopo la sconfitta di Haftar è venuto a mancare “il nemico comune” e ora le forze che si erano strumentalmente unite contro di lui potrebbero rispolverare ambizioni egemoniche capaci di portare a scontri interni. Prima dell’avanzata dell’esercito di Haftar, per esempio, c’erano vistose crepe tra al-Serraj e i gruppi di Misurata, la potente città-Stato che con le sue milizie ha battuto lo Stato islamico a Sirte nel 2016 e da lì ha sempre ambito a un ruolo di primo piano nel Paese. I misuratini sono fin qui stati preziosi alleati del Gna nel respingere l’offensiva militare di Haftar, ma ora potrebbero chiedere il conto. Discorso simile può essere fatto per le altre milizie libiche, unite dalla causa comune di “salvare Tripoli” ma che ora potrebbero ingaggiare una guerra intestina. Di questo anche Turchia e Russia dovranno tenere conto quando decideranno come far valere i loro interessi nel Paese. D’altra parte, gli attori locali, o per lo meno alcuni, potrebbero essere alleati della comunità internazionale per un processo di ricomposizione del Paese. Un percorso che richiede una grande conoscenza della complessa realtà territoriale libica e una notevole capacità di dialogo e mediazione che fino ad oggi nessuno si è sforzato di compiere.
Sono ancora possibili negoziati di pace?

Nonostante le evidenti difficoltà di cui abbiamo sin qui parlato, è indispensabile tentare nuovi negoziati. Questa volta, però, sarà necessario lasciare da parte le belle photo opportunity (unico risultato raggiunto nei vari vertici internazionali fin qui realizzati sulla Libia) ed essere molto più pragmatici, intavolando un dialogo inclusivo con le municipalità e con le tribù. La domanda è: chi può farlo e come? E’ evidente che Russia e Turchia saranno i protagonisti indiscussi dei futuri negoziati e che gli Usa, che per il momento hanno scelto Ankara, giocheranno la loro partita dietro le quinte. Per quanto riguarda l’Europa è oramai chiaro che nessuno Stato da solo può fare la differenza e dunque non resta che sperare che le cancellerie europee aprano gli occhi e capiscano, dopo quasi10 anni di instabilità e conflitti, che la guerra, oltre ad essere una catastrofe per la popolazione, viene sempre vinta da chi è più spregiudicato e non ha problemi nell’esporsi e combattere (e questo non è certo nelle corde dell’Europa). A volte, dunque, è più conveniente trovare una soluzione comune tra tutti gli Stati e non per spirito di unità, che in Europa fin qui non è mai esistito, ma per la pragmatica presa di coscienza che una Libia stabile può favorire l’interesse nazionale di tutti i Paesi europei. Se l’Europa ci riuscirà potrà forse ambire a un qualche ruolo nel futuro del Paese.

Navi militari all’Egitto: l’affare militare non riguarda solo il caso Regeni Intervista a Giorgio Beretta (Osservatorio OPAL)

La notizia dell’autorizzazione all’esportazione all’Egitto di due fregate multiruolo Fremm ha suscitato le proteste della famiglia Regeni che si è detta “tradita dallo Stato”. La vendita delle due navi militari solleva diverse questioni di natura geopolitica e strategica, ma soprattutto sulla politica estera dell’Italia e sull’osservanza delle norme che regolano l’esportazione di armamenti. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

 

Può spiegarci innanzitutto in cosa consiste questo contratto? Si tratta solo delle due navi militari o c’è dell’altro?

Questo è il punto principale perché riguarda l’informazione al parlamento e ai cittadini. L’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm, la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi,  originariamente destinate alla Marina Militare italiana, è infatti, secondo diverse e autorevoli fonti di stampa nazionale ed estera, solo una parte di un più ampio affare militare in trattativa tra Roma e il Cairo. Un maxi-contratto tra i 9 e gli 11 miliardi di euro che prevede, oltre alle due Fremm, altre quattro fregate missilistiche, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon e altrettanti aerei addestratori M-346 più un satellite di osservazione. Negli ambienti del settore militare-industriale è stato già definito “la commessa del secolo”. Ma, al momento, non vi è stata alcuna informativa precisa al riguardo, nemmeno sull’autorizzazione all’esportazione all’Egitto delle due fregate Fremm.
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Tempesta finanziaria in Vaticano. Intervista a Carlo Marroni

(Stefano Dal Pozzolo/contrasto)

Il Vaticano è scosso, in questi giorni, dall’ennesimo scandalo finanziario.
Sono implicati monsignori di Curia, funzionari vaticani, finanzieri e
affaristi. Di cosa si tratta? Ne parliamo, in questa intervista, con Carlo
Marroni, vaticanista del quotidiano finanziario “Il Sole 24 Ore”.

Carlo Marroni, periodicamente  il Vaticano viene investito da Tempeste finanziarie. Eppure con Papa Francesco vi è stata la riforma dello IOR, la vigilanza ha cambiato governance. Anche questo ultimo episodio, di cui parleremo dopo, è stato scoperto dalle autorità Vaticane. Secondo il Vaticano l’indagine prende avvio “grazie agli anticorpi del sistema” . Domanda: ma il sistema funziona veramente?

Papa Francesco, dopo la sua elezione nel 2013, avviò subito un processo di revisione delle strutture economiche e dello Ior, sulle quali era già intervenuto nella fase finale del suo pontificato Benedetto XVI. Negli anni 2014-2016 molte cose sono cambiare, e importanti riforme sono state approvate, come la nascita della Segreteria per l’Economia, Ma il processo si è rivelato non sempre lineare, molte scelte hanno poi subito modifiche, e le persone scelte dal Papa non sempre sui sono rivelate adatte ai quei ruoli, si pensi solo allo scandalo Vatileaks-2 o la nomina del cardinale George Pell. Lo stato di confusione creatosi all’inizio poi si è stabilizzato,  ci sono stati dei cambi nelle responsabilità e la riforma è andata a regime, anche se dei cambiamenti devono ancora essere approntati, come la centralizzazione della “finanza” nell’Apsa. Comunque i controlli oggi ci sono, e nel caso dell’immobile di Londra è stata proprio la struttura di “compliance” e i livelli di responsabilità introdotti che hanno fatto scattare l’inchiesta. Lo ha detto il Papa direttamente.

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Il caso Bose. Intervista a Riccardo Larini

La Chiesa italiana è scossa per le notizia, uscita in questi giorni con grande clamore sulla stampa nazionale, dell’allontanamento, deciso dalla Santa Sede, di Enzo Bianchi dalla Comunità di Bose. Comunità fondata da lui subito dopo il Concilio Vaticano II. Un caso clamoroso. Cerchiamo di capire di più, per quanto è possibile, in questa intervista con il teologo Riccardo Larini. Riccardo Larini è un intellettuale molto vicino alla Comunità, avendone fatto parte per undici anni ed essendo sempre rimasto in ottimi rapporti con tutti a Bose.

“All’indomani della solennità della Pentecoste, la Comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore, fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.
A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità.
Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere.
Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.

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2 giugno: Festa della Repubblica che ripudia la guerra. Interviste a: Filippo Ganapini (Nigrizia), Rosa Siciliano (Mosaico di Pace) e Mario Menin (Missione Oggi)

 

Marzo 2003: Corteo pacifista a Roma (Foto: Eccetera)

Sono numerose le iniziative promosse dalle associazioni pacifiste e per il disarmo in programma per oggi, 2 giugno per la Festa della Repubblica “che ripudia la guerra”. 

Le sei reti nazionali che hanno promosso la Campagna “Un’altra difesa è possibile” hanno presentato ieri in una conferenza stampa la nuova fase di mobilitazione per il rilancio della Campagna e per chiedere al Parlamento esaminare la proposta di legge di iniziativa popolare che chiede di istituire un “Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta”.

La Tavola della Pace propone per oggi 2 giugno dalle 17 alle 19 su Zoom e Facebook l’evento “Insieme per la pace” con interviste e interventi in diretta di diversi protagonisti del mondo pacifista. L’evento fa parte delle iniziative “Verso la Marcia Perugia-Assisi” di domenica a 11 ottobre.

Per la giornata di oggi, i direttori delle tre riviste promotrici della Campagna di pressione alle “banche armate” hanno lanciato un appello dal titolo significativo e, in un certo senso, provocatorio: “Cambiamo mira! Investiamo nella Pace, non nelle armi”. Li abbiamo intervistati.

Padre Filippo Ivardi Ganapini è da novembre direttore di “Nigrizia”, la storica rivista dei missionari Comboniani. Padre Filippo, da cosa nasce il vostro appello? E perché avete deciso di diffonderlo proprio in questi giorni?

L’appello nasce innanzitutto dal sogno che tutti i popoli abbiano vita degna, vera e piena. Sogno che neppure questa pandemia può bloccare. E’ per questo che, durante questi mesi così duri per l’umanità, abbiamo riflettuto insieme. Ci siamo accorti che l’Italia, che investe fior di miliardi nelle spese militari, mancava non solo di mascherine e kit sanitari per i tamponi, ma anche di respiratori polmonari e tante apparecchiature necessarie per salvare vite umane. Il nostro Paese, cioè, era ed è preparato, con i suoi apparati militari, per fare la guerra, ma manca di un piano sanitario, di strutture e materiali per fronteggiare un’epidemia.

Abbiamo perciò trovato illuminante e profetico l’appello che papa Francesco ha rivolto ai cattolici, ma non solo, nel suo messaggio di Pasqua: “Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite”. Abbiamo voluto raccogliere e rilanciare le sue parole tendendo conto che, proprio in questo periodo di emergenza economica, diventa ancora maggiore il rischio di prestare poca attenzione all’origine delle donazioni, alla loro provenienza. Da qui l’invito che rivolgiamo a tutti, e a noi missionari e religiosi per primi, a verificare le fonti delle donazioni e a rinunciare a provenienze dubbie anche se necessarie per fini caritativi e sociali.

Rosa Siciliano è la direttrice del mensile “Mosaico di pace” del movimento Pax Christi. Rosa, le spese militari e le esportazioni di armamenti italiani continuano a crescere. Ci può fare una breve panoramica della situazione?

Diciamo subito una cosa che pochi conoscono. Mentre negli ultimi dieci anni la spesa sanitaria ha subito una contrazione complessiva di oltre 37 miliardi di euro, la spesa militare italiana ha segnato un progressivo incremento passando dall’1,25% del Pil fino a circa l’1,40% raggiunto ormai stabilmente negli ultimi anni. Non solo: mentre il personale militare è tuttora ampiamente sovradimensionato rispetto alle reali esigenze del Paese, il Servizio Sanitario nazionale dal 2009 al 2017 ha perso 46mila addetti. Inoltre, mentre alla sanità è stata applicata la “spending review” non altrettanto può dirsi per il settore militare e in particolare per il “procurement militare”, cioè per l’acquisto di armamenti, la cui spesa negli ultimi bilanci dello Stato si è sempre aggirata tra i 5 e i 6 miliardi di euro annuali. Spese che vengono impiegate per l’acquisto di sistemi militari come i caccia F-35 (almeno 15 miliardi), le fregate Fremm e tutte le unità previste dalla Legge Navale (6 miliardi di euro complessivi) tra cui la portaerei Trieste (che costerà oltre 1 miliardo), elicotteri e missili. Senza dimenticare i 7 miliardi di euro in particolare per mezzi blindati e la prevista Legge Terrestre” da 5 miliardi.

Nel contempo, l’Italia continua ad esportare armamenti soprattutto nelle zone di maggior tensione del mondo e a Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. La Relazione governativa inviata alle Camere nei giorni scorsi, riporta che il 62,7% delle esportazioni militari italiane è destinata a governi che non appartengono alla Nato e all’Ue e la maggior parte, cioè praticamente un terzo, riguarda forniture a Paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Egitto e Turkmenistan sono i principali acquirenti del 2019, ma negli anni scorsi sono state consistenti le esportazioni militari soprattutto al Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Israele, Algeria, Turchia e Marocco. Per questo nel nostro appello ci uniamo alla richiesta fatta congiuntamente al Governo da parte di Rete italiana per il disarmo, Rete della pace e Sbilanciamoci! di attivare una moratoria sulla spesa militare e sui sistemi d’arma per almeno un anno, riconvertendo tale spesa nella sanità, nella scuola, nella cultura, nella tutela dell’ambiente, nelle comunità locali.

Padre Mario Menin è direttore della rivista “Missione Oggi”, la rivista dei missionari Saveriani. Padre Mario, come riviste avete deciso di rilanciare la Campagna di pressione alle “banche armate”. Quali sono le vostre proposte e a chi sono dirette?

Quest’anno la Campagna compie vent’anni: anni nei quali – come abbiamo rilevato in un’intervista di alcuni anni fa – abbiamo ottenuto risultati importanti portando numerosi istituti di credito a definire delle direttive, rigorose e trasparenti, in materia di finanziamento alle aziende del settore militare e ai servizi che offrono alle esportazioni di armamenti. E’ venuto perciò il momento di fare il punto della Campagna, di aggiornare il quadro della situazione e di ridefinirne e rilanciarne le proposte. Lo faremo il 9 luglio, in occasione del trentesimo anniversario dell’entrata in vigore della Legge n. 185/1990 che ha introdotto in Italia “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Come sempre le nostre proposte sono dirette a tutti, in particolare alle comunità del mondo ecclesiale, ma non solo: vi saranno proposte specifiche per gli organi di informazione, per le associazioni nazionali e i gruppi territoriali, per gli enti locali e ovviamente per i singoli cittadini.

Invitiamo tutti, fin da adesso, a verificare le banche in cui abbiamo depositato i risparmi evitando quei gruppi bancari che finanziano, giustificano e sostengono l’industria, il commercio e la ricerca militare. E, soprattutto, invitiamo a promuovere incontri di approfondimento sul tema del commercio di armamenti, sui finanziamenti all’industria militare e sulla riconversione delle spese militari e delle aziende La nostra campagna è sempre stata, innanzitutto, una campagna di informazione e di sensibilizzazione con obiettivi ben chiari sia di tipo politico, come il controllo delle esportazioni di armamenti, sia di tipo culturale per quanto riguarda la responsabilità sociale delle aziende, delle banche, ma anche delle nostre comunità ecclesiali e delle nostre associazioni. E’ una campagna che impegna innanzitutto ciascuno di noi, come singoli e associazioni, a mettere in pratica ciò che chiediamo agli altri: solo in questo modo di produce vero cambiamento.