«Addio, in questa prigione dorata non mi è mancato nulla se non le vostre carezze»

 

Su Interris.it è stata pubblicata la straziante lettera di un anziano che viveva in un Rsa e prima di essere ucciso dal Covid-19 saluta la figlia e i nipoti, senza sapere se leggeranno mai queste sue parole: i rimpianti, i rimorsi, le riflessioni di un uomo che sa di morire. Un commovente addio e una forte denuncia.  Ecco il testo della lettera

 

Pubblichiamo il testo integrale della lettera daddio di un anziano morto per coronavirus allinterno di una Rsa (Residenza sanitaria assistita, ndr) dove purtroppo si sono registrati numerosi decessi e dove le persone sono morte da sole e a causa della pandemia non si è potuto neanche celebrare un funerale

 

Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi cari miei figli e nipoti. (L’ho consegnata di nascosto a Suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla). Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere una penna ricevuta per grazia da una giovane donna che ha la tua età Elisa mia cara. È l’unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po’ di luce dai suoi occhi; uno sguardo diverso da quello delle altre assistenti che neanche ti salutano.

Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella “prigione”. Si, così l’ho pensata ricordando un testo scritto da quel prete romagnolo, don Oreste Benzi che parlava di questi posti come di “prigioni dorate”. Allora mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto. Sembra infatti che non manchi niente ma non è così…manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno “come stai nonno?”, gli abbracci e i tanti baci, le urla della mamma che fate dannare e poi quel mio finto dolore per spostare l’attenzione e far dimenticare tutto. In questi mesi mi è mancato l’odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme.

In 85 anni ne ho viste così tante e come dimenticare la miseria dell’infanzia, le lotte di mio padre per farsi valere, mamma sempre attenta ad ogni respiro e poi il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa. E poi, il giorno della laurea e della mia prima arringa in tribunale. Quanti “grazie” dovrei dire, un’infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato. Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano come dice la Bibbia e che dire, anche il parroco, lo devo ringraziare per avermi dato l’assoluzione dei miei peccati e per le belle parole espresse al funerale di mia moglie. Ora non ce la faccio più a scrivere e quindi devo almeno dire una cosa ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo.

Non è stata vostra madre a portarmi qui ma sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno. Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, forse sarà stato anche per orgoglio e quando ho visto di non essere più autonomo non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione.

«Se potessi tornare indietro direi a mia figlia di farmi restare a casa»

Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera. In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi? Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “Sai perché quella quando parla ti urla? Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro? Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta.

Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le Rsa, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco…l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no.

La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego…non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice. Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale.

E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi.

 

 

(Dal sito: https://m.famigliacristiana.it/articolo/coronavirus-la-lettera-di-un-nonno-in-una-rsa-prima-di-morire-in-questa-prigione-dorata-non-e-mi-mancato-nulla-se-non-le-vostre-carezze.htm)

IL VANGELO SECONDO MATTIA. INTERVISTA A DON MATTIA FERRARI

 

“«Sei pronto?» gli chiede Alessandro. Tommy è ancora in posa, ma non risponde. Lo vedo con la bocca spalancata, come quando scorge balenottere o delfini, meravigliandosi come solo gli uomini di mare sanno fare quando nella solitudine delle traversate incontrano qualcuno che in fondo considerano un proprio simile. Tommy è immobile. Lui, sempre guascone e pronto alla battuta, all’improvviso s’è fatto tutto serio. Ci passa il binocolo: «Guardate». E indica un punto con il dito. Sulla Mare Jonio intanto fissano il radar. Anche lì c’è una macchiolina scura. Tommy ha ragione. Lì, in mezzo al deserto blu del Mediterraneo centrale, c’è un gommone piccolo e sovraccarico: 30 persone. Il motore è in avaria. La loro unica speranza di sopravvivere, oggi, qui dove nessuno viene più a pattugliare, si chiama Mediterranea Saving Humans. Sono 30 persone in fuga dal nulla e dalla morte, scampate dalle torture nei campi libici. Da prete so che in fondo la mia è la missione della «barca di Pietro». Ma mai mi sarei sognato di salire un giorno su un’altra «barca di Pietro» perché insieme ad altri diventassimo, letteralmente, «pescatori di uomini».”

Così inizia l’avventura e il racconto di Don Mattia Ferrari, giovane sacerdote modenese, con la nave della ONG Mediterranea. Una bella avventura, un modo forte ed esigente di testimoniare il Vangelo. Per lui l’impegno di salvare i migranti che attraversano quel tratto di mare è la realizzazione del grande sogno di Papa Francesco: la Chiesa come “ospedale da campo”. In questo libro (“PescatorI d’uomini”.Ed Garzanti), scritto con il grande inviato del quotidiano cattolico Avvenire Nello Scavo, don Mattia ci racconta come si sviluppa la sua vocazione di servire i più poveri e i dannati della terra.  In questa intervista approfondisce con noi il valore della sua storia.

 

Mattia, il tuo libro si legge tutto d’un fiato. È intenso, mi sono commosso a leggere alcune pagine della tua vita. Sei molto giovane ma già con una storia importante. Allora partiamo da una prima considerazione : il tuo libro è un inno a Papa Giovanni, che tu hai scoperto attraverso l’amicizia con monsignor Loris Capovilla (che è stato segretario di Angelo Roncalli). TI chiedo perché è così importante, per te giovane prete del XXI secolo, la figura di Giovanni XXIII?

Conobbi la figura di Papa Giovanni negli anni del liceo, nel 2012. A scuola, al liceo Muratori, stavo sperimentando la bellezza e l’importanza del cammino della Chiesa con tutte le persone di buona volontà. Mi trovavo con compagni di scuola, insegnanti e collaboratori scolastici spesso non credenti, ma animati da ideali profondi di umanità e di giustizia. Insieme ci immergevamo nel patrimonio della cultura, letteraria, filosofica, scientifica e riflettevamo sul mistero della vita e sui grandi interrogativi che albergano nel cuore dell’uomo, grazie agli strumenti preziosissimi che la letteratura ci fornisce. Mi rendevo così sempre più conto di quanto fosse importante, e anche bello, percorrere con tutte le persone di buona volontà il cammino di scoperta del mistero della vita e di costruzione di un mondo migliore. A un certo punto mi imbattei nella figura di Papa Giovanni, grazie ai racconti dei miei nonni, che erano stati giovani negli anni del suo pontificato: mi colpivo come loro, comunisti, parlassero con così tanto affetto del Papa buono. Ho così voluto iniziare a studiare la sua figura e il suo messaggio e in lui ho trovato proprio l’illustrazione della strada che stavamo percorrendo al liceo. Papa Giovanni ci ha mostrato che è possibile abbracciarci gli uni gli altri, al di là delle nostre provenienze culturali e religiose, e camminare insieme. E questa strada ha ripreso nuovo slancio con Papa Francesco.

 

La seconda considerazione che voglio fare è questa : nel racconto della tua vita traspare una grande serenità, anche di fronte a momenti duri (per esempio la morte del tuo amico carissimo Fabrizio, un ragazzo dotato di estrema sensibilità con il dono grande dell’amicizia). Questo colpisce il tuo Interlocutore. Dove sta la radice profonda di questo?

Sta nell’aver sperimentato, e nel continuare a sperimentare, l’amore. Vedere, sentire l’amore, mi ha fatto capire che il male non avrà mai l’ultima parola. Ci sono sofferenze, anche grandi, ma l’amore dà quell’energia interiore che dà la forza per andare avanti. Non cancella la sofferenza, ma aiuta ad attraversarla. La mia famiglia, la scuola, la mia parrocchia, Mediterranea e tante realtà che ho conosciuto mi hanno mostrato che l’amore sorprende sempre. Aprendoci dunque all’amore, troviamo la forza per continuare il cammino.

 

Torniamo al tuo libro. Ho trovato bellissimo  il titolo perché mette insieme,  unisce la tua vocazione presbiterale con quello di soccorritore, insieme ai tuoi compagni di Mediterranea, dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Come hai scoperto questa tua vocazione ad essere un “Pescatore d’uomini”?

Grazie all’amicizia. Sono stati i ragazzi e le ragazze Tpo e Labas, con cui siamo amici da anni proprio grazie alla comune amicizia verso i migranti, ad avermi trascinato dentro a questa avventura. Ed è stato Luca Casarini, a nome di tutto l’equipaggio, a chiedermi di salire a bordo. Mai mi sarei aspettato di farlo in vita mia. Ma appunto l’amore sempre. E l’amore grande che c’è nel cuore di quei ragazzi, di Luca e degli altri componenti di Mediterranea li ha portati a intraprendere questa avventura e a trascinarmi con loro, proprio in virtù della nostra amicizia, cioè del nostro amore.

 

 Ci sono pagine belle nel tuo libro: quelle sul tuo incontro con i così detti “lontani”. In questo sei un figlio del Concilio Vaticano II. In più pagine ringrazi i “lontani” perché  da loro hai ricevuto una bella testimonianza evangelica…. Io dico : è un bel paradosso evangelico. È così Mattia?

Sì, è un paradosso evangelico. Ma è la bellezza del Vangelo. Il Vangelo è innanzitutto una sostanza viva, una forma di vita. Anche chi non professa la fede cristiana, può viverlo, perché  il Vangelo lo vive chiunque apre il suo cuore al sentimento di compassione viscerale” che spinge all’azione e porta, ci dice Gesù, a vivere la vita piena. Tante persone lontane” dalla Chiesa hanno aperto il proprio cuore a quel sentimento di compassione viscerale” e mi hanno mostrato il Vangelo vissuto.

 

Sappiamo che hai, per questo, ricevuto critiche, anche feroci, non solo dagli ambienti della destra leghista e da quella neofascista, ma anche da ambienti cattolici (o supposti tali). Per loro sei il “prete dei centri sociali”. Come rispondi alle accuse? 

Le accuse che ho ricevuto mi fanno soffrire quando mostrano che, chi le muove non ha capito lo spirito con cui i miei compagni e compagne ed io agiamo. Ma più delle accuse a me, mi dispiacciono le critiche che vengono mosse a Papa Francesco su questi temi. Papa Francesco è semplicemente fedele al suo maestro, Gesù. Bisognerebbe che chi critica Papa Francesco su queste cose, avesse l’onestà intellettuale e la coerenza di criticare anche Gesù. 

 

Quali sono stati i momenti più duri e quelli più belli della tua esperienza di “Pescatore d’uomini”?

Il più duro è stato quando il 2 maggio abbiamo dovuto assistere a un respingimento di persone verso la Libia. La funzione delle navi di soccorso in mare non è solo quella di salvare le persone, ma anche quella di testimoniare e denunciare ciò che avviene: per questo si cerca di criminalizzarle. Il 2 maggio abbiamo assistito a una conversazione sul canale radio su cui avvengono le comunicazioni internazionali a un dialogo tra un aereo europeo dell’operazione militare EUNAVFORMED Sophia e la cosiddetta Guardia costiera libica in cui l’aereo europeo segnalava la presenza di due imbarcazioni di migranti e coordinava l’intervento dei libici. Abbiamo provato ad arrivare prima, ma non ce l’abbiamo fatta. Quanto fatto da Europa e Libia, e quello avvenuto quel giorno è solo uno dei tanti casi, è di massima gravità: riportare le persone in fuga dal luogo da cui scappano, se in quel luogo sono a rischio la loro vita o la loro incolumità, è una violazione del diritto umano internazionale al non respingimento. È stato un momento durissimo: vedere la tua Europa fare questo ti spezza il cuore. Ma almeno grazie alla nostra presenza in mare abbiamo potuto denunciare tutto questo all’opinione pubblica e alla magistratura.

Il momento più bello è stato quello del salvataggio: vedere insieme le persone soccorse, provenienti da tanti Paesi diversi e scampate alla morte per ingiustizia (perché è l’ingiustizia che costringe le persone a intraprendere viaggi così pericolosi) grazie al fatto che i ragazzi e le ragazze di Mediterranea hanno scelto di opporsi all’ingiustizia e di mettersi in gioco in prima persona, mi ha mostrato che un mondo diverso è davvero possibile.

 

Tu incarni la “Chiesa ospedale da campo” sognata da Papa Francesco. Eppure nella Chiesa vi sono forti resistenze, non solo tra le gerarchie ma anche, in alcune parti, del laicato. Pensi che sia irreversibile la rivoluzione di Francesco?

Ti ringrazio per questa definizione: spero di essere davvero in grado di incarnare la Chiesa ospedale da campo”, ma so che non faccio quanto dovrei per riuscirci. Ci sono tanti preti e tanti cristiani e cristiane che comunque lo fanno molto meglio di me. La rivoluzione di Francesco spero sia irreversibile, perché significa una maggiore fedeltà al Vangelo. Papa Francesco non sta facendo altro che aiutare la Chiesa ad essere più fedele a Gesù. Tornare indietro rispetto a quello che lui sta facendo significherebbe tradire il Vangelo. Ho fiducia che andremo avanti anche perché ci sono tanti vescovi, tra cui il mio (Erio Castellucci), Matteo Zuppi, Corrado Lorefice, Paolo Lojudice, Jean-Claude Hollerich e tantissimi altri (non li cito tutti, perché sarebbe un elenco davvero lungo) che sono perfettamente inseriti in questo cammino. E ci sono tante donne e uomini nella Chiesa che vivono con autenticità il Vangelo e seguono il cammino che Francesco sta tracciando. Ho conosciuto alcune persone, tra cui Giulia Ognibene e Manuela Di Grazia che cito nel libro, che mi hanno mostrato che nella Chiesa, in mezzo a resistenze e difficoltà, ci sarà sempre anche chi vive con fedeltà il Vangelo.

 

Ultima domanda: Stiamo vivendo un periodo terribile: quello della pandemia da Coronavirus. Il futuro sarà difficilissimo. Le difficoltà economiche saranno gravi. Cosa vedi all’orizzonte : nuovi conflitti tra poveri oppure, invece, una possibile rinascita nel segno della solidarietà? 

Spero vivamente che usciremo da questa pandemia avendo maturato davvero la consapevolezza che siamo un’unica grande famiglia umana e che nessuno si salva da solo. Non so se ce la faremo: da una parte vedo tanta solidarietà, ma dall’altra vedo anche segnali inquietanti. Il relativo silenzio mediatico con cui nei giorni scorsi è avvenuto il respingimento illegale di 51 persone migranti riportate in Libia e la morte di 5 loro compagni per sete e di altri 7 per annegamento in mezzo al mare, non lontano da Lampedusa, non chiama in causa solo la responsabilità di Malta e dei governi europei, ma anche la società civile tutta. Finché  la nostra società permetterà che queste cose avvengano senza agire e senza levare così in alto la voce al punto che davvero queste tragedie criminali non si ripetano più, il cambiamento non ci sarà stato. Ma Mediterranea mi ha mostrato che ci sarà sempre chi lotta per la giustizia accanto agli ultimi e chi costruisce in prima persona un mondo migliore. Proprio da loro dobbiamo ripartire. E ogni volta che parlo con i miei compagni e compagne di Mediterranea, sento rinascere la speranza, perché vedendo l’amore che hanno nel cuore capisco che l’amore resiste e vincerà.

“RIAPRONO LE LIBRERIE. ORA, IN SICUREZZA, DEVE RIPARTIRE L’INDUSTRIA”. INTERVISTA A GIUSEPPE SABELLA

Oggi riaprono cartolerie, librerie, negozi per neonati e bambini. Riprende anche qualche altra attività produttiva: la silvicoltura, il taglio dei boschi e qualche attività forestale. Le novità erano state annunciate dal premier Conte venerdì scorso che ha comunicato la proroga del lockdown fino al 3 maggio e la nomina di Vittorio Colao – ex amministratore delegato di Vodafone – a capo di una task force composta da giuristi, economisti, psicologi, etc, incaricata dal governo per studiare come uscire dalla crisi determinata dall’emergenza covid-19. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, oggi l’Italia tenta di rimettersi in moto e inizia una sua graduale uscita dal lockdown con l’apertura di alcuni negozi e cartolibrerie. Una sua valutazione al riguardo?

Il Paese ha certamente bisogno, anche, di qualche segnale di speranza. Quindi, in questo senso, che riapra qualche attività e qualche negozio è certamente un fatto positivo. Resta il fatto che il tema è come riaccendere il motore della nostra economia, ovvero l’industria. A riguardo mi pare si sia fatta un po’ di confusione, e non solo per colpa del governo. Mi auguro che la task force a guida Colao sia d’aiuto: l’ex ad di Vodafone è un eccellente manager e, a differenza degli stimatissimi professori, sa che in questi casi le indicazioni lineari e cristalline sono fondamentali. Ad oggi, non abbiamo certo brillato in questo senso. Salute e sicurezza sono delle priorità. Tuttavia, ogni giorno che passa per molte imprese del nostro sistema produttivo, è un giorno che rischia di essere l’ultimo, soprattutto perché stanno perdendo quote di mercato importanti, specialmente in Germania dove i fermi alle attività produttive non sono stati pesanti così come in Italia. In tutte le economie avanzate al centro dell’agenda politica vi è la riduzione delle misure restrittive. E non dimentichiamoci che ciò che ci ha tenuto in piedi dopo la crisi del 2008 è stato il nostro export.

È una task force, come lei ricordava, composta da uomini la cui provenienza è l’accademia e non l’impresa. Giusto così?

È chiaro che qualcuno si starà chiedendo perché, in una commissione come questa, non vi era nessun rappresentante di impresa e lavoro. Mi pare però che associazioni datoriali e sindacali abbiano mancato l’occasione: in precedenza il governo ha lavorato con loro e, al di là della fatica di tenerli insieme, il risultato prodotto non è stato eclatante. Mi riferisco all’elenco dei codici ateco, cosa che ha reso discrezionale l’attività “essenziale” e ha consegnato la politica industriale alle prefetture. Questo è ciò che avviene quando si eludono i problemi. Ad ogni modo, Colao è uomo d’impresa. Confido che, coadiuvato dalla squadra di cui è a capo, sarà in grado di consegnare al governo le giuste indicazioni per la ripartenza.

Quali potrebbero essere queste indicazioni? Qualcosa di positivo già emerge dai luoghi di lavoro e dall’economia reale…

Certamente. Ormai lo smart working, ad esempio, è realtà anche nell’impresa che non ne voleva sapere. Ma è evidente che il salto di qualità è concentrarsi sulla sicurezza e, in questo senso, bisogna passare dai codice ateco ai luoghi di lavoro. Facciamo un esempio concreto: la Ferrari, che aveva fermato l’attività ancor prima di qualsiasi ordinanza, ha lanciato il progetto “back on track” (torna in pista), nato dalla collaborazione con un pool di virologi ed esperti e patrocinato dalla Regione Emilia Romagna, che ha come obiettivo la sicurezza dell’ambiente di lavoro al riavvio della attività produttiva: si mira a tenere sotto controllo medico – anche con test sierologici – non solo i lavoratori ma anche le loro famiglie e a offrire supporto psicologico alle persone. Mi sembra un’ottima risposta al problema che abbiamo. Pochi giorni dopo, in FCA si è firmato un importante accordo ispirato dal back on track con tutte le organizzazioni sindacali, compresa la Fiom. Ora, è chiaro che Ferrari e FCA sono l’eccellenza che abbiamo in casa. Resta il fatto che vi sono principi di replicabilità anche per le produzioni più piccole, considerato che il 90% delle nostre imprese hanno meno di 15 addetti: i controlli medici, il supporto psicologico e il distanziamento sociale devono essere garantiti. Questa è la parte che devono fare le istituzioni: supportare le imprese, anche finanziariamente, in questo senso. A ogni modo, credo che lo sforzo più grande vada fatto sui trasporti. Serve farsi venire qualche idea nuova, magari introducendo il “ciclo integrale” per tutti i luoghi di lavoro. Ciò diluirebbe in modo importante gli spostamenti.

Quale prospettiva prevede per la nostra economia?

Naturalmente ciò dipende, anche, da cosa succede oltralpe e, anche, al di là del mediterraneo. Cercando di non cedere a previsioni apocalittiche e augurandoci che la pandemia sarà controllata, dobbiamo in questo momento fare di tutto per sorreggere il nostro sistema economico. Questo avviene soprattutto con scelte e azioni tempestive da parte del governo. Da questo punto di vista, bisogna che in particolare si velocizzi l’iter degli ammortizzatori sociali attivati perché, dopo quasi due mesi, a impresa e lavoro ancora non è arrivato nulla. Dobbiamo riuscire a resistere a questa fase di sofferenza. Nel frattempo in tutto il mondo si sta lavorando per un vaccino. Speriamo arrivi al più presto, ciò allontanerebbe la paura e rigenererebbe sentimenti importanti anche per l’economia.

A proposito di sentimenti, lei coordina l’attività di un osservatorio (Think-industry 4.0) che si occupa di monitorare processi e cambiamenti nel mondo dell’industria. Quali sono in questo momento le paure e le speranza di imprenditori e lavoratori?

Intanto ci tengo a dire che ci occupiamo di industria ma, per noi, la parola è sinonimo di impresa e, anche, di lavoro. In latino industria significa attività, laboriosità. Le stesse relazioni industriali sono più propriamente relazioni di lavoro, non solo dell’industria in senso stretto: tant’è che riguardano anche commercio e artigianato. L’industria è il più sofisticato sistema tecnico che imprenditori e lavoratori riescono a far vivere nella loro collaborazione. Ecco perché oggi gli uni e gli altri soffrono insieme. La preoccupazione per il futuro delle proprie imprese tocca tutti. Poco più di due settimane fa, nella sua preghiera universale, papa Francesco diceva al mondo “nella tempesta, nessuno si salva da solo”. Credo che, oggi più che mai, nei luoghi di lavoro vi sia questa consapevolezza, cosa che costituisce il patrimonio e il capitale più importante su cui edificare il futuro.

“L’EUROPA NON CEDA ALL’EGOISMO E ALLA TENTAZIONE DI UN RITORNO AL PASSATO”. IL MESSAGGIO “URBI ET ORBI” DI PAPA FRANCESCO

 

Pubblichiamo il testo integrale del messaggio “Urbi et orbi” pronunciato, oggi in Vaticano, al termine della liturgia pasquale da Papa Francesco.

 

Papa Francesco mentre pronuncia il messaggio Urbi Et Orbi, oggi in San Pietro

 

Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi riecheggia in tutto il mondo l’annuncio della Chiesa: “Gesù Cristo è risorto!” – “È veramente risorto!”.

Come una fiamma nuova questa Buona Notizia si è accesa nella notte: la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana. In questa notte è risuonata la voce della Chiesa: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

 

È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio.

 

Il Risorto è il Crocifisso, non un altro. Nel suo corpo glorioso porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta.

Il mio pensiero quest’oggi va soprattutto a quanti sono stati colpiti direttamente dal coronavirus: ai malati, a coloro che sono morti e ai familiari che piangono per la scomparsa dei loro cari, ai quali a volte non sono riusciti a dare neanche l’estremo saluto. Il Signore della vita accolga con sé nel suo regno i defunti e doni conforto e speranza a chi è ancora nella prova, specialmente agli anziani e alle persone sole. Non faccia mancare la sua consolazione e gli aiuti necessari a chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, come chi lavora nelle case di cura, o vive nelle caserme e nelle carceri. Per molti è una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici.

Questo morbo non ci ha privato solo degli affetti, ma anche della possibilità di attingere di persona alla consolazione che sgorga dai Sacramenti, specialmente dell’Eucaristia e della Riconciliazione. In molti Paesi non è stato possibile accostarsi ad essi, ma il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, «sono risorto e sono sempre con te» (cfr Messale Romano)!

 

Gesù, nostra Pasqua, dia forza e speranza ai medici e agli infermieri, che ovunque offrono una testimonianza di cura e amore al prossimo fino allo stremo delle forze e non di rado al sacrificio della propria salute. A loro, come pure a chi lavora assiduamente per garantire i servizi essenziali necessari alla convivenza civile, alle forze dell’ordine e ai militari che in molti Paesi hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze della popolazione, va il nostro pensiero affettuoso con la nostra gratitudine.

In queste settimane, la vita di milioni di persone è cambiata all’improvviso. Per molti, rimanere a casa è stata un’occasione per riflettere, per fermare i frenetici ritmi della vita, per stare con i propri cari e godere della loro compagnia. Per tanti però è anche un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane.

 

Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri.

Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda.

 

Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni.

Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa.

 

Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria.

 

Cari fratelli e sorelle,

indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto.

Con queste riflessioni, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua.

 

Dal Sito: http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/papa-francesco_20200412_urbi-et-orbi-pasqua.html

Le ragioni laiche della resurrezione. Un testo di Padre Francesco Occhetta S.J.

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, questa riflessione sulla resurrezione di Padre Francesco Occhetta*. 

Da quando la cultura ha affermato che Dio è morto”, la parola resurrezione” si utilizza sempre di meno nel vocabolario pubblico. Se va bene, ci si limita a sussurrarla. Se va male, la si confonde con la reincarnazione.

 

Eppure, re-surgere ci parla di chi si “rialza dallo stare piegato”. È una legge inscritta nella creazione: tutto ciò che è caduco nasce nel suo al-di-là. La notte quando lascia spazio al giorno, il bruco quando si trasforma in farfalla, quando il buio (interiore) improvvisamente lascia spazio alla luce. Chi risorge, lo fa per aver attraversato la morte: un tradimento, un fallimento, una malattia, una violenza. La vita che viene dopo germina da quella morte.

 

È stato così anche dopo le pandemie che (purtroppo) guardavamo da lontano. Eppure il virus dell’Aids ha causato 32 milioni di morti; solo nel 2018 sono morte 435 mila persone di malaria e 1,2 milioni di tubercolosi senza parlare delle epidemie causate dall’influenza suina, aviaria, Ebola, Sars e Mers. La spagnola ha fatto morire 50 milioni di persone tra il 1918 e il 1919. Numeri incredibili, ma lontani.
Per quale motivo non ci chiediamo pubblicamente se abbiamo bisogno di risorgere? Non è forse questa una domanda importante su come ripartire? 

 

La risurrezione non è l’esperienza del “tornare indietro” dal regno dei morti, che non riuscì a Euridice malgrado l’amore di Orfeo, non è l’eterno ritorno del tempo pensato dai Greci, né un ripristino di sistema del pc. La resurrezione è un’esperienza data dalla forza dell’amore che la ragione può solo riconoscere e sentire, ma non definire.

 

La “definizione” di risurrezione nasce dalla contemplazione della croce di Cristo, e con lui di tutti i crocifissi. Cosa insegna al mondo la morte in croce di Gesù? La morte vince sulla vita, è lamore che vince la morte. Gesù muore “in” Dio, direbbe Eberhard Jüngel, anche se la morte di Gesù non è la morte “di” Dio. È l’esperienza di come il Dio trinitario (il padre, il Figlio e lo Spirito) assuma in sé la morte di Gesù. È questo il punto più alto dove l’amore può arrivare. Per questo “la croce è l’enigma con cui Dio risponde all’enigma dell’uomo. Un Dio crocifisso non corrisponde a nessuna concezione religiosa o atea. È una rappresentazione oscena, fuori della scena del nostro immaginario: è la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e l’idolo”, ha scritto p. Silvano Fausti.

 

Secondo S. Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, la conoscenza intellettiva può solo seguire l’esperienza affettiva della risurrezione. Intellettualmente si può solo definire ciò che si è conosciuto interiormente. Lo dimostra la dura legge dell’amore che costringe a portare il peso della croce, a sacrificare l’io per il noi, a non scappare davanti a chi soffre. Altrimenti i noti conflitti tra cultura laica e religiosa generano lo stesso problema: dall’immagine di Dio che presuppongono emerge il Dio in cui credono.

Questo tempo di epidemia ci chiama a scegliere la direzione verso cui andare come comunità sociale e politica. La radice della parola risurrezione è la stessa: davanti alla mortalità e ai cambi d’epoca si può insorgere, “levarsi contro”. Oppure risorgere, “elevarsi verso”, come i girasoli con il sole. Per la cultura contadina resurrezione è ciò che nasce quando un seme muore. Quando la giustizia è riparativa e non vendicativa, il lavoro è pagato, la dignità è rispettata, la prossimità è una rinascita sociale, la salute è garantita, le comunità sono l’antidoto a ogni forma di populismo.

 

È per questo che in questa Pasqua dobbiamo “elevarci verso” per trovare un equilibrio tradito. Lo ha di recente ricordato anche il Papa: “Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura non perdona mai”. Ritrovare un equilibrio con la natura che si ribella anche attraverso un virus è superiore allo sforzo che può fare la cultura per uscire da questa crisi.

La speranza deve essere lultima a morire. Gesù lo ha detto a Maria: “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv. 11,25), prima la morte, poi la resurrezione e poi la vita. Da allora per i cristiani la Pasqua è il ricordo della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto ma è soprattutto la festa del corpo che vive sotto la carne e che la morte non può distruggere.

 

*Padre gesuita,  Scrittore della “Civiltà  Cattolica” e Coordinatore di Comunità di Connessioni (articolo tratto da Il Riformista pubblicato in data 11 aprile 2020 a p. 3 – https://www.ilriformista.it/wp-content/uploads/2020/03/ilriformista11042020.pdf)